DOMENICA PRIMERANO, Musei "relazionali" o musei "dell'iperconsumo"?, in "Studi trentini. Arte" (ISSN: 2239-9712), 96/2 (2017), pp. 305-318. Url: ...

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DOMENICA PRIMERANO, Musei "relazionali" o musei "dell'iperconsumo"?, in
«Studi trentini. Arte» (ISSN: 2239-9712), 96/2 (2017), pp. 305-318.

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Studi Trentini. Arte                 a. 96         2017           n. 2         pagg. 305-318

    Riprendiamo con questo intervento la riflessione sul senso dei musei e sui percorsi di
    riforma in atto in ambito nazionale e locale, già al centro degli editoriali apparsi su
    “Studi Trentini. Arte” a firma di Tomaso Montanari (2013, n. 2), Alberto Conforti e
    Paolo Ghezzi (2014, n. 1).

Musei ‘relazionali’ o musei ‘dell’iperconsumo’?
Domenica Primerano

R    isale all’agosto del 2014 il decreto che dispone la riorganizzazione del Mi-
     nistero dei beni e delle attività culturali e del turismo1, un provvedimento
che ha profondamente diviso il mondo culturale del nostro Paese e la comunità
di professionisti che operano in quest’ambito. Sei le linee di azione indicate dal
ministro Dario Franceschini nel presentare la riforma: una piena integrazione
tra cultura e turismo; la semplificazione dell’amministrazione periferica; l’am-
modernamento della struttura centrale; la valorizzazione dei musei italiani; la
valorizzazione delle arti contemporanee; il rilancio delle politiche di innovazione
e di formazione e valorizzazione del personale MIBACT.
    Il successivo decreto del 24 dicembre 2014, “Organizzazione e funzionamen-
to dei Musei Statali”2, ha dato avvio ad un processo di profonda trasformazio-
ne delle istituzioni museali, rispetto al quale, accanto a giudizi favorevoli, molte
sono state le perplessità avanzate o le posizioni apertamente critiche.
    Lorenzo Casini3, che ha contribuito in modo determinante alla formulazione
della riforma Franceschini, in un saggio edito nel 2016 delinea il contesto entro
il quale è maturata la nuova disciplina, i cui principali aspetti sono: la creazione
di un sistema museale nazionale e il riconoscimento dell’autonomia dei musei

1
    Il DPCM 29 agosto 2014 n. 171, “Regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle atti-
    vità culturali e del turismo, degli uffici della diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo in-
    dipendente di valutazione della performance, a norma dell’articolo 16, comma 4, del decreto-legge
    24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89”, Gazzetta Uf-
    ficiale n. 274 del 25.11.2014.
2
    DM 23 dicembre 2014, “Organizzazione e funzionamento dei Musei Statali”, registrato dalla Corte
    dei Conti il 24 febbraio 2015.
3
    Lorenzo Casini, professore ordinario di diritto amministrativo nella Scuola IMT Alti Studi di Lucca,
    dall’aprile 2014 è Consigliere giuridico del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo,
    incarico riconfermato nel dicembre 2017.

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statali che da “oggetti” diventano “soggetti” in grado di assolvere alle funzio-
ni di tutela, educazione, ricerca e comunicazione; il riconoscimento dello status
giuridico dei musei tramite l’individuazione di quattro modelli organizzativi: il
museo-ufficio, il museo-ufficio dirigenziale dotato di autonomia speciale, il polo
museale regionale e il museo-fondazione; il riassetto dei compiti delle soprinten-
denze non più affidatarie della gestione dei musei4.
    Consapevole delle riserve espresse da più parti, Casini sottolinea un dato es-
senziale della riforma di cui, a suo parere, non è stata colta la portata, ovvero il
progetto culturale sotteso al provvedimento: ridare centralità alla missione di
educazione e ricerca che compete all’amministrazione dei beni culturali in Italia
tramite un più stretto collegamento con la scuola e l’università. Obiettivo della
riorganizzazione dei musei sarebbe dunque quello di associare alla tradiziona-
le funzione di tutela una più vigorosa capacità di comunicazione e mediazione
culturale, a partire dallo sviluppo della ricerca che, dunque, costituirebbe l’asse
portante dell’azione di queste istituzioni. Non a caso il documento che il 13 no-
vembre 2017 ha accompagnato il primo rapporto sull’attività svolta tra il 2014 e
il 2017 dai 21 direttori dei musei, protagonisti della riorganizzazione innescata
dalla riforma, pone come primo obiettivo il “recupero della missione di educa-
zione e ricerca di competenza del MiBACT”5.
    Non la pensa così, tra gli altri, Tomaso Montanari: la criticità più evidente
della nuova disciplina risiede, a suo parere, nel fatto che la riforma è centrata sul-
la valorizzazione, a scapito della tutela, rischiando di produrre una “mutazione
genetica dei più importanti musei italiani”6. “Dal primato della valorizzazione
– scrive – discende l’aspetto della riforma in cui è più evidente l’imprinting del-
la ‘biennalizzazione del patrimonio’: si è scommesso tutto non su una comuni-
tà scientifica residente nei musei, ma sulla figura monocratica del direttore. Un
direttore-curatore cui è stato chiesto di modificare i nostri massimi musei a sua
immagine e somiglianza”7. Di qui la scelta di puntare sulla spettacolarizzazione
piuttosto che sulla produzione di conoscenza, sacrificando la tutela al marketing.
    Un convinto appoggio allo ‘spirito’ della riforma è giunto da ICOM Italia che
non ha esitato a definire “epocali” le modifiche introdotte nella normativa statale
in materia di musei. E questo per tre motivi:

      “1. Per la giustificata soddisfazione di vedere finalmente accolta la definizione di
      museo dell’ICOM e, al tempo stesso, di trovare presi a riferimento il suo Codice
      etico per i musei e i suoi standard internazionali; 2. Perché il riconoscimento dello
      status di istituto ai musei statali segna una svolta radicale nella loro storia, coin-

4
    Casini, Ereditare il futuro, p. 174.
5
    http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/visualizza_asset.html_2
    128864006.html, Musei Italiani 2014 - 2017. L’esperienza dei primi direttori dei musei autonomi, p.
    4; ultima consultazione dicembre 2017.
6
    Montanari, Riprendiamoci i musei, p. 80.
7
    Montanari, Riprendiamoci i musei, p. 83.

306
cidendo con la scelta di attribuire loro diversi gradi di autonomia gestionale e
     tecnico-scientifica. 3. In quanto la proposta di creare un Sistema museale nazio-
     nale ‘aperto’ abbatte una storica barriera fra i musei dello Stato, quelli degli Enti
     territoriali e i musei privati”8.

    La riforma, osserva Daniele Jalla, segna la “fine di un’eclissi” durata più di un
secolo: l’emanazione, agli inizi del Novecento, di una legge generale di tutela9 e
la successiva riorganizzazione degli apparati preposti ad esercitarla, condussero
a quella che egli definisce “l’anomalia italiana”10, cioè la progressiva perdita da
parte dei musei statali dello status giuridico di istituti dotati di specifiche fina-
lità e la loro regressione a “raccolte governative”. Anziché “soggetti” in grado
di attivare politiche educative e culturali in senso lato, i musei infatti vennero
assimilati ad un insieme di beni mobili; incorporati nelle Soprintendenze, pri-
vi di un direttore, di un regolamento, di un bilancio, persero ogni autonomia
tecnico-scientifica e organizzativa. Il museo statale divenne “prodotto ed espres-
sione, articolazione e strumento dell’attività di salvaguardia dei beni culturali,
perdendo gradualmente, sul piano giuridico almeno, identità e carattere di en-
tità autonoma e specifica e vedendo accentuata, al contrario, la sua integrazione
con il territorio di riferimento”11. Integrazione necessaria perché il museo non
divenga un’“opera chiusa”12, attuata però relegandolo in posizione marginale ri-
spetto all’emergenza rappresentata da un patrimonio straordinariamente diffuso
in Italia, luogo per eccellenza del “museo naturale”13. La riforma viene dunque
letta come concreto esito di un dibattito che ha attraversato tutto il Novecento e
di reiterate proposte di modifica normativa volte a superare il decennale ritardo
italiano, mai andate in porto.
    Che lo snodo centrale fosse l’acquisizione di un’autonomia tecnico-scientifica
e gestionale dei musei mette d’accordo tutti; su come tale autonomia venga de-
clinata dalla riforma le posizioni divergono. Montanari ritiene che essa non possa
prescindere dal legame con il contesto ambientale e culturale perché “è questo
sistema di nessi il vero capolavoro della nostra tradizione”14.

     “Al centro di ogni museo c’è l’uomo, nel suo contesto: l’ambiente. Il museo non
     può diventare opaco, non deve essere un feticcio, un idolo. Il museo è un mezzo:
     più è trasparente, più funziona. Non deve separare dall’ambiente: deve permet-

8
     http://www.academia.edu/11899995/La_riforma_dei_musei_statali_italiani_2015_Jalla, La ‘rifor-
     ma’ dei musei statali italiani, p. 10; ultima consultazione dicembre 2017.
9
     L. 12 giugno 1902 n. 185 portante disposizioni circa la tutela e la conservazione dei monumenti ed
     oggetti aventi pregio d’arte o di antichità, Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia, 27 giugno 1902, n.
     149.
10
     Jalla, Il museo contemporaneo, p. 30.
11
     Jalla, Il museo contemporaneo, p. 31.
12
     Emiliani, Una politica per i beni culturali, p. 14.
13
     Chastel, L’Italia museo dei musei, p. 12.
14
     Montanari, Riprendiamoci i musei, p. 84.

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tere di ricostruire i nessi, non spezzarli. Deve dichiarare la propria condizione
      di frammento: non autodivinizzarsi, non autoassolutizzarsi. Non può essere un
      mondo separato: ma un crocicchio di strade che portano fuori dalle sue mura”15.

    L’idea sottesa alla riforma, secondo Montanari, è tutt’altra: i 21 musei sui
quali si è puntata l’attenzione sono stati immaginati, a suo parere, come grandi
mostre permanenti affidate a direttori-demiurghi, nominati dalla politica e non
dalla comunità scientifica, figure più simili al curatore di arte contemporanea,
particolarmente attente a rispondere alle logiche di mercato più che ad esercitare
la tutela o a salvaguardare il legame con il contesto, di cui il museo costituisce un
semplice frammento.
    In sostanza la principale accusa che viene mossa alla riforma del 2014 è quella
di aver “smantellato” la perfetta simbiosi tra museo e territorio, tra museo e so-
printendenza, tra tutela e gestione museale in nome della valorizzazione. Secon-
do Elio Borgonovi e Massimo Montella tuttavia rigettare ogni contaminazione
tra cultura ed economia significa operare un sostanziale travisamento della ter-
minologia: “valorizzare viene equivocato con vendere, management e marketing
con mercificazione, monetizzazione”. Per valorizzazione dovrebbe intendersi
invece la “messa a disposizione dei beni culturali ad una vasta parte della po-
polazione per usi immateriali e per tutti quelli materiali con essi compatibili e, il
più delle volte, per essi funzionali”16. In questa accezione, valorizzare non signi-
fica perseguire obiettivi commerciali, di equilibrio economico o di riduzione dei
disavanzi, camuffandoli con improbabili finalità culturali, quanto concorrere al
raggiungimento degli obiettivi istituzionali del museo tramite l’applicazione del
marketing culturale17.
    Polemiche a parte, la riforma sta dando i primi risultati: a tre anni dall’av-
vio della nuova disciplina si è registrato un aumento del 18,5% di visitatori nei
luoghi statali della cultura passati da 38,5 milioni a 45,5 milioni, con incassi che
hanno raggiunto i 175 milioni di euro, dati che attesterebbero una radicale inver-
sione di tendenza rispetto al passato. È indubbio che i 21 istituti che per primi
hanno sperimentato le novità introdotte abbiano fatto da traino a un generale
miglioramento del comparto museale, misurabile al momento solo in termini
quantitativi. Tuttavia, come insegna Georges Henri Rivière, figura centrale della
museologia francese del dopoguerra, “il successo di un museo non si misura
secondo il numero dei visitatori che riceve, ma secondo il numero di visitatori ai
quali insegna qualcosa”18. Una effettiva verifica della bontà della “rivoluzione”
avviata dalla riforma sarà possibile dunque solo adottando specifici strumenti di

15
     Montanari, Istruzioni per l’uso del futuro, p. 66.
16
     Borgonovi, Montella, Premessa, p. 15. “Solo garantendo valore diffuso e percepito da tutti i soggetti
     rilevanti è possibile garantire l’economicità di lungo periodo e l’autonomia delle istituzioni culturali”.
17
     Cerquetti, In difesa del marketing culturale, p. 19.
18
     Georges Henri Rivière, citato nel volume: Territoires de la mémoire, p. 7 (ripreso da: La Muséologie
     selon Georges Henri Rivière, Dunond, Paris 1989).

308
misurazione e valutazione qualitativa della performance dei singoli musei, ovvero
della “loro capacità di rispondere al bisogno di cultura, ottimizzando l’impiego
delle risorse”19.

Il “nuovo museo”

    L’avvio della riforma e le relative polemiche hanno fatto sì che i media pun-
tassero finalmente l’attenzione sul museo: di conseguenza, un luogo percepito
da sempre come distante e poco attrattivo ha iniziato a far parte dell’immagina-
rio collettivo, acquistando popolarità. Ma l’attenzione nei confronti del museo
si deve anche al forte cambiamento che ha caratterizzato negli ultimi decenni
questa istituzione e alla capacità dei professionisti museali di reinterpretare il
proprio ruolo. Se negli anni Cinquanta al conservatore veniva chiesto di con-
centrarsi esclusivamente sulle collezioni, cuore pulsante dell’attività museale,
per garantirne integrità e sicurezza, negli anni Settanta le forti critiche mosse al
museo, percepito come luogo elitario e separato, poco propenso a uscire dalle
proprie mura, produssero una svolta significativa che da principio toccò solo
marginalmente il nostro Paese. La critica al museo generò a livello internazio-
nale la “Nouvelle museologie” che si tradusse nella realizzazione in Francia de-
gli ecomusei, di cui Georges Henri Rivière e Huges de Varine sono considerati
i “padri fondatori”20.
    Il museo usciva dalle proprie mura per inglobare l’intero patrimonio, cul-
turale e naturale, compreso entro l’ambito territoriale di competenza. Accanto
agli ecomusei, si moltiplicarono anche in Italia i musei ‘locali’ fondati sulla par-
tecipazione delle comunità, desiderose di preservare le testimonianze materiali e
immateriali di pratiche, tradizioni, culture di cui si percepiva l’imminente eclissi:
estendendo la propria responsabilità al patrimonio diffuso, acquisivano le carat-
teristiche di ‘centri di interpretazione’.
    Il museo di arte contemporanea esplose con la realizzazione nel 1977 del Cen-
tre Pompidou, “una specie di voluto sberleffo alle istituzioni” – afferma Renzo
Piano – “Ma non era soltanto una pernacchia, quanto piuttosto una volontà di

19
     Marcon, Sibilio, Analisi della performance nelle aziende museali, p. 144. “Il museo ha un obiettivo
     impegnativo da raggiungere: attivare un processo che gli consenta di farsi riconoscere e, quindi, di
     legittimarsi a seguito della validità delle sue scelte e della capacità di realizzarle, rimanendo fedele ai
     principi ispiratori. In altri termini, deve tendere ad ottenere consenso sia all’interno – rafforzando
     valori che sappiano aggregare il personale – sia al suo esterno, conquistando la fiducia dei suoi inter-
     locutori”, Sibilio, Misurare e comunicare i risultati, p. 60.
20
     Nelle parole di Rivière “un museo dell’uomo e della natura, un museo ecologico, che fa riferimen-
     to a un dato territorio, nel quale vive una popolazione che partecipa alla concezione ed evoluzione
     permanente del museo, laboratorio permanente sul campo, strumento di informazione e presa di co-
     scienza per la popolazione” e in quelle di Varin “in primo luogo una comunità e un obiettivo: lo svi-
     luppo di questa comunità. [L’ecomuseo] ha una funzione educativa generale che si fonda su un pa-
     trimonio culturale e su un certo numero di attori, entrambi appartenenti a quella stessa comunità”;
     in Ribaldi, Il nuovo museo, p. 28.

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ribellione al confinamento della cultura in luoghi specialistici, e un tentativo di
farne una fabbrica, un opificio, un’officina”21.
    Alla base del profondo cambiamento che dal Beaubourg in poi interesserà
i musei di tutta Europa, Karten Schubert individua tre fattori: la conclusione
della ricostruzione e della ripresa economica avviata nel secondo dopoguerra,
l’entrata in scena del turismo di massa ma, soprattutto, le trasformazioni culturali
culminate con gli avvenimenti del Sessantotto: “Simboli di autorità culturale e di
potere normativo, nel dopoguerra, [i musei] avevano comunque eluso qualsiasi
riforma ed erano considerati anacronistici e superati: rifugi riservati alla classe
media, per i quali era ormai scaduto il tempo di un risveglio 22.
    I musei tra Settecento e Ottocento avevano reso pubbliche le collezioni pri-
vate: l’ordinamento ‘soggettivo’ dei collezionisti era stato sostituito da quello
‘oggettivo’ dei conservatori, ai quali fu demandato il compito di selezionare cosa
esporre e come. Ma l’ordinamento seguiva “modelli comprensibili soltanto a
coloro che, grazie all’educazione ricevuta, erano in grado di decifrare i siste-
mi scientifici di classificazione, le teorie accreditate nell’ambito della storia e gli
orientamenti accademici in materia di arte e di storia dell’arte”23.
    Ma se ora la collezione era pubblica, per quanti visitatori avrebbe assunto un
reale significato? Selezione e ordinamento riflettevano infatti i valori di una élite
alto borghese che il museo aveva il compito di affermare, custodire e trasmette-
re: più simile ad un tempio che ad una scuola, il museo “offriva l’opportunità di
riaffermare una fede”24. Prerogativa che male si conciliava con l’idea di “museo
democratico” emersa con le trasformazioni sociali e culturali degli anni Settanta:
per garantire uguali opportunità di accesso alla cultura per tutti, accanto all’idea
del “museo-tempio”, che la stessa architettura museale accreditava, occorreva
introdurre quella del “museo-forum”. “Il forum – sostiene Cameron – è il luogo
in cui si combattono le battaglie; il tempio è dove rimangono i vincitori. Il primo
è il luogo in cui avviene il processo, il secondo è la sede che ne ospita gli esiti
prodotti”25.
    La reale accessibilità e obiettività del museo divennero dunque il problema
centrale. Un’esposizione museale non è mai neutrale e oggettiva: come ricorda
Baxandall “non c’è mostra senza interpretazione e perciò, in senso lato, senza
appropriazione”26. Il meccanismo che presiede l’esporre mette in gioco tre com-
ponenti: chi ha prodotto il bene; colui che lo ha selezionato e collocato entro un
sistema di relazioni, individuato a partire dalle proprie competenze e in confor-
mità a specifiche teorie; infine l’osservatore che si avvicina al bene avvalendosi
del proprio bagaglio culturale. Ergendosi a depositario di modelli autorevoli ed

21
     Intervista di Giorgio Odifreddi a Renzo Piano, in Piano, Che cos’è l’architettura, p. 5.
22
     Schubert, Museo, storia di un’idea, pp. 67, 68.
23
     Cameron, Il museo tempio o forum, p. 53.
24
     Cameron, Il museo tempio o forum, p. 54.
25
     Cameron, Il museo tempio o forum, p. 59.
26
     Baxandall, Intento espositivo, p. 16.

310
elitari non negoziabili, il museo di fatto aveva svolto un’azione di controllo e di
orientamento delle opinioni dell’osservatore; il “museo democratico” avrebbe
dovuto invece impegnarsi ad estendere lo spazio interpretativo anche al visitato-
re, creando le condizioni per un suo ruolo attivo. Compito del curatore, sostiene
Baxandall, è dunque quello di generare “condizioni stimolanti e non fuorvianti
nello spazio che si situa tra l’attività che gli compete (scelta degli oggetti e com-
posizione dei cartellini) e quella di chi ha prodotto gli oggetti. Il resto pertiene
all’osservatore”27.
    L’esito più rilevante della critica al museo mossa negli anni Settanta è legato
ad un sostanziale cambiamento nella percezione del pubblico, che inizia ad oc-
cupare il centro d’interesse scalzando progressivamente le collezioni. Di conse-
guenza il modello di comunicazione adottato dal museo tradizionale, basato sul
trasferimento unidirezionale di conoscenze da una fonte autorevole a un interlo-
cutore generico e passivo, non poteva più reggere. Il modello di comunicazione
introdotto dal cosiddetto “museo relazionale” punta invece alla partecipazione
attiva del visitatore nella costruzione e nella rappresentazione di significati. Tale
modello si basa sul

     “riconoscimento degli aspetti sociali e culturali, e non già puramente tecnici
     (‘quali dipinti esporre, in quale ordine, con quali supporti interpretativi’) della
     comunicazione: laddove il visitatore – non solo in quanto individuo, ma anche
     in quanto appartenente a una determinata ‘comunità di interpretazione’ – porta
     con sé aspettative, conoscenze preesistenti, retroterra storico-culturali, capacità e
     stili di apprendimento, strategie interpretative di cui il museo non può non tener
     conto”28.

    A supporto di tale modello interviene la teoria costruttivista dell’educazione
che mette al centro chi apprende anziché ciò che deve essere appreso: applicata
al museo, essa si traduce nel focalizzare l’attenzione sul visitatore piuttosto che
sul contenuto.
    Accanto ad una nuova attenzione per il pubblico, con gli sviluppi qui bre-
vemente sintetizzati, l’“effetto Beaubourg” produsse anche esiti problematici,
tant’è che i detrattori del Centre Pompidou lo ritennero responsabile di un pro-
gressivo snaturamento della missione riconosciuta storicamente e culturalmen-
te ai musei: il suo porsi come “tramite neutrale”29 di un traffico incessante di
visitatori e di opere, la presenza al suo interno di ampie superfici destinate al
consumo, l’autoestraniazione dell’architettura rispetto al contesto urbano e alle
stesse collezioni, aprirono la strada alla realizzazione dei cosiddetti musei del-
l’“iperconsumo”30. Protagonisti della nuova stagione museale compresa tra gli

27
     Baxandall, Intento espositivo, p. 26.
28
     Bodo, Il museo relazionale, p. XIV.
29
     Purini, I musei dell’iperconsumo, p. 16.
30
     Espressione coniata da Giancarlo De Carlo e poi contratta in “ipermusei” da Purini, Ciorra, Suma.

                                                                                                  311
anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, più che alle collezioni – spesso ine-
sistenti – affidano la propria identità all’architettura che funge da potente richia-
mo mediatico. Il centro d’interesse ancora una volta si sposta: il focus ora è sulla
forma architettonica. Su quella puntano le amministrazioni pubbliche che, dal
Beaubourg in poi, iniziano a commissionare a famose archistar nuovi edifici/logo
nella convinzione che possano funzionare da straordinari attrattori turistici per
un pubblico non necessariamente esperto, ma particolarmente sensibile a tutto
ciò che fa tendenza31. Un esempio per tutti: il Guggenheim di Bilbao progettato
da Frank O. Gehry, un’architettura museale diventata l’icona di un’intera città,
capace di attrarre folle di turisti da tutto il mondo.
    Gli ipermusei, molto simili a centri polifunzionali, se non a centri commercia-
li data la massiccia e spesso invadente presenza di bookshop, negozi, caffetterie e
ristoranti, si avvalgono di una gestione di tipo manageriale per lo più impegnata
nell’organizzazione di mostre blockbuster, molto spettacolari, ideate per attrarre
clienti più che per finalità scientifiche; propongono attività di info-tainment e
edu-tainment che intrecciano cultura, comunicazione ma soprattutto intratteni-
mento e che spesso si traducono in un superficiale quanto rapido consumo cultu-
rale. La domanda che sorge spontanea è la seguente: la declinazione commerciale
di queste eccezionali macchine mediatiche quanto pesa? E ancora: quale ruolo
gioca in questo caso il visitatore? Siamo sicuramente molto distanti dal rapporto
che il museo relazionale stabilisce con il proprio pubblico, coinvolto in un’in-
terpretazione condivisa del patrimonio. L’ipermuseo si rivolge al cliente, non al
visitatore; l’attenzione nei suoi confronti è quella che le grandi marche riservano
al potenziale consumatore da attrarre con ‘effetti speciali’. Le folle che attraver-
sano questi musei possono essere l’unico parametro per misurarne il successo?
Per gli amministratori pubblici particolarmente sensibili ai risvolti economici di
un’impresa culturale, certamente! In quest’ottica, il fatto che la visita in museo
possa tradursi in una effettiva crescita culturale da parte di chi lo frequenta è un
semplice dettaglio.

Musei e paesaggi culturali. Quale sistema?

   Nel corso del Novecento il museo ha attraversato più metamorfosi32: ha perso
gran parte della propria sacralità; si è aperto al rapporto con la città e con il terri-
torio; ha incrementato le attività educative e aggiornato i propri modelli di comu-

31
     “Il museo torna dunque a occupare, nell’immaginario collettivo, il ruolo di attrazione turistica ed
     economica che compete alle fiere con l’aggravante tuttavia che esso, se progettato da un eminente ar-
     chitetto, può anche fare a meno di opere da esporre o di racconti da svolgere, puntando sulla pro-
     pria eccezionalità architettonica e sul nome del suo artefice”: Marani, Pavoni, Musei. Trasformazione
     di un’istituzione, p. 76.
32
     Qui solo velocemente sintetizzate. Sarebbe più corretto affermare che le trasformazioni del museo
     alle quali si fa cenno costituiscono per molte istituzioni una proiezione, più che una dimensione con-
     divisa. Il ritardo italiano riguarda proprio l’adeguamento dei nostri musei a questa nuova visione.

312
nicazione anche tramite l’utilizzo consapevole delle nuove tecnologie e del digitale;
avvalendosi delle strategie del marketing culturale, si è messo in ascolto dei propri
pubblici, reali e potenziali; con l’audience development e l’audience engagement
ha favorito la partecipazione e l’accessibilità, fisica e culturale, al museo e ai suoi
contenuti; si è proposto come luogo di inclusione e di aggregazione sociale; ha
promosso la cittadinanza attiva; facendo perno sul patrimonio, inteso come risorsa
da condividere e da ricreare nei suoi significati, ha favorito il confronto e il dialogo
interculturale e interreligioso; ha prodotto un miglioramento nella qualità della
vita, aumentando il benessere fisico e psichico di chi lo frequenta33.
    Di fronte a questa trasformazione, molte sono state le resistenze, specie da
parte di chi continua a ritenere che il museo (soprattutto quello che ospita colle-
zioni artistiche) debba essere il luogo elitario della contemplazione e forse teme
di perdere autorevolezza. È evidente che le funzioni che da sempre hanno ca-
ratterizzato il museo quale luogo di conservazione della memoria e di tutela del
patrimonio e delle sue eccellenze siano ineludibili. È altrettanto evidente che
alla base di tutte le attività museali debba essere posta la ricerca scientifica, che
richiede il coinvolgimento di specifiche professionalità e competenze. Tuttavia
perché il museo possa riflettere la complessità del nostro tempo è necessario che,
oltre a essere autorevole e affidabile sotto il profilo scientifico, riesca a stabilire
un rapporto profondo e dinamico con la comunità. Che non significa organiz-
zare corsi di pilates o di yoga nelle sale del museo, come avviene sempre più di
frequente: non è questa la forma di coinvolgimento che può instaurare legami
profondi e generativi con i cittadini. La sfida è un’altra.
    La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio cultu-
rale per la società (Faro 2005) focalizza l’attenzione sulla necessità che i cittadini
partecipino democraticamente “al processo di identificazione, studio, interpreta-
zione, protezione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale”34 che
si compone di “tutte le risorse ereditate dal passato che le popolazioni identifica-
no, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espres-
sione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”.
Il documento segna un ribaltamento profondo dal momento che chiama le “co-
munità di eredità” a svolgere un ruolo attivo nella definizione di ciò che può
essere considerato patrimonio35.

33
     Come attestano alcuni studi recenti, in Ravagnan, Dall’Oglio, Il museo come luogo di “diletto”, nota
     23, p. 98.
34
     http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1492082511615_Conven-
     zione_di_Faro.pdf, ultima consultazione dicembre 2017. La Convenzione di Faro è lo strumen-
     to più recente in materia di tutela del patrimonio culturale siglato dal Consiglio d’Europa. La
     Convenzione (STCE n. 199), che prende il nome dalla località portoghese, Faro, dove il 27 otto-
     bre 2005 si è tenuto l’incontro di apertura alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa e
     all’adesione dell’Unione europea e degli Stati non membri, è entrata in vigore il 1° giugno 2011.
     La firma italiana, avvenuta il 27 febbraio 2013 a Strasburgo, ha portato a 21 il numero di Stati Parti
     fra i 47 membri del Consiglio d’Europa; di questi, 14 l’hanno anche ratificata.
35
     La Convenzione invita inoltre gli Stati “a promuovere un processo di valorizzazione partecipativo,

                                                                                                       313
“Da questo punto di vista – osserva Daniele Jalla – non vi è nulla di uto-
pico in una logica rovesciata rispetto ai modelli tradizionali, ma saldamente
fondata su un principio ovvio, quanto sottovalutato: la tutela più efficace del
patrimonio non è mai stata assicurata prioritariamente dall’esistenza di nor-
me, mezzi e apparati, pure essenziali, ma dal consenso sociale, più o meno
diffuso, sul suo valore, l’unico in grado di garantirne la conservazione e ancor
più la trasmissione. L’interesse pubblico del patrimonio culturale o corri-
sponde a una sua pubblica appartenenza o resta una nozione astratta e in fin
dei conti inutile”36.

   Il percorso avviato dal museo relazionale trova dunque piena legittimazione
nella Convenzione di Faro, alla quale fa riferimento anche la “Carta di Siena
2.0”37, sottoscritta da tutte le associazioni museali del nostro Paese, che illu-
stra il punto di vista italiano in relazione al tema “Musei e paesaggi culturali”
discusso nell’ambito della XXIV Conferenza Generale di ICOM tenuta a Mi-
lano nel luglio 201638. Nel documento si auspica che i musei possano assu-
mere l’identità di “centri di responsabilità patrimoniale” configurandosi come
luoghi di ascolto e interpretazione dei bisogni e delle volontà delle comunità
patrimoniali di riferimento. Questa prospettiva bene si concilia del resto con la
dimensione di museo diffuso che caratterizza l’Italia, fotografata anche dall’ul-
tima rilevazione Istat39. L’indagine tuttavia evidenzia un dato significativo: una
polarizzazione molto forte di visitatori sui primi 20 musei e istituti similari che
nel 2015 hanno attratto quasi un terzo dei visitatori (31,9%) mentre il 36,5%
ha registrato non più di mille visitatori all’anno. Le potenzialità insite in un’of-
ferta diversificata e policentrica, distribuita uniformemente su tutto il territorio
nazionale, vengono dunque annullate da una frequentazione che privilegia i 20

     fondato sulla sinergia fra pubbliche istituzioni, cittadini privati, associazioni, soggetti che la Conven-
     zione all’art. 2 definisce ‘comunità di eredità’, costituite da ‘insiemi di persone che attribuiscono va-
     lore a degli aspetti specifici dell’eredità culturale, che desiderano, nell’ambito di un’azione pubblica,
     sostenere e trasmettere alle generazioni future’”.
36
     http://www.sistemamusei.ra.it/main/index.php?id_pag=99&op=lrs&id_riv_articolo=907, ultima
     consultazione dicembre 2017.
37
     http://www.simbdea.it/index.php/tutte-le-categorie-docman/simbdea/330-carta-di-siena-2-0/file,
     ultima consultazione dicembre 2017.
38
     Alle innovazioni introdotte dalla Convenzione di Faro si richiama anche la Comunicazione congiunta
     al parlamento europeo e al consiglio “Verso una strategia europea per le relazioni culturali internazio-
     nali” del giugno 2016 e la Relazione sul tema “Verso una strategia dell’Unione europea per le relazioni
     culturali internazionali” della Commissione per gli affari esteri e della Commissione per la cultura e l’i-
     struzione del 13 giugno 2017 in preparazione dell’Anno europeo del patrimonio culturale.
39
     “Il patrimonio culturale italiano vanta 4.976 musei e istituti similari, pubblici e privati, aperti al pub-
     blico nel 2015. Di questi, 4.158 sono musei, gallerie o collezioni, 282 aree e parchi archeologici e 536
     monumenti e complessi monumentali. L’Italia ha un patrimonio diffuso quantificabile in 1,7 musei o
     istituti similari ogni 100 km2 e circa uno ogni 12 mila abitanti. Un Comune italiano su tre ospita al-
     meno una struttura a carattere museale”. Rapporto Istat Anno 2015, I musei, le aree archeologiche e
     i monumenti in Italia, p.1, https://www.istat.it/it/archivio/194402, ultima consultazione dicembre
     2017.

314
musei maggiormente attrattivi, ciascuno dei quali realizza più di 900.000 visita-
tori l’anno. Se ne deduce che la contraddizione tra polverizzazione dell’offerta
museale e concentrazione della domanda costituisca il problema centrale della
realtà museale italiana.
    La riforma Franceschini ha preso il via concentrando l’attenzione sui 21 mu-
sei che rientrano in questa top ten, di cui sono stati recentemente presentati i
risultati; poco o nulla si sa invece sui poli museali regionali istituiti in seguito
all’introduzione delle nuove disposizioni. È fondamentale ricordare che la ri-
forma assegna al polo regionale una responsabilità di non poco conto: quella di
farsi garante della “fruizione del museo-territorio italiano”40. Questi “uffici diri-
genziali periferici” infatti hanno il compito di coordinare i musei statali afferenti
ai singoli poli, in vista della creazione di sistemi museali misti, aperti cioè anche a
musei di altre amministrazioni e a musei privati. Nel giugno del 2015 il Ministero
ha istituito un’apposita Commissione di studio per la futura messa in rete, entro
sistemi “integrati”, degli istituti museali italiani, pubblici e privati; il 15 dicembre
2017 sono stati resi noti gli esiti del lavoro svolto41.
    Gli obiettivi del sistema museale nazionale elencati nella relazione conclusiva
sono quattro: a) favorire la promozione dello sviluppo e della cultura, ricono-
scendo nelle attività di formazione, apprendimento e ricerca gli scopi primari
del museo, obiettivo raggiungibile tramite la predisposizione di regole comuni
di gestione, la costruzione di sistemi di accreditamento/riconoscimento degli
istituti e l’individuazione di meccanismi di monitoraggio e valutazione validi su
tutto il territorio nazionale; b) garantire un accesso di qualità per gli utenti e un
miglioramento della protezione delle raccolte; c) definire un’azione strategica
condivisa per le politiche culturali al fine di rispondere alle diverse esigenze della
collettività, fissando codici di comportamento e linee condivise di politica muse-
ale; d) favorire la generazione di economie di scala e la prestazione condivisa di
servizi, considerando i musei un bacino di competenze, capacità professionali e
risorse da mettere in rete42.
    Si tratta di obiettivi ampiamente condivisibili che differiscono notevolmente
da quelli adottati nei sistemi museali sorti dagli anni Novanta in poi, interpretati
in chiave prevalentemente economica, promozionale e di marketing che compor-

40
     “Il principale compito dei poli museali regionali è quello di predisporre dei progetti culturali sul-
     la gestione e sulla valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura statali, anche con riguardo
     a quali servizi per il pubblico debbano essere affidati in concessione”: Casini, Ereditare il futuro, p.
     186. In base all’art. 34 della riforma ai poli spetta “definire strategie e obiettivi comuni di valoriz-
     zazione, in rapporto all’ambito territoriale di competenza, e promuovere l’integrazione dei percorsi
     culturali di fruizione, nonché dei conseguenti itinerari turistico-culturali”. La riforma propone una
     prospettiva di cooperazione/collaborazione interistituzionale, che si traduce in un progetto di inte-
     grazione (anche disciplinare) creando di fatto sistemi misti. Ciascun museo può partecipare al polo
     “tramite apposite convenzioni” a patto che disponga degli standard necessari.
41
     www.beniculturali.it>MIBAC>Contenuti, ultima consultazione dicembre 2017.
42
     Commissione di studio per l’attivazione del Sistema museale nazionale, Relazione conclusiva, www.
     beniculturali.it/mibac/.../MiBAC/.../1513242467357_relazione_conclusiva.pdf, ultima consultazio-
     ne dicembre 2017.

                                                                                                        315
tarono l’introduzione di “nuove finalità estranee alla natura e agli obiettivi propri
dell’attività dei musei”43.
    Come sottolinea Stefano Baia Curioni, “diverso è immaginare sistemi che
condividono il ticketing, il sistema di prenotazione gruppi, l’accesso a fornitu-
re di servizi tecnici specifici o sistemi che invece spingano alla formulazione di
modelli di offerta culturale coordinata, che progettano insieme piani di ricerca
e di esposizione, che si muovono in modo coordinato nel negoziare le politiche
territoriali con gli attori politici”44. È auspicabile che i futuri sistemi museali,
nazionale e regionali, seguano quest’ultima opzione; lo farebbe supporre il do-
cumento conclusivo della commissione ministeriale che assegna centralità alla
cultura come servizio reso ai cittadini attraverso l’azione dei musei incentrata
– come si è visto – su formazione, apprendimento e ricerca. Si è sempre puntato
sui vantaggi di natura organizzativa ed economica che i musei possono trarre
aderendo a un sistema, lasciando in secondo piano questioni essenziali, quali
ad esempio l’articolazione tematica, le caratteristiche museografiche e le finalità
culturali che, invece, dovrebbero essere “i motori trainanti” della messa in rete
di più istituzioni culturali45. Un sistema museale dovrebbe essere attore e tramite
della ricomposizione culturale di un territorio e non la semplice somma di musei;
attraverso un’azione coordinata, in cui ciascun partecipante accetti di cedere una
parte della propria sovranità, potrebbe attivare un sistema interpretativo com-
plesso che tenga conto delle specificità che ciascuno offre, ma che al contempo
sia in grado di superare ogni segmentazione disciplinare per produrre una visio-
ne di insieme – “olistica” come viene definita dalla riforma – del patrimonio46.
    Ma, come afferma Daniele Jalla,

      “Il processo d’integrazione non sarà possibile se l’insieme degli attori non sarà
      coinvolto in modo paritario, puntando sui punti di forza di ciascuno e operando
      congiuntamente per ridurre i punti di debolezza, attraverso una regia comune e
      condivisa, partendo dalle collaborazioni in essere, dalla conoscenza diretta dei
      contesti, delle risorse, delle dinamiche sociali e culturali. E questo è un compito
      che spetta innanzitutto ai professionisti del patrimonio”47.

43
     La Monica, Metodologia e perimetro della ricerca, p. 35.
44
     Baia Curioni, intervento alla Tavola rotonda organizzata in occasione del Convegno “Regioni e mu-
     sei: politiche per i sistemi museali dagli anni Settanta ad oggi” tenutosi a Pisa, presso la Scuola Nor-
     male Superiore il 4 dicembre 2007, pp. 176-179.
45
     Tamburini, I sistemi museali, p. 32.
46
     “Integrazione disciplinare vuol dire compiere uno sforzo comune a tutti coloro che sono interessati a
     problemi di natura istituzionale, storica e civile, per uscire dai confini della propria disciplina e muo-
     versi verso le altre; significa comprendere con umiltà e con modestia, quali sono gli altri linguaggi, poi
     assimilarli, portarli ad un maggior livello di consapevolezza, cercando il confronto con gli altri in ma-
     niera anche spregiudicata, con un unico obiettivo: l’interesse del patrimonio stesso, non l’interesse del-
     lo Stato, dei Comuni, delle Province, delle Regioni o dei privati”, Settis, Premessa, p. 14.
47
     http://www.academia.edu/11899995/La_riforma_dei_musei_statali_italiani_2015_Jalla, ultima con-
     sultazione dicembre 2017. Jalla, La ‘riforma’ dei musei statali italiani, p. 16.

316
Credo che queste osservazioni possano e debbano essere applicate anche al
sistema museale trentino, del quale si ragiona da anni, senza alcun esito. Penso
alle Proposte per un sistema museale provinciale avanzate da Bruno Passamani nel
199348, formulate quando ancora la mappatura della realtà museale attiva sul ter-
ritorio non comprendeva Mart e Muse. Oggi la realizzazione del sistema museale
trentino deve fare i conti con i pesanti disequilibri che lo condizionano. La scelta
da compiere è tra due opzioni: un sistema che punti decisamente sulle due realtà
giudicate più innovative e attrattive, oppure un sistema che valorizzi le diverse
“anime” del tessuto connettivo culturale territoriale. Anime capaci di esprimere
quelle “acclarate competenze” di cui già nel 1993 parlava Bruno Passamani e che
oggi rischiano di esaurirsi o disperdersi.

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48
     “Non si dovrà trattare – scriveva lo studioso – di un sistema chiuso, a base burocratico-amministra-
     tiva, bensì di una struttura molto elastica e leggera, unicamente una struttura di coordinamento fra
     strutture autonome nelle loro scelte culturali, in grado tuttavia di ‘governare lo sviluppo’ con l’of-
     ferta di un insieme di servizi logistici, tecnici, scientifici, di favorire gli scambi e le collaborazioni fra
     realtà museali, tra queste ed istituzioni culturali e di ricerca all’interno e all’esterno del Trentino, di
     concorrere alla promozione della ricerca interdisciplinare, dell’informazione, della formazione ed al-
     la pianificazione e creazione di nuove strutture museali”, Passamani, I musei del Trentino tra storia e
     futuro, p. 89.

                                                                                                              317
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318
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