Dominique Lapierre India mon amour - Traduzione di Elina Klersy Imberciadori

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Dominique Lapierre
 India mon amour

 Traduzione di Elina Klersy Imberciadori

             ­­­ilSaggiatore
India mon amour
A James, Gaston, François,
Gopa, Kamruddin, Papu, Sabitri, Sukeshi, Wohab,
    e a tutte le luci del mondo che ho avuto l’onore
di avere a fianco nella lotta contro la fame in India
                           e che mi hanno dato tanto.
Per i miei amici lettori

India mon amour racconta, attraverso scritti e immagini,
la mia straordinaria storia d’amore con l’India. Già evo-
cati in una precedente raccolta di testi, intitolata Mille
soli, gli episodi che parlano della mia crociata umani-
taria a favore dei più bisognosi si arricchiscono qui di
altri particolari. E intendono essere un omaggio al co-
raggio, all’amore e alla speranza di tutti gli eroi ai quali
dedico questo libro, come a tutti coloro che condividono
il mio impegno di solidarietà per fare in modo che
questo mondo sia un po’ più giusto.

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«Tutto ciò che non viene donato
va perduto»
            Proverbio indiano
Prologo

Nella campagna del Bengala.
   Una bambina camminava a fatica sulla piccola diga
che separava due campi di riso. Portava una borsa piena
di libri e di quaderni. Tornava da scuola, ed ero sicuro
che dall’alba non aveva mangiato più niente. Mi rivolse
un bel sorriso e mi salutò con la mano.
   Mi frugai in tasca sperando di trovarvi qualcosa da
offrirle. Ne estrassi soltanto un biscotto e glielo diedi.
Mi ringraziò come se le avessi messo in mano la luna,
poi riprese il cammino.
   La seguii con lo sguardo.
   Qualche minuto dopo incrociò un cane scheletrico.
Vidi che la bambina spezzava in due il biscotto e ne
dava la metà all’animale.
   L’India mi aveva dato una bellissima lezione di con-
divisione.

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PRIMA PARTE

Sulle tracce del più grande Impero
          di tutti i tempi
Avevano appena portato il dessert, una magnifica tarte
tatin. Il mio ospite si tolse gli occhiali dalla montatura
di tartaruga e mi contemplò con il suo sguardo da
miope.
    «E ora, Dominique, quale argomento storico sceglierà
per il prossimo libro con il suo amico Larry Collins?»
    Quell’uomo dalla voce calda era stato il mio maestro
e il mio modello nei quattordici anni in cui avevo lavo-
rato come inviato speciale del settimanale Paris Match.
Gli articoli e le corrispondenze di Raymond Cartier rac-
contavano ogni settimana gli avvenimenti mondiali con
un’ampiezza di visione e una dovizia di informazioni che
appassionavano milioni di lettori. Aveva apprezzato il
successo di Parigi brucia? e approvato la mia decisione di
lasciare Paris Match per cimentarmi in un’avventura let-
teraria e storica come quelle che lui stesso amava vivere
tra le sue grandi inchieste su temi di attualità.

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Dopo aver raccontato la guerra civile spagnola in
… Où tu porteras mon deuil, avevo appena pubblicato con
Collins Gerusalemme! Gerusalemme! Le nostre lunghe ri-
cerche sulla nascita dello stato di Israele ci avevano
messo ko.
    «Lei sa, Raymond, che sono pochi gli argomenti ai
quali valga la pena dedicare quattro anni della propria
vita» dissi. «Avrebbe un’idea da suggerirci?»
    Cartier aggrottò le sopracciglia e si avvicinò come per
farmi una confidenza.
    «Mio caro Dominique, quando avevo la sua età andai
in un villaggio sperduto nel Nord dell’India a intervistare
un ometto seminudo che aveva messo in ginocchio uno
dei più potenti imperi di ogni tempo. Si chiamava Mo-
handas Gandhi. Perché lei e Collins non raccontate la
storia dell’India attraverso il destino di quest’uomo?
All’epoca, l’India rappresentava un quinto dell’umanità.
Il 15 agosto 1947, quando divenne indipendente, è certa-
mente uno dei giorni più importanti della storia mon-
diale. Ciò accadeva venticinque anni fa. Gandhi è morto,
ma molti protagonisti di quella straordinaria pagina di
storia devono essere ancora vivi. Li potreste sicuramente
ritrovare. Se avessi la sua età, Dominique, volerei in India
stasera stessa!»
    Caro Raymond, non ho mai potuto ringraziarla come
avrei voluto per il suo impagabile suggerimento, perché
purtroppo lei ci ha lasciati poco dopo quella serata. Deve
sapere, però, che dette l’avvio a una prodigiosa storia

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d’amore con un paese che un giorno chiamerò «mia India
diletta».

L’India! Un paese continente, un immenso mosaico di
popoli, razze, caste, religioni, culture. Un paese di un
miliardo e duecento milioni di abitanti che vivono in
seicentocinquantamila villaggi, dove si parlano più di
settecentocinquanta lingue. Dove si adorano venti mi-
lioni di divinità. L’India! La promessa di un perpetuo
stupore, di uno sbalordimento continuo, di un pullulare
di spettacoli in cui il sublime si mescola talvolta
all’atroce, ma dove scoprirò che la bellezza si impone
ovunque e sempre. Un paese che susciterà spesso la mia
rivolta, ma che non smetterà mai di ammaliarmi, di
sconvolgermi, di rivelarmi nuovi tesori, di riempirmi di
nuove gioie. Un paese che richiederebbe dieci vite per
penetrarne tutti i misteri.
   L’avventura indiana in cui mi proiettò l’invito del mio
vecchio maestro di Paris Match continuerà tutta la vita.
Ed è a Londra che ebbe inizio, in un modo alquanto sin-
golare. Quella mattina d’ottobre corro alla stazione Vic-
toria per prendere un treno diretto verso il Sud dell’In-
ghilterra, dove devo intervistare Lord Mountbatten, l’ul-
timo viceré dell’Impero britannico delle Indie. Ma in
Conduit Street mi blocco davanti alla vetrina del conces-
sionario Rolls-Royce. Il coupé 8 cilindri Corniche verde
pallido che vi è esposto è sicuramente una delle vetture
più care al mondo: quarantamila sterline, il prezzo di una

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decina di Alfa Romeo. Ma la bellezza di quella macchina
mi fa cadere in estasi. Per lunghi minuti resto come ipno-
tizzato davanti alla calandra cromata che ricorda il fron-
tone di un tempio greco.
   Una curiosità irresistibile mi spinge nel salone. Proprio
come si può aver voglia di sfiorare la superficie cesellata
di una pietra preziosa o di accarezzare la spalla nuda di
una bella donna, ho una gran voglia di passare le mani
sulla carrozzeria di quel gioiello. Aspetto che il venditore
inizi a parlare con un cliente, poi mi metto a toccare dol-
cemente le ali della statuina che si erge a prua. Faccio più
volte il giro della macchina prima di avere il coraggio di
sedermi all’interno. Che emozione quando la portiera si
richiude, lasciandomi solo, quasi sdraiato, stupefatto
dalla ricchezza dell’abitacolo tappezzato di pelle e di
legno prezioso. Sento qualcosa di sovrannaturale nel toc-
care il piccolo volante di legno, nel premere il piede
sull’acceleratore. Avvolgo nel palmo della mano il po-
mello del cambio di olmo massello, maneggio il comando
dell’aria condizionata, quello della radio con otto alto-
parlanti, quello del regolatore di velocità. Ribalto le due
tavolette intarsiate incastrate nello schienale dei sedili
anteriori, a uso dei passeggeri seduti dietro. Con un co-
mando elettrico regolo il mio sedile in tutte le posizioni
possibili. Ben sistemato in quella specie di poltrona av-
volgente, respirando a pieni polmoni l’inebriante odore
della pelle, contemplo attraverso il parabrezza il lungo
cofano affilato, in fondo al quale si slancia la leggiadra

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statuina alata. Trasognato, immagino il silenzio del mo-
tore, un silenzio così perfetto da far sostenere che l’unico
rumore all’interno di una Rolls-Royce sia il tic tac dell’oro-
logio.
    A quel punto mi viene un’idea pazzesca. E se portassi
quella meraviglia in India per scoprire insieme a lei i se-
greti del paese-continente dove mi aspetta un’inchiesta
così impegnativa? Dopo tutto le Rolls-Royce erano le
macchine preferite dai maharaja. Sarebbe stato fantastico
riportare una delle loro ultime incarnazioni sulle strade
dell’India odierna! Una follia, certo, ma per quanto esor-
bitante il suo prezzo corrisponde all’acconto che ho rice-
vuto dalla casa editrice britannica presso la quale uscirà
il nostro affresco indiano.
    Prima di strapparmi dalla moquette spessa come un
piumino e annunciare la notizia al venditore, ho l’avver-
tenza di aggiustarmi la cravatta e di darmi una spolvera-
tina al blazer. Benché non possieda né bombetta né om-
brello per rafforzare la mia credibilità, sono sicuro che
l’esibizione del libretto degli assegni mi permetterà di
comprare quel gioiello. Il venditore mi squadra con con-
discendente cortesia prima di rivolgermi un glaciale
«Good afternoon, Sir, what may I do for you? Buongiorno,
signore, posso aiutarla?». È un uomo magro sulla cin-
quantina, dal viso affetto da couperose. Porta una camicia
bianca con il colletto duro, un gilet nero sotto una giacca
anch’essa nera e pantaloni grigi a righe. Fa pensare al
maggiordomo di un castello più che a un venditore di

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automobili. C’è da dire che le macchine che vende non
sono per comuni mortali. L’austerità del suo abbiglia-
mento sottolinea appunto la differenza. Indico con non-
curanza l’oggetto delle mie brame.
   «Vorrei comprare quella macchina» dico con il mio più
bell’accento british.
   Il venditore emette un «oh! oh!» di stupore. Il suo
pomo d’Adamo si mette a ballare su e giù.
   «Lei vorrebbe comprare quella macchina?» si stupisce
calcando fortemente ogni sillaba come se cercasse di con-
vincersi di aver sentito bene.
   «Esatto» rispondo.
   Emette ancora diversi «oh! oh!» sconcertati. Chiara-
mente è la prima volta che una persona dall’aria così gio-
vane e sprovvista di bombetta, ombrello e colletto duro
gli dice che vorrebbe comprare una delle sue macchine.
Si stropiccia più volte il mento, poi mi rivolge una do-
manda che sul momento mi pare assurda.
   «Sir, in quale paese pensa di portarla?»
   Deve avere avvertito una certa intonazione straniera
nel mio inglese ricercato.
   «In India!»
    Gli occhi del venditore si fanno rotondi come palle da
biliardo. Se gli avessi risposto «Sulla luna» probabilmente
non sarebbe rimasto più sorpreso.
   «In India?» ripete sbalordito.
   C’è un momento di pesante silenzio. Abbassa la testa
come se l’avessi colpito. Gli ho confuso le idee. Non ha mai

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avuto a che fare con un cliente del genere. Nel suo salone
si comprano macchine per fare la spola tra Londra e qualche
castello dello Yorkshire o delle Highlands. E ora un tipo
stravagante gli dice che vuole portarne una in India!
    «Ha detto proprio “India”?»
    Nella sua voce c’è un tremolio in cui mi sembra di
cogliere una punta di nostalgia. Confermo con un cenno
del capo. Scuote più volte il suo.
    «In tal caso, Sir, devo consultare il nostro responsabile
delle esportazioni. Solo lui potrà assumersi la responsa-
bilità di acconsentire alla sua richiesta.»
    Così dicendo scompare in un ufficio vicino. Dopo
qualche secondo lo sento spiegare al telefono: «Nel sa-
lone c’è un gentleman che desidererebbe acquistare una
Corniche per portarla in…» la voce gli si strozza, poi ri-
prende «per portarla in India… Credo, Sir, che una simile
richiesta giustifichi il suo intervento».
    Qualche minuto dopo vedo arrivare un uomo piccolo
e grassottello con dei baffetti alla Chaplin, anche lui ve-
stito di nero. Al taschino del panciotto gli brilla una ca-
tena d’oro.
    «Mi dicono che le piacerebbe comprare una delle no-
stre vetture per portarla in…» Al pari del venditore in-
ciampa sulla parola India, come se associare una Rolls-
Royce a quel paese fosse quanto mai sconveniente. «Il
problema, Sir, è che in India non abbiamo più un rappre-
sentante per seguirla» continua. «Se dovesse capitarle un
guasto meccanico, sia pure insignificante, dovrebbe spe-

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dire la macchina fino in…» Mi fa cenno di seguirlo in una
stanza, dove sulla parete è appesa una carta del mondo
costellata di punti rossi che rappresentano i concessionari
Rolls-Royce. Esita e cerca il punto rosso più vicino al sub-
continente indiano. «Sir, dovrebbe spedire la macchina
fino in Kuwait.»
   A occhio e croce, sulla carta il Kuwait deve essere al-
meno a tremila chilometri da Nuova Delhi.
   «Credevo che una Rolls-Royce non avesse mai un
guasto meccanico» osservo sorpreso.
   «Certo, ma una disgrazia può sempre accadere» ri-
batte l’omino abbassando gli occhi. «E poi c’è anche la
manutenzione.»
   «Vuol dire il cambio dell’olio?»
   «Il cambio dell’olio, l’ingrassaggio, la pressione delle
gomme, insomma, tutta una serie di piccoli controlli e
messe a punto».
   Faccio fatica a rimanere serio.
   «Mi sembra che un qualunque garage indiano do-
vrebbe essere in grado di cambiare l’olio e di fare le di-
verse operazioni di routine. Per non parlare della pres-
sione delle gomme: l’aria di Nuova Delhi deve essere
adatta agli pneumatici di una Rolls-Royce quanto quella
di Londra. Non le pare?».
   A quest’ultima osservazione i volti dei miei interlo-
cutori si raggelano. Una simile impertinenza era in-
degna di un aspirante proprietario di una vettura come
la Rolls-Royce. Lo leggo nel loro sguardo di riprova-

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zione. Il responsabile delle esportazioni trova una via
d’uscita.
    «Sir» dichiara «consulterò il direttore del nostro ser-
vizio assistenza. Lui solo potrà dirci se è ragionevole
portare una delle nostre auto in quella parte del mondo.
Potrebbe avere la cortesia di ripassare domani a fine
mattinata?»
    Spiego che quel giorno stesso devo incontrare Lord
Mountbatten per un’intervista riguardante il mio pros-
simo libro.
    «Vorrei quindi sapere fin d’ora il parere del direttore
del servizio assistenza» dico con fermezza.
    Né il nome dell’ultimo viceré delle Indie né il fatto che
abbia dichiarato la mia qualità di scrittore producono il
minimo effetto sull’uomo grassottello e sul suo accolito
con il colletto duro. La Rolls-Royce rende conto solo a Dio.
Il responsabile delle esportazioni acconsente nondimeno
a chiamare il collega dell’assistenza. Vedo arrivare un
terzo personaggio anche lui di nero vestito. Distolto dalle
sue occupazioni, appare di pessimo umore. L’uomo con i
baffetti gli riassume la situazione. Come mi aspettavo,
storce il naso alla parola «India», tanto da farsi scivolare
gli occhiali dalla fronte. I due uomini battono in ritirata
verso l’ufficio vicino, lasciandomi solo con il venditore.
    Una mezz’ora dopo riemergono entrambi dal loro
conciliabolo e mi raggiungono davanti all’oggetto della
mia concupiscenza.
    «We are really sorry, Sir. Siamo molto spiacenti, signore»

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dichiara con la coscienza tranquilla di un padre che vuole
evitare alla figlia cattive frequentazioni. «We cannot sell
you this motorcar. Non le possiamo vendere questa mac-
china.»
   Incasso il colpo con tutta la dignità di cui sono capace.
Poi, con la rabbia in corpo, corro alla stazione Victoria.
   Scopo del mio incontro con Lord Mountbatten è in-
terrogarlo sul suo primo viaggio nelle Indie quando, nel
1921, in qualità di aiutante di campo del cugino principe
di Galles, aveva percorso in lungo e in largo il gioiello
della corona imperiale, giocando a polo con i maharaja,
cacciando tigri e pantere nelle foreste, cenando in alta
uniforme sulle terrazze dei palazzi illuminati. Era stato
nel corso di quel portentoso viaggio che il giovane Louis
aveva conosciuto la bella e ricca Edwina, sua futura
sposa, durante una serata di gala dal viceré. Nel suo
diario aveva raccontato i momenti salienti di quella fa-
volosa scoperta dell’Impero della bisnonna Vittoria. Da
uomo meticoloso e organizzato, aveva raccolto appunti
e riflessioni in un volume rilegato in pelle rossa, che
accetta di affidarmi perché ne possa ricopiare gli episodi
più degni di nota. Tornato quella notte a Parigi, mi im-
mergo in quell’elettrizzante libretto. Quale non è il mio
stupore nel leggervi, in data 21 aprile 1921, il racconto
di una caccia alla tigre dal maharaja di Mysore.
   «Sua Altezza ha fatto trasformare in break da caccia
una delle sue numerose Rolls-Royce per permettere agli
invitati di sparare alle belve dalla piattaforma più con-

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fortevole che si possa desiderare» aveva scritto Mount-
batten. «Questa macchina è un’autentica meraviglia. Su-
pera i corsi d’acqua, scende e si arrampica sulle sponde
più ripide senza che si debba nemmeno cambiare marcia,
attraversa la giungla ridendosela degli ostacoli. Ah, se ci
fosse un rappresentante della Rolls-Royce! Come ne sa-
rebbe stato fiero!»
    Quella descrizione mi manda in solluchero. Dimostra
che una Rolls-Royce può raccogliere tutte le sfide e
aprirsi una via laddove non ce ne sono. Che bella le-
zione per i «beccamorti» del salone di Londra! Foto-
copio quella pagina indimenticabile e la metto religio-
samente nel portafoglio.
    Quando torno nella capitale britannica, vado subito al
salone della Rolls-Royce. La «mia» Corniche verde pal-
lido è sempre allo stesso posto in vetrina.
    Il venditore con il colletto duro mi riconosce all’istante.
Lo prego di chiamare il responsabile delle esportazioni.
Appena arriva, gli tendo la pagina fotocopiata del diario
dello zio della regina d’Inghilterra.
    «Questo testo, signore, lo ha scritto uno dei suoi più
illustri compatrioti» dico, felice di prendermi la mia ri-
vincita. «Mi permetta di fargliene omaggio. Lo legga.
Spiega perfettamente perché lei non abbia ritenuto pru-
dente vendermi una delle vostre macchine. Temo infatti
che le Rolls-Royce di oggi non siano all’altezza di quelle
di ieri.»

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