Cani e porci nell'Odissea (1) di Omero.
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Cani e porci nell’Odissea (1) di Omero. Mamma tivù vuole bene all’affezionata clientela e la seduce con le fiction sui grandi personaggi della storia, da Ulisse a Leonardo da Vinci, da Napoleone a Cristoforo Colombo. Ma non tutti rimangono svegli davanti al piccolo schermo, come la giornalista Paola De Carolis, per esempio, che parlando del furto di un famoso dipinto attribuito a Leonardo, sul Corriere della Sera del 28 agosto scorso, a pagina 20 scrive:”Il Leonardo in questione è La Madonna dei fusi versione Buccheuch, una delle due copie – l’altra si trova negli Stati Uniti – di un dipinto andato perduto e realizzato da Da Vinci ……… “ Quantunque la sua biografia sia nota anche ai più piccini, la tivù ha enne volte ribadito che Leonardo non ha cognome e Vinci è il paese toscano che gli ha dato i natali. Nell’Odissea, Argo è il simbolo della fedeltà canina, da epoche remote espressione della caninità per memoria di sensi, spirito d’adattamento, voglia di servire. e un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie, Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno lo nutrì di sua mano, prima che per Ilio sacra partisse; …………….. ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone, sul molto letame di muli e buoi ……… ……………... là giaceva il cane Argo, pieno di zecche. Nell’attesa paziente ma non rassegnata, coperto di zecche, trascurato e sopra un giaciglio di sterco, Argo accetta anche i maltrattamenti. In cambio dell’ultimo premio le sue sono le sofferenze mute inflitte da chi guarda e non vede. Lui è nato per servire, lo sa bene, e un servo non ha diritto a lacrime né a proteste, si lascia frustare in silenzio perché possiede quella dignità consapevole che gli vieta di svelare la maschera del martirio. Affronta la morte come ultimo oblio sapendo che in questa vita amore e giustizia sono chimere, ma nell’Olimpo, accanto a quello dei bambini, uno spicchio di blù Padre Zeus lo riserva anche ai cani. E allora, come sentì vicino Odisseo, mosse la coda, abbassò le due orecchie, ma non poté correre incontro al padrone.
Sente Argo che la morte gli sta col fiato sul collo e manda residui segnali, muove la coda, il galateo canino per dire ciao, solleva le palpebre e nell’ultimo sforzo alza gli occhi sconfitti, poi abbassa le orecchie per confermare una devozione rimasta incontaminata dal giorno in cui si consacrò a Ulisse affidandosi alle sue cure. Stremato, non può correre incontro al padrone e prova vergogna per l’indesiderata fatalità che gli impedisce un atto in quel momento impossibile. Gli vorrebbe gridare che non è un tradimento, ma i polmoni sono senza fiato. Ora che il seme della morte gli si è conficcato sotto la pelle, le zecche devono trovarsi altri ospiti e identici giuramenti dovrà cercarli il padrone che nella beffarda pantomima del distacco pensa a quando l’ebbe compagno di giochi e di caccia. Ricorda Eumeo: “Se per bellezza e vigore fosse rimasto come partendo per Troia lo lasciava Odisseo, t’incanteresti a vederne la bellezza e la forza. Non gli sfuggiva, anche nel cupo di folte boscaglie, qualunque animale vedesse, era bravissimo all’usta” Già a quel tempo si abbandonavano gli animali, abbandonare infatti non è scaraventare un vivente in terre lontane e girare i tacchi con un comodo ciao, abbandonare è negarsi, castigo peggiore della morte. Ah, sì, “bravissimo all’usta”. Per bravura qui s’intende non solo abile pedinamento della traccia olfattiva lasciata dalla selvaggina, ma sbando emotivo, delirio animale, colata di adrenalina. E Argo la Moira (2) di nera morte afferrò appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni. (Libro XVII, 291-327) La morte di Argo è la catarsi della fedeltà, pur se riesce difficile capire come mai dopo vent’anni un cane sia ancora in vita. Ma se è per questo il poeta canta come donna tutta d’un pezzo la petulante e insopportabile Penelope che i Proci insistono a corteggiare anche dopo vent’anni, un tempo che azzanna la pelle lasciandovi sopra i segni di morsi impietosi. Ma questa è un’altra storia. E Ulisse? Chi è Ulisse se non uno sconsiderato vagabondo? Anche questa è un’altra storia. Detto così, lo guidò alla capanna il porcaio glorioso, lo fece entrare e sedere, e ammucchiò molte frasche, e sopra stese la pelle vellosa d’una capra selvatica
- il suo giaciglio - ampia e folta. Godette Odisseo che così l’accogliesse, e disse parola, gli disse: “Zeus ti dia, ospite, e gli altri dei immortali quello che più desideri, perché m’accogli benigno”. E tu, ricambiandolo, Eumeo porcaio, dicesti: “Straniero, non è mio costume – venga pur uno malconcio più di te – trattar male gli ospiti ………… “ Guardiano di porci, ebbene di umile stirpe e modesto mestiere, Eumeo non conosce la noia ma gl’impacci della vita quotidiana e tuttavia è d’animo fine. Offrendogli cibo e cedendogli il proprio giaciglio onora l’ospite, uno sconosciuto coperto di stracci che lui ignora essere Odisseo in carne ed ossa, re di Itaca, presente in quel misero arnese affinché nessuno s’accorga della sua identità. Per nulla affatto desta meraviglia questa figura omerica, si sa che è più facile trovare buona grazia negli umili che nei potenti. Non solo: Così dicendo con la cintura rapidamente strinse la tunica, e si diresse ai porcili dove le stirpi dei porchetti eran chiuse; ne scelse due, li portò in casa, li uccise, li scottò, li fece a pezzi e li infilzò negli spiedi, e, cotti che li ebbe, li mise davanti a Odisseo, caldi, sui loro spiedi, e li cosparse di farina bianca ……… A simiglianza delle procedure oggi adottate, l’animale viene ucciso – per la verità Omero non dice come –, depilato previa scottatura, sezionato e sottoposto a cottura. Manca la certificazione secondo le norme ISO, ma sulla tracciabilità delle carni si può mettere la mano sul fuoco. Lì dentro, in quel “Li mise davanti a Odisseo, caldi, sui loro spiedi” c’è tutto quanto l’amorevole ardore che Eumeo riserva agli ospiti, umili o potenti, amici o sconosciuti. Ricco di cuore e di preclare virtù, felice di dare non bada al censo. “Mangia ora ospite, questa è roba da servi, porchetti. I porci ingrassati se li divorano i pretendenti …….. “ Non più per soli poveri è la porchetta oggi, come il pollo non è più cibo per soli ricchi, i nuovi corsi dell’economia e le tecniche di produzione hanno capovolto le abitudini alimentari. Intanto arrivarono le scrofe e i porcai;
subito chiusero negli stalletti le bestie a dormire, e fu un grugnire infinito di scrofe nei chiusi. Ma comandava ai compagni il glorioso porcaio: “Portate il più bello dei porci, che l’uccida per l’ospite di terre lontane; e anche noi ne godremo ……….. “ Sorvegliate dai porcai comandati da Eumeo, stando al racconto di Omero solo le scrofe vengono portate al pascolo e a sera stabulate, un trattamento di riguardo riservato a chi dà la vita. Il “glorioso porcaio” ordina e altri eseguono e in onore dell’ospite ancora di ignota identità, viene sacrificato “il più bello dei porci”, ma non una preziosa scrofa, segno che a sua discrezione Eumeo può disporre anche di animali adulti senza doverne rendere conto. E’, quanto ai porci, monarca assoluto. Facendone un paradossale antieroe, nell’antologia dei suoi personaggi Omero lo trascina fuori dal ghetto dell’ordinaria sopavvivenza e il Times dell’epoca gli dedica l’intera copertina con una lapidaria didascalia: “non è sempre vero che quelli umani sono, alla fine, rapporti di reciproca sopraffazione” Poi accoppò il porco con un pezzo di quercia, che non aveva spaccato; la vita l’abbandonò. Lo scuoiarono, lo scottarono gli altri, lo squartarono subito; offriva i bocconi il porcaio, primizia di tutte le membra, su grasso abbondante e li buttava nel fuoco, spargendo fior di farina: il resto lo fecero a pezzi, li infilarono su spiedi, li arrostirono con cura ………… (Libro XIV, 48 – 431) Già descritta, la tecnica è dunque consolidata. Per la mattazione, tuttavia, non si andava tanto per il sottile, la Protezione Animali a quel tempo non aveva voce in capitolo e un nodoso pezzo di legno andava a meraviglia purché raggiungesse lo scopo. Dopo la tremenda mazzata “la vita l’abbandonò”: il poeta ricorre a un verbo dolce e pietoso come se si trattasse di una morte umana che confligge con la brutalità dell’esecuzione. Seguivano il dissanguamento, la scottatura, la depilazione e l’eviscerazione, pare di assistere alla macellazione praticata fino a pochi anni fa dal norcino nelle nostre cascine, una vera e propria festa consumata vicino alle ricorrenze natalizie sotto il portico dell’aia: tirato fuori a viva forza dall’angusto ricovero e da robuste braccia afferrato alle zampe posteriori a loro volta assicurate a funi, mentre strillava come un
indemoniato l’animale veniva issato tramite un verricello e barbaramente accorato, col sangue che fiottava per gravità. Il grasso è “abbondante” com’è normale che sia nelle carcasse di suini allevati a ghiande e granaglie, frutti e cereali ad alto contenuto glicidico. Oggi selezione e alimentazione hanno fatto del suino un animale diverso, ma quanto alla ricetta, nella moderna gastronomia la carne viene ancora rosolata previa infarinatura. E’ il caso di rimpiangere arcadia, civiltà agreste, architettura rurale e animali ruspanti? Certo che no, ma a furia di ingoiare alimenti certificati, come la mettiamo con gli anticorpi? Faremo colazione con un pugno di terra? Chiosando con un elzeviro “La mente colorata” (Mondadori) in cui Pietro Citati dà una lettura dell’Odissea, Giorgio Montefoschi scrive:”L’opera provoca il piacere felice che conoscono le letture dell’infanzia, lo stesso piacere totale che esiste nel mangiare e nel bere, nell’amore e nella danza. E nell’ascoltare la poesia. Un libro misterioso che nutre tutta la letteratura fino a Tolstoj e Proust”. Montefoschi non me ne voglia, ma il “mistero” che sopravvive a venticinque secoli di storia preferisco chiamarlo magia. (1) I testi citati provengono da: Omero, Odissea, Torino, Einaudi, 1963, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti. (2) Personificazione della sorte che tocca a ciascun uomo, Moira tende a identificarsi in particolare col destino della morte.
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