21 LUGLIO - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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21 LUGLIO
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   21 LUGLIO 2019

                               LA SICILIA
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POLITICA                                                                                                             21/7/2019

IL CASO

Boschi e gli insulti sessisti "Salvini fomenta l’odio
sui social"
Il vicepremier critica su Twitter la mozione di sfiducia proposta dalla deputata pd poi rincara la dose
a colpi di emoji. E i suoi fan si scatenano in volgarità. Zingaretti e i dem: perché non le rimuove?

di Giovanna Casadio

ROMA — «Non mi faccio intimidire dagli attacchi sessisti sui social o dalle spacconate di Salvini. Figurarsi se mollo per
questi fenomeni da tastiera». Maria Elena Boschi è al mare per qualche ora, a smaltire le offese e soprattutto, dice, la
preoccupazione. L’ex ministra delle Riforme del governo Renzi è abituata a finire nel mirino. Pesanti gli attacchi per Banca
Etruria. Ma mai si era ritrovata nella gogna degli insulti sessisti esposti sulla pagina social del ministro dell’Interno e
accompagnati da faccine sorridenti postate da Matteo Salvini stesso. Qualche giorno fa ha proposto al Pd di sfiduciare il capo
del Viminale dopo lo scoppio del caso Moscopoli.
Da quella richiesta è partita la guerra social. E Boschi si sfoga: «Sono preoccupata. Non per me, ma per il clima di odio che si
sta diffondendo. Soprattutto sono preoccupata se una donna non può esprimere la propria opinione senza essere aggredita a
livello personale in quanto donna». Cosa si aspettava, l’ex ministra dem? «Trovo grave che il ministro dell’Interno anziché
condannare questi comportamenti vergognosi li fomenti. Dovrebbe tutelare la mia sicurezza e quella di ogni donna, non mettere
le faccine che ridono ai commenti contro di me».
Gli insulti sono grevi. Del tipo: "Torna a fare la cubista". Una valanga di volgarità di cui Boschi fa lo screenshot e allega in un
suo post su Facebook. Sono offese che commentano il post di Salvini e, prima ancora, la pagina del quotidiano Libero sulla
mozione di sfiducia. «E questi hanno ancora il coraggio di parlare?», è la prima mossa del ministro. Si scatena l’odio sessista
dei followers del ministro. Replica Boschi sempre via social: «Caro Salvini, ho ancora il coraggio di parlare. Con noi l’Italia
cresceva, c’erano più diritti e meno odio: noi abbiamo portato risultati, non rubli. Soprattutto ho ancora la libertà di parlare:
come ministro dell’Interno viene pagato per garantirmela, non per attaccarmi. Bacioni». A questo punto l’odio social cresce,
Salvini commenta con tre emoticon: faccine che si sbellicano dalle risate. Il segretario dem, Nicola Zingaretti denuncia: «Da
diversi giorni si sta muovendo una galassia di profili social, tutti dell’orbita di Salvini, che passano il proprio tempo ad agitare
la gogna contro esponenti del Pd. Ora è il turno di Maria Elena Boschi a cui va la solidarietà del partito».
Il Pd si mobilita, si indigna. Ma anche Forza Italia protesta e solidarizza. Mara Carfagna avverte: «È inutile approvare il Codice
rosso se si tollerano violenza e misoginia». Solidarietà da Maria Stella Gelmini. «Contro Boschi metodi squadristi », per il dem
Francesco Verducci. «Disgustoso», afferma Luigi Zanda, il tesoriere e il capogruppo Delrio: «Il Pd non si fa intimorire».
Boschi spera nella solidarietà dei «leghisti perbene, che tristezza non riceverla ». Tra Salvini e Boschi in passato rapporti
improntati al fair play, tanto che alcuni mesi fa in una cena sulla giustizia organizzata dall’associazione "Fino a prova
contraria", tra i due ci fu un affettuoso saluto. La Bestia, la macchina social salviniana, questa volta ha perso ogni freno.
ANGELO CARCONI/ANSA
Sorrisi in tv Matteo Salvini e Maria Elena Boschi nello studio di Porta a Porta

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POLITICA                                                                                                            21/7/2019

Lega, governatori e Giorgetti a Salvini
"Ora apri la crisi"
Da Zaia e Fontana affondi contro il premier. Il sottosegretario costretto a restare a malincuore. Il
leader incerto: "Il problema non è se, ma quando"

di Goffredo De Marchis

ROMA — Mercoledì scorso Giancarlo Giorgetti aveva meditato il colpo di scena. La lettera di dimissioni già scritta in attesa
della sentenza di Milano su Massimo Garavaglia. In caso di condanna «ce ne saremmo andati in due, seduta stante ». Per non
finire di nuovo sotto la gogna giustizialista del Movimento 5 stelle che avrebbe cominciato il solito can can per chiedere la testa
del viceministro dell’Economia come era già successo con Armando Siri e Edoardo Rixi. Poi è arrivata l’assoluzione. Giorgetti
ha strappato la lettera platealmente così come platealmente e polemicamente l’aveva scritta. Ma a malincuore. Per ora è
costretto a restare ma può sempre riprendere carta e penna.
In questo governo non vuole più starci da tempo, perché, dice, «il problema non sono solo le autonomie, il no alla Tav, il no alla
Gronda di Genova» che pure sembrano macigni. È piuttosto una questione di «metodo e di convivenza con i grillini ». A questo
punto è anche un contrasto (anche se leale) con Matteo Salvini e la sua indecisione. Il leader del Carroccio, a chi gli chiede di
rompere finalmente, risponde in queste ore con una frase sibillina ma possibilista, incerta ma pugnace: «Non si tratta più se
aprire la crisi o meno. Si tratta solo di capire il quando». Una formula che non basta a liberarsi dal pressing degli anti-Di Maio.
Il quando, secondo buona parte dello stato maggiore leghista, è passato da un pezzo. C’è l’intero partito del Nord pronto da
settimane allo strappo. «Il testo sulle autonomie è annacquato, così non cambia niente». I governatori non si fidano più.
«Questo governo di cialtroni per un pugno di voti soffoca un volano di crescita — attacca il presidente della Lombardia Attilio
Fontana — e contrabbanda il testo come una battaglia tra il Nord e il Sud». L’obiettivo sono i 5 stelle e al dunque Giuseppe
Conte. Non va bene niente nei documenti che stanno preparando a Palazzo Chigi. Non va bene l’intesa sugli insegnanti, non va
bene la divisione delle soprintendenze e il tavolo negoziale non ha ancora affrontato la madre di tutte le battaglie autonomiste:
la distribuzione delle risorse. Se ne comincerà a parlare domani, ma i governatori della Lega stanno già mettendo le mani avanti
temendo una sorpresa negativa sul punto-chiave della sfida federalista: i soldi. L’autonomia quindi potrebbe essere il famoso
"quando", l’occasione, il pretesto. A Palazzo Chigi invece non ci credono visto che la Lega, forte del suo 34 per cento europeo
e di sondaggi in continua crescita, è un partito nazionale. Vuole davvero sbattere la porta perdendo un pezzo di elettorato al
Sud? Difficile, pensa Conte. Ma sottovaluta la potenza deflagrante di un Carroccio in ebollizione.
A Salvini i sostenitori del tana libera tutti fanno questo ragionamento: «I sondaggi dicono che siamo oltre il 35 per cento, i 5
stelle sono fermi al 17, la sinistra non ha pronta nè una coalizione nè un leader, Forza Italia è morta. Quale momento migliore
possiamo attendere? ». Salvini pensa e ripensa. Sa per esempio che lo stesso tipo di analisi viene fatta nelle stanze dei dem
(compresa la parte che li riguarda). Non è un buon viatico per fare quello che si aspetta la Lega ma anche il Pd. L’incognita
infatti resta la scelta di Sergio Mattarella dopo l’apertura formale di una crisi. Al ribaltone di un governo Pd-5stelle non
credono i diretti interessati e nemmeno il Colle. Ma esistono quelle che si chiamano «soluzioni intermedie». La fantasia, che in

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Italia non manca mai quando si deve costruire una nuova maggioranza, può portare a sbocchi diversi dalle elezioni anticipate.
Per Salvini questo è l’incubo. Che solo un colloquio con il capo dello Stato può chiarire.
Da Giorgetti a Garavaglia, da Fontana a Zaia il coro è unanime: rompiamo l’alleanza e basta. I toni salgono, la valanga cresce.
«Non è il governo che decide il testo — tuona il governatore del Veneto — . Conte ora ha davanti a sé a due alternative: o ci
presenta il testo o getta la spugna, mandando all’aria tutto. Io tifo perché ci sia un testo ». Un’apertura? Mica tanto:
«Dev’essere autonomia vera e non una presa in giro. Dai 5 stelle non viene alcuna proposta, solo giudizi sulle idee altrui». È il
partito dei No, dei veti quello che la Lega nordica non sopporta più.
L’altra partita, sempre che ci arrivi un governo in carica, coinvolge il commissario europeo. Dopo il gran rifiuto di Giorgetti, Di
Maio ha proposto a Salvini di indicare la diplomatica Elisabetta Belloni. Ma il Carroccio non ci sta, vuole un profilo politico,
non accetta nemmeno l’ipotesi che circola in questi giorni di mandare a Bruxelles Letizia Moratti. Una pace appare impossibile,
ma è il Capitano che decide per tutta la squadra.
ATTILIO FONTANA
Governatore lombardO
LUCA ZAIA
GOVERNATORE VENETO f g
ETTORE FERRARI/ANSA

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L’ira di Conte: "Attacchi inqualificabili,
giovedì si decide sul governo"
Il premier convocherà il 25 il cdm sulla autonomia. E il giorno prima difenderà Salvini in Senato

di Tommaso Ciriaco

ROMA — Giovedì 25 luglio, ecco quando si decide il futuro della legislatura. Attorno al tavolo rotondo del Consiglio dei
ministri approderà il testo sulla riforma delle autonomie. «Quel giorno - confida in privato Giuseppe Conte - capiremo cosa
vuole davvero Salvini. Un compromesso si può trovare. Ma se vuole rompere, la scusa sarà proprio questa riforma». Da amante
della storia, d’altra parte, il premier sa bene quanto la data evochi defenestrazioni clamorose.
Come sulle montagne russe, il penultimo sabato di luglio riporta in alto lo scenario di una crisi. Il problema, al solito, è
distinguere le minacce di cartone da quelle reali. Di certo, la manovra a tenaglia leghista contro Conte fa tremare Palazzo Chigi:
«Sulle autonomie ce l’ho messa tutta – spiega ai suoi - di più non posso fare». Non bisogna scambiarlo per un approccio
remissivo, anzi: il premier è furioso per gli attacchi dei governatori leghisti. «Sarei anche disposto a vederli, ma se continuano a
insultare neanche li incontro. Non posso fare una riforma incostituzionale che va bene solo al Veneto e danneggia il resto
d’Italia, anche perché poi verrebbe bocciata dalla Consulta. Serve un testo equilibrato, per il bene di tutto il Paese».
L’attacco di Zaia e Fontana è coordinato, violento, ripetuto per il secondo giorno consecutivo. E destabilizza, alimentando le
indiscrezioni incontrollate. Una, che nessun canale ufficiale conferma, riferisce di una sequenza di incontri al Colle già venerdì
scorso: prima Di Maio, poi Salvini, infine Tria.
Paranoie e realtà corrono ormai a braccetto, si confondono. Conta invece che il capo dell’esecutivo non comprenda il gioco al
quale sta giocando Salvini. «Al tavolo c’erano i ministri Stefani e Bussetti, hanno condiviso il lavoro. Ci siamo alzati senza
proteste, anzi». Pare che la ministra della Lega si sia anche complimentata con il premier, «bravo, Presidente, si vede che è un
ottimo avvocato». «E ho fatto anche il chierichetto...», la sua replica. A freddo, giorni dopo, sono arrivati gli affondi del
lombardo- veneto a trazione leghista, durissimi: «Questi sono insulti inaccettabili, inqualificabili - si arrabbia Conte - E si
riduce un tema importante a sterile polemica politica». In mezzo a questo bombardamento, ovviamente, perde forza ogni
velleità di rimpasto, ma anche quella revisione del contratto di governo su cui pure il premier sarebbe disposto a ragionare.
Se non fosse che Salvini per cento volte ha agitato lo spettro della crisi e per centouno volte si è ritirato, Conte darebbe davvero
per scontato il ribaltone. Lunedì, invece, tenterà una mediazione con un vertice tra ministri. Ma il punto resta sempre lo stesso:
cosa vuole davvero Salvini? L’avvocato lo difenderà in Aula, mercoledì prossimo, rispondendo alle domande delle opposizioni
su Moscopoli. E allora, si chiedono a Palazzo Chigi, perché adesso anche Salvini intende prendere la parola, forse parlando dai
banchi leghisti?
La finestra elettorale è quasi chiusa. E comunque per votare il 29 settembre bisognerebbe consumare strappo, consultazioni e
scioglimento delle Camere entro il 30 luglio. Eppure Salvini continua a tenerla aperta, la finestra, minacciando una crisi sotto
l’ombrellone.
La storia di governo, però, sembra comunque agli sgoccioli. I governatori leghisti si muovono come una macroregione del
Nord pronta a rompere con Roma. E gli altri amministratori di Salvini non sono da meno, spingendo sull’acceleratore delle
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battaglie identitarie. Un esempio? Il Presidente della provincia autonoma di Trento, il leghista Fugatti, si prepara a tagliare
buona parte degli undici milioni di euro che annualmente venivano dirottati a 53 associazioni di "Farete", la galassia del
volontariato, ong e cooperazione internazionale, per spostarli sul trasporto pubblico agevolato. E ovunque i salviniani si
muovono così, cercando scalpi da agitare in campagna elettorale, preparandosi a separarsi anche a Roma dai grillini.
A sera, l’ansia da crisi di governo raggiunge anche il quartier generale di Di Maio. «La Lega - fanno trapelare - vuole la crisi
per boicottare la riforma con il taglio dei parlamentari». Veline e intossicazioni reciproche, ancora. Fino a quando tutto sarà più
chiaro. Fino al 25 luglio gialloverde.
Non posso fare una riforma incostituzionale che va bene solo al Veneto e danneggia il resto d’Italia
Chi offende il governo e usa toni inaccettabili ostacola la riforma. Ai ministri leghisti il testo andava bene
fg

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IL CASO

Moscopoli, Meranda scaricato dalla sua banca
"Non ci rappresentava"
Nota ufficiale della Euro-Ib che sarebbe pronta anche ad azioni legali nei confronti dell’avvocato
italiano. Giallo sui 65 milioni per la Lega

di Fabio Tonacci

ROMA — La banca di investimenti anglo- tedesca Euro-Ib scarica definitivamente Gianluca Meranda, uno dei tre italiani del
Metropol. E lo fa nel modo più freddo: con una nota del fondatore Alexander Ungern Sternberg, che, tra le altre cose, lascia
intendere di essere pronto ad azioni legali contro l’avvocato cosentino. «A Mosca non ha negoziato a nome di Euro-Ib — scrive
— non abbiamo mai concluso transazioni grazie a lui, non era autorizzato a usare carta intestata del nostro istituto».
La nota, nei contenuti, era stata anticipata dall’intervista rilasciata a Repubblica due giorni fa dal manager di Euro-Ib, Glauco
Verdoia. «Sono sotto choc, Meranda sta facendo carne di porco», aveva dichiarato Verdoia, dopo la lettura di nuovi documenti
pubblicati dall’ Espresso , tra cui la lettera su carta intestata firmata da Meranda e inviata lo scorso 8 febbraio al leghista
Gianluca Savoini, presidente dell’Associazione Lombardia-Russia, in cui discutono di una nuova trattativa per l’acquisto di
prodotti petroliferi, questa volta con il colosso dell’energia Gazprom, dopo quella finita nel nulla con Rosneft.
Scrive dunque il fondatore di Euro- Ib: «Il contratto di counsel (consigliere legale) con Meranda l’abbiamo firmato il 12 ottobre
2016 e aveva la durata di nove mesi, rinnovabile previo accordo scritto. Che non abbiamo mai fatto. Il contratto è scaduto
ufficialmente il 12 luglio 2017. Da allora è stato un freelance. Quando era sotto contratto aveva il potere di agire nell’interesse
della banca, ma non per conto della banca». Un distinguo che può apparire di puro stile, ma che per Euro-Ib significa alzare un
muro contro tutto ciò che un microfono nascosto ha registrato il 18 ottobre 2018 nella hall dell’hotel Metropol di Mosca,
quando tre italiani (Meranda, Savoini e Francesco Vannucci) si sono seduti davanti a tre russi, per trattare una compravendita di
carburante che prevedesse oscure «commissioni addizionali». Perché l’interesse cruciale della controparte italiana era di
«sostenere una campagna politica », come specificò ai russi proprio l’avvocato Meranda. Quell’incontro è al centro dello
scandalo Moscopoli, e fu preceduto, o seguito, da una chiacchierata tra Savoini, Vannucci e il filosofo reazionario filo-
putiniano Aleksandr Dugin.
«Non abbiamo mai conosciuto Savoini o esponenti della Lega», si affretta a ribadire oggi il fondatore della "boutique" anglo-
tedesca, come si definiscono in gergo le piccole banche di investimento che guadagnano con le intermediazioni. Fino al primo
giugno Euro-Ib aveva tre sedi (a Londra, a Francoforte nella centrale Goethestrasse e a Roma), poi dall’ufficio di
rappresentanza italiano sul Lungotevere delle Navi è dovuta sloggiare, perché l’avvocato Meranda — titolare dello studio
ospitante — non riusciva più a pagare i 3.000 euro mensili di affitto. Se fosse andata in porto l’operazione con Rosneft così
come l’aveva prospettata Meranda al ritorno da Mosca (tre milioni di tonnellate di carburante con uno sconto del 6,5 per cento
rispetto alla quotazione del mercato), Euro-Ib avrebbe fatto l’affare della vita, incassando una commissione stimabile in 15
milioni di dollari quando di media una buona operazione ne porta in bilancio 200 mila.

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E, allora, da dove sarebbero dovuti uscire i 65 milioni di dollari che il sito americano Buzzfeed (il primo a pubblicare l’audio)
indica come la somma destinata segretamente alla Lega? In realtà, il groviglio di percentuali e commissioni dette e rilanciate al
tavolo del Metropol, su cui sta indagando la procura di Milano, può aver generato confusione. L’operazione immaginata da
Savoini e gli altri prevedeva quattro soggetti: un venditore di petrolio (Rosneft), un compratore finale (Eni), due intermediari
(Euro-IB e una ignota compagnia russa). I 65 milioni corrispondono all’incirca a quel 4 per cento che Meranda indica come la
quota soddisfacente per gli italiani («secondo il piano dei nostri poli tici, con lo sconto al 4 per cento possono sostenere una
campagna»). Ma è uno sconto di cui gli intermediari non avrebbero beneficiato se non in minima parte, perché lo dovevano
trasferire sul prezzo finale pagato dai trader, reali acquirenti del carburante. Un’eventuale fondo nero può sì nascondersi tra le
pieghe della complicata transazione, ma difficilmente poteva essere di quell’entità.
Su Repubblica L’intervista, pubblicata venerdì, a Glauco Verdoia manager della banca Euro-Ib

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LA PREVIDENZA

Pochi contributi e regole più severe la generazione
della pensione perduta
Contratti "spezzettati" e norme introdotte dalla Fornero rendono tutto più difficile

— v.co.

ROMA — Vincoli posti dalla riforma Fornero. Carriera discontinua e basso reddito. Inesistenza di un’integrazione al minimo.
La speranza di vita che si allunga. Ecco perché i giovani o giovani-adulti di oggi, quarantenni e forse qualche cinquantenne
inclusi, devono preoccuparsi. La loro pensione sarà piccola e la prenderanno da ultra settantenni.
Ormai non si parla più di una "pensione di garanzia" per queste generazioni. Forse perché l’emergenza tocca epoche future,
fuori da perimetri elettorali della classe politica attuale concentrata sulla flessibilità da garantire ai sessantenni di oggi (che
votano più dei giovani) con quota 100 e chissà forse anche tramite quota 41. Ma una buona parte della generazione X degli anni
‘70, i Millennials - nati negli anni ‘80 e ‘90 - e certo anche la generazione Z degli anni Duemila, ovvero tutti coloro che hanno
cominciato a lavorare dopo il 1996 e ricadono in pieno nel sistema contributivo (prendi in base ai contributi versati e non in
percentuale dell’ultimo stipendio, come col metodo retributivo) rischiano di incassare la pensione da over 70: a seconda delle
simulazioni a 73 anni o anche dopo i 75. E soprattutto con assegni da fame, fino al 25% in meno in media. Altro che 62 anni e
38 di contributi, come garantisce oggi quota 100.
I motivi sono quattro. E vanno affrontati ora, per invertire la tendenza. Primo motivo, i requisiti Monti- Fornero del 2011 che
legano l’età del pensionamento al valore della pensione. Un vincolo fin qui inedito e stringente perché nessuno ancora ha preso
una pensione tutta contributiva, tutt’al più mista con un pezzetto di retributivo. Chi ha cominciato a versare contributi dal 1996
in poi potrà andare in pensione solo se il suo assegno gli consente una vita dignitosa, così fu giustificato il paletto nel 2011: e
quindi solo se è 2,8 volte l’assegno sociale (pensione anticipata) oppure 1,5 volte (pensione di vecchiaia). Questo significa che
le prime corti contributive che usciranno dal 2035 - come ha calcolato la Cgil in uno studio presentato venerdì - potranno
lasciare il lavoro a 66 anni, con almeno 20 di contributi, solo con una pensione da almeno 1.282 euro (2,8 volte l’assegno
sociale). Oppure a 69 anni, con almeno 20 di anzianità, solo con una pensione non inferiore a 687 euro (1,5 volte). Se il
requisito economico non c’è, si esce a 73 anni ed almeno 5 anni di contributi versati. La possibilità di agganciare la pensione
anticipata è considerata lunare: chi avrà 44 o 45 anni di contribuzione? Non queste generazioni.
Il secondo motivo di preoccupazione è l’eliminazione della pensione integrata al minimo per chi è totalmente nel sistema
contributivo. Oggi se non arrivi a 513 euro, il resto lo mette lo Stato. Per i post-1996 no. Dovranno accontentarsi anche di 200-
300-400 euro.
Terzo motivo dello slittamento in là delle pensioni e del loro assottigliamento è la carriera di chi oggi lavora in modo
intermittente e precario. Di chi cioè colleziona contrattini, voucher, nero, cococo. E soprattutto tanti buchi tra un lavoretto e
l’altro.
Quarto motivo: l’aspet tativa di vita. Viviamo di più, lavoriamo di più. L’età della pensione tenderà a spostarsi sempre più in là
nel tempo.

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22/7/2019                                                                     Stampa Articolo

Gli effetti sono paradossali, la Cgil li mette in fila. Una colf con 40 anni di contributi e uno stipendio part-time da 600 euro
lordi al mese a 64 anni non potrà uscire, dovrà lavorarne altri 4 per raggiungere il criterio economico Monti-Fornero. E
prenderà 360 euro di pensione. Un suo coetaneo, dirigente di banca, 4 mila euro lordi di stipendio, con soli 20 anni di contributi
la metà - andrà invece in pensione a 64 anni con 1.330 euro al mese. Se un uomo di 35 anni - che lavora da 5 con stipendio da
1.076 euro - si fa male e diventa inabile, avrà la maggiorazione contributiva prevista anche oggi per le pensioni di inabilità. Ma
il suo assegno sarà di 525 euro anziché 782 euro perché la riforma Dini del 1995 decise di applicare un coefficiente che
trasforma lo stipendio in pensione oggi troppo basso, inattuale: quello dei 57 anni. Altra stortura da correggere. Ma chi se ne
occupa?
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Uno studio Cgil: chi finirà di lavorare dal 2035, ma non avrà trattamento minimo, dovrà restare fino a 73 anni

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