EPATITE C IN PRIGIONE. DALLA CURA DEL SINGOLO ALLA STRATEGIA DI ERADIC AZIONE: UN BENEFICIO PER LA COMUNITÀ
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Articolo originale Epatite C in prigione. Dalla cura del singolo alla strategia di eradicazione: un beneficio per la comunità Roberto Ranieri1, Ruggero Giuliani1, Teresa Sebastiani1, Elisabetta Freo1, Cinzia D’Angelo3, Domenica di Benedetto3, Cesare Lari4, Angelo Cospito5, Francesca Bai2, Anna De Bona2, Antonella D’Arminio Monforte2 (1) Unità di Malattie Infettive – Case Correzionali – Milano (2) Clinica di Malattie Infettive – Ospedale Santi Paolo e Carlo – Università di Milano (3) Unità Farmacologica – Ospedale Santi Paolo e Carlo – Milano (4) Unità di Servizio Sanitario – Ospedale Santi Paolo e Carlo – Milano (5) Unità di Servizio Sanitario Penitenziario – Ospedale Santi Paolo e Carlo – Milano Autore di riferimento: Roberto Ranieri - roberto.ranieri@asst-santipaolocarlo.it Riassunto I detenuti sono noti avere specifiche caratteristiche che determinano un alto rischio di infezione da Epatite C (HCV) e allo stesso tempo hanno un ridotto accesso alle cure e ai trattamenti quando disponibili per la comunità. Grazie alla ampia disponibilità di antivirali ad azione diretta (DAAs), altamenti efficaci e ben tollerati, la prigione offre una opportunità unica per una capillare diagnosi e tratta- mento di tutti i pazienti HCV infetti. Nonostante l’alto costo dei DAAs e la possibilità di reinfezione, specialmente tra coloro che fanno uso di droghe iniettive (PIWDs), il trattamento dell’HCV nei detenuti si è rive- lato essere ancora costo-efficace. Presentiamo la nostra esperienza nelle case correzionali milanesi e i modelli associati svi- luppati nella cornice del Network Italiano di Medicina Penitenziaria. Dal Gennaio 2015 più di 130 trattamenti sono stati erogati implementando uno specifico approccio multidisciplinare che ci permette di raggiungere un responso virologico soste- nuto (SVR), oltre il 94%, equiparabile all’SVR raggiunto nella comunità. Garantire l’accesso al trattamento per l’HCV ai detenuti non solo risponde alla richiesta della Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) di curare le persone in grave condizione Parole chiave: di necessità, ma risponde anche alle necessità pubbliche di tipo sanitario ed economico. Epatite C; Prigione; Trascurare questi gruppi vulnerabili minerebbe gli sforzi per eradicare l’infezione da HCV nella Trattamento; popolazione generale e renderla una malattia rara, al contrario consentendo al virus di circolare Strategia di tra le persone non curate, favorendone la diffusione anche nella popolazione non a rischio. eradicazione Introduzione Nel mondo la prevalenza del virus dell’epatite C (HCV) tra i detenuti è significativamente superiore rispetto alla popo- lazione generale, con un range che va dal 3 al 40% [1]. I detenuti presentano svariati fattori di rischio per l’insorgenza di infezioni trasmesse per via ematica, che spaziano da condizioni cliniche quali abuso di droghe o patologie psichiatriche non trattate, fino a condizioni sociali e legali di vulnerabilità; per le medesime ragioni i detenuti una volta rilasciati spes- so non sono in grado di accedere a cure adeguate [2]. Durante il periodo dell’Interferone, ancora una volta i medesimi fattori di rischio hanno costituito un deterrente per il trattamento [3], a causa dei ben noti effetti collaterali e via di somministrazione. Con l’alta disponibilità dei DAAs, altamente efficaci e tollerati, la prigione offre una nuova unica op- portunità per una diagnosi sistemica e per il trattamento di tutti i pazienti HCV infetti, questo nonostante l’alto costo 13
e il rischio di reinfezione specialmente tra i PIWDs [5]. Il trattamento dell’HCV nei detenuti si è rivelato costo-efficace [6], riducendo l’incidenza di patologie epatiche avanzate e il rischio di morte, così come il rischio di insorgenza di com- plicazioni extra-epatiche. I benefici vanno al di là del singolo e toccano tutta la comunità con una riduzione nel numero di infezioni [7]. Non trattare i detenuti, o altri gruppi vulnerabili, renderebbe vani gli sforzi per eradicare l’infezione da HCV nella popolazione generale e renderla una malattia rara, ma al contrario la circolazione del virus incrementerebbe il rischio di contaminazione nella popolazione non a rischio. Epidemiologia e fattori di rischio La prevalenza di HCV nella popolazione italiana si assesta tra il 2,5 e il 3,5% [8], mentre in prigione appare essere dalle 17 alle100 volte superiore, in base ai differenti studi e setting geografici [9]. Una così alta prevalenza riflette l’alta incar- cerazione dei gruppi maggiormente interessati da questa problematica di salute, principalmente i consumatori di droghe iniettive. Altri fattori comuni nell’insorgenza dell’HCV tra i detenuti sono malattie psichiatriche non trattate, compor- tamenti sessuali a rischio e altre pratiche non sicure come applicazione di tatuaggi, cocaina, abuso di alcol, vulnerabilità sociale, mancanza di una fissa dimora, scarsa formazione culturale e ridotto accesso alle cure. Uno studio italiano tra- sversale che ha coinvolto più di15.000 prigionieri ha mostrato che il 38% di prevalenza di HCV è fortemente associato all’uso di droghe intravenose (OR: 10.5) [10,11]. Un più recente studio longitudinale condotto nel 2013 nella casa di reclusione di Milano - Opera ha riportato una più bassa prevalenza, pari al 22,4%, indicando una minor proporzione di consumatori di droghe e poche differenze nelle politiche di detenzione; gli italiani erano più soggetti a HCV positività rispetto agli stranieri (24,5% vs 14,5%), mentre la coinfezione da HIV è stata rilevata nel 38,5% dei detenuti HCV positivi. Tra i detenuti trovati HCV positivi, nell’ 86,5% è stato rilevato HCV – RNA [12]. Nell’ultima analisi multicentro effettuata dal 2015, che ha coinvolto oltre 15.000 detenuti da 25 centri di detenzione, la positività a HCV è stata rilevata con una prevalenza del 30,9% [13]. La trasmissione di HCV in prigione è stata osser- vata ma di rado, ed è principalmente legata alla condivisione di siringhe per l’utilizzo di droghe, dallo 0,4 al 0,59% [14]. Nessuno studio italiano ha specificamente investigato la prevalenza di HCV nelle donne detenute e negli adolescenti o minori. Tuttavia studi personali sembrano suggerire una più alta prevalenza nelle donne piuttosto che negli uomini [15] e una stabile prevalenza ridotta tra gli adolescenti. L’infezione da HCV risulta essere ancora piuttosto rara tra gli adolescenti nonostante i loro numerosi comportamenti a rischio e la sua incidenza comincia a crescere tra i giovani adulti col perdurare di comportamenti a rischio, soprattutto con l’inizio di abuso di droghe i.v. [16,17]. Storia del trattamento Fino al Maggio 2013, l’unico trattamento disponibile per l’HCV in Italia era il doppio trattamento con Interferone Pegilato (P) e Ribavirina (R), con un tasso generale di risposta virologica sostenuta (SVR) variabile tra il 13 e il 52% e un tasso di interruzione fino al 74%. La principale causa di interruzione del trattamento era la detenzione di per se (ad esempio una inaspettata interruzione della pena, rilascio nella comunità, trasferimento in altro istituto correzionale) seguita dalla assenza di una precoce risposta virologica (EVR) e problematiche mediche o psichiatriche [15]. Peraltro la ineleggibilità è stata anch’essa un problema: in uno studio di due anni condotto dal 2006 al 2008 dal nostro gruppo su 695 nuovi carcerati, solo il 26% dei 135 malati cronici di HCV sono risultati idonei al trattamento. Le principali ragioni di questa ineleggibilità erano non solo gravi controindicazioni di tipo clinico (ad esempio malattie mentali, cirrosi scompensata, malattie cardiache instabili, scarsa conta di cellule T CD4+ in soggetti HIV positivi), ma an- che un alto numero di pazienti in rifiuto della terapia a causa della paura di effetti collaterali e mancanza di informazioni corrette. Anche problematiche di tipo logistico hanno avuto un ruolo, con inaspettati trasferimenti ad altre strutture. Nonostante tutto ciò, il 43% dei pazienti trattati ha raggiunto l’SVR [12]. L’introduzione di una tripla terapia con PR più la prima generazione di DAAs e una eleggibilità estesa ai consumatori di droghe, ha modificato lo scenario aprendo la strada a nuove sfide, incluse nuove informazioni sulla infezione da HCV e le opzioni di trattamento, rafforzando la collaborazione con gli psichiatri per una miglior gestione delle problematiche psichiatriche, con un maggior coinvolgi- mento degli infermieri, del personale penitenziario e dei giudici. La introduzione di una seconda generazione di DAAs nel 2015 ha ulteriormente rafforzato lo scenario grazie all’alta efficacia per tutti i genotipi (più del 90%), breve durata del trattamento (8-24 settimane), somministrazione orale sicura e non invasiva [4].Attualmente le linee guida nazionali e internazionali raccomandano il trattamento per tutti i pazienti con infezione cronica da HCV al fine di ridurre la cir- colazione del virus nella popolazione generale, riducendo così le nuove infezioni per eradicare finalemente l’infezione a livello globale [18,19]. Fino ad ora le popolazioni vulnerabili come i detenuti, i tossicodipendenti, i senzatetto, sono stati trascurati in termini di trattamento, a causa delle preoccupazioni dei prescrittori in merito alle opportunità di tratta- mento e le possibilità di reinfezione, ma anche a causa di specifici limiti come la scarsa aderenza alle cure [5]. Come risultato, secondo le stime del 2016, negli istituti penitenziari italiani, solo lo 0,9% dei detenuti HCV positivi hanno avuto accesso al trattamento.Assicurare l’opportuno accesso alle cure per i detenuti, come per le altre categorie vulnerabili, 14
non solo rappresenta una risposta ai principi umanitari e alle raccomandazioni stabilite dalla WHO, ma è vincolante e strumentale al raggiungimento dell’obiettivo dell’eradicazione. Come suggerito da Spaulding and Co. [20]. Svariate lezioni maturate dall’esperienza con l’HIV potrebbero tornare utili per la cura dell’HCV, per affrontare problematiche quali interventi sulla comunità, screening opt – out, collegamento alle cure, protocolli semplificati. Raccomandazioni pratiche per la cura individuale Come già detto, le prigioni offrono una opportunità unica per lo screening e il trattamento dell’HCV. Infatti nel corso della detenzione i principali fattori di rischio di una scarsa aderenza possono essere controllati, consentendo di raggiungere in popola- zioni difficili, una risposta al trattamento equipa- rabile a quella della popolazione generale ( › 90%) [4]. Data la difficoltà del setting, la prigione e la complessità delle esigenze mediche, è indispensabi- le un approccio strutturato e multidisciplinare che comporta il coinvolgimento di differenti attori, cia- scuno dei quali con specifiche competenze volte al raggiungimento di un obiettivo di cura condiviso. La Figura 1 descrive tutti i potenziali attori coinvolti nel setting, non solo facenti parte del sistema sa- nitario, ma anche del sistema penitenziario (come organi giudicanti e guardie carcerarie). Nel 2016 la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria Figura 1. (SIMSPE) ha redatto delle raccomandazioni di tipo pratico riassunte in Tabella 1. Possibili attori necessari per assicurare una cura Strategia per lo screening completa. Uno screening opt – out per tutti i detenuti è raccomandato a prescindere dalla valutazione del rischio, a causa dell’alto livello di inconsapevolezza [11]. Lo screening HCV incrementa il numero di diagnosi dei casi precedentemente scono- Screening • Uno screening HCV è raccomandato per tutti i detenuti insieme a una appropriata visita al momento dell’ingresso nella struttura correzionale. • Se lo screening risulta positivo, devono essere effettuati ulteriori opportuni esami (HCV – RNA, genotipo, ecografia del fegato, valutazione della fibrosi epatica tramite elastometria o biopsia, valutazione della presenza di comorbidità) per patologie epatiche. • Consulto psicologico. Altre • Si raccomanda un screening per coinfezioni (HIV, HAV, HBV e HDV se il soggetto è HBsAg positivo). valutazioni • I detenuti negativi all’epatite A e B dovrebbero essere vaccinati. • La valutazione epatica pre-trattamento standard dovrebbe includere una valutazione psichiatrica e di quello che è il background tossicologico (alcol e sostanze psicoattive) usando strumenti dedicati. • Programmi di trattamento e detossificazione dovrebbero essere presenti nei settings che rendono disponibili trattamenti anti-HCV. Trattamento • Un approccio multidisciplinare dovrebbe essere adottato per tutti i detenuti HCV infetti. • Il trattamento con DAAs dovrebbe essere iniziato il prima possibile in tutti i pazienti eleggibili con l’obiettivo di limitare la diffusione della malattia all’interno dell’istituto penitenziario e allo stesso tempo ridurre il rischio di trasmissione di HCV nella comunità a seguito della scarcerazione del detenuto. • A questo scopo, strategie per la continuità terapeutica dopo il rilascio del detenuto, dovrebbero essere promosse. • Terapie a base di oppiacei agonisti dovrebbero essere somministrate a coloro con dipendenza da oppiacei e infezione da epatite C per ridurre il rischio di assunzione di droghe da iniezione e la conseguente trasmissione e/o reinfezione da HCV. • Durante la detenzione dovrebbero essere svolte attività di educazione sanitaria, in particolare per le persone senza o con minima precedente educazione in materia. • Valutazioni periodiche di tipo psichiatrico e psicologico (se necessario con terapie, anche anti-depressive) dovrebbero essere svolte durante e dopo il trattamento. sciuti e riduce il numero di nuove infezioni fuori e dentro la prigione e indubbiamente riduce l’incidenza di avanzate Tabella 1. patologie epatiche con un tempestivo trattamento. Lo screening dovrebbe essere effettuato all’ingresso nella struttura Raccomandazioni penitenziaria per via dell’alto numero di rilasci e trasferimenti, specialmente in fase di custodia preventiva [21]. pratiche SIMSPE. Test orali di rapida esecuzione sono disponibili e semplificano la diagnosi di HCV incrementandone l’accettabilità e 15
assicurando un tempestivo trattamento. Sarebbe bene effettuare lo screening per altri BBVs e offrire la vaccinazione per HBV. Possono essere effettuate delle consulenze private in modo da incrementare la conoscenza e il consenso da parte dei detenuti che rifiutano lo screening. I detenuti HCV Ab positivi debbono essere prontamente valutati in merito al livello di replicazione virale tramite test HCV RNA, per poi procedere alla stadiazione della malattia. Altre valutazioni estremamente importanti per il trattamento, come identificazione del genotipo e determinazione del livello di fibrosi epatica tramite elastometria, possono essere implementati in prigione a seconda del setting e delle risorse disponibili. Nella nostra esperienza [15], la strategia sopra menzionata ci ha portato a un livello di accettazione pari al 90%: la Figura 2 ci mostra un indice di prevalenza dell’HCV pari al 7,1% (258 su più di 3588 test effettuati) con Screening HCV Ab Viremia HCV Figura 2. presenza di infezione, a seguito del rilevamento di viremia da HCV in più della metà dei detenuti trovati HCV positivi Prevalenza e viremia per l’HCV. (69%), 177 su 258. Aderenza al trattamento: considerazioni speciali CONSUMATORI DI SOSTANZE STUPEFACENTI. E’ risaputo che i PIWDs sono sproporzionatamente rappresentati in prigione e spesso presentano una scarsa aderenza al trattamento e alle cure anche in comunità. Anche i dottori po- trebbero nutrire preoccupazioni quando si tratta di PIWDs, per via dei già citati problemi di aderenza, per il rischio di reinfezione dovuto al persistente uso di sostanze d’abuso e la scarsa considerazione nel trattamento di queste cate- gorie di pazienti a causa di giudizi morali. Uno studio recente condotto a Philadelphia sulla reticenza al trattamento da parte di PIWDs infetti ha mostrato che la paura di incontrare un medico troppo critico, rappresenta la seconda bar- riera al trattamento, dopo la paura degli effetti collaterali, altre barriere sono rappresentate dal costo del trattamento e il costo di trasporto, elementi non rilevanti nei penitenziari italiani [22].A parte questo, una terapia sostitutiva a base di oppiacei (OST) è comunemente prescritta in tutti i penitenziari italiani e il concomitante abuso di alcol e droghe viene minimizzato. Diversi studi hanno evidenziato che l’OST non compromette l’efficacia del trattamento con DAAs [4,23], una volta che i DAAs sono somministrati con Metadone o Buprenorfina, anche se ulteriori studi sarebbero necessari per meglio identificare le possibili interazione tra le due categorie di sostanze. TRATTAMENTO PSICHIATRICO. I Pazienti psichiatrici possono presentare una cattiva aderenza ai trattamenti psichiatrici e alle cure mediche se la patologia psichiatrica non è propriamente trattata. I DAAs sono molto più sicuri rispetto all’Interferone per quanto riguarda gli effetti collaterali di tipo psichiatrico [24], ma possibili interazioni devono essere valutate durante il concomitante utilizzo di farmaci psichiatrici come Fenobarbibal o Valproato, che sono di uso comu- ne nel nostro setting. Inoltre una volta in prigione i pazienti psichiatrici possono beneficiare di frequenti follow-up e visite di psicologi e psichiatri. Nella nostra esperienza sussiste una forte collaborazione con psichiatri, per la valutazione di pazienti prima, durante e dopo il trattamento e per il passaggio ad altre terapie psichiatriche se necessario. PROTOCOLLO INFERMIERISTICO. A causa della difficile tipologia di pazienti e il possibile rischio di manipolazioni legate a problematiche di tipo legale e all’alto costo dei DAAs, il nostro gruppo ha istituito un protocollo infermieristico per l’erogazione di DAAs al fine di ridurre le dosi smarrite, migliorare la gestione degli effetti collaterali ed assicurare la tracciabilità e la documentazione. La documentazione è particolarmente utile nelle strutture ad alto turnover (sia in caso di trasferimento in altra prigione o al rilascio nella comunità) per assicurare la continuità di trattamento e una connessione alle cure. Il miglioramento del trattamento ha un impatto limitato sulla morbidità e mortalità dell’HCV 16
senza un concomitante miglioramento dell’orientamento/connessione alle cure. Ad esempio una volta che un consu- matore di droghe i.v. ha completato il suo trattamento per l’HCV in prigione, al rilascio la persona deve essere indiriz- zata e l’opportuna documentazione deve essere inviata al centro di riferimento per la comunità di tossicodipendenti di modo che l’OST, il trattamento psichiatrico e il follow-up virologico possano proseguire e ulteriori strategie di cura possano essere implementate. INFORMAZIONE ED EDUCAZIONE DEL PAZIENTE. Il tasso di informazione è scarso tra i detenuti, specialmente per quanto riguarda la salute. La stigmatizzazione, la paura della malattia e delle procedure mediche sono anch’esse comuni [25]. Un rapporto di fiducia tra medico e paziente deve essere costruito, a partire dalla restituzione dei risultati del test sierologico, sino alla condivisione dei piani diagnostici e terapeutici, tenendo in considerazione anche gli aspetti giudiziari e la timeline. In una recente indagine condotta in una casa circondariale di Milano, più del 30% dei prigionieri non aveva alcuna informazione sull’HCV, il 60% non conosceva le vie di trasmissione, il 65% non aveva mai eseguito un test. Un più ampio accesso a opuscoli e materiale informativo su Numeri di trattamenti iniziati e completati 100 problematiche di salute, così come gruppi di Numero di trattamenti ancora in corso 30 discussione con pazienti esperti potrebbe es- Uomini 95% sere utile. Età media 48 anni ESPERIENZA PERSONALE. Implementando la Tossicodipendenti 68 % strategia sopra menzionata, dal Febbraio 2015 HIV coinfetti 23 % a oggi, 130 detenuti nell’area di Milano, hanno Genotipo 1 53% 1a= 45 1b= 24 Genotipo 3 35% ricevuto un trattamento a base di DAAs per Altri genotipi 12% l’HCV. La Tabella 2 riassume le principali carat- F1 + F2 43% teristiche dei pazienti e dei risultati raggiunti. F3 + F4 57% La maggior parte sono adulti maschi, età me- EOTR 100% (100/100) dia 48 anni: circa il 68% presentava un abuso di SVR 12 94% (59/63) Ricaduta 6% (4/63) droghe come principale fattore di rischio. Collegamenti alla cura durante il 21% Il genotipo 1 e 3 sono risultati i più comuni e trattamento o il follow-up più della metà dei soggetti (57%) sono risultati cirrotici o in fase avanzata di malattia, il 23% presentava una coinfezione da HIV ed ha rice- vuto un trattamento HAART. Alcune caratteristiche come l’età media e la progressione della malattia potrebbero cambiare nell’imminente futuro Tabella 2. come risposta alle nuove indicazioni e possibilmente alle nuove strategie incentrate sui PWIDs attivi. Trattamenti con DAAs La risposta di fine trattamento (EOTR) è stata raggiunta in tutti i pazienti che lo hanno completato. Non si è verificato nelle case correzionali di Milano. alcun drop out. Tra i pazienti che hanno raggiunto le 12 settimana di follow-up, il 94% ha mantenuto una costante soppressione virologica (SVR12) e solo il 6% ha avuto ricadute; è interessante notare che tutti i pazienti HIV coinfetti hanno raggiunto l’SVR12. Si fa presente che il 23% dei pazienti si sono interfacciati a strutture di cura esterne al mo- mento del rilascio ed è stato possibile assicurare la continuazione delle cure e un follow-up virologico. Benefici del trattamento per il singolo e per la comunità I benefici individuali derivanti dalla cura dell’infezione da HCV sono numerosi, a prescindere dalla fase dell’infezione. Tali benefici vanno dalla prevenzione dell’avanzamento della fibrosi e della cirrosi e/o carcinoma epatico, alla preven- zione di episodi ricorrenti di scompensi epatici e morte dovuta a complicazioni epatiche, nonché una riduzione del numero di trapianti epatici.Vi sono poi una serie di benefici extra-epatici, come la riduzione di casi di diabete, glome- rulonefriti, problematiche reumatologiche e cardiovascolari. Il trattamento dei singoli ha importanti ripercussioni sulla comunità, dalla riduzione di trasmissione dell’HCV e acquisizione di nuove infezioni, alla riduzione del numero di tra- pianti. In Italia, la cirrosi da HCV è la prima causa di trapianto epatico. L’avvento dei DAAs ha reso possibile pensare alla eradicazione dell’HCV. Persone vulnerabili come prigionieri, migranti e consumatori di droghe sono noti per essere a maggior rischio e per aver minor accesso alla cura, agendo così da riserva per l’infezione. Studi recenti nei quali è stato esteso il trattamento nelle prigioni, hanno dimostrato la costo-efficacia dei DAAs una volta che la continuità di cura è assicurata [26 – 29]. L’implementazione di uno screening opt-out basato sul rischio potrebbe portare alla diagnosi di un numero che va dai 41.900 ai 122.700 nuovi casi di HCV in prigione nei prossimi 30 anni: questo scenario potrebbe prevenire dalle 5.500 alle 12.700 nuove infezioni da HCV, dove circa il 90% delle infezioni scongiurate si serebbe poi verificata fuori dalle prigioni. Un potenziamento dei trattamenti HCV di breve durata è importante per ridurre la prevalenza di HCV e prevenire la trasmissione tra coloro a rischio [30]. 17
Riconoscimenti Vorremmo ringraziare tutte le unità e persone coinvolte nella gestione dell’HCV negli istituti penitenziari di Milano (psichiatri, psicologi, tecnici di laboratorio, infermieri, agenti penitenziari, responsabili di medicina penitenziaria) e le persone che hanno reso possibile il collegamento di queste attività con la comunità esterna, in particolare il Dott. Malnis. B i b l i o g r a f i a 1. Larney S, Kopinski H, Beckwith CG, et al. The incidence and prevalence of hepatitis C in prisons and other closed settings: results of a systematic review and meta-analysis. Hepatology. 2013; 58:1215–1224. [Pub- Med: 23504650]. 2. Ranieri R, Starnini G, Carbonara S, et al. Management of HCV infection in the penitentiary setting in the DAA Direct-Acting Antivirals era: practical recommendations from an expert panel. 3. Wansom T, Falade-Nwulia O, Sutcliffe C, Barriers to Hepatitis C Virus (HCV) Treatment Initiation in patients with Human Immunodeficiency Virus/HCV Coinfection: Lessons From the Interferon era. Open Forum infectious diseases. 2017. 18
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