Esistenze pellegrine Poesie e disegni nella sofferenza psichica - Provincia di Perugia

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Esistenze pellegrine Poesie e disegni nella sofferenza psichica - Provincia di Perugia
Provincia di Perugia

Esistenze
pellegrine
         Poesie e disegni
 nella sofferenza psichica

    a cura di Anna Gloria Gatti
Esistenze pellegrine Poesie e disegni nella sofferenza psichica - Provincia di Perugia
O mio cuore dal nascere in due scisso
     quante pene durai per uno farne
 quante rose a nascondere un abisso.

                          Umberto Saba
Esistenze pellegrine Poesie e disegni nella sofferenza psichica - Provincia di Perugia
Provincia di Perugia

Esistenze
pellegrine
      Poesie e disegni
 nella sofferenza psichica

    a cura di Anna Gloria Gatti

            Marzo 2004
Un affettuoso ringraziamento a:
Simone Donnari che ha pensato e organizzato la mostra “SinEstetica”, atrio di Palazzo dei Priori dal 7 al 17 settembre
2000, in cui hanno avuto un posto i disegni e le poesie presentati in questo libro.
Claudio Carini che con grande sensibilità ha recitato nella giornata d’apertura di “SinEstetica” i nostri versi.
Carlo Bonomo e all’ Associazione Nazionale di Analisi Mentale per lo stimolante scambio di pensieri sul linguaggio
della poesia e del sogno.
Claudio Ferracci per la sua attenta partecipazione ed il suo prezioso aiuto grafico.
L’Associazione Sementera onlus.
Le iniziative Niccolò Pucci della Genga per il costante supporto all’Associazione Sementera.
Rosetta Amati Ansidei di Catrano per aver amato queste poesie e promosso la loro pubblicazione.

Progetto grafico:
Ufficio Relazioni Esterne e Editoria della Provincia di Perugia
Presentazione

    La pubblicazione di questi testi poetici accompagnati da disegni si pone al culmine di un lavoro
dell’Associazione Sementera che vale la pena ricordare non tanto e non solo per i suoi obiettivi e le sue
metodologie, quanto, e forse di più, per la riflessione di fondo che ha animato il gruppo: pubblicizzare o
no, dare voce o no a ciò che è alienato ed emarginato.
    Il ruolo della Provincia di Perugia si è calato e realizzato del tutto all’interno di questa opposizione di
intenti che Sementera stessa non nasconde, anzi esalta come momento vivificante del proprio esistere
fra i portatori della “sofferenza psichica”. La Provincia si è messa a disposizione di quel dibattito non acca-
demico progettando insieme agli operatori dell’Associazione, un volume di poesie ed immagini in nulla
diverso da un qualunque altro volume dedicato alla cultura locale.
    L’apparato critico del libro, in particolare, fissa in maniera completa le coordinate per la lettura dei testi;
come la guida che introduce un’opera “creativa” tout court, si è fatto in modo che il corredo “in tondo”
definisse i suoi contenuti lungo una linea parallela al nucleo “in corsivo” del libro, senza interagire con
esso, ma dialogandovi alla distanza.
    C’è da dire che la qualità degli interventi critici e la specificità dei testi poetici, nel loro rapportarsi,
hanno dato vita ad una misura editoriale che difficilmente, in altre pubblicazioni di opere “creative”, le
nostre collane hanno potuto registrare. Ciò segnala, dunque, l’assoluta peculiarità di “Esistenze
Pellegrine” a fronte del rispetto delle regole editoriali adottate per costruire il prodotto. Il libro è stato pen-
sato per unire mondi e sentimenti che non hanno molte occasioni per comunicare: i suoi lettori saranno
sicuramente stimolati fino nel profondo e sentiranno le voci racchiuse in queste pagine aprirsi per vince-
re il disagio e la soffrerenza che, seppure con caratteri diversi, esistono al di qua e al di là della traccia
definita come “normalità”.

                                                                                      Giulio Cozzari
                                                                            Presidente della Provincia di Perugia

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Al primo impatto l’esperienza arteterapeutica di gruppo appare come un esercizio creativo nel quale
prevalgono le dinamiche catartiche. Il che è, anche, certamente vero. Tuttavia vorrei raccogliere da questa
prima suggestione due elementi. Il primo, strettamente collegato al senso greco del termine (kátharsis), che,
al di là delle accezioni filosofiche (Platone e Aristotele) generalmente più diffuse, originariamente designava
rituali di purificazione magico-religiosi da contaminazioni miasmatiche e poi (medicina ippocratica)
l’evacuazione di elementi tossici sia organici che umorali. Il secondo, collegato all’origine dell’uso del termine
nel quadro della cura della sofferenza mentale, a partire dalla suggestione e dall’ipnosi. L’uno ci sottolinea
che l’azione terapeutica è, di base, un interesse collettivo in funzione del collettivo, il quale, appunto, vuole
liberarsi di miasma; l’altro, che tutto ciò avviene in una condizione di sonno. Evacuazione e sonno, quindi.
Traduci: emarginazione e sedazione e siamo del tutto dentro uno degli aspetti più drammatici della
problematica del trattamento – soprattutto, ma non solo istituzionale - della malattia mentale, al bivio tra le
pressioni collettive (il committente di base) e le istanze individuali del malato.
    Freud, con la sua genialità, si è reso conto che il metodo catartico, agendo sonno ed evacuazione,
restava impaniato nella dinamica collettiva e “sprecava” le individualità del paziente e del terapeuta, che, in
ultimo, in qualche modo, finiva con l’aderire al sonno indotto nel paziente. Far leva sul sogno ha significato
valorizzare il livello vigile e percettivo del paziente anche durante il sonno, anche dentro le stesse dinamiche
dei ritmi biologici. Questa posizione freudiana, pur con tutte le difficoltà ed incertezze dell’impresa
pionieristica, ha modificato la posizione della coppia terapeutica nei confronti delle dinamiche e pressioni
collettive non solo esterne, ma anche interne. Il rapporto terapeutico si è posto come la costruzione di uno
spazio percettivo che filtrasse invasioni e persecuzioni esogene ed endogene, consentendo la liberazione
e l’appropriazione di energie per la riparazione delle lesioni, per il sostegno delle fragilità e, last but not least,
per la formazione di neostrutture mentali più adeguate alla difesa e all’evoluzione della vita individuale. Del
resto, la tenacia con cui Freud ha affermato la sessualità infantile e si è impegnato ad indagarne le vicende
e a sostenerne il diritto in generale, ma soprattutto nei suoi pazienti, ben dice di quanto tenesse allo sviluppo
e all’appropriazione personale e mentale delle dinamiche creative, dice, insomma, quanto non solo le sue
teorizzazioni, ma ancor più la sua posizione terapeutica fosse anticollettiva.
    La ricerca freudiana, quand’egli si fosse limitato a discutere e rivoluzionare i paradigmi scientifici
dell’epoca, sarebbe rimasta una teoria tra le altre, per alcuni eccentrica e stravagante, per altri suggestiva
e interessante o, magari, di volta in volta, anche utilizzabile. Ma la ricerca freudiana è stata molto di più, è
stata la messa in crisi di una prassi terapeutica che da una parte esigeva il paziente come luogo di
canalizzazione e di scarico delle angosce persecutorie collettive e, dall’altra, additava nel terapista il
mandatario di questa stessa istanza. Insomma, Freud ha capovolto il rapporto paziente-collettivo e, con
ciò, ha secolarizzato la malattia e la terapia, gettando le basi non solo per liberare il malato dalla colpa della
malattia, ma per restituire la dinamica della malattia stessa al collettivo.
    Ma tutto ciò che c’entra con l’arteterapia e con il lavoro di Anna Gloria Gatti? Mi pare che, a parte la sua
formazione personale, Anna Gloria Gatti con i suoi gruppi di arteterapia recuperi proprio l’istanza anticollettiva
del metodo psicoanalitico. Il suo setting arteterapeutico diventa la costruzione di un filtro che consente la
trasformazione del vuoto scavato dalla persecuzione psicotica in uno spazio costruttivo. Filtro che agisce
non soltanto nei confronti dell’angoscia persecutoria collettiva in generale, ma anche nei confronti di quella
della stessa istituzione sanitaria che, in quanto delegata a farsi carico della gestione della psicosi, ne è
inevitabilmente infiltrata e, pertanto, indotta ad agire emarginazione e sedazione. Sotto questo aspetto, va
sottolineato, l’organizzazione di uno spazio arteterapeutico è non solo uno strumento terapeutico in favore
degli utenti, ma anche una reazione autoterapeutica dell’istituzione, che rifiuta l’adesione alla richiesta
collettiva di funzionare come luogo di ghettizzazione e di dispercezione, insomma di sonno.
    Già, il sonno e, durante il sonno, i sogni. Trovo molto sollecitante la connessione, che Anna Gloria Gatti

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indaga, tra sogno e setting artistico e mi piacerebbe discuterne ancora con lei. Nel frattempo vorrei
sottolineare che il sonno e la veglia sono stati di prevalenza: siamo sempre prevalentemente svegli o
prevalentemente dormienti. Il sogno - la fase REM - è il livello sveglio, ovvero percettivo, della mente durante
il sonno. Ma la percezione non è semplice adeguatio ad rem, bensì un evento elaborativo della crisi per il
contatto - qui tra livelli mentali - che tende a generare una neostruttura specifica che corrisponda e sostenga
il contatto stesso. Il sogno è un evento di crisi e un lavoro percettivamente creativo (altrove l’ho definito
l’“officina della mente”), come anche l’arte. Ma, sappiamo bene, una cosa è il sogno in quanto fase REM,
altra cosa è il ricordo del sogno; il ricordo del sogno è un prolungamento e una elaborazione di parte
dell’evento sogno nella coscienza vigile e le emozioni che ad esso si accompagnano ne sono una prima
“interpretazione”, in ultimo un bilancio di vita e di morte, che trova nella narrazione un tentativo di
esplicitazione compatibile con i livelli di coscienza. Qual’è la funzione di questa dinamica? E’, mi pare, quella
di mobilitare la mente anche nei suoi livelli vigili in parallelo con la crisi e le reazioni percettive dei suoi livelli
profondi, laddove la traduzione narrativa serve, appunto, a trattenere e trasmettere a quegli stessi livelli vigili
le emozioni dell’evento sogno, stimolando così la mente a modificare il proprio assetto globale.
    L’agire artistico corrisponde a questa organizzazione della mente nella fase del ricordo del sogno.
L’artista nella sua opera costruisce, in un linguaggio compatibile con i livelli di coscienza vigile, ovvero
collettivi, una struttura, l’opera artistica, che trattenga e trasmetta le emozioni dei suoi movimenti profondi
- probabilmente corrispondenti proprio alla crisi e alla reazione percettiva della fase REM – e, con ciò,
mobilita i livelli vigili e tenta un nuovo assetto mentale. Si vede come l’agire artistico, al pari del sogno,
mentre sembra aderire attraverso il linguaggio ai parametri collettivi, tenda invece ad utilizzarli per trattenere
e trasmettere alla coscienza eventi profondi e personali, stimolandola ad appropriarsene al di là della sua
organizzazione specie-specifica, per costruire un assetto complessivo della mente capace di meglio
difendere la vita individuale.
    Detto in altre parole, l’agire artistico, appunto, come il sogno, ha una funzione strutturante e
trasformativa della mente individuale. Irrompe nella coscienza vigile aderendo linguisticamente alla sua
dimensione collettiva (la coscienza è legata alla percezione sensoriale e ha radici specie-specifiche), ma,
insieme, la usa come un cavallo di Troia, dentro il cui ventre sono la crisi e le reazioni e le emozioni
dell’artista. E, come a Troia, il ventre del cavallo si apre nel sonno – il sonno della dispercezione implicita
nella quietezza dell’adesione a dinamiche e simboli collettivi, che sì rassicurano, ma insieme ipnotizzano
e, allora, consentono agli aspetti individuali di uscir fuori e cercare di affermare le proprie istanze.
    Tutto ciò, mi pare accade nei setting arteterapeutici di cui abbiamo qui alcuni risultati materiali, assai
interessanti sia sul piano clinico sia su quello estetico. Accade, come abbiamo visto sopra, che la
persecuzione e la pressione collettiva vengano filtrate, bonificando così lo spazio in cui si muovono gli
utenti; accade la messa in atto dell’attività trasformativa dei partecipanti e la reciproca stimolazione, ma
anche il mescolamento delle loro drammaticità, sino a formare una sorta di “paziente combinato”; accade,
certo, la formazione di un “grande sogno”, nel senso sopraccennato di “grande ricordo del sogno”. Ma
tutto ciò ancora non sarebbe terapeutico o lo sarebbe solo spontaneisticamente o rapsodicamente,
anche perché il conduttore è ancora immerso in quelle dinamiche. Quando allora quest’attività diviene
“cura”? Quando il “grande sogno” diventa un “doppio sogno”, ovvero quando il conduttore riesce a
distanziarsi e ad accogliere le dinamiche del gruppo facendo del sogno del gruppo il proprio materiale
onirico, insomma quando sogna il “grande sogno”.
    E’ da questa posizione che Anna Gloria Gatti riesce a trasformare il setting artistico in setting
arteterapeutico ad orientamento analitico, dove il conduttore può utilizzare la propria formazione elaborando
dentro se stesso le drammaticità emergenti e circolanti in modo indifferenziato nel setting e restituendole
agli utenti rese utilizzabili come stimoli per la genesi di strutture più adeguate alla drammaticità della vita.

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* Docente di Storia della filosofia contemporanea presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Perugia, insegna Psicoterapia presso
  la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell'Università di Perugia e fa parte dell'Associazione Nazionale di Analisi Mentale (Roma).

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Se considerate gli animali dei meccanismi, come sosteneva Pavlov, e se stabilite in modo appro-
                priato stimoli e rinforzi, questi animali finiranno per cadere in una nevrosi indotta sperimental-
                mente. Se fosse possibile... comunicare a questi animali “questo è un gioco” essi non cadreb-
                bero nella nevrosi indotta.
                                                      G. Bateson, Questo è un gioco, Cortina ed., 1996, pag. 46

     Bateson ha mostrato la complessità del messaggio “questo è un gioco”, una complessità che deriva
dal mescolarsi delle ambiguità del linguaggio, dalle contraddizioni della logica, dalla mescolanza di signifi-
cati che in una certa cultura si trovano nel termine gioco, dalle esperienze individuali e dalle relazioni grup-
pali che dal giocare sono supportate. Egli insiste sul fatto che è più facile dire che cosa il gioco non sia
e delimitare così un perimetro che racchiude ciò che ad esso appartiene, piuttosto che enumerare in
generale le sue caratteristiche intrinseche. Se forziamo questa indicazione cadiamo nel generico, come
quando diciamo che è un artificio (rispetto alla vita vera), che è costituito da azioni reversibili che appar-
tengono all’ambito del simbolico, che in esso le regole sostituiscono la storia e contemporaneamente
sono un invito a violarle (e con la violazione si introduce il sospetto, ma anche la novità). Queste peculia-
rità il gioco condivide con altre attività umane e tra esse Bateson cita la psicoterapia e l’arte. Questo non
significa che gioco, psicoterapia ed arte siano la stessa attività ma solo che sono delimitate dagli stessi
confini; condividono la stessa ambiguità: si presentano contemporaneamente come superflui e come
necessari, nel momento della lotta per la sopravvivenza o per il dominio sono messe da parte come atti-
vità futili, non serie, e tuttavia risorgono ogni volta e si impongono, spinte da bisogni difficilmente definibi-
li. Sembrano afferrabili solo nel momento in cui scompaiono, e nell’altro momento privilegiato in cui ricom-
paiono. Si potrebbe dire, con una frase ad effetto, che li cogliamo, nella loro essenza o verità, allo stato
nascente o allo stato morente.

Osservazione
    Una bambina di 4 anni stava replicando, per la gioia dei genitori e di altri parenti, un gioco che aveva
fatto qualche giorno prima all’asilo. Il gruppo dei bambini aveva inventato, insieme alla maestra, una storia
in cui soccorrevano un bambino che si era fatto male durante il gioco. La bambina recitava ora le varie
parti, quella della maestra preoccupata, quella dei compagni soccorrenti ma un po’ sprovveduti nel pre-
stare aiuto, quella del bambino che era caduto e aveva battuto la testa. Gli spettatori erano particolarmente
interessati alla rappresentazione ed entravano spontaneamente nel gioco. Particolare successo ottenne
una capriola realistica della bambina, con applauso e invito a replicare la scena. La bambina piangeva, gli
adulti ridevano e intervenivano con commenti e con piccole azioni, per stimolare la bambina che si era fer-
mata, a continuare. Fu solo a questo punto che la bambina si sentì costretta a dire: “Questo non è un
gioco”; e poi a ripeterlo gridando, superando il rumore delle risate. Solo a questo punto gli adulti si rese-
ro conto che la bambina si era fatta male sul serio.
    Questo piccolo incidente domestico, le cui conseguenze si risolsero con un po’ di massaggio e una
notte di sonno, ci mette dinanzi la questione della definizione del gioco e del suo difficile riconoscimento.
L’affermazione “questo non è un gioco” ristruttura la situazione dal punto di vista conoscitivo ed emotivo.
La realtà viene introdotta come impossibilità di continuare il gioco, sotto forma di una forza che costringe
ad abbandonare le regole del gioco per adottare altre regole.
    “Questo non è un gioco” è un’affermazione tragica come lo è il riconoscimento del dominio del desti-
no sulla vita. Il suo complemento è il riconoscimento del gioco come tentativo di liberarsi del destino.

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Passiamo ora a un argomento più serio, quello delle tecniche di cura dei disturbi psichici, cioè di tutto
ciò che facciamo per aiutare i nostri pazienti a curarsi ed essere curati, a liberarsi dalle angosce che bloc-
cano la loro storia, li pongono in una situazione di dipendenza passiva, li privano di ogni speranza. A tal
fine faremo riferimento a uno dei contenuti di questo libro, una ricerca sull’art therapy in un ambiente estre-
mo di cura, un servizio psichiatrico ospedaliero di breve degenza. Potremmo anche dire che parliamo di
una ricerca sull’ambiente di cura mediante l’art therapy. In questo momento non ci interessa tanto una defi-
nizione esaustiva ma una descrizione chiara degli ostacoli che impediscono che quel poco che sappia-
mo sulla cura dei disturbi psichici gravi si trasformi in interventi efficaci e dei modi per superarli.
     Quanto l’ambiente di cura influenzi l’efficacia della terapia è una domanda che la psichiatria si è posta
oramai da più di cinquanta anni. Tutto ciò che accade durante il ricovero ha influenza sul paziente. La
domanda fondamentale sembra essere che cosa faccia bene e cosa male. In realtà ce n’è una prece-
dente: cosa succede veramente in questo ambiente? Molto di ciò che vi accade infatti è di difficile acces-
so, trascurato o accuratamente nascosto. Vi è, accanto a quella palese, una vita sotterranea che solo con
metodologie di osservazione partecipe è stato possibile scoprire. Per questi motivi la descrizione detta-
gliata dell’ambiente di vita per la cura è sempre necessaria per una maggiore comprensione di ciò che vi
accade e per far sì che l’effetto delle relazioni tra le persone vada nella direzione desiderata.
     In un sistema di cure psichiatriche fondato sulla pratica ambulatoriale e domiciliare, com’è sostanzialmen-
te quello realizzato in Umbria, il ricovero ospedaliero ha una parte quantitativamente limitata. Esso è destina-
to a quei pazienti per i quali altri programmi di intervento non siano praticabili o una situazione di acuzie richie-
da un’attenzione e intensità di cure maggiore di quella possibile in situazioni di vita normali, cioè nella comu-
nità e a casa propria. In questi casi selezionati le condizioni di assistenza che vengono instaurate fanno sì che
cura e controllo siano necessariamente accoppiate e questo introduce le difficoltà al cui studio si è dedica-
ta prima l’antipsichiatria europea degli anni sessanta e poi il movimento antimanicomiale italiano degli anni set-
tanta. Ciò che l’ospedale offre come vantaggio rappresenta anche uno svantaggio per la cura: la separatez-
za dall’abituale ambiente di vita, con la perdita della confidenza e della familiarità che da esso scaturiscono
(o almeno il ritardo nel recuperarle una volta che a causa del disturbo psichico o del conflitto interpersonale
siano andate perdute); l’obbligo della cura che certamente rallenta l’acquisizione della sua volontarietà (e da
qui la tentazione di aspettare “ancora un po’” prima di intervenire, nella speranza che il malato si convinca);
la molteplicità delle figure di riferimento durante il periodo della cura, così che, a causa dell’organizzazione del
servizio si giunge a dare più rilievo al ruolo dell’operatore che non alle sue qualità personali.
     Dal prevalere dell’istituzionale sul mentale (l’organizzazione prevale sui contenuti e sui valori del quoti-
diano, il compito prevale sulla relazione personale, la ripetizione sull’invenzione e la novità, lo spazio riser-
vato alla soddisfazione dei bisogni elementari lascia poche risorse per i bisogni più ricchi; la soggettività e
l’intersoggettività finiscono sullo sfondo e perdono valore in quanto trascurate, se non esplicitamente
negate) derivano i rischi di degrado dell’azione terapeutica, che diviene anonima, ripetitiva, stereotipata. La
singola persona, abbandonata alle proprie angosce e costretta ad usare la solitudine come arma di dife-
sa contro presenze la cui interferenza non viene in alcun modo mediata, regredisce a una modalità di fun-
zionamento intellettuale ed emotivo degradata. Al danno prodotto da questi fattori ambientali si aggiunge
il danno che l’apparato delle procedure diagnostiche e terapeutiche medico-psichiatriche porta inevitabil-
mente con sé. Il rischio di sanitarizzazione dell’approccio al paziente con disturbi psichici si insinua non
riconosciuto, appoggiato prima che alla cultura del singolo medico, all’adesione razionale alle caratteristi-
che dell’istituzione: l’idea medica di malattia è ciò di cui ha bisogno l’organizzazione per funzionare nel
modo più regolare, più semplice, più continuo, con i minori costi, economici ed emotivi. Per soddisfare
questi bisogni si esige chiarezza, precisione, rapidità, Questo favorisce una attenzione concentrata sul
disturbo, piuttosto che sulla persona disturbata; si origina un’idea frammentata della vita psichica con iso-
lamento delle sole componenti sintomatiche. Il paziente viene valutato sulle sue peggiori prestazioni piut-
tosto che sull’insieme della personalità.
     Nell’approccio al disturbo, nello sforzo ripetuto di definirlo nel singolo caso, diagnosticarlo, curarlo, il
rischio permanente è di consumare l’autenticità dell’impatto in una routine che dalla ripetitività fa discen-
dere riduzione della creatività, banalità, consumazione della speranza. Il terapeuta si affida a un linguaggio
sempre più stereotipato. Il paziente impara rapidamente quello che il terapeuta vuole sapere da lui e usa
questa conoscenza per difendersi da intrusioni dolorose. Tira fuori i sintomi che lo psichiatra può capire,
usa il suo gergo.
     Con un facile gioco di parole si potrebbe etichettare tutto questo degrado una “alienazione dell’alienità”.
     Il disturbo psichico viene assunto come baricentro della persona, diventa oggetto di una terapia per
essere cancellato o, se ciò non è possibile, diviene la sagoma su cui è ritagliato il destino del paziente,
cancellando dalla sua vita tutto ciò che si mostri incompatibile con quel nucleo sintomatologico ( e quindi

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cancellando lavoro, svago, amore, amicizia, aspirazioni, ecc.). Questo approccio è apparentemente razio-
nale perché aiuta a programmare le modalità assistenziali successive, suggerisce l’uso di residenze con
maggiore o minore grado di protezione, sconsiglia l’uso di tecniche troppo attivanti (e costose); ci evita di
essere impantanati nel fenomeno della saturazione dei servizi di territorio; ci permette di avviare coloro che
non rispondono alle cure in circuiti paralleli in cui la separatezza dalla vita quotidiana viene giustificata con
l’affermazione che comunque qualcuno si occuperà di quei casi. Sfortunatamente questa modalità di fun-
zionamento, posto in un punto della rete dei servizi di salute mentale costituito dal reparto ospedaliero,
influenza tutto il sistema di cure, a monte e a valle. E’ una sfortuna che il procedimento diagnostico-valu-
tativo assunto come atto puntiforme, abbia piuttosto le caratteristiche di una profezia non innocua perché
ha piuttosto il valore di una prescrizione; appartiene cioè a quella categoria di profezie di cui si dice che si
auto-avverano.
     Questa analisi del ricovero in ospedale di soggetti con disturbo psichico dovrebbe fare da guida nella
individuazione di un approccio non cronicizzante al paziente. Si tratta di aprire un varco – e da ciò il carat-
tere di ricerca dell’attività cui questa esigenza conduce – nella massiccia costruzione che rinchiude, in
senso fisico ma soprattutto morale, il paziente.
     Ogni innovazione introdotta nel servizio ospedaliero si confronta con questo compito, sia che essa porti
ad una modifica dei rapporti tra i servizi che costituiscono la rete psichiatrica e che sono implicati nella
presa in carico del paziente, sia che si presenti come finalizzata a mettere sotto controllo i comportamen-
ti violenti e le condizioni che li moltiplicano, sia che faciliti la comunicazione tra operatori e pazienti, sia che
animi il quotidiano del reparto con presenze ed attività extrasanitarie. Ogni innovazione si confronta con
una molteplicità di obiettivi e se qui ne isoliamo uno non è perché lo consideriamo il più importante ma
perché esso è direttamente connesso al tema di questo volume.
     Come favorire il fatto che il paziente acquisisca (o riacquisisca) competenza su di sé, sulla propria salu-
te, sulla propria cura? Tutto ciò è reso più difficile, nella maggior parte dei casi di cui ci occupiamo, pro-
prio dalla malattia con la sua deriva verso la demotivazione e l’isolamento, ma anche dalla macchina tera-
peutica con la sua anonimità, e dalla conflittualità che si apre intorno al paziente a causa della difficoltà di
comporre il rispetto dei suoi bisogni con il rispetto dei bisogni degli altri.
     Tutte le tecniche psicoterapiche partono dall’assunto che sia possibile intervenire introducendo una
qualche novità nella vita del paziente, interferendo nella sequenza “azione – espressione – comunicazio-
ne – relazione”. Il terapeuta interferisce in questa sequenza modificando opportunamente la propria ana-
loga sequenza di funzionamento. Questa descrizione, evidentemente astratta, non pretende di dire che
cosa sia la psicoterapia o spiegare perché, qualche volta, funzioni come terapia. Essa evidenzia che pre-
senza, interazione, condivisione di un campo cognitivo, legame affettivo, relazione che si sviluppa nel
tempo, sono i costituenti mediante i quali l’attività mentale di una persona (il terapeuta) può essere utiliz-
zata da un’altra persona (il paziente) per modificare la propria attività mentale. Sottolinea inoltre che niente
è ovvio e scontato, tutto deve essere posto, realizzato, verificato.
     La lunga descrizione della situazione di cura nel Reparto psichiatrico ospedaliero ci serve a mettere in
evidenza quali vincoli debbano essere rispettati e quali ostacoli debbano essere superati perché una qual-
che forma di psicoterapia si realizzi.
     Come un osservatore esterno, che non voglia entrare nella teoria propria dell’Art Terapy e nella valuta-
zione dei risultati specifici del suo uso in un preciso contesto di cura, vede l’attivazione di essa in un
Reparto psichiatrico? Innanzi tutto come l’introduzione di un linguaggio nuovo che si sostituisce al lin-
guaggio convenzionale mediante il quale i pazienti sono confrontati con la loro malattia. Mediante attività
espressive, l’uso delle mani per creare immagini e le parole di accompagno, che commentano ed espan-
dono ciò che è rappresentato, viene rinventato un linguaggio che sostituisce quello che ha perduto ogni
forza espressiva, autocomunicativa e comunicativa verso gli altri. Un simile linguaggio mantiene un’ade-
sione al libero emergere di sensazioni, emozioni, intuizioni non ancora distorte dalle bugie, dalla propa-
ganda, o dalle convenzioni.
     Il confronto con le caratteristiche del sogno e della comunicazione del sogno costituisce un classico
per la illustrazione del lavoro psicoterapico (si badi: non stiamo parlando del racconto del sogno come
contenuto del dialogo psicoterapico, ma del sogno come modalità di autocomunicazione del paziente che
gli permette di accedere ad esperienze a cui altrimenti non sarebbe interessato). Il gioco espressivo viene
spesso paragonato alla produzione del sogno. L’idea di gioco si accompagna all’idea di limitata respon-
sabilità. Non sentirsi troppo responsabili dei propri sogni è condizione per usare liberamente le associa-
zioni ai contenuti di questi.
     A parte il vantaggio di presentarsi come linguaggio allo stato nascente l’art therapy – e questa è la
seconda notazione di un osservatore esterno – non offre nessuno sconto particolare alle difficoltà della

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comunicazione. Ci sono pazienti psicotici che non possono sognare o, se sognano, non possono rac-
contare i propri sogni o, se li raccontano, non possono usarli come occasione di esercizio di libere asso-
ciazioni. Dire che queste impossibilità sono correlate diagnosticamente a un disturbo psicotico è dire cosa
imprecisa. Esistono culture, così dette primitive, in cui il sogno è considerato appartenente alla realtà fat-
tuale e il sognatore si sente responsabile di ciò che fa nel sogno né più né meno che delle azioni allo stato
di veglia. Potremmo trovare un elemento comune in queste due situazioni e pensare che il gioco che
passa per il sogno sarebbe un’invasione di un settore delicato della costruzione della propria identità. Il
disturbo psichico in una civiltà che accetta il gioco e accetta il sogno, e le regole culturali in una società
che tiene lontano gioco e sogno dalla libertà dell’invenzione, producono lo stesso risultato. Il fatto che una
persona non riesca ad accedere alla produzione di immagini all’interno di una relazione dovrebbe farci pen-
sare che ogni immagine costruita è in realtà un autoritratto che viene esposto. Con esso l’autore si assu-
me la responsabilità dell’immagine di sé che ha fornito e la confronta con ciò che egli pensa gli altri si
aspettino da lui, o ciò che verrebbe essere. Naturalmente non viviamo in un mondo in cui l’immagine sia
fuori di ogni controllo sociale. La cultura autoritaria ha bloccato la libertà di espressione, imponendo l’idea
che ogni produzione non possa essere disgiunta da un giudizio di valore. L’arte contemporanea e la valo-
rizzazione del gioco introducono un movimento opposto. Le regole del mercato che condizionano la pro-
duzione artistica e il gioco come competizione limitano queste libertà appena introdotte. Movimenti analo-
ghi sono rintracciabili anche nello sviluppo della psicoterapia, in generale ma anche nel singolo caso.
    L’ipotesi è che il terapeuta possa fare qualcosa per mettere il paziente in grado di sognare e quindi di
usare le proprie fantasie per giocare, tutte le fantasie, anche quelle più estreme che noi definiamo come
parte del delirio. Per permettere questo il terapeuta deve rinunziare all’utilizzo delle comunicazioni del
paziente per classificarlo, collocarlo, limitarlo. Il terapeuta mette a disposizione la propria capacità di sogna-
re, dandogli un esempio della innocuità e reversibilità del sogno.
    Ma resta nelle mani del paziente il compito di definire se “questo è un gioco” o “questo non è un gioco”.
L’affermazione “questo non è un gioco” comporta il riconoscimento del dolore e dell’impossibilità di gesti-
re autonomamente la sofferenza. In quel momento si rende necessario cambiare le regole per passare a
un’alleanza con il paziente contro ogni violenza. Si può giocare solo in un ambiente buono a sufficienza,
in cui i vincoli sono identificabili e ridotti al minimo.
    Se, al contrario, gli altri sono per me una minaccia, la fantasia non può essere usata come modalità di
liberazione ma viene posta unicamente al servizio delle difese, quindi ad aumentare l’isolamento rinun-
ziando al sostegno e alla simpatia che ci può venire dagli altri. Per questo il gioco che viene introdotto in
un gruppo e contribuisce alla qualità del suo clima emotivo è particolarmente impegnativo. In tali circo-
stanze l’entrata o l’uscita dal gioco devono essere eventi di gruppo. La differenza tra il gioco che fa vive-
re e il gioco come intrattenimento, ovvero come accidentale riempimento di un tempo vuoto, sta tutta qui.

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* Responsabile del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Perugia.

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In questa presentazione al libro “Esistenze pellegrine” vorremmo ricercare e costruire il senso di un hap-
pening di arte e terapia che, nato dall’incontro tra arte, terapia, diversità e creatività, nel luogo protetto e
ritualizzato dei laboratori di “comunicazione e personazione” di Sementera, si è esteso, grazie alla mostra
multimediale SinEstetica, nel cuore storico della città di Perugia, nell’atrio di Palazzo dei Priori nel settem-
bre 2000. In quel contesto Anna Gloria Gatti curò la presentazione di poesie ed immagini che i “diversi” di
Sementera avevano prodotto in un’attività di gruppo da lei condotta presso i laboratori dell’associazione.
La sua idea fu quella di affidare la lettura delle poesie ad un professionista che prestò la sua voce di atto-
re ai versi composti dai sofferenti. L’aspetto interessante di questa lettura è che essa deriva dalla parteci-
pazione dell’attore, in veste di osservatore silenzioso, ad alcune sedute di gruppo. Egli con il suo immer-
gersi nell’interazione potè restituire attraverso le qualità della sua interpretazione, la grana della voce, ciò
che l’aveva “attraversato” e che aveva incubato dentro di sé.
     Non è qui il caso di intavolare una riflessione sulla teoria e sulle tecniche di arte terapia ad indirizzo ana-
litico utilizzate a Sementera, di cui molto é stato scritto in riviste scientifiche internazionali, trascuriamo
anche di riferire sui risultati dell’applicazione di queste metodologie valutati sia in termini di riduzione della
sofferenza psicologica che di miglioramento della qualità della vita degli utenti di Sementera che hanno
prodotto questi versi-immagini qui ci interessa particolarmente interrogarci sul senso di una presentazio-
ne pubblica di un materiale, sia iconografico che poetico, tanto intimo.
     Premettiamo che ci sono nell’arteterapia due tendenze opposte rispetto al pubblicizzare i prodotti degli
utenti. L’una tendenza si oppone ad ogni forma di esposizione ritenendo l’esposizione una rottura del set-
ting (nel migliore dei casi) o persino una estetizzazione del dolore mentale manipolato dal curante per biso-
gni controtransferali narcisistici non elaborati.
     L’altra tendenza speculare alla precedente é quella di dare voce a ciò che é alienato, emarginato, con-
siderando la diversità un valore da non nascondere, da non soffocare, considerando lo psicotico un indi-
viduo che non perde nessun diritto, nemmeno quello di poter esporre i propri prodotti pubblicamente.
Questa tendenza considera l’iperprotettività dei materiali come una eccessiva paura controtransferale
difensiva rispetto alla attivazione dei nuclei psicotici che in forma più o meno cosciente ed in misura più o
meno attenuata, si verifica in chi cura profondamente i sofferenti di psicosi.
     Nel presentare al pubblico i lavori prodotti a Sementera abbiamo tenuto presenti e considerato
approfonditamente queste due ragioni dell’arte terapia lasciando ai pazienti la libertà di scegliere, tra il non
esporre ed il non esporsi (perché, come scrisse uno dei nostri utenti: „l’inferno non diventerà mai un’ope-
ra d’arte“) o di mostrare e pubblicare le proprie immagini, i propri pensieri, le proprie emozioni in versi.
     Premesso ciò ci interessa segnalare che il rendere pubblico i prodotti della fucina creativa dei labora-
tori di Sementera, come in questa proposta di Anna Gloria Gatti, può avere molteplici effetti che si potreb-
bero ulteriormente approfondire e che qui delineiamo rapidamente
1 - Sugli autori delle opere.
      L’autostima del paziente aumenta se la propria creazione é presentata, riconosciuta e valorizzata da un
      pubblico.
2 - Sui terapeuti.
      La terapia delle psicosi è un’arte difficile che richiede tecnica ed intuito, formazione ed ispirazione; dedi-
      zione e motivazione, la presentazione ad un pubblico del lavoro terapeutico, può aumentare l’autostima
      del terapeuta e la motivazione a continuare un lavoro spesso frustrante, specie se questa presentazione
      é apprezzata e valorizzata.
3 - Sul pubblico.
      La diversità dell’altro è lo specchio della propria diversità, dell’altro in noi, e poiché, come ci ricorda
      Freud, nessuno è privo di un certo grado di alterazione dell’Io, entrare in comunicazione con il diverso

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é anche un entrare in contatto con l’altro che agisce in noi, con la nostra alter-azione.
4 - Sullo sviluppo della società.
     E questo è l’aspetto su cui ci soffermiamo per qualche riga in quanto può essere da stimolo per una
     politica regionale volta a curare lo sviluppo della creatività e l’integrazione delle diversità quale valore
     oltre che umano anche economico.
Richard Florida docente di teorie dello sviluppo economico che tiene corsi nelle più prestigiose università
americane, tra cui MIT ed Harvard, ha segnalato (L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori 2003)
che nelle regioni ed aree con più alti indici di sviluppo economico corrisponde una insolitamente alta tol-
leranza a diversità sociali, una capacità di rottura delle convenzioni, una apertura mentale. Queste aree
sono anche più ricche di movimenti artistici e musicali di avanguardia e con una ampia offerta di intratte-
nimenti culturali. L’ipotesi di Florida per spiegare queste corrispondenze é che sta nascendo una nuova
classe sociale che si distingue dalle altre per una caratterisitica fondamentale: la creatività, vale a dire la
forza di offrire innovazione, di portare idee e contenuti dirompenti rispetto alle tradizionali organizzazioni pro-
duttive. Le imprese tendono sempre più spesso a spostare le loro sedi ed ad investire nei luoghi in cui
questa nuova classe sociale si concentra e preferisce vivere. Questi luoghi sono appunto quelli caratte-
rizzati da apertura mentale vero le più varie forme di diversità ed in grado di offrire stimoli culturali quali spe-
rimentazioni letterarie, artistiche, musicali
E’ per questo che iniziative come quella descritta in questo testo, una mostra di immagini e poesie, di arte
e terapia che coinvolge, integra e valorizza gli outsider, diffondono una cultura della creatività e del rispet-
to della diversità che non resta isolata nell’ambito di un atelier o di un laboratorio protetto ma si estende in
un ambito più vasto e può contribuire all’ apertura ed allo sviluppo socio-economico della nostra regione.

                                                                                                 Associazione Sementera*

* Associazione senza fini di lucro (ONLUS) costituita nel 1995 da psichiatri e psicologi con formazione in psicoterapia ed arti terapie con lo scopo di sviluppare
  le risorse creative individuali all’interno di gruppi utilizzando la comunicazione attraverso l’arte.
  Soci fondatori dell’Associazione sono: Paolo Catanzaro, Simone Donnari, Franca Fubini, Anna Gloria Gatti, Giuliana Nataloni, Maurizio Peciccia, Maurizio Venezi.
  Questa prefazione è stata elaborata da Maurizio Peciccia.

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Introduzione

    Vorrei descrivere com’è sorta in me, nel quadro del mio lavoro terapeutico di gruppo, la spinta a dare una
dotazione poetica ad una produzione creativa fatta d’immagini prodotte da persone con gravi disturbi del
linguaggio nei laboratori di Sementera. Durante questi anni, seduta dopo seduta, i disegni che ogni pazien-
te creava individualmente si rendevano accessibili alle proiezioni, alla rêverie, all’innesto di livelli personali e
profondi del terapeuta e degli altri elementi del gruppo mediante quella tecnica creata da Peciccia e
Benedetti che, attraverso la sovrapposizione al disegno originale di carta semitrasparente, permette di tra-
sformare per piccole aggiunte o sottrazioni successive il disegno che si va copiando sotto la trasparenza.
Il terapeuta, utilizzando come ossatura il disegno del paziente che anadava ricopiando, edificava una nuova
costruzione sulla base della propria architettura immaginifica, inconscia, costruzione che contiene l’architet-
tura fantastica del paziente e contemporaneamente dischiude una nuova linea costruttiva. La stessa pos-
sibilità veniva data al paziente.
    Da questo lungo e particolareggiato percorso, da questo svelarsi della relazione con il proprio mondo
interno, evidente nelle diverse linee sviluppatesi nel gruppo, è emersa l’esigenza di scegliere alcune deci-
ne di disegni per ciascun paziente sui quali si è avviata l’esperienza di associare la parola poetica.
    La parola poetica ci si è allora svelata nella sua corporeità, nel ritmo, nel suono, anche nella sua artico-
lazione con la voce. Le parole sono anche tratti, elementi fisici, segni; il legame tra disegno e poesia è anti-
co, si ritrova già in alcuni poeti greci e più vicino a noi nei calligrammi di Apollinaire1, nella pittura verbale dei
futuristi, dei dada, dei surrealisti.
    E’ questa “corporeità” delle parole che abbiamo esplorata per prima, aspetto che era già comparso spora-
dicamente in qualche disegno e che ora diventava linea di sutura tra disegni separati, ora componeva un’ar-
chitettura, una nicchia, in cui collocare piccoli gruppi di disegni. Il sotterraneo depositarsi di questi nuovi rap-
porti accanto a quelli preesistenti (i disegni erano stati eseguiti nell’arco di tre anni) allargava la rete dei vincoli,
facilitava la creazione di metafore sempre più ampie e contemporaneamente modificava l’iniziale traiettoria.
    Questo movimento associativo rappresentava anche la liberazione dell’immaginazione dall’immagine
che l’aveva racchiusa e conclusa per ritrovarla in una nuova veste. Ogni lettera e dunque ogni parola è
“incarnata” (Tomatis 1998) ed è traduzione in un’altra configurazione mentale di fenomeni vibratori perce-
piti nel corpo, nella pelle: il suono.
    Sappiamo che l’essere umano ancora indefinito, attraverso l’orecchio, il primo a svilupparsi tra gli orga-
ni di senso, “si mette inconsciamente e involontariamente all’ascolto del mondo” e questo processo sen-
soriale, uditivo-verbale, rappresenterà un segnale per lo sviluppo di certe popolazioni neuronali che orga-
nizzeranno successivamente specifiche risposte cognitive all’ambiente (Pennisi 1994). Così nel silenzio del
nostro lavoro di gruppo, dal corpo, luogo d’incubazione della parola, di tanto in tanto si levava una voce
che nel dire i suoi versi s’impossessava del suono esplorandolo, come se abbandonasse un uso più
“meccanico” della parola per restituirgli una qualità più intima.
    Ma la relazione tra voce e il luogo da cui scaturisce non è sempre sintonica, è drammatica nella schizo-
frenia, un mondo popolato di voci dove voce e corpo non costituiscono più un’entità. Voci distanti e impe-
riose spesso s’impossessano del corpo del paziente proibendone ogni forma di nutrimento, devitalizzan-

1
    Nel noto calligramma "il pleut" le lettere scendono l’una dietro l'altra lungo il foglio come gocce di pioggia sfilacciate, stirate dal vento.

                                                                                    15
dolo, sigillandone le porte dei sensi. Il soggetto perde la propria voce, soffocata dalla dittatorialità delle voci
allucinatorie non più capaci di risonanza sociale, ma isolate e non collettivizzabili nel loro significato.
    L’espressione poetica al contrario è vocata alla comunicazione delle emozioni e travalica il significato
della parola per manifestarsi nella musica del sussurro, del grido, nelle onomatopee dei neologismi, nello
spezzarsi del verso e nelle sue vertiginose riprese. Nella poesia non parla il linguaggio ma l’Essere (Valery
1973) e il suo riallacciarsi al corpo, “fonte segreta della soggettività” (Bologna 1992), gli riconsegna la sua
qualità fecondatrice.
    Attraverso la voce (non più scissa dal corpo) il corpo di chi parla entra nel corpo di chi ascolta e si rein-
carna in un’esperienza duale e collettiva che (per la sua qualità) solleva la persona dal rischio della solitu-
dine, dall’inaccessibilità e incomunicabilità dei bisogni profondi; alle parole poetiche non si chiede di appar-
tenere ad una logica, ad una coerenza esistenziale di cui non v’è sicurezza, ad esse si corrisponde non
con un udire ma con un sentire.
    Qual’ è il risvolto terapeutico di questa ricerca sull’espressione poetica accompagnata dalla voce? Quali
interazioni possono esistere tra poesia, stato onirico della veglia, sogno, transfert?
    Se abbracciamo l’idea che il lavoro analitico non è solo l’interpretazione del significato di un sogno, di
un sintomo, di una certa reazione e che i fenomeni psicologici non possono essere adeguatamente com-
presi se non all’interno dei contesti intersoggettivi in cui si generano (Stolorow e Atwood 1995), allora il
senso dell’accadere conscio e inconscio nel rapporto psicoterapico non può prescindere dai collegamenti
che paziente e terapeuta fanno con le loro esperienze attuali e passate sia reali che fantasmatiche.
    Si pensa che le precoci esperienze relazionali tra madre e bambino vengano archiviate nella “memoria
implicita”, inconscia, sotto forma di presimboli, “al di fuori della significazione linguistica” (Mancia 2002). Tali
esperienze preverbali e presimboliche possono svelarsi nella dimensione onirica che si delinea nel sogno e
nel transfert nel momento in cui comprendiamo che le parole agiscono nella vita psichica e intersoggettiva
della terapia non solo per il loro significato ma anche per il loro suono, il loro ritmo, per quegli spazi e quei
riflessi che creano nella seduta anche per il modo in cui vengono pronunciate, insomma per la loro concre-
tezza, direi, “biologica”.
    La vita segreta delle parole, intrise di sensorialità, divampa allora nei significanti che, oltre a rinviare al signi-
ficato, rimandano a se stessi costituendosi come un unicum simbolico a partire dal quale, come nel sogno,
paziente e terapeuta possono tracciare una diagonale che unisce l’attualità dei propri vissuti con le dimen-
sioni primitive dell’esistenza.
    Poesia e sogno sono modi di rappresentare esperienze emotive inconsce, per Meltzer il sogno è la
descrizione di un mondo interno attraverso il linguaggio poetico (Meltzer 1984) che è linguaggio ancestrale
di Mallarmè, “la lingua materna dell’uomo” (Von Herder 1992).
    La poesia ci ha condotti in una dimensione onirica in cui timbro, ritmo, metafore ed onomatopee dise-
gnano forme e movimenti, una trama che apre percorsi insospettati a rappresentazioni mentali affettiva-
mente ricche, con la crescente possibilità di poterle definire verbalmente.
    Avevamo immaginato di creare con i versi un dialogo poetico recitando interamente le poesie, o anche
solo una loro parte più significativa, cui altri rispondevano con versi propri o altrui o con frammenti di essi:
una parola, un breve verso potevano essere ripetuti più volte in quest’intreccio, generando un ritmo entro
il quale altre voci trovavano pian piano la possibilità di snodarsi.
    In alcuni momenti ero colpita da come venissero privilegiati scambi verbali in virtù di certe corrispon-
denze tra le parole: per le loro assonanze (fame/pane, teso/pero), consonanze (rospo/ruspa, asta/posto),
paronomasie (donna/danno) e come tutto questo apparente gioco, basato sulla associabilità delle parole
in base a somiglianze fonetiche, avesse la capacità di stimolare la composizione di nuovi versi. Come se
il pensiero fosse in qualche modo obbligato a riesplorare le reti associative tra aree cerebrali del signifi-
cante e aree del significato (o semantiche) fin quando non riusciva a fissarsi in una nuova significazione.
L’accostamento estemporaneo dei versi creava legami nelle iterazioni foniche, permetteva corrisponden-
ze profonde nella segreta mobilità delle isotopie capaci di unire prodigiosamente parole anche di senso
opposto svelandone l’appartenenza, strato dopo strato, ad una stessa radice o classe, rovesciandole
però in una nuova intuizione che riprendeva forma nelle sinestesie, nelle metafore (petali di pace), nelle
metonimie (suona un tocco di segnatempo) come si legge in alcune poesie di Luigi.
    Sono rimasta profondamente colpita dalle parole di un paziente che descriveva l’esperienza della lettu-
ra corale come un processo di risignificazione e come questa risignificazione sembrava dare combustibi-
le all’espressione poetica. Ciò che la poesia in forma corale sembra aver generato si potrebbe definire
come una costruzione intersoggettiva inconscia che, muovendo nello “psiche-gruppo” sensazioni fisiche,
fantasie, immagini, riapre ed amplia le categorie della percezione (e forse alcune si strutturano per la prima
volta) collegate ad eventi, a relazioni, a situazioni e agli affetti provati in queste interazioni. Forse è proprio

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la possibilità per il cervello di poter disporre di tutte queste registrazioni, conservate in varie sue parti, a
creare la parola che può descrivere una certa interazione (Damasio 1999).
   Ma l’importanza di questo “piegare” il linguaggio in modo poetico è anche collegata alla facilità con cui esso
permette anche ad affetti molto profondi di trasmettersi e prendere vita nella complessità dei vissuti del tera-
peuta, che potrà impiegare la sua rêverie2 per sentire come la sua mente sta funzionando in quella situazione.
   Da questo “ascolto nell’ascolto” (Fainberg 1996) il terapeuta può giungere a definire gli affetti in campo
nella relazione terapeutica, contenerli, condividerli col paziente nella trama narrativa dell’interpretazione
che, nella mia personale esperienza, si potenzia nelle risonanze interiori, oniriche di una costruzione poe-
tica, così da aprire all’espressione simbolica, attraverso il linguaggio, quegli aspetti inesprimibili di sé depo-
sti nella memoria implicita, inconscia.
   Questo modo di concepire l’interpretazione mi sembra molto vicino alla definizione che Patrizia Valduga
dà della poesia e che è quella di “un’emozione pensante”, come a sottolineare che la creazione dei sim-
boli affonda le sue radici nella vastità e nel movimento dei sentimenti che siamo in grado di provare.
   Nell’architettura di un testo poetico, nella sua tessitura metrica, ritmica, nell’articolato affacciarsi delle
figure sintattiche, morfologiche, logiche, nella ricchezza o povertà della punteggiatura, negli spazi scritti e
in quelli bianchi, si disegnano e acquistano vigore quegli accenti interni di sconforto, d’impossibilità, di
paura, ma anche di cauta speranza, di stupore, d’amore, che parlano della lotta individuale per sostene-
re l’impatto col dolore. “Ci rivolgiamo alla poesia e alla psicoanalisi in parte con la speranza di poter forse
recuperare (o forse provare per la prima volta) modi per essere umanamente vivi di cui abbiamo privato
noi stessi” (Ogden 1999).

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Bibliografia

Tomatis A., Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi, Milano, 1998.
Pennisi A., Le lingue mutole, NIS, Roma 1994.
Valery P., Cahiers, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1973. Trad. it. “Quaderni”, Adelphi, Milano, 1985.
Bologna C., Flatus vocis, Il Mulino, Bologna, 1992.
Stolorow R.D., e Atwood G.E., I contesti dell’essere, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
Mancia M., in Bi-logica e sogno, a cura di Bria P. e Oneroso F., Franco Angeli, Milano, 2002.
Meltzer D., Dream-life. A Re-examination of the Psycho-analitycal Theory and Technique, Clunie Press, 1984.
Von Herder J.G., Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Laterza, Bari-Roma, 1992
Damasio A.R. The filing of what happens, tr. it. Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 2000.
Segal H., Scritti psicoanalitici, Astrolabio, Roma, 1984.
Hinshelwood R.D., Dizionario di psicoanalisi Kleiniana, Raffaello Cortina, Milano, 1990.
Fainberg H., Listening to listening, Int. J. Psychoanal.,77, 1996.
Ogden J.H., The music of what happens’ in Poetry and Psychoanalysis, Int. J. Psychoanal., 80, 1999.

Vorrei ricordare altri testi non citati nell’introduzione ma ricchi di preziosi riferimenti e stimoli sul linguaggio della poesia e del sogno:
Foucault M., Il sogno, Raffaello Cortina, Milano, 2003.
Cohen J., Struttura del linguaggio poetico, il Mulino, Bologna,1974.
Bisutti D., La poesia salva la vita, Mondadori, Milano, 1992.
Marchese A., L’officina della poesia, Mondadori, Milano, 1985.
Majore I., Teoria della tecnica, Astrolabio, Roma, 2000.
Majore I., Il sogno, Astrolabio, Roma, 1989.
Agosti S., Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Rizzoli, Milano, 1982.
Mancia M. Il sogno come religione della mente, Laterza, Roma-Bari, 1987.
Bologna C., Flatus vocis, Il Mulino, Bologna, 1992.
Lotman J.M., La struttura del testo poetico, Mursia, Milano, 1972
Bollas C.H., L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma, 2001

2
    Temine che indica uno stato mentale della madre nei confronti del lattante, che permette di accogliere e dare un senso allo stato di angoscia e di terrore che
    il lattante prova e che non essendo in grado di contenere proietta dentro la madre. La madre capace di rêverie accetta quest'angoscia e fa quanto è
    necessario per trasformarla, allora il bambino potrà introiettare non solo un'angoscia modificata ma anche un "modello di relazione" capace di contenere e
    affrontare l'angoscia (Segal 1975, Hinshelwood 1990) (corsivo mio).

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