COVID: LA SMENTITA INDIANA di - Leonardo Mazzei - sollevazione

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COVID: LA SMENTITA INDIANA di - Leonardo Mazzei - sollevazione
COVID: LA SMENTITA INDIANA di
Leonardo Mazzei

                                                      Se    ne
dicono tante in questi mesi di caos vaccinale. Una che va per
la maggiore riguarda il presunto “successo di Israele”, grazie
al record di inoculazioni targato Pfizer-BioNTech. Quale sia
il reale significato di questo primato è già stato oggetto di
un precedente articolo. Qui ci limitiamo ad un breve
aggiornamento.

Ad oggi, con una percentuale di vaccinati del 56%, Israele
continua ad avere una media di 3.519 casi al giorno.
Rapportando i casi alla popolazione, è come se l’Italia ne
avesse ora 24.375, mentre – ma con una vaccinazione 11 volte
più bassa – ne ha in realtà 20.316. Aggiungiamo a questo che
il calo dei casi in Israele, rispetto al picco del 16 gennaio,
non solo è in linea con quello di altri paesi, ma è
addirittura più lento e contraddittorio di quello che lo stato
sionista aveva registrato dopo il precedente massimo del
settembre 2019, quando dei vaccini non c’era neppure l’ombra.
COVID: LA SMENTITA INDIANA di - Leonardo Mazzei - sollevazione
Mi pare che ciò basti ed avanzi per nutrire almeno qualche
dubbio su un “successo” che i media vorrebbero indiscusso e
soprattutto indiscutibile.

Ma perché parlare di Israele in un articolo dedicato
all’India? La ragione è semplice. I cultori con l’elmetto
della strategia vaccinale ci spiegano che non ci sono altre
soluzioni per chiudere la partita con il virus. La loro
narrazione è monocorde, a dispetto delle infinite
contraddizioni che pure sono in qualche modo costretti a
riconoscere: dalla reale efficacia dei vaccini, all’effetto
delle varianti; dall’incertezza sulla capacità di fermare il
contagio, al limitato periodo temporale della “copertura”
vaccinale.

Per opposti ma convergenti motivi – in Israele l’epidemia non
si placa nonostante il vaccino, in India l’emergenza è
sostanzialmente finita senza alcun bisogno di ricorrervi –
questi due paesi concorrono entrambi a smentire il racconto
ufficiale. Ecco perché è bene occuparsene.

Il caso indiano

Veniamo allora all’India. Sia chiaro: come respingiamo il
modello israeliano, qui non suggeriamo affatto di adottare
quello indiano. Ma se proporlo sarebbe assurdo, ragionarci su
può essere invece istruttivo. In realtà il caso indiano non è
il frutto di un modello, bensì la risultante delle peculiari
condizioni di quel paese: dalle pessime condizioni igieniche,
all’esistenza di grandi ed affollate metropoli, fino alla
bassa età media della popolazione. L’insieme di queste
condizioni ha reso praticamente inutili le misure di
contenimento adottate dal governo. Tutto ciò ha forse prodotto
una strage? No, è avvenuto l’esatto contrario. E questa
smentita indiana agita assai gli stessi media mainstream
impegnati a sostenere la narrazione dominante.

Lo scorso 29 gennaio ha iniziato ad occuparsene il Financial
Times, ripreso in Italia da Il Fatto Quotidiano del 2
febbraio. Ci sono tornati poi sopra il Riformista del 16
febbraio ed il Corriere della Sera del 26. Tutti in qualche
modo stupiti dai dati indiani e dal loro evidente significato.

Ma quali sono questi dati? Questa la sintesi del Fatto:

 «Un calo progressivo e sistematico di morti e contagi da
 inizio anno, così come di ricoveri in terapia intensiva. Il
 trend della pandemia in India – paese da 1,3 miliardi di
 abitanti secondo solo agli Stati Uniti per numero di casi, a
 oggi più di 10,8 milioni – suggerisce che alcune aree
 del Paese stiano andando verso l’immunità di gregge».

Altrettanto netto il Riformista:

 «Quando in Italia iniziava a propagare la pandemia c’era un
 paese che era stato dato per “spacciato” con 100mila contagi
 al giorno di Covid. Parliamo dell’India, uno dei paesi più
 popolosi al mondo e dove si sa, le condizioni igienico
 sanitarie non sono mai state delle migliori. Eppure quel
 paese dall’altra parte del mondo, senza far nulla, sta
 uscendo dall’emergenza».

Da notare il “senza far nulla”: criminali questi indiani, come
si permettono?

Con un pezzo dal titolo assai problematico – India, il rebus
della curva: poca prevenzione ma i contagi restano bassi – un
richiamo al rigore viene dal solerte Corriere:

«Il numero di casi è crollato, come quello dei morti, senza
bisogno di una vaccinazione di massa (orrore, orrore, triplo
orrore!), ciò ha un po’ rilassato, e da qualche giorno c’è un
piccolo gradino verso l’alto». Speriamo salga ancora, sembra
dire il giornalone di Milano…

Ad ogni modo, lo stupore un po’ indispettito dei nostri
inviati al fronte (ogni riferimento a Burioni è tutt’altro che
casuale) non riesce a nascondere i fatti. In particolare,
quello che proprio non si può celare è che il calo dei casi è
strettamente correlato all’immunità naturale, con relativo
sviluppo degli anticorpi, raggiunta da buona parte della
popolazione indiana, evidentemente già venuta a contatto (e
senza troppi danni!) col virus.

A tal proposito gli articoli citati riportano dati davvero
eclatanti e coincidenti tra loro. Scrive ad esempio il Fatto:

 «A dare un’indicazione importante sull’ipotesi dell’immunità
 di gregge sono i test sierologici effettuati a Delhi, Mumbai
 e Pune, città da milioni di abitanti, da cui è emerso che
 “più della metà dei residenti è già stata esposta al virus”.
 Addirittura, aggiunge Ft, nello stato del Karnataka che ha
 oltre 60 milioni di abitanti, ad agosto 2020 i contagi erano
 stati in tutto 31 milioni: colpita dal virus il 44%
 della popolazione rurale e il 54% di quella urbana».

A conferma del significato del caso indiano ci sono poi i dati
che vengono dal Kerala. Scrive sempre il Fatto:

 «Paradossalmente, chi sta osservando una maggiore insorgenza
 di casi è lo stato del Kerala, ovvero quello che inizialmente
 si era più attivato per il controllo del virus».

Dunque, per quanto non voluto, il fatto che il virus abbia
circolato alla grande, migliora di molto le prospettive
dell’India sulla fine dell’epidemia. Ora qualcuno potrebbe
pensare che questa circolazione abbia però prodotto un
massacro. Abbiamo già detto che non è così, ma vediamolo con
le cifre di worldometers.

In India, il tasso ufficiale di mortalità (morti Covid per
milione di abitanti) è 14 volte più basso che in Italia (114
contro 1.657) e 16 volte più basso (114 contro 1.828) rispetto
ai vecchi colonialisti inglesi. Morti ce ne sono stati, ma
assai meno che nei paesi dove si è chiuso praticamente tutto.
Eh, l’efficacia dei lockdown…

Conclusioni

Come abbiamo già scritto, le differenze tra l’India e l’Europa
sono abissali. Non tenerne conto sarebbe perciò un grossolano
errore. Ma un errore ancora più grave sarebbe quello di non
vedere cosa ci insegna l’India, la sua prospettiva di
un’uscita più rapida dall’epidemia, unita ad un tasso di
mortalità enormemente più basso.

Almeno tre le considerazioni che si impongono.

In primo luogo, è ragionevole pensare che ciò che vale per
l’India valga probabilmente anche per il grosso del Terzo
Mondo. Ed il modesto sviluppo del Covid in Africa sembra
confermarcelo. Bill Gates si dia dunque una calmata, che il
continente nero può fare volentieri a meno dei suoi vaccini.

In secondo luogo, lo straordinario risultato dell’India è
dovuto almeno in parte ad un’età media molto bassa, dove gli
over 65 sono solo il 6% della popolazione e gli under 25
arrivano invece al 50%. Bene, ma se è qui la ragione della
bassa mortalità, questa banale osservazione ci fa capire quale
sia veramente la fascia di popolazione da proteggere. Questa
considerazione dovrebbe valere anche da noi, suggerendo misure
mirate, opposte al confinamento generalizzato fin qui
perseguito.

In terzo luogo, e questo è il punto più importante, l’India ci
conferma in maniera plateale come il ricorso ai lockdown
variamente declinati sia non solo inutile, ma probabilmente
dannoso. Un modo per non venirne più fuori. Ma forse è proprio
questo che si vuole…
L’INDIA NAZIONALISTA CONTRO
IL GRANDE RESET di A. Vinco

L’India nazionalista contro il Grande Reset occidentale (La
dottrina Jaishankar)

Subrahmanyam Jaishankar, ministro degli esteri indiano, figlio
di un accademico specializzato sul pensiero strategico
nell’Indo-Pacifico, è stato ambasciatore in Cina dal 2009 al
2013 e poi negli Usa sino al 2015, dopo una lunga carriera
diplomatica che ha veduto la sua permanenza in Russia,
Giappone, Corea del Sud, Europa. Nel libro da poco pubblicato,
“The India Way: strategies for an Uncertain World” (settembre
2020), una via per l’India, vi sono tre fondamentali
orientamenti strategici che proviamo a mettere sotto la lente
di ingrandimento. Infine azzardiamo una lieve disamina del
limite strategico di Jaishankar.

L’Asia al centro: la bilancia di potenza

Jaishankar è un fine geopolitico, il suo maestro pare essere
Karl Hashofer, grande mentore del gerarca nazista Rudolf Hess.
A differenza della frazione nazista neo-prussiana e
russofobica, affermatasi dal giugno del 1941, Haushofer – come
Schmitt – teorizzava l’alleanza continentale eurasiatica
contro la talassocrazia capitalistica angloamericana. Si sta
realizzando un mondo più multipolare, con un maggiore
dispiegamento della potenza e con un raffreddamento del
vecchio concetto di alleanza strategica. Maggior
multipolarismo e minor multilateralismo: sarà la bilancia di
potenza, militaristica e geopolitica, il principio operativo
della nuova civiltà multipolare, non la retorica della
sicurezza collettiva né il consenso pseudodemocratico dei
popoli. Jaishankar ha scritto questo saggio contemporaneamente
all’affacciarsi sulla scena mondiale della Rivoluzione
mondiale Covid-19; risponde indirettamente a quanti, come
Schwab, fondatore e presidente del WEF, teorizzano il
principio del Grande Reset e del governo globalista elitista
della quarta rivoluzione industriale. Jaishankar, che resta di
scuola prussiana, nota che l’ascesa della Cina Socialista sul
piano della bilancia globale è un vero e proprio assalto al
potere mondiale del capitalismo digitale e dell’elitismo.
“L’ascesa di una nuova superpotenza è per sua natura un evento
distruttivo per qualsiasi ordine mondiale”, scrive il ministro
degli esteri indiano. La Cina Socialista, a differenza
dell’Urss, è ben più difficile da far corrispondere con un
ordine mondiale a guida occidentale e secondo il Nostro il
conflitto è di civiltà (Asia gialla contro occidente razzista
bianco) oltre che ideocratico (socialismo nazionale asiatico
contro capitalismo digitale). Nella relazione tra Usa e Cina
degli ultimi venti anni, “gli Usa hanno guerreggiato senza
vincere, la Cina ha vinto senza combattere”. Washington, la
potenza egemone, avrebbe dovuto negoziare con la potenza
ascendente circa 10 anni fa, ora è per Jaishankar troppo
tardi, la centralità geopolitica e geoeconomica è di nuovo
rientrata in Asia dopo secoli, dall’inizio della Rivoluzione
industriale. L’euroccidente è ormai periferia globale, l’Asia
è di nuovo al centro. Senza la forza lavoro asiatica, la
Silicon Valley sparirebbe. Fallì il progetto panasiatico del
Giappone militarista e fascista verso tale direzione, è andato
invece in porto quello della Cina Socialista laburista.

Antagonismo tra globalizzazione e sovranismo

Jaishakankar parla di “una drammatica rinascita del
nazionalismo”. E’ significativo, però, che il Nostro inquadra
nella categoria di “nazionalismo” l’India di Modi, la Cina
Socialista confuciana e il Giappone shintoista, che starebbero
dalla stessa parte del tavolo. Drammatica, in quanto provoca
il risentimento xenofobo del populismo patrimoniale
occidentale. In questo ambito, “nazionalismo” non significa
ciò che in Occidente si definisce “sovranismo”; anzi,
“sovranismo” è nella visione del geopolitico di Nuova Delhi la
retroguardia della storia, il tentativo strategico di
arrestare il mutamento della gerarchia della bilancia mondiale
di potenza. Il “sovranismo” occidentale è perciò la reazione
dell’Occidente privilegiato a tale riequilibrio strategico di
potenza. Le stesse sinistre progressiste occidentali note per
la loro politica di potenza militaristica rappresentano per il
Nostro una reazione globalista anti-asiatica e razzista. Il
globalismo elitista del Grande Reset è dunque nemico del
Multipolarismo come e forse più del sovranismo populista.
Contro la logica della privatizzazione ultraliberista e delle
multinazionali, contro la globalizzazione transumanistica
della Silicon Valley, Jaishankar, ascoltato consigliere di
Modi, teorizza dunque la versione domestica dei nipponici
grandi colossi di Stato (zaibatsu) e il nazionalismo
antimperialista, antieurocentrico e antioccidentale. Questo
sul piano strategico, vediamo riguardo al decisivo momento
tattico cosa ci dice.
La tattica indiana: il Grande Riequilibrio contro il Grande
Reset

Jaishankar non prevede comunque una crisi definitiva della
globalizzazione, ma prevede un conflitto continuo tra
sovranisti e globalisti senza che prevarrà in definitiva
nessuno dei due schieramenti. Il geopolitico considera l’Indo-
Pacifico il nuovo centro del mondo: nel 2017 Donald Trump
ribattezzò l’Us Pacific Command Indo-Pacific Command,
Jaishankar scrive che i puristi e i geopolitici attribuiscono
la formula a Karl Haushofer, stratega tedesco degli anni
Trenta, formula perciò estranea alla scuola geopolitica
angloamericana. Indo-Pacifico non è solo un concetto
strategico, ma una direzione millenaria culturale e economica.
La tattica indiana si fonderà sull’abbandono del dogma del
“non allineamento” a vantaggio del “multi-allineamento”,
nonostante ciò il Nostro sembra propendere per un allineamento
fluido con Tehran – coinvolto nel progetto del porto di
Chabahar che ha subito messo in allerta Washington -, Mosca e
Tokio. Le priorità, per Nuova Delhi, sono creare un’Asia
stabile, poiché sarà “l’Asia multipolare a guidare il mondo
futuro multipolare” e attrarre capitali e tecnologie
internazionali in India, come è avvenuto con la
modernizzazione cinese negli ultimi decenni. L’Asia dello
Stato politico e tecnologico sovrano lancia così la sfida, in
epoca Covid-19, al Grande Reset del globalismo progressista
delle sinistre gender occidentali e al sovranismo
patrimoniale. Non bastando la Cina, anche Giappone e India
sembrano voler uscire dal perimetro di sicurezza occidentale.

I tre limiti nella visione di Jaishankar

   1. Egli non vede nel suo effettivo peso la potenza
      geopolitica panrussa: il presidente VVP, guida mondiale
      della guerra al terrorismo e alleato del presidente
      baathista siriano Bashar Al Asad, ha messo poco tempo fa
      all’angolo i globalisti elitisti che volevano ridurre la
      Russia a piccola potenza regionale. Ora è di certo
determinato a affrontare i sionisti Biden/Harris che
      vorrebbero scatenare una nuova guerra ibrida contro
      Mosca.
   2. Egli sembra non vedere affatto, in questo nuovo ordine
      multipolare, l’offensiva islamica. Per ora, il leone
      dell’Islam è il presidente turco Erdogan, ma non va
      escluso un nuovo protagonismo iraniano.
   3. Jaishankar si è affrettato, in questi giorni, a fare una
      serie di retweet di messaggi adulatori di Modi verso la
      Sionista indoamericana Harris. In alcuni punti, il
      ministro degli esteri indiano, come visto, dà per cosa
      fatta l’ascesa cinese al primato mondiale, in altri ci
      dice che la contesa sino-americana “sarà lunga e
      duratura”. Questo si giustifica di certo alla luce della
      sua    concezione     tattica     e   flessibile     del
       “multiallineamento”, ma Jaishankar non dovrebbe
       dimenticare che l’India potrebbe in queste condizioni –
       con il Giappone sempre più orientato verso una parità
       strategica antioccidentale con Pechino (1) – diventare
       zona sotto assedio permanente di un nuovo fronte
       panasiatico guidato da Xi Jinping. La controversia sino-
       indiana sul Kashmir degli ultimi mesi dovrebbe allertare
       Nuova Dehli e il ministro degli esteri Jaishankar. Il
       multiallineamento di Nuova Dehli dovrebbe tornare a una
       reciprocità tattica con Pechino (2), senza abboccare
       alla pericolosa via che la Sionista Harris tenterà di
       aprire nelle relazioni indoamericane. L’asse Nuova
       Dehli-Casa Bianca- Tel Aviv che la Harris – nuova star
       del Giudaismo Mondiale (3) -vorrebbe imporre al ministro
       degli esteri Jaishankar potrebbe essere la tomba di ogni
       afflato     di   risorgimento      sovrano    indiano,
       antiamericanista e antioccidentale.

Note

       https://www.japantimes.co.jp/news/2020/09/26/national/yo
       shihide-suga-xi-jinping-japan-china-talks-2/;
https://www.japantimes.co.jp/news/2020/09/20/national/po
     litics-diplomacy/china-japan-taiwan-tsai-ing-wen-
     yoshihide-suga/;
     https://thediplomat.com/2019/01/the-art-of-the-balance-j
     apan-china-and-the-united-states/
     https://thediplomat.com/2019/06/modi-2-0-and-indias-comp
     lex-relationship-with-china/
     https://www.timesofisrael.com/douglas-emhoff-kamala-harr
     is-husband-is-the-democrats-newest-jewish-star/;
     https://forward.com/schmooze/458082/biden-harris-emhoff-
     win-milestone-for-interfaith-jews-families/

INDIA:   LA  RIVOLTA  DEGLI
“INTOCCABILI” di Daniela Di
Marco

[ 5 aprile 2018 ]

L’altro ieri si sono verificati scontri e disordini in diversi
stati del continente indiano, scontri con le forze dell’ordine
che hanno portato alla morte di nove persone, anzi, di nove
Dalit, mentre centinaia sono stati feriti.

Oltre che a Nuova Delhi, gli scontri più grossi si sono
verificati nel Madhya Pradesh con 6 morti; nell’Uttar Pradesh,
due morti; nel Rajasthan e nel Punjab con un morto ciascuno;
ma la tensione resta alta anche negli Stati di Kerala, Punjab,
Bihar, Orissa.
I Dalit, quelli che noi chiamiamo “intoccabili” — ma la
traduzione corretta del termine è “oppressi” — sono scesi in
strada contro una sentenza della Corte Suprema del 20 marzo
scorso.
Questa, ritenendo che la Legge sulla prevenzione delle
atrocità contro caste e tribù classificate (Scheduled Caste
and Scheduled Tribes Prevention of Atrocities Act, del 1989)
fosse abusata, ne ha cambiato due disposizioni chiave,
eliminando l’arresto immediato e introducendo la libertà
provvisoria di un individuo o gruppo di casta alta, compresi
impiegati di governo o poliziotti, accusati di un grave
crimine (le “atrocità” del testo di legge) contro i gruppi
protetti dalla costituzione come appunto i Dalit o gli Adivasi
[gli aborigeni, NdR]
Immediata è stata la reazione dei gruppi organizzati della
comunità Dalit.
Il Bharat Bandh (sciopero generale) da loro lanciato si è
diffuso in tutto il paese e la protesta scaturitane non sarà
sedata facilmente, perché la SC/ST Act è considerata dalla
comunità una potente protezione contro la discriminazione di
casta, inoltre negli ultimi anni proteste, scioperi e rivolte
si sono moltiplicati, i Dalit non tollerano più lo
sfruttamento e il dominio delle caste elevate e sono sempre
più decisi a far valere i loro diritti.
Secondo recenti dati del governo indiano, a fronte di una
popolazione totale di 1,2 miliardi di persone, i Dalit sono
più di 200 milioni. Vivono ai margini della società, esclusi,
emarginati, soprattutto nelle campagne.
Il sistema delle caste è antichissimo, trova la sua
spiegazione in un antico mito dei testi sacri hindu, secondo
cui l’origine dell’uomo era attribuita al Dio Brahma, dalla
cui testa sarebbero nati i Brahmin (sacerdoti), gli Kshatriya
(guerrieri) dalle spalle, i Vaisya (agricoltori, mercanti,
allevatori) dalla pancia, e gli Shudra (servi) dai piedi. Al
di fuori di queste quattro caste, sono i Paria, fuori casta,
quindi contaminati, impuri, intoccabili. La loro vita è
dominata dall’altrui pregiudizio, vivono banditi dai templi,
dai luoghi pubblici, dalle case delle caste superiori. Essendo
vietato ogni contatto hanno subito per migliaia di anni
discriminazioni, soprusi, vivendo in povertà estrema.
Dopo anni di lotte e lunghe battaglie, la Costituzione indiana
ha abolito le regole del sistema castale nel 1950, decretando
quindi la parità degli intoccabili di fronte alla legge, con
politiche di sostegno e attraverso un sistema di “quote” che
impongono l’accesso alle scuole, alla vita pubblica e politica
da parte dei Dalit, non è un caso che oggi il presidente
dell’India sia un Dalit, Ram Nath Kovind, del partito
nazionalista hindu (Bharatiya Janata Party , BJP).
Come è facile immaginare, però, la discriminazione dei Dalit è
ancora profondamente radicata nella società, l’antica dottrina
sacra che relega ai margini della società gli intoccabili,
escludendoli, è più forte della legge di stato: il sistema
castale è considerato sacro e immutabile, abolirlo nella
realtà equivarrebbe a sovvertire “l’ordine dell’universo”.
Per questo l’ultimo Bharat bandh (negli ultimi anni ce ne sono
stati diversi e sempre si sono conclusi con scontri e anche
morti), per diffusione e intensità, ha spaventato il governo
che si è affrettato a presentare una petizione alla Corte
Suprema chiedendole di rivedere i cambiamenti apportati alle
leggi contro le “atrocità” verso i più deboli.
* Fonte: Campo Antimperialista
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