COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo

Pagina creata da Valentina Bruni
 
CONTINUA A LEGGERE
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
COVID-19:    Un’analisi del
rischio   di   contagio nei
diversi luoghi e strategie
“smart” per mitigarlo
written by Mario Menichella | 6 Ottobre 2021
Nonostante che gli articoli scientifici         sul   COVID-19
pubblicati nel corso di un anno di pandemia siano ormai
dell’ordine di oltre 100.000, purtroppo da un’analisi veloce
di alcuni dei principali database scientifici (PubMed,
medRxiv, bioRxiv, etc.) usando parole chiave tipo “Comparison
risk SARS-CoV-2 Covid infection different places” – o similari
– non sembrano esservi, in letteratura, studi che affrontino
in maniera comparata il rischio del contagio nei vari luoghi
(casa, scuola, ufficio, negozi, mezzi di trasporto, etc.) né,
tantomeno, che aiutino a capire la potenziale gravità della
malattia se l’infezione è contratta in un luogo piuttosto che
in un altro. Infatti, l’approccio più naturale al problema è
quello basato sul “contact tracing”, che avrebbe però
richiesto la raccolta di una grande mole di dati (parte dei
quali tramite un’app di tracciamento via GPS) e l’incrocio con
una vastità di informazioni personali che nei Paesi
occidentali – Italia in testa – è ostacolata dalla normativa
sulla privacy. Un altro approccio al problema è quello basato
sulla sieroprevalenza, che è stato usato dall’Istat e dal
Ministero della Salute; ma esso fornisce informazioni solo di
tipo indiretto e comunque non considera i trasporti e la
scuola, né spiega le ragioni per cui si corre un rischio di
contagio maggiore in un luogo piuttosto che in un altro. Il
presente articolo, perciò, vuole essere un tentativo (il primo
a me noto) di affrontare il problema in maniera quantitativa
attraverso un semplice modello del fenomeno, che si basa sui
quattro parametri davvero rilevanti: (1) il volume di un
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
ambiente indoor, (2) il numero di persone che lo occupano, (3)
il tempo che vi si trascorre, (4) il tasso di ricambio
dell’aria. I risultati quantitativi e comparati ottenuti
grazie all’ipotesi semplificativa che le persone indossino la
mascherina (eccetto che in casa) sembrano predire in maniera
molto attendibile i rischi di infezione associati, nel caso
italiano, ai vari tipi di ambienti, trasporti e scuola
compresi (ad es. vi è un perfetto accordo con i rapporti
dell’ISS e dell’Istat per quanto riguarda i luoghi che
risultano essere più a rischio). Infine, entrando nel
dettaglio delle questioni chiave, il presente lavoro illustra
– anche con l’aiuto della vasta letteratura sul tema e di
alcune tabelle riassuntive – le varie strategie idonee nelle
politiche di risposta al Covid-19 per ridurre il numero di
contagi e il rischio di malattia grave, spiegando perché
queste siano per il Paese preferibili a quelle che sono state
adottate nel recente passato dalle Autorità.

Il legame fra dose virale, probabilità di contagio e gravità
della malattia

È più di un anno che si parla della pandemia di Covid-19, ma
gli italiani continuano a chiedersi dove i contagi avvengano
con maggiore probabilità, e dunque quali siano i luoghi da
evitare e/o in cui occorre adottare le maggiori precauzioni.
Si noti che questa è solo una “dimensione” del problema.
Infatti, una seconda “dimensione” è rappresentata dalla
gravità della malattia che il contagiato svilupperà, la quale
è legata – a parità di altri fattori (come ad es. l’età e le
condizioni della persona) – alla “dose” di virus assorbita, in
particolare tramite la respirazione (la letteratura
scientifica peer reviewed sul legame fra dose virale assorbita
e gravità della malattia è accennata nel penultimo paragrafo
del presente articolo). Ciò pone una seconda domanda chiave:
dove rischio di prendermi la forma più grave?

Come ho illustrato anche in un mio precedente articolo [1],
ogni virus ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
nell’ambiente all’interno del fluido corporeo (ad esempio di
una gocciolina emessa parlando), ma è necessaria la presenza
di una cosiddetta “dose virale minima” per produrre realmente
l’infezione, o contagio, negli esseri umani: ad es. sono
sufficienti circa 100 particelle virali nel caso del norovirus
[2] – il virus a RNA responsabile della diarrea – ma tale
quantità minima è diversa da virus a virus. Per il SARS-CoV-2
non è nota esattamente, poiché gli esperimenti in tal senso
non sono considerati eticamente accettabili.

Diversamente, la “carica virale” è un’espressione numerica
della quantità di virus presente in un dato volume di fluido
corporeo (ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). La
carica virale, in pratica, si riferisce al numero di
particelle virali trasportate da un individuo infetto [29].
Quando respiriamo aria infetta – ad esempio perché contenente
goccioline (droplet) con il virus al loro interno – assorbiamo
una certa dose di carica virale, che è data dal prodotto della
carica virale assorbita nell’unità di tempo per il tempo di
esposizione. Dunque, più tempo siamo esposti alla sorgente
(senza adeguate protezioni e precauzioni) e maggiore è la
probabilità di raggiungere la dose virale minima infettante.
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
Figura
1. Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o semichiuso
con aria infetta dal virus e più grande è la dose virale
assorbita da una persona sana, per cui maggiori sono le
probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni. L’uso
della mascherina, se questa è scelta e indossata
correttamente, può abbattere quindi di molto la probabilità di
contagio e, quando anche quest’ultimo si verificasse, la
barriera costituita dalla mascherina permette comunque di
assorbire una dose virale inferiore, riducendo il rischio di
forme gravi di malattia, sempre naturalmente a parità di altre
condizioni. (fonte: elaborazione dell’Autore)

I fattori che determinano il raggiungimento o meno della dose
minima infettante – e dunque la probabilità di contagio da
SARS-CoV-2 – sono però molti e includono, oltre al tempo di
esposizione: (1) se il contagiante è asintomatico o se invece
ha dei sintomi (come ad es. una tosse, che può diffondere una
elevata quantità di goccioline infettive); (2) il
comportamento dell’individuo infetto (respira solo, parla,
starnutisce, tocca oggetti o superfici, etc.); (3) il
comportamento della persona sana (modello di contatto con
persone / cose infette, uso di dispositivi di protezione
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
individuale, etc.); (4) i fattori ambientali (ambiente
chiuso/aperto e, se è chiuso, suo volume, livello di
ventilazione, di ricambio aria, di particolato, etc.).

Inoltre, come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri,
funghi, etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi
quando si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum
facit, ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini
e il concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus.
“Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni
lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono
risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore
di chimica e genomica Joshua Rabinovitz. Dunque, di quante più
volte si eccede la dose infettante minima, tanto più si
rischia di sviluppare una forma grave.

Pertanto, per proteggersi dal Covid-19 – sia dal punto di
vista del contagiarsi o meno, sia di sviluppare una forma
grave della malattia – occorre cercare di prevenire
l’esposizione ad alte dosi di virus (questo secondo importante
aspetto verrà discusso in modo ampio verso la fine di questo
articolo sulla base della letteratura peer reviewed, quindi
per il momento chiedo al lettore di darlo per acquisito). In
effetti, intuiamo tutti facilmente che entrare per pochi
minuti in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il
coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a
quella persona per due ore in treno, e ciò sia dal punto di
vista della probabilità di contagio che, appunto, della
gravità dell’eventuale malattia. Perciò, la durata breve
dell’esposizione – così come l’uso di mascherine e di guanti,
il distanziamento sociale, una corretta igiene, etc. – sono
tutte cose che aiutano a ridurre di molto la dose di virus che
possiamo inalare.
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
Figura
2. Il rischio per una persona (sana e non vaccinata) di morire
per COVID-19 dipende, a parità di altre condizioni, da due
parametri su cui possiamo avere un certo controllo: (1) la
probabilità di contrarre un’infezione e (2) la gravità della
malattia, che sono entrambi legati, oltre ad altri fattori di
rischio (età, comorbidità e carenza di vitamina D), alla dose
virale assorbita, la quale varia da luogo a luogo frequentato
e dipende da una serie di altre variabili, fra cui il
comportamento della persona in questione e quello altrui (in
particolare riguardo all’uso o meno di mascherine), come verrà
discusso in dettaglio nella penultima sezione del presente
articolo sulla base della letteratura peer reviewed. Pertanto,
il rischio in questione può essere rappresentato in due
dimensioni con un semplice diagramma cartesiano, in cui i
luoghi con alta probabilità di contagio ed elevata gravità
della malattia (ovvero con elevata dose virale assorbita) si
collocheranno in alto a destra, mentre quelli con bassa
probabilità di contagio e bassa gravità della malattia (ovvero
con bassa dose virale assorbita) si collocheranno in basso a
sinistra. Dunque, la dose virale assorbita costituisce un
fattore chiave di rischio sul quale possiamo agire. (fonte:
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
elaborazione dell’Autore)

Oltre alla dose virale assorbita, gli altri fattori di rischio
noti che caratterizzano un esito infausto nel COVID-19 sono i
seguenti tre: (1) l’età, dato che ben l’85% delle vittime
italiane hanno più di 70 anni (e circa il 95% delle vittime ha
più di 60 anni); (2) la presenza di comorbidità (anche i pochi
morti italiani sotto i 40 anni – nonché le vittime per
Covid-19 che si osservano fra i vaccinati secondi i dati
forniti da Israele – presentano, nella maggior parte dei casi,
gravi patologie preesistenti: cardiovascolari, renali,
psichiatriche, diabete, obesità [3]); (3) la carenza di
vitamina D (nel sangue), come evidenziato da numerosi studi
nel mondo [4, 5]; l’argomento è stato largamente illustrato in
un mio precedente articolo [4]. Quest’ultimo fattore e la dose
virale assorbita sono dunque i soli fattori sui quali si può
agire.

La domanda “da un milione di euro” sul COVID-19: quali sono i
luoghi più a rischio?

Per quanto l’informazione su quali siano i luoghi più a
rischio per il contagio da SARS-CoV-2 sia ovviamente
preziosissima per i decisori politici e sanitari, la
letteratura a riguardo è in realtà scarsissima e può essere
riassunta agevolmente nelle poche righe di questa sezione.
Mentre, infatti, alcuni studi hanno indagato la trasmissione
del coronavirus in un particolare tipo di luogo (autobus,
ristorante, etc.) ed altri hanno analizzato in modi più o meno
originali i dati epidemiologici raccolti, che io sappia nessun
team di ricerca si è concentrato sul confronto quantitativo
del rischio di contagio nei diversi possibili luoghi (questo
non vuol dire necessariamente che non esistano studi
effettuati dalle Autorità sanitarie in qualche altro Paese, ma
semplicemente che non ne ho trovati sui database degli
articoli scientifici pubblicati e su quelli dei preprint, né
ho mai letto news su pubblicazioni a riguardo – eccetto quelle
che citerò in questo articolo – pur seguendole quotidianamente
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
già da prima dell’arrivo in Italia della pandemia).

Per capire il motivo di quest’assenza (o almeno, ripeto,
apparente assenza) di studi peer reviewed pubblicati, occorre
comprendere come si determina in realtà il “rischio” di un
luogo rispetto a un altro riguardo la possibilità di
contagiarsi. Il modo più semplice può sembrare, in teoria,
quello epidemiologico: osservando, cioè, quante persone si
contagiano in un certo posto (ad esempio, a casa), quante in
un altro, e così via. Ciò lo si potrebbe fare tramite un’app
di tracciamento che sfrutti la geolocalizzazione GPS (ma
l’Europa vi ha rinunciato) oppure analizzando la catena dei
contagi caso per caso. In questo modo si può stilare una
classifica dei posti in cui ci si contagia di più.

Questa la troviamo “abbozzata” in un rapporto del gennaio 2021
dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), intitolato “Apertura
delle scuole e andamento dei casi confermati di SARS-CoV-2: la
situazione in Italia” [6]: secondo questo rapporto, i primi
tre contesti di trasmissione nel nostro Paese sono,
nell’ordine, il contesto familiare/domiciliare, quello
sanitario/assistenziale e quello lavorativo (tradotto in
luoghi: casa, ospedali/RSA e uffici). Guarda caso, si tratta
proprio dei tre luoghi dove si passano grandi quantità di
tempo, sebbene la casa si distingua dagli altri due perché non
vi si usano le mascherine e un ospedale si distingua, invece,
per il gran numero di infetti da Covid-19 di solito in esso
presenti.

Tuttavia, quello dell’ISS, non fornendo informazioni
quantitative ma solo una “classifica” – e non esprimendo
quest’ultima la percentuale di casi di contagio rispetto alla
popolazione esposta che si trova in quei luoghi, bensì solo la
percentuale di contagiati totali che si sono infettati in quel
determinato contesto – non è un vero e proprio confronto. In
pratica, è un po’ come se dicessimo che un vaccino A è più
pericoloso di un vaccino B solo confrontando il numero di
morti associati e non, invece, i rispettivi tassi di mortalità
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
ottenuti dividendo il numero di morti associati per il numero
di dosi somministrate.

Con il metodo usato dall’ISS, anche lo pseudo-confronto fra
luoghi diversi è, di fatto, impossibile se prendiamo in
considerazione luoghi dove si trascorre un tempo relativamente
ridotto, come ad esempio una farmacia in cui andiamo magari
una volta al mese standovi poco più di 15 minuti: l’unico modo
per poter sperare di stimare sul campo – ovvero con
l’approccio epidemiologico – il numero di contagi in tutti i
vari possibili luoghi è quello di usare un’app ad hoc con
tracciamento GPS. In alternativa, per fare un confronto reale
si possono sviluppare dei modelli (e poi fare una simulazione
con il computer) che tengano conto delle principali variabili
rilevanti al problema, come farò nel seguito di questo
articolo.

Infine, vorrei sottolineare come il già citato rapporto di 39
pagine dell’ISS [6] giunga alla conclusione che “le scuole non
rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia”.
Ma ciò, sostanzialmente, nulla ci dice a livello quantitativo
(cioè non dà i numeri assoluti né, ovviamente, stima il
rischio di infezione nei quattro contesti in questione), e non
vi è alcuna valutazione della trasmissione associata ai mezzi
di trasporto o ad altri luoghi. Oltretutto, come mi ha
confidato un esperto di igiene e medicina preventiva, “analisi
svolte in altri Paesi hanno dimostrato che la frequenza delle
infezioni è stata molto più elevata nelle scuole che non
altrove; da noi essa è apparsa bassa verosimilmente per una
sottostima di quanto avvenuto negli altri ambienti, in cui è
stato fatto un tracciamento davvero poco rigoroso”. Non vi è
quindi da meravigliarsi se le chiusure imposte in Italia nel
2020 per contenere la pandemia siano apparse a molti
incomprensibili, essendo state prese sulla base di dati
lacunosi e affetti da gravi bias.

Come spiega in un articolo la testata Pagella politica [50],
“nel 2020 il Ministero dell’Istruzione aveva avviato un
COVID-19: Un'analisi del rischio di contagio nei diversi luoghi e strategie "smart" per mitigarlo
monitoraggio sui contagi nelle scuole a fine settembre, solo
alcune settimane dopo l’inizio della scuola, per poi
concluderlo dopo nemmeno un mese, senza comunicare
pubblicamente i risultati. Successivamente, però, il
monitoraggio non è più ripreso. A gennaio 2021, durante
un’audizione al Comitato tecnico scientifico (CTS), il
matematico Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler (FBK)
– un ente di ricerca di interesse pubblico che collabora con
l’Istituto superiore di sanità (ISS) – aveva spiegato che è di
fatto impossibile quantificare l’impatto della scuola
sull’epidemia e valutare la trasmissibilità del contagio
perché non ci sono dati sui contagi avvenuti in classe”.
Insomma, fin dall’inizio la scuola è stata, per le nostre
Autorità, uno dei numerosi “talloni d’achille” nella gestione
della pandemia.

Prima del citato rapporto dell’ISS, era stato l’Istat a
fornire, nell’agosto 2020, in un proprio rapporto [58, 59]
qualche dato relativo alle categorie che hanno contratto di
più o di meno il Covid (anche in forma asintomatica o pauci-
sintomatica, ovvero subclinica, tale cioè da sfuggire alle
rilevazioni ufficiali) a seconda del settore di attività
economica, avendo diffuso in quell’occasione i primi risultati
(relativi a 64.660 persone residenti in Italia) sull’indagine
di sieroprevalenza del SARS-CoV-2, che mirava a definire la
proporzione di persone nella popolazione generale che hanno
sviluppato una risposta anticorpale contro il SARS-CoV-2,
attraverso la ricerca di anticorpi specifici nel sangue.
Tuttavia, questo studio – i cui risultati in sostanza
concordano con quelli del citato rapporto dell’ISS – non
risponde se non indirettamente e molto parzialmente alla
nostra domanda iniziale (non considera, ad esempio, i mezzi di
trasporto, le scuole, etc.), e tanto meno spiega i motivi per
cui si sono trovati valori diversi in luoghi diversi.
Una delle tabelle dello studio dell’Istat, relativa alle
“Persone positive al test di sieroprevalenza SARS-CoV-2 per
contatto con una persona positiva, tipologia di relazione e
classe di età. Nella parte bassa della tabella, si può notare
come il tasso risulti parecchio elevato per i familiari
conviventi: un risultato perfettamente in linea con quanto ho
trovato, relativamente al rischio di contagio nei diversi
luoghi, con il mio simulatore di dose virale assorbita che
verrà illustrato nel presente articolo (fonte: Tavole del
Rapporto Istat [59]

Nella Sanità, secondo il rapporto Istat, si è registrata la
sieroprevalenza più alta, con il 4,5% (anche questo risultato
è perfettamente in linea con quelli forniti dal mio
simulatore, sebbene la pericolosità di ospedali e RSA sia
dipesa da una gestione errata dei malati Covid). Gli occupati
in settori essenziali e attivi durante la pandemia non hanno
presentano valori significativamente più elevati (2,8%)
rispetto alla popolazione generale se confrontati con gli
occupati in settori di attività economiche sospese (2,7%). Un
dato ha riguardato i servizi di ristorazione e accoglienza, in
corrispondenza dei quali la prevalenza è risultata del 3,4%.
Sul versante dei non occupati il tasso medio di
sieroprevalenza si è attestato al 2,1% per le casalinghe, al
2,6% per i ritirati dal lavoro, al 2,2% per gli studenti e
all’1,9% per le persone in cerca di lavoro. Tuttavia, il
rapporto nulla ci dice sul rischio (comparato) di contagio
nelle scuole, nei trasporti, etc. Sappiamo solo che, per i
bambini da 0 a 5 anni, il tasso medio è stato dell’1,3% sotto
la media e per gli anziani over 85 dell’1,8% sotto la media,
per il probabile effetto di protezione da parte dei familiari
e per l’autotutela.

I luoghi “superdiffusori”      e   l’importanza   di   limitare
l’occupazione massima

Un importante studio scientifico pubblicato a gennaio su
Nature [7] ha mostrato il forte legame fra mobilità delle
persone e trasmissione virale semplicemente usando, per 10
grosse aree metropolitane degli Stati Uniti, un database di
dati di geolocalizzazione delle persone fornito dalle
compagnie di telefonia mobile, che mappa gli spostamenti orari
di circa 100 milioni di persone verso una serie di “Punti di
Interesse” (ristoranti, grandi magazzini, negozi vari, etc.).
Non dimentichiamo, infatti, che il virus SARS-CoV-2, da solo,
non si muove certo su grandi distanze, ma viaggia lontano
grazie alle nostre gambe ed ai mezzi di trasporto che ci fanno
muovere rapidamente da un posto all’altro di una città o di
una nazione.

Ma, soprattutto, il lavoro in questione è assai interessante
in quanto mostra come certi luoghi (chiamati per l’appunto
dagli autori POI, Point of Interest, o “punti di interesse”)
contribuiscano assai più di altri alle infezioni totali – e
dunque pongano un rischio per “(ri)apertura” più alto – perché
la densità di visite in quei posti è più alta (fig.3b) e/o
perché la gente vi sta più tempo (fig.3a). In pratica, i
principali POI o luoghi “superspreader” (superdiffusori, per
usare il termine italiano) sono: ristoranti, palestre, hotel,
bar, luoghi religiosi. Fra questi, i ristoranti pongono un
rischio (come intera categoria) particolarmente alto, circa 3
volte maggiore rispetto alla categoria di POI con il rischio
più alto dopo i ristoranti (fig.3d).

Se però si va poi a stimare il rischio relativo del tenere
aperto o del riaprire un singolo POI – ovvero i numeri di
infezioni previsti sommati su tutti i POI nella categoria
vengono divisi per il numero di POI presenti nelle 10 aree
metropolitane considerate – i rischi relativi dopo la
normalizzazione per numero di POI risultano essere
sostanzialmente simili per le varie categorie (fig.3c).
Inoltre, il modello prevede che il tasso di infezione sia più
alto fra le persone più svantaggiate dal punto di vista socio-
economico, sia perché queste riducono di meno la loro mobilità
(in Italia si pensi ad es. agli immigrati) sia perché si
recano più spesso in negozi di cibo e in altri posti a rischio
rispetto alle persone ad alto reddito.

Figura 3. Essa mostra (a) il tempo di permanenza delle persone
nei vari Punti di Interesse (POI) e (b) il numero medio di
visite orarie / piede quadrato nel POI. Sono poi mostrate le
infezioni aggiuntive per ogni 100.000 rispetto alla non
riapertura (c) per singolo POI e (d) per la categoria
merceologica del POI nel suo complesso. Ricordo che lo studio
in questione si riferisce agli Stati Uniti. (fonte: Chang et
al. [7])

Una scoperta rilevante dello studio è che ridurre la massima
occupazione di un ambiente (mezzo di trasporto, supermercato,
etc.) riduce il rischio senza ridurre la mobilità delle
persone: il limitare del 20% l’occupazione massima dei “Punti
di interesse” (POI) nell’area metropolitana di Chicago ha
ridotto, nel modello, il numero di infezioni previste
dell’80%, con una perdita del 42% delle visite complessive. Si
noti che ciò è l’opposto di quanto si è fatto in Italia, dove
i centri commerciali sono stati chiusi nei week-end, le corse
degli autobus sono state ridotte con la chiusura delle scuole,
etc., invece di ridurre al minimo il tasso di occupazione
consentito al chiuso e aumentare al massimo orari di apertura
e corse.

Questo risultato “evidenzia la non linearità del numero di
infezioni previsto in funzione del numero di visite: si può
ottenere una riduzione sproporzionatamente grande delle
infezioni con una piccola riduzione delle visite. Inoltre, il
ridurre l’occupazione massima consentita ha sempre portato,
nel modello, a un minor numero di infezioni previste per lo
stesso numero di visite totali. Ciò si verifica perché,
riducendo le occupazioni massime, si sfrutta la densità di
visita variabile nel tempo all’interno di ciascun POI,
riducendo in modo sproporzionato le visite a questi luoghi
durante i periodi ad alta densità (con il rischio più alto),
mentre le visite rimangono invariate nei periodi a bassa
densità (con rischi inferiori)”.

“Questi risultati” – concludono gli Autori della ricerca –
“supportano i risultati precedenti che precisi interventi,
come ridurre la capienza massima, possono essere più efficaci
di misure meno mirate, comportando inoltre costi economici
sostanzialmente inferiori” [8]. In un mio precedente articolo,
intitolato “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto dei lockdown:
l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’”, ho mostrato
come, in effetti, l’impatto economico dei lockdown in Italia
sia stato devastante [9] per tutta una serie di ragioni, e
come il peggio da noi non sia affatto scongiurato se si
considera il contesto internazionale, con gli enormi squilibri
di prezzi e di mercato innescati dalla pandemia. La strategia
del limitare l’occupazione massima avrebbe consentito di
mitigare quest’impatto tutt’altro che secondario e di non
dover chiudere per mesi intere attività in modo
indiscriminato, come invece è stato fatto.

Le modalità di trasmissione del contagio di SARS-CoV-2 fra le
persone

Certamente, i fattori che rendono un luogo più a rischio di un
altro sono numerosi e il tasso di occupazione è solo uno di
essi. Sappiamo infatti che l’esposizione ad alte dosi di SARS-
CoV-2 (che implica maggior rischio di infezione) è più
probabile nelle interazioni ravvicinate fra le persone, come
nel corso di riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il
naso o la bocca dopo aver ricevuto quantità sostanziose di
virus sulle mani. Le ricerche sperimentali hanno mostrato che
le interazioni interpersonali sono più pericolose in spazi
chiusi piccoli e a breve distanza, con un’escalation nelle
dosi che aumenta con il tempo di esposizione. Ma per tradurre
tutto ciò in numeri occorre sviluppare un semplice modello del
fenomeno.

Prima, però, il fenomeno occorre capirlo bene.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) utilizza un
diametro delle particelle di 5 μm per distinguere fra la
trasmissione dei virus per via aerea (5 μm), o droplet. Alcuni studi
suggeriscono che le particelle superiori a 6 μm tendono a
depositarsi principalmente nelle vie aeree superiori, mentre
le particelle inferiori a 2 μm si depositano principalmente
nelle regioni alveolari [10]. Pertanto,          le particelle
inferiori a 10 μm possono penetrare più in       profondità nel
tratto respiratorio e hanno più probabilità     di veicolare un
virus nella regione polmonare inferiore, dove   sappiamo che il
SARS-CoV-2 può fare il maggior danno.

L’attività respiratoria comporta l’emissione di particelle di
dimensioni variabili, con una distribuzione che dipende dalle
condizioni di emissione. Poiché la probabilità che una
gocciolina contenga virioni (cioè singole particelle virali)
è, a parità di altre condizioni, legata al suo volume, ne
deriva che in aria il SARS-CoV-2 può essere veicolato
senz’altro attraverso “grosse goccioline” che ricadono
rapidamente al suolo. Una parte delle unità virali, però, può
essere emessa attraverso “goccioline medie e piccole” che, per
le loro dimensioni, possono persistere in aria per un tempo
prolungato, come aerosol. Queste, essendo anche assai più
numerose [28], possono quindi costituire un ulteriore canale
di trasmissione del contagio (che però diventa il canale di
gran lunga più importante quando le persone indossano le
mascherine).

Dunque, il canale di trasmissione del contagio da SARS-CoV-2
ritenuto principale è mediante droplet – ovvero goccioline di
secrezioni respiratorie prodotte tossendo, starnutendo,
parlando, respirando – ma il contagio può avvenire pure
tramite aerosol. Un esperimento effettuato dall’Istituto per
le Malattie infettive americano (NIAD) [11, 12] ha mostrato
come il virus SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria,
sotto forma di aerosol, fino a 3 ore o più; mentre, secondo un
altro studio [51], può rimanervi addirittura fino a 16 ore.
Tuttavia, se la persona che emette l’aerosol infetto nell’aria
abbandona la stanza, la quantità di virus si dimezza nel giro
di un’ora. Inoltre, le droplet depositate sulle superfici (ad
es. metalliche) possono conservare il virus – in quantità
sempre più ridotte – fino a 72 ore.

In pratica, la trasmissione del SARS-CoV-2 da persona a
persona avviene mediante droplet in due casi [13]: (1) quando
la distanza è ravvicinata (1-2 metri) e le droplet provenienti
da una persona infetta vengono direttamente a contatto con le
mucose (bocca, occhi, naso) di un soggetto recettivo oppure
(2) indirettamente, dopo aver toccato con le mani oggetti
contaminati (chiamati “fomiti”) attraverso le droplet che vi
si sono depositate sopra. Tuttavia, le goccioline con diametri
aerodinamici più piccoli percorrono distanze maggiori nella
forma di aerosol (denominati bioaerosol) e di conseguenza
questi provocano la trasmissione per via aerea della malattia
se vengono inalati in quantità.

Figura 4. I due principali canali di trasmissione del virus
SARS-CoV da una persona all’altra. Le mascherine fermano le
droplet ma non tutte le particelle di aerosol, che dunque in
tal caso diventano il principale canale di trasmissione.
(fonte: elaborazione dell’Autore sulla base dei paper
scientifici citati nel testo) [13].

Nel caso del Covid-19, anche sulla base di studi del passato
(quando – si parla di molti decenni fa – si aveva difficoltà a
rivelare strumentalmente goccioline molto piccole, cosa oggi
invece fattibile ad es. grazie a laser, PC, etc.) si è
all’inizio ritenuto che fossero prevalentemente le droplet a
trasmettere la malattia rispetto agli aerosol. Pertanto, la
ricerca si è concentrata maggiormente sul ruolo e sul
meccanismo di trasmissione delle droplet. Tuttavia, recenti
evidenze supportano l’ipotesi che anche gli aerosol giochino
un ruolo importante nella trasmissione del SARS-CoV-2 [14,
15]. Anzi, si ritiene che gli aerosol rappresentino un rischio
di infezione addirittura maggiore rispetto alle droplet per le
persone suscettibili poste a più grande distanza rispetto al
raggio di caduta (di circa 2 metri) delle goccioline più
pesanti.

La particelle di aerosol espirate vengono trasportate (cioè
spostate), in un ambiente chiuso vuoto e isolato, ma non tanto
dal processo di diffusione (come quello di un profumo in una
stanza), che è molto lento in quanto la velocità di diffusione
è inversamente proporzionale al quadrato del diametro delle
particelle, per cui una piccola particella di aerosol da 1 μm
di diametro percorre 0,002 m/sec, ovvero 7 metri in un’ora.
Sono le correnti d’aria, la ventilazione forzata per il
ricambio d’aria con l’esterno, il ricircolo dell’aria (ove
presente un sistema di climatizzazione a pompa di calore),
nonché il movimento delle persone, a far sì che lo spostamento
nell’aria delle particelle contenenti il virus sia assai più
rapido e turbolento.

Come l’ing. Giorgio Buonanno, professore associato
all’Università di Cassino, ha spiegato in un ottimo articolo
dal significativo titolo Come il mito dei droplets ha
sostituito (fino ad oggi) la trasmissione aerea, che peraltro
trovate su questo stesso sito web [54], “l’importanza della
trasmissione aerea (cioè tramite aerosol, ndr) è stata
inizialmente negata con forza dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) e dalla maggior parte delle organizzazioni
di sanità pubblica [60]. L’OMS ha gradualmente ammorbidito la
sua posizione dichiarando solo il 30 aprile 2021 che la
trasmissione aerea del SARS-CoV-2 è importante [61]. La lenta
risposta delle principali organizzazioni di sanità pubblica
nel rivedere la comprensione della trasmissione del SARS-CoV-2
è sconcertante e tragica, poiché non c’è dubbio che questi
ritardi abbiano contribuito a uno scarso controllo della
pandemia e ad una crescita di contagi e di morti”.

L’articolo di Buonanno prosegue illustrando perché queste
organizzazioni hanno mostrato così tanta resistenza al
cambiamento, per cui ne raccomando la lettura. Ma mi si
consenta di citare un altro estratto dal suo lavoro, tanto per
dare il “sapore” della situazione: “[..] Negli ultimi decenni,
con antibiotici, vaccini e nessuna grande pandemia, questi
dettagli sulla trasmissione non hanno rappresentato una
priorità. Gli esperti di droplets avevano il controllo di
tutte le istituzioni chiave e potevano ignorare i pochi
sostenitori della trasmissione aerea. Se ad es. un collega
avesse scritto una proposta di ricerca per finanziare uno
studio sulla trasmissione aerea, i revisori anonimi avrebbero
rispedito la domanda al mittente perchè “la trasmissione aerea
non è importante, quindi non si dovrebbero sprecare fondi per
questo”.

E ancora, sempre dal suddetto articolo di Buonanno: “Nel
febbraio 2020, sembrava che gli esperti di trasmissione aerea
fossero molto timidi, nonostante le prove significative a
favore. Nel frattempo l’OMS dichiarava con sicurezza, il 28
marzo 2020, che [62]: “FATTO: IL COVID NON È AIRBORNE, e dire
che si trasmette per via aerea è DISINFORMAZIONE, aiutate @WHO
a combattere! [..] La prof. Lidia Morawska ha organizzato un
gruppo internazionale di scienziati, di cui faccio parte, che
ha trascorso l’ultimo anno a lavorare su questo tema. Ed anche
se la teoria dei droplets sta affondando, il nostro lavoro non
è finito. [..] Ma oltre a cambiare la storia della scienza, la
pandemia da Covid-19 può cambiare anche la nostra visione. È
tempo di mettere in sicurezza l’aria che respiriamo negli
ambienti chiusi”.

Verso un modello per confrontare il rischio di contagio (e la
potenziale gravità del Covid) nei vari luoghi

In realtà, stimare il rischio relativo di contagio in diversi
luoghi chiusi non è così difficile come potrebbe sembrare a
prima vista, se si utilizza un modello semplificato
appropriato. Infatti, i parametri principali da tenere in
considerazione nel modello sono: (1) il numero di persone
presenti nell’ambiente; (2); il volume di aria contenuto
nell’ambiente; (3) il tempo trascorso in quell’ambiente; (4)
il tasso di ricambio dell’aria. Di questi quattro parametri,
in generale solo i primi tre possono variare in modo davvero
rilevante da una situazione all’altra, e quindi colgono bene
l’“essenza” del problema (non a caso sono gli stessi tre
parametri usati nello studio di Nature appena illustrato,
salvo l’uso della superficie al posto del volume).

Difatti, quando si modellizza un fenomeno che si ha difficoltà
a osservare direttamente – al fine di comprenderlo meglio ed
in maniera quantitativa, e soprattutto allo scopo di fare
delle previsioni – poiché non è possibile tener conto (almeno
in prima battuta) di tutte le variabili in gioco, occorre fare
delle ipotesi semplificative. L’analisi successiva dei
risultati ottenuti ci dice se il modello predittivo è
affidabile e porta a conclusioni corrette. In caso negativo,
occorre raffinare ulteriormente il modello che, una volta
raggiunto il livello di affidabilità cercato, rappresenta un
potente strumento a disposizione dei decisori.

Purtroppo, a guidarci e ad orientarci nella lotta alla
pandemia da SARS-CoV-2 sono stati, inizialmente, teorie ed
esperimenti, seppur geniali, datati 1907 e 1930. Infatti, le
attuali      linee      guida      sugli     impianti       di
ventilazione/climatizzazione in strutture comunitarie non
sanitarie e in ambienti domestici (ad es. ristoranti, scuole o
teatri) in relazione alla diffusione del virus SARS-CoV-2 si
basano su quei dati ed esperimenti assai vecchi. All’epoca non
si riuscivano a visualizzare e monitorare le piccole
particelle di aerosol; quel che si vede oggi, anche dai
fotogrammi degli esperimenti e dagli attuali tracciamenti, è
un pulviscolo di minuscole goccioline, che formano un aerosol.
E, con i modelli e le simulazioni in corso di sviluppo, è
possibile calcolare la concentrazione di aerosol a differenti
distanze e in tempi diversi [31].

La principale ipotesi semplificativa adottata nel nostro
modello, come accennavo, è che il tasso di ricambio dell’aria,
eccetto due casi “patologici” (scuola e casa) sia simile –
entro un fattore 2 o poco più – per i vari “Punti di
Interesse” (POI) considerati. Ciò è verosimile poiché, salvo
le citate eccezioni, si tratta di luoghi pubblici soggetti
alle stringenti normative in materia (ovvero alla norma UNI
10339, in vigore dal 1995 e ora in fase di revisione), che
prevedono per attività commerciali ed uffici un afflusso
minimo di aria esterna (e quindi anche una corrispondente
estrazione di aria dall’ambiente) compreso, a seconda dei casi
                            -3
(v. tabella), fra 9 e 11 x 10 mc/sec per persona, pari a circa
0,6 metri cubi/minuto per persona [16].

                                                       La
portata di aria esterna nei vari tipi di edifici ad uso civile
prevista, in Italia, dalla norma UNI 10339 [16, 17]. Si noti
che 10-3 mc/s = 0,01 mc/s = 3,6 mc/h.

Mentre in alcuni mezzi di trasporto (bus, tram) vi è
un’areazione naturale che avviene attraverso l’apertura delle
porte alle fermate, negli edifici pubblici (negozi, cinema,
etc.) il ricambio d’aria con l’esterno avviene solitamente
tramite impianti di Ventilazione Meccanica Controllata (VMC) a
recupero di calore e dimensionati sui valori di legge (in modo
da garantire il risparmio energetico), i quali possono essere
completamente indipendenti oppure integrati nell’impianto di
climatizzazione. La già citata norma prevede anche una
filtrazione minima dell’aria e una movimentazione dell’aria
con velocità entro determinati limiti (da 5 a 15 cm/sec) [17],
il tutto per mantenere adeguate caratteristiche di qualità
dell’aria.

Consideriamo, a titolo di esempio, il caso di un ufficio open
space di 180 mq destinato a call-center. La portata d’aria da
                                                            -3
immettere / estrarre secondo la norma UNI 10339 è 11 x 10
mc/s per persona, pari a 39,6 mc/h per persona. L’affollamento
calcolato tramite l’indice di affollamento previsto dalla
norma UNI 10339 (v. tabella) è 0,12 persone/mq x 180 mq = 22
persone. Assumendo un affollamento massimo di 25 persone, la
portata di aria richiesta è di 25 pers. x 39,6 mc/(h pers.) =
990 mc/h [17]. Se il soffitto è alto 3 m, il volume dell’open
space è di 180 mq x 3 m = 540 mc, per cui ho circa due ricambi
d’aria all’ora, ovvero circa il doppio di quanto avviene in
un’aula scolastica (aprendo le finestre a fine ora).
Indice
di affollamento nei vari tipi di edifici ad uso civile
previsto, in Italia, dalla norma UNI 10339.

Tuttavia, mentre in tutte le altre situazioni gestite con un
impianto di Ventilazione Meccanica Controllata il ricambio
d’aria è continuo – e dunque costante – nel caso di un’aula
scolastica non lo è: esso avviene tipicamente solo quando
cambia l’insegnante, quindi ogni ora o, a volte, ogni due ore.
Anche nelle case il ricambio d’aria, specie d’inverno, avviene
di solito 1 o 2 volte al giorno per tot minuti, per ovvie
ragioni di climatizzazione e risparmio energetico. Dunque, sia
nel caso delle scuole sia delle abitazioni si assiste a un
assai rilevante accumulo nell’aria dei virioni emessi sotto
forma di aerosol da un eventuale infetto presente. Pertanto,
ne dovremo tenere debitamente conto nell’implementare il
nostro modello.

Altre informazioni utili e strategie di difesa fornite dagli
studi scientifici

La trasmissione di SARS-CoV-2 da una persona infetta avviene
principalmente attraverso l’aria nella forma di droplet e
particelle di aerosol (più di rado attraverso il contatto con
superfici infette). Queste particelle variano nelle loro
dimensioni e aerodinamica. Il tasso di trasmissione aerea del
SARS-CoV-2 dipende da diversi fattori, come l’origine delle
droplet e degli aerosol, la carica virale, lo stato del flusso
d’aria, le condizioni ambientali, etc. [13]. I risultati degli
studi effettuati negli ospedali indicano che la ventilazione
di un ambiente chiuso, gli spazi aperti, la disinfezione di
ambienti e superfici, nonché delle aree dei servizi igienici,
possono limitare efficacemente la concentrazione di SARS-CoV-2
nell’ambiente.

Studi su pazienti con infezioni respiratorie hanno dimostrato
che, quando una persona infetta starnutisce o tossisce, si
forma una nuvola di droplet cariche di agenti patogeni; queste
goccioline possono viaggiare fino a 7-8 m lontano dalla
sorgente [13]. L’aria espulsa con un colpo di tosse viaggia a
oltre 80 km/h e trasporta fino a 3.000 droplet. Uno starnuto,
invece, può arrivare ad una velocità di oltre 150 km/h e può
espellere fino a 40.000 droplet infette. Come detto, non si sa
ancora quante particelle virali siano necessarie per dare
origine ad un contagio. Nel caso della SARS del 2002-2003, uno
studio aveva stimato essere inferiore a 1.000, un numero forse
maggiore rispetto a quelle necessarie nel caso del SARS-CoV-2.

Non vi è infatti accordo sulla quantità o dose virale minima
capace di causare il COVID-19 in persone sane. Al contrario,
molti ricercatori ritengono che poche centinaia di unità, o
virioni, di SARS-CoV-2 siano sufficienti per causare il
COVID-19 negli ospiti sensibili [18]. Un singolo atto
respiratorio rilascia alcune centinaia di particelle, e uno
studio su soggetti affetti da raffreddore ha evidenziato in
questi una maggiore produzione, caratterizzata da grande
variabilità: il 24% dei soggetti era responsabile dell’82% di
particelle [19]. Un altro studio ha evidenziato che l’80-90%
delle particelle rilasciate durante la normale respirazione
sono particelle di aerosol con diametri inferiori a 1 μm [20],
mentre il resto sono droplet.

Da ricordare, inoltre, anche l’esistenza dei cosiddetti
“super-diffusori”, di difficilissima identificazione e che
rappresentano uno dei maggiori problemi nell’espansione della
pandemia di Covid-19. Diversi studi hanno infatti dimostrato
che, in casi estremi, una singola persona infetta può
diffondere il virus a dozzine di persone. Si ritiene difatti
che alcune persone infette possano avere una carica virale più
elevata e quindi rilasciare più virus, come si è visto in
passato con la SARS e con la MERS. Ciò significa che è
probabile che la saliva e gli aerosol di alcune persone
contengano una maggiore concentrazione di particelle virali,
rendendo quella persona più contagiosa [23], in accordo con
quanto trovato per i rinovirus.

Una ricerca cinese pubblicata a luglio 2020 dai Centers for
Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi [21] ha
mostrato come un solo paziente positivo al COVID-19 sia
riuscito a infettare 9 persone all’interno di un ristorante,
durante un pranzo, a causa del flusso d’aria del locale. Le 9
persone erano presenti nel suo stesso tavolo o nei tavoli
vicini e si trovavano tutte sottovento – e in linea – rispetto
al flusso del condizionatore d’aria in una stanza senza
finestre. Gli altri 73 clienti che in quel momento si
trovavano nello stesso piano del locale, invece, non si sono
ammalati. Come mostra la figura qui sotto, l’aria condizionata
soffiava in direzione ovest verso tre tavoli, e probabilmente
ha rimbalzato contro il muro tornando verso la famiglia “C”,
perché gli aerosol tendono a seguire il flusso d’aria.
Figura
5. Lo studio cinese sul contagio associato all’aria
condizionata in un ristorante [21]. Il tavolo della famiglia
“A” è al centro tra i tavoli “B” e “C” dove stavano pranzando
altre due famiglie, e comprende l’infetto (A1) e altre 9
persone di cui 4 si sono ammalate. La famiglia “B” e la
famiglia “A” si sono incontrate per 53 minuti e tre dei suoi
membri (una coppia e la figlia) si sono ammalati. La famiglia
“C” sedeva accanto alla famiglia “A” nell’altro tavolo lungo
lo stesso lato della stanza soggiornando con loro per 73
minuti: due dei suoi membri (una madre e sua figlia) si sono
ammalati. I tavoli rotondi distavano un metro l’uno
dall’altro. Sopra il tavolo della famiglia “C” c’era un
apparecchio split di aria condizionata che soffiava in
direzione ovest, ovvero verso sinistra nella figura, creando
un flusso d’aria in quell’ala della stanza.

Anche uno studio su 94 casi di positività al Covid all’interno
di un call center in Corea del Sud [22] – svolto grazie a un
app di monitoraggio attiva in quel Paese – ha dimostrato come
aumentino notevolmente i contagi se si rimane tante ore in uno
stesso ambiente e sullo stesso lato della stanza, poiché la
colpa è anche dei flussi d’aria, se questi si limitano a un
ricircolo (come nel caso dell’aria condizionata). Al di fuori
del piano del call center, invece, si sono infettate soltanto
tre persone nonostante tutti i 1.145 tra dipendenti e
residenti nel palazzo abbiano usato gli stessi ascensori e gli
stessi spazi pubblici. Dunque, rimanere tante ore nella stessa
stanza e con un flusso d’aria “sfavorevole” diventa
pericoloso, per cui è fondamentale che tutti mantengano le
mascherine dentro gli uffici ed è altrettanto fondamentale,
laddove si può, aerare i locali di continuo per disperdere
ogni possibile gocciolina rimasta in sospensione.

Uno studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the Royal
Society A [30] ha fatto emergere come parlare a lungo possa
essere pericoloso tanto quanto tossire vicino ad un’altra
persona, perché le micro-particelle espulse dalla bocca
rimangono sospese nell’aria. Infatti, un’ora dopo che una
persona contagiata ha parlato per 30 secondi, le goccioline
espulse parlando, ovvero sotto forma di aerosol, contengono
molta più carica virale che se si fosse emesso un colpo di
tosse. Senza ventilazione, la dose virale assorbita dopo un
certo tempo potrebbe essere quindi sufficiente a trasmettere
il Covid. Una scoperta che può aiutare a spiegare come mai il
Covid-19 si diffonde facilmente in ambienti interni – cioè al
chiuso – e che dimostra come le misure di distanziamento
sociale, da sole, non forniscano una protezione adeguata dal
virus.

Come evidenziato da questo lavoro di modellizzazione svolto, a
partire da dati sperimentali, da Oliveira et al. [30], a causa
dell’elevata massa e dose virale associata alle goccioline di
grandi dimensioni o droplet (circa il 99% del valore), sia un
breve colpo di tosse che la prosecuzione del parlare sono
pericolosi entro 2 m da un infetto senza mascherine. Mentre il
ricambio d’aria tramite VMC e la conseguente ventilazione (in
termini sia di ampiezza sia di direzione) è della massima
importanza per la rimozione degli aerosol – e dunque per
ridurre al minimo il rischio di infezione aerea al chiuso – i
dispositivi di protezione individuale sono cruciali per
ridurre il rischio di contaminazione a corto raggio (
Figura
6. Schema delle strategie attuabili per contrastare la
trasmissione del SARS-CoV-2. Si noti l’importanza di un
ricambio d’aria elevato per proteggersi dalla trasmissione
aerea del virus e come la strategia della riduzione
dell’occupazione massima di un ambiente permetta di
contrastare contemporaneamente sia il rischio di contagio
tramite droplet sia quello di contagio tramite aerosol. (fonte
elaborazione dell’Autore sulla base dei vari articoli
scientifici peer reviewed citati nel testo) [24, 30].

L’importanza delle mascherine      e   l’accumulo   nell’aria
dell’aerosol infetto

L’uso delle mascherine da parte delle persone è un buon metodo
per ridurre la dose virale assorbita e dunque sia la
probabilità di contagio sia la gravità della malattia
sviluppata. Tuttavia, esse hanno maggiore efficacia se la
compliance è elevata. Sebbene le mascherine FFP2/N95 filtrino
il 95% delle particelle da 3 μm garantendo una buona
protezione al personale medico che sigilla lo spazio fra viso
e mascherina, l’efficacia per il grande pubblico è assai
inferiore, sia perché quasi sempre non vengono indossate
correttamente sia perché in Italia abbondano FFP2 “tarocche”,
con capacità di filtrazione fra il 10% e il 50%. Perciò le
persone che le usano sono abbastanza protette dalle goccioline
infette ma non dagli aerosol infetti.

In realtà, le mascherine sono più utili se indossate dalle
persone infette che non dalle persone che si vogliono
proteggere, come dimostrato in modo quantitativo da un
esperimento cinese di Chan J. et al. [32] svolto sui criceti.
Il team di scienziati asiatici ha diviso 52 criceti in due
categorie: sani e contagiati con il SARS-CoV-2. I differenti
gruppi sono stati messi ciascuno all’interno di gabbie, alcune
delle quali schermate da mascherine posizionate in modo da
regolare i flussi d’aria degli infetti verso i sani. Dopo
circa una settimana di osservazione, è emerso che il 66,7 dei
criceti, quelli mancanti di protezione, avevano contratto il
Covid. Di contro, il tasso di infezione è stato di poco più
del 16% quando le mascherine chirurgiche sono state messe
sulla gabbia degli animali infetti e di circa il 25% quando
sono state collocate sulla struttura contenente i criceti
sani, confermando quanto suggerito dall’intuizione.

Pertanto, la seconda ipotesi semplificativa del nostro modello
di base è che tutte le persone indossino le mascherine quando
si trovano in un ambiente indoor (edifici o mezzi di
trasporto), mentre non prevede che si adottino i famosi 2
metri di distanziamento sociale (peraltro ben di rado
osservati). Il fatto che anche mascherine male indossate o
“tarocche” di pessima qualità impediscano la trasmissione del
SARS-CoV-2 tramite droplet (che vengono assorbite soprattutto
dalla mascherina della persona infetta che le emette), fa sì
che il canale di trasmissione rimanente – dando per scontata
una corretta igiene delle mani – sia quello degli aerosol, per
il quale sono importanti il tempo di esposizione e la dose
assorbita.
Va sottolineato che, poiché le goccioline contengono una
quantità di virus proporzionale al proprio volume, mentre con
quelle grandi che in breve tempo cadono a terra a poca
distanza (le droplet) ci si può infettare subito se si è nel
raggio di un paio di metri da un infetto privo di mascherina
che parla, con quelle piccole (cioè con l’aerosol) per
raggiungere la medesima dose virale minima infettante basta
essere esposti (anche a vari metri di distanza) per un tempo
sufficientemente più lungo. Dato che con le mascherine è
attivo solo questo canale di trasmissione aerea, il nostro
modello – essendo quantitativo – aiuterà anche a capire in
quali luoghi/tempi si può più verosimilmente raggiungere la
dose minima infettante.

Come accennato in precedenza, la norma UNI 10339 prevede una
movimentazione dell’aria con velocità dell’ordine di 10
cm/sec, equivalenti a 6 metri al minuto (ad es. per una
particella di aerosol). D’altra parte, se abbiamo due ricambi
d’aria all’ora – come nel caso di studio illustrato in
precedenza e ottemperante alla medesima norma – vuol dire che
ogni minuto verrà sostituita con aria esterna al più 1/30
dell’aria presente nell’ambiente. Pertanto, l’aerosol infetto
emesso in un singolo atto respiratorio da una persona infetta,
in un ambiente soggetto alla norma UNI 10339 verrà
gradualmente eliminato nel corso del tempo, e si può stimare
che venga quasi totalmente eliminato in un tempo scala
dell’ordine di mezz’ora.

Tuttavia, gli atti respiratori di una persona, in un adulto
sano a riposo, sono fra i 12 ed i 16 al minuto (è bene
comunque precisare che la frequenza respiratoria è legata,
oltre che all’attività svolta in quel momento, anche all’età e
alla frequenza cardiaca) [25]. Pertanto, come illustrato in
modo assai semplice dalla figura qui sotto, quando una persona
entra in un ambiente chiuso soggetto alla norma UNI 10339, la
quantità di aerosol infetto aumenta gradualmente nel tempo,
raggiungendo un plateau dopo circa una mezz’oretta. Se poi
l’infetto abbandona l’ambiente, si verifica il fenomeno
inverso, cioè dal livello di aerosol infetto raggiunto si
ridiscende gradualmente fino a circa zero in una mezz’oretta.

                                                       Figura
7. Come cresce la curva che esprime l’accumulo, nell’arco di
mezz’ora di tempo, degli aerosol infetti emessi dai vari atti
respiratori di un soggetto infetto. Come si vede, senza un
ricambio d’aria (retta rossa), la crescita è lineare, mentre
se c’è un ricambio d’aria ogni mezz’ora la curva (di colore
azzurro) tende a un plateau sito a poco più della metà
(precisamente al 55%) del valore che si ha nell’altro caso. Il
primo caso, senza ricambio d’aria, è quello tipico di un’aula
scolastica, mentre il secondo è quello del già citato ambiente
(ad es. un call center) soggetto alla norma UNI 10339. (fonte:
elaborazione dell’Autore)

Noi inspiriamo ogni ora circa 600 litri d’aria (e durante
l’attività sportiva oltre 5 volte di più), pari a 10 litri al
minuto [26]. Poiché in una tipica aula di scuola di 137 mc vi
sono 300.000 litri d’aria, se ad es. nella classe vi sono 26
studenti l’aria totale da essi respirata fra un cambio d’aria
orario e l’altro è di 300 litri x 26 = 7.800 litri, pari al
2,6% dell’aria totale ivi presente. Oltre all’accumulo di
aerosol infetto (se è presente un infetto), si assiste quindi,
parallelamente, anche ad un accumulo di anidride carbonica
(CO2) – misurabile anche con un monitor low cost – rispetto al
valore di fondo atmosferico di 400 ppm (parti per milione).
Pertanto, si potrebbe in teoria usare a posteriori il livello
di CO2 misurato per una precisa calibrazione del ns. modello.

Infatti, solo circa lo 0,04% dell’aria inspirata è anidride
carbonica (CO2), mentre nell’aria espirata dai nostri polmoni
la percentuale di CO2 aumenta al 4% [26]. Dunque, nell’esempio
appena fatto, inizialmente nell’aula sono presenti lo 0,04% di
300.000 litri d’aria, ovvero 120 litri, di CO2. Ma i 26
studenti in un’ora emetteranno il 4% di 7800 litri, ovvero 312
litri, di CO2. Pertanto, dopo un’ora nell’aula il livello di
CO2 sarà salito a 120 + 312 = 432 litri, ovvero a 432 / 120 =
3,6 volte il livello iniziale, e dunque a 3,6 x 360 = 1.296
ppm. Quando si supera 1.500 ppm, si inizia ad avvertire il
disagio di respirare “aria viziata” [27]. Anche in casa i
livelli di CO2 possono variare tanto, ed essere compresi fra
500 e 2.000 ppm (di notte).

Secondo lo studio di De Oliveira et al. [30], l’aerosol
sospeso emesso parlando ininterrottamente per 1 ora in una
stanza scarsamente ventilata fornisce lo 0,1-11% di rischio di

infezione per le cariche virali iniziali di 108-1010 virioni/ml,
rispettivamente; diminuendo allo 0,03-3% per 10 ricambi d’aria
all’ora tramite la ventilazione forzata con l’esterno. Questi
risultati forniscono stime quantitative utili per lo sviluppo
del distanziamento fisico e di una Ventilazione Meccanica
Controllata efficace. La misurazione dei livelli di CO2 in un
ambiente può essere usata come facile e utile indicatore
indiretto del livello di ricambio d’aria attuale (baseline) e
per un confronto con i valori di CO2 attesi se viene
rispettata la norma UNI 10339 (non è infatti difficile
realizzare un algoritmo che consente di fare questo calcolo –
tenendo conto naturalmente del tipo di attività svolta delle
persone – per un confronto con i valori effettivamente
misurati).
Puoi anche leggere