ESTETICHE DEL CAMOUFLAGE - DAVIDE FORNARI

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ESTETICHE DEL CAMOUFLAGE - DAVIDE FORNARI
Estetiche
del camouflage
Antropomorfismo come strategia
              Le interfacce umanoidi nel disegno industriale
              Davide Fornari

              Le tipologie di oggetti si sono evolute per addensamento di soluzioni
              formali intorno a “funzioni”. L’avvento delle tecnologie digitali, della
              miniaturizzazione tecnologica e delle nanotecnologie ha aperto uno
              scenario di indifferenza della forma degli oggetti rispetto alle dimen-
              sioni delle componenti meccaniche: il progetto delle forme non è più
              strettamente legato né alle componenti né alle funzioni che gli oggetti
              svolgono. A dispetto di questa indifferenza morfologica, vanno sotto-
              lineati i fenomeni di vischiosità formale tipici delle fasi di transizio-
              ne, per cui un oggetto continua a mantenere un aspetto tipico della
              propria tipologia anche quando le innovazioni ne permettono una
              configurazione differente. È il caso della forma “a cane” delle mac-
              chine per cucire, che essendo ritenuta “archetipa” della tipologia, è
              stata superata a fatica (Chiapponi 2005). Una evoluzione simile è sta-
              ta quella dei telefoni cellulari, la cui antenna retrattile o fissa – benché
              superflua – nei modelli per il mercato di massa, veniva mantenuta
              per evitare che il cellulare “non sembrasse più un cellulare”, ma un
              rasoio. La microelettronica e le tecnologie digitali hanno portato alla
              diffusione di “scatole nere”: impianti di riproduzione audio e video,
              computer, apparecchi elettronici, per i quali le interfacce diventano
              il campo fondamentale della configurazione. L’affordance1 diventa un

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                    Intendo per affordance le azioni che un artefatto offre a un soggetto che viene con esso
              in contatto (Gibson 1986).

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ANTROPOMORFISMO COME STRATEGIA                133

                  concetto chiave e l’evoluzione formale e tipologica degli oggetti si
                  lega principalmente alle loro scocche, nel caso dei prodotti, e alla loro
                  interfaccia, per artefatti comunicativi e interattivi (Anceschi 1992).
                     Si potrebbe parlare di un intervallo da minimo a massimo – fra
                  astrazione e figurazione – nella configurazione formale di oggetti e
                  artefatti altrimenti destinati a essere opachi per la loro complessità:
                  da una parte prodotti elettronici anonimi come quelli di Muji (Peng e
                  Chen 2007), dall’altra quelli personificati di Alessi; interfacce astratte
                  come quella del sito web di Museion Bolzano, sino a quelle umanoi-
                  di, come nel caso di Anna, lo human digital assistant di Ikea.2 Scocche e
                  interfacce nascondono – camuffano – la tecnologia ormai invisibile,
                  microscopica, a livello molecolare.
                     Oggetti semplici e quotidiani prendono sembianze umane e popo-
                  lano i panorami domestici (Annicchiarico 2002). Oggetti tecnologici
                  come iPod o iPhone perdono quasi ogni connotazione e riassumono
                  funzioni in interfacce semplificate. John Maeda descrive l’evoluzio-
                  ne dell’interfaccia del riproduttore di musica e video iPod, nelle sue
                  varie versioni, come un passaggio da semplice a complesso, fino alla
                  configurazione più semplice possibile, dove tutte le funzioni sono
                  integrate in una “nuvola” unica: una ghiera e un pulsante (Maeda
                  2006, pp. 33-38). Ma siti di navigazione complessi, come il web di
                  Ikea, richiedono una guida “vera e propria”, che gestisce in tempo
                  reale la nostra visita al sito e che aggiunge all’interazione fra uomo e
                  macchina una ricchezza di feedback che informazioni testuali sole o
                  associate a immagini non offrono.
                     Uno dei limiti della comunicazione mediata dalla tipografia è
                  quello di non poter rendere in brevi giri di parole l’emozione as-
                  sociata al messaggio: ciò che Watzlawick ha definito “contenuto di
                  relazione” (Watzlawick et al. 1971, pp. 41-47). Gli emoticon o smiley
                  sono “faccette” espresse da sequenze di glifi che suppliscono proprio
                  a questa distanza tra chi scrive e chi legge, “per il bisogno umano di
                  esprimere meglio le proprie emozioni” (Maeda 2006, pp. 90-92), per
                  esempio durante una conversazione a distanza. Queste sequenze di
                  segni di interpunzione – sul cui potenziale espressivo si era già espres-

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                        Il sito di Museion (http://www.museion.it, ultimo accesso 21 luglio 2009) è stato pro-
                  gettato dallo studio Tomato di Londra, mentre Anna di Ikea (http://193.108.42.79/ikea-
                  it/cgi-bin/ikea-it.cgi, ultimo accesso 21 luglio 2009) è un progetto interno all’azienda.

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              so Wittgenstein (1995, p. 56) – sottopongono il risultato di un’attività
              meccanico-digitale, come la videoscrittura da tastiera a monitor fra
              computer connessi attraverso Internet, alle “regole” della pragmatica
              della comunicazione umana. L’uso del volto nell’interfacciamento fra
              macchina/prodotto e utente trasporta la nostra relazione con la tec-
              nologia – avvolta dal disegno industriale – in un campo più familiare
              e rassicurante, quello dell’interazione fra persone. L’antropomorfi-
              smo può essere inteso come una strategia di configurazione di oggetti
              e artefatti che interviene a moderare il carattere di innovatività tec-
              nologica e di complessità dei servizi e delle funzioni. Prodotti di mas-
              sima innovazione, come i robot umanoidi o zoomorfi con mansioni
              di compagnia e accudimento – il cane Aibo, il coniglio Nabaztag, la
              foca Paro, il robot Asimo – mitigano il proprio carattere innovativo
              attraverso sembianze umane o animali, che coprono con un velo di
              tenerezza la complessità delle macchine “al di sotto”.
                 Alla diffusione dei primi grandi calcolatori – tanto grandi da ri-
              chiedere architetture specificamente realizzate per ospitarli – la rea-
              zione diffusa fu di timore, diffidenza, inquietudine. A Ettore Sottsass,
              che alla fine degli anni cinquanta era stato incaricato di progettare
              gli châssis del calcolatore Elea 9003 della Olivetti, sembrò necessario
              celare la presenza inquietante di questi “personaggi” dietro grandi
              pareti di alluminio, non più alte di un essere umano medio (Barbacet-
              to 1987, pp. 33-35). La difficile accettazione sociale delle applicazioni
              della tecnologia è alla base dei tentativi di configurazione “umanoi-
              de” dei prodotti.
                 Gli automi, categoria artefattuale estinta ma progenitrice dei mo-
              derni robot, erano fin dalla loro origine – non quella virtuale, nella
              mitologia, ma quella fattuale, come punto di intersezione della sto-
              ria dell’architettura e della tecnica – “entità semoventi” azionate da
              congegni idraulici e a pressione, perfezionate dai fisici alessandrini
              prima e dagli scienziati arabi poi. Il massimo sforzo dei loro creatori
              fu produrre macchine associate a figure umane e animali dotate di
              moto proprio, nascondendone i grandi e complessi meccanismi. Mol-
              to spesso si tratta di orologi o clessidre rivestiti da sembianze umane e
              animali: statue semoventi che si versano da bere reciprocamente, ele-
              fanti, buoi (Losano 1990). “Offrendo una versione frivola e diverten-
              te della macchina, queste realizzazioni [gli automi] contribuiscono a
              superare l’immagine […] della macchina come oggetto terrificante.

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ANTROPOMORFISMO COME STRATEGIA     135

                  […] L’essere tecnico si camuffa da essere vivente” scrive Tomás Mal-
                  donado (2005, p. 20). Durante il Rinascimento, l’invenzione del mec-
                  canismo a molla per gli orologi permette di rimpicciolire anche gli
                  automi a dimensioni “da tavolo” e di liberarli da pesanti basamenti.
                  Questa riproduzione in forme di esseri umani non passa inosservata
                  alla Chiesa, che accusa i “meccanici” di empietà, magia, stregone-
                  ria, necromanzia. Eppure gli automi diventano parte integrante delle
                  scenografie di corte: si tratta però di macchine “inutili”, create per
                  sorprendere e divertire gli spettatori (Artioli e Bartoli 1991).
                     Solo grazie all’Illuminismo i creatori di automi ricevono un’ac-
                  coglienza nel mondo della cultura: si vedano le voci Androïde e
                  Automate dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert e il successo
                  delle anatomies mouvantes di Jacques de Vaucanson (Losano 1990,
                  pp. 81-100). E proprio allora l’automa “turco” di Wolfgang von
                  Kempelen – una volta scoperto – rinforzò le accuse mai sopite
                  di falsità e artificiosità degli automi. L’automa scacchista di von
                  Kempelen era appunto una macchina capace di battere gli esseri
                  umani al gioco degli scacchi, una macchina camuffata da turco,
                  con un basamento per la tavola da gioco, al cui interno trovava
                  spazio, benché minimo, un giocatore umano, che studiava le mos-
                  se e attraverso vari meccanismi faceva muovere i pezzi all’automa
                  (Losano 1990, pp. 102-116).
                     Completamente diverso fu il destino degli automi in Giappone,
                  dove i gesuiti introdussero a partire dal Cinquecento le tecnolo-
                  gie che permisero poi il fiorire dei karakuri ningyoˉ: i meccanismi,
                  gli artifici in forma umana, ebbero applicazioni di rara grazia e
                  gentilezza. È giapponese la prima macchina sociale, il chahakobi
                  ningyoˉ, un automa in forma di bambino paffuto che serve il tè agli
                  ospiti. Il padrone di casa carica la molla e pone sul vassoio la taz-
                  za. L’automa, opportunamente indirizzato, raggiunge l’ospite e si
                  ferma quando la tazza viene sollevata, torna indietro quando la
                  tazza viene riposta sul vassoio. I primi disegni tecnici noti dell’au-
                  toma servitore di tè risalgono al 1796 (Losano 1990, pp. 128-133;
                  Hornyak 2006, pp. 19-28): gli abiti dell’automa sono simili se non
                  identici a quelli del “giouane giapponese” ritratto da Cesare Ve-
                  cellio nella sua raccolta di costumi dal mondo, e nascondono una
                  serie di meccanismi in sette diverse essenze di legno oltre a una
                  molla di fanoni di balena.

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                 La parola robot viene introdotta da Karel Cǎpek nella sua pièce
              del 1921, R.U.R. Rossum’s Universal Robots, che, rappresentata nel giro
              di un decennio in tutto il mondo, diffuse nell’immaginario collettivo
              questi esseri artificiali, sfruttati dagli esseri umani come forzati del
              lavoro – questo il significato del cieco robota – cui infine si ribellano.
                 I riflessi di R.U.R. nella cultura occidentale e in quella giappone-
              se furono opposti: per il botanista Makoto Nishimura i robot sono
              i nipoti della Natura che ha creato gli esseri umani, e prendono la
              forma del Gakutensoku, la macchina scrivente realizzata per l’Expo di
              Osaka del 1928, in forma di Buddha, il cui volto riassume tutte le
              etnie umane (Hornyak 2006, pp. 29-40), mentre in Europa i robot
              trovano una prima, inquietante rappresentazione cinematografica in
              Metropolis di Fritz Lang (1926). Due considerazioni opposte – quella
              occidentale e quella orientale – che hanno aperto fortune diverse alla
              tipologia artefattuale automa/robot nelle due aree culturali, e che
              oggi ci pongono di fronte alla questione dell’antropomorfismo come
              strategia per la configurazione dei prodotti. Mentre in Giappone l’in-
              vecchiamento della popolazione e il residuo di timore culturale dello
              straniero (gaiatsu) fanno sì che la robotica domestica sia un’alternati-
              va all’accudimento degli anziani (Hornyak 2006, pp. 85-100), nelle
              culture occidentali il destino dei robot sembra limitato alle attività
              domestiche pesanti, almeno nell’opinione di Bill Gates (2007).
                 L’ingegnere roboticista Masahiro Mori sostiene ricadano nella
              Valley of Uncanny (valle del perturbante) quella gamma di interfacce
              che, quanto più si avvicinano all’aspetto umano senza replicarlo per-
              fettamente, tanto più manifestano la propria artificialità, poiché la
              specializzazione del cervello umano nel riconoscimento dei volti ne
              smaschera la non-naturalità (Mori 1970). Tacciato a lungo di scarsa
              scientificità – per il suo carattere enunciatorio e ipotetico, e perché
              legato alle emozioni suscitate dai prodotti negli utenti – il diagram-
              ma di Mori visualizza quel senso di inquietudine che Sottsass avver-
              te di fronte ai grandi calcolatori, rafforzato – in questo caso – dalle
              sembianze umane. Il carattere perturbante degli artefatti umanoidi
              è però confermato solo in presenza di caratteristiche “abnormi”, so-
              prattutto nelle interfacce visive, mentre è sufficiente osservare anche
              in maniera inconsapevole un androide le cui spalle non si alzano e
              si abbassano in maniera regolare per effetto del respiro per smasche-
              rare tutta la tecnologia, compreso il compressore grande come un

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ANTROPOMORFISMO COME STRATEGIA             137

                  frigorifero necessario a muovere gli effettori ad aria compressa che
                  muovono le labbra e i “muscoli” facciali, dietro queste repliche degli
                  esseri umani (Seyama e Nagayama 2007).

                                                                     valle del perturbante
                                  in moto
                                  fermo                                                          persona
                                                                     marionetta bunraku          in salute
                                                    robot umanoide

                                                        animale impagliato
                  familiarità

                                robot industriale

                                somiglianza               50%                             100%

                                                                cadavere             protesi di mano

                                                                  zombie

                  Hiroshi Ishiguro progetta e realizza presso l’Università di Osaka an-
                  droidi replicanti, robot che tentano di replicare perfettamente le fun-
                  zionalità degli esseri umani, camuffando la tecnologia necessaria. Si
                  tratta di macchine complesse, dotate di intelligenza artificiale e di un
                  sistema di sensori ed effettori per interagire con l’ambiente circostan-
                  te e gli utenti. Ishiguro ha prodotto diversi replicanti prima di arrivare
                  a Geminoid, il replicante di se stesso: un robot che non è autonomo
                  perché collegato al proprio “modello” umano, di cui ripete in diretta
                  gesti, movimenti, parole. Dovrebbe – nelle parole del suo creatore –
                  permettergli di tenere lezioni in forma di telelavoro, restando a casa.
                  Ma il risultato di applicazioni della meccatronica come Geminoid è
                  limitato: il robot non riesce a svolgere compiti socialmente complessi,
                  come guardare l’interlocutore negli occhi, perché non può ricono-

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              scerlo. Anche senza presentare caratteristiche abnormi, questo tipo
              di artefatti umanoidi ricade nella valle del perturbante per la lentezza
              inquietante dei loro movimenti, per la scarsa coordinazione dei mo-
              vimenti involontari e per la decontestualizzazione di alcune azioni
              (Hornyak 2006, pp. 133-141). Gli androidi rappresentano il livello
              massimo di figurazione nelle strategie di conformazione dei prodotti,
              ma non riescono a trarre profitto positivo dallo slittamento del piano
              di interazione con gli utenti, cioè dal passaggio dall’interfacciamen-
              to uomo-macchina a quello della comunicazione “interpersonale”.
              Si tratta di prototipi sperimentali, ma la tecnologia, nascosta dalle
              maschere di silicone e da vestiti ordinari, emerge in tutta la sua in-
              quietante imperfezione laddove le funzionalità non sono chiaramen-
              te definite.
                 Una dinamica psicologica di base come la personificazione risulta
              cruciale nell’interazione uomo-macchina: gli oggetti antropomorfi ci
              sono immediatamente familiari, e tendiamo a riconoscere volti in con-
              figurazioni simmetriche con proporzioni simili a quelle del volto, come
              nel radiofonografo progettato dai fratelli Castiglioni per Brionvega (Po-
              lano 2001, p. 225), il cui evidente carattere “parafisiognomico” è stato
              ragione di un lungo successo. L’antropomorfismo favorisce visibilità e
              affordance a oggetti di grande complessità o innovatività, garantendo un
              carattere user friendly o user centered, proprio perché rispecchia lo user stesso
              per mimesi. Camuffa la complessità degli oggetti innovativi, e allo stesso
              tempo li dota di un’identità generalmente tenera e infantile, rendendoli
              immediatamente domestici, perché speculari a noi.

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