Associazione Italiana di Psicologia Giuridica - AIPG
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Associazione Italiana di Psicologia Giuridica Corso di Formazione in Psicologia Giuridica e Psicopatologia Forense Teoria e Tecnica della Perizia e della Consulenza Tecnica in ambito Civile e Penale, adulti e minorile “ L’imputabilità: il piacere tossico negli adolescenti Candidata Micaela Libbi CORSO 2020
Sommario 1) IL PIACERE TOSSICO ...............................................................................................2 2) IL BISOGNO E IL DESIDERIO...................................................................................4 3) I NUOVI STILI DI CONSUMO GIOVANILE .............................................................5 4) ADOLESCENZA E DIPENDENZA............................................................................ 11 5) L’IMPUTABILITA’ DI UN MINORE........................................................................ 14 5.1) L’ARTICOLO 97 DEL CODICE PENALE ........................................................................ 17 5.2) L’ARTICOLO 98 DEL CODICE PENALE ........................................................................ 18 6) IL CONCETTO DI MATURITA’ E L’IMPUTABILITA’ ......................................... 18 7) IL TRATTAMENTO GIURIDICO DI UN SOGGETTO TOSSICODIPENDENTE . 24 BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................. 31 1
1) IL PIACERE TOSSICO L’osservazione della realtà circostante può condurre i ricercatori ad incorrere in fenomeni, i quali seppure studiati e conosciuti da tempo, risultino ancora non completamente chiari. Uno di questi fenomeni nell’ambito psicopatologico e clinico è rappresentato dalla dipendenza da sostanze o da comportamenti specifici, i quali vanno ad influenzare e a distorcere, a differenti livelli di gravità, le esperienze private di alcuni soggetti. La dipendenza primariamente risulta essere un fenomeno individuale il quale può presentarsi durante lo sviluppo psicologico in risposta a specifici fattori evolutivi, nonché una condizione neurobiologica e un problema sociale. L’insieme di questi fattori inseriscono la dipendenza in una costellazione di relazioni oggettuali, angosce e difese la cui dinamica si esplica in una necessaria attitudine le cui finalità e le motivazioni non sempre risultano chiare, tanto alla consapevolezza del paziente, quanto alla valutazione del clinico (Baraldi, 2001). Lo scopo principale delle droghe risulta essere il cambiamento della percezione del sé e dell’ambiente circostante, le dipendenze patologiche fanno sì che i soggetti modifichino lo stato di coscienza ordinario il cui disagio e sofferenza non riescono ad essere regolati altrimenti. Il punto fondamentale nell’esperienza della dipendenza è rappresentato dalle problematiche innescate dalla separazione e dal distacco, le quali sono causa di profonda preoccupazione e di tendenze e comportamenti regressivi. Le rappresentazioni e i vissuti riguardati la perdita e la solitudine vano a costituire la principale minaccia nel funzionamento dell’Io . Il senso di svuotamento e di frammentazione del sé conducono ad intensificare le difese il cui fine si esplica nell’affrontare l’angoscia di essere sé stessi (Greenspan, 1989). Il dramma che si osserva in questi soggetti è rappresentato dall’incombente pericolo di cedimento psichico e, si riferisce ad una tensione particolare ed intollerabile dalla quale scaturisce la complessità dei meccanismi di difesa attivati come controllo rispetto al terrore della vulnerabilità. Affinché la dipendenza si instauri nella vita di una persona è necessaria la presenza di una vulnerabilità di base, che conduce ad una modalità di comportamento utilizzata nel momento in cui il soggetto si trova sotto stress. Nei soggetti dipendenti si presentano delle emozioni gravose, quali la frustrazione, la delusione, la rabbia, la gelosia, la rivalità, l’invidia e la competizione, che non riescono ad essere mentalizzate nell’esperienza interiore. Diviene fondamentale la capacità di 2
rappresentazione di un pensiero o di un affetto, affinché i soggetti dipendenti riescano a raggiungere il controllo di quelle emozioni che, potrebbero sopraffare e annientare la loro identità. La regolazione affettiva è un processo attivo, che vede il coinvolgimento di domini interdipendenti tra di loro, quello neurofisiologico, comportamentale e cognitivo-esperenziale, la cui interazione è determinata dall’influenza derivante dalle relazioni stabilite durante la prima infanzia (Del Rio & Luppi, 2010) La modalità particolarmente aggressiva con la quale i soggetti dipendenti hanno vissuto la separazione e il distacco nelle prime fasi dello sviluppo, li porta a sperimentare un disturbante senso di alterità e di vuoto esistenziale, la cui conseguenza si evidenzia in un pervasivo sentimento d’impotenza che non riesce ad essere elaborato nelle successive fasi di sviluppo. Quando un soggetto si sente stanco, malato o è sotto pressione, le d olorose esperienze psicosensoriali esperite in questo stato, non riescono ad essere integrate nel Sé, facendo sì che il soggetto tenda ad estraniarsi dalla realtà ordinaria, ricercando sensazioni alternative piacevoli. Se l’allontanamento dalla realtà risulta essere parziale e temporaneo, tale meccanismo di difesa può risultare adattivo, tuttavia i problemi incorrono nel momento in cui l’allontanamento diviene una modalità ricorsiva con la quale si gestiscono gli eventi che si presentano nella vita o le tensioni percepite nelle relazioni. Il dipendente patologico fa in modo di non sentire e di non pensare, ricorrendo ad una specie di tecnica autoipnotica che lo catapulta in un altro mondo, un modo presimbolico, nel quale non si è ancora costituito il legame e la separazione dall’oggetto. Facendo riferimento ad un aspetto dinamico, si può affermare che, gli oggetti della dipendenza presentano delle somiglianze con l’oggetto transizionale: non sono umani, sono tattili, sono investiti libidicamente, devono essere stabilmente disponibili e prevedibili: grazie a ciò l’equilibrio psicofisico riesce ad essere mantenuto in condizioni di elevata tensione. Lo scopo del soggetto dipendente è quello di ricercare un piacere, il quale provoca uno stato di trance autoindotto, che permette di costruire una realtà psicosensoriale differente da quella esperita nella realtà ordinaria, tale realtà parallela permette di ritirarsi da ogni contatto , di dissociare le sensazioni, le emozioni e le immagini conflittuali, che non sono rappresentabili sul piano cosciente. 3
Il soggetto dipendente attraverso i suoi comportamenti paradossali esprime una richiesta di aiuto, a volte quasi consapevolmente, a causa della sua incapacità a tollerale il dolore, rinuncia all’uso del pensiero e della riflessività, ricercando una scarica emozionale che viene messa in atto in modo progressivo con modalità sempre più compulsive (Gaddini, 1986). 2) IL BISOGNO E IL DESIDERIO Un fenomeno tossicomanico assume valenze differenti se si rivolge l’attenzione alla “sostanza, agli usi di questa o alle caratteristiche della relazione con l’oggetto. Se l’attenzione è volta alla “sostanza” si considereranno oggettivamente tossicomani tutti quei comportamenti di dipendenza da sostanze “ufficialmente” tossiche, come, per esempio, le cosiddette droghe “pesanti”. Tuttavia, la definizione di tossicodipendenza, diventerà più incerta se la nostra attenzione è volta verso le droghe “leggere”, o verso l’uso di altre sostanze non oggettivamente tossiche. In questo caso non ci si potrà limitare a sottolineare la presenza o l’assenza di una sostanza, ma la valutazione dovrà essere diretta verso la quantità assunta o la frequenza. Le caratteristiche di un comportamento tossico verranno determinate dal rapporto, necessariamente variabile, tra la frequenza d’uso e la quantità di assunzione (Freda, 2001). Il fattore che primariamente va a discriminare le manifestazioni tossicomaniche è determinato dalla compulsività (craving). Si potrebbe definire la compulsività come un bisogno impellente, una necessità “automatica”, un’urgenza. Le azioni del soggetto sono depauperate dall’intenzionalità, al punto tale che il soggetto dipendente non riconosce i confini della sua volontà o della sua identità (Sarno &Madeddu, 2007). Occorre effettuare una distinzione nell’orizzonte motivazion ale tra “bisogno” e “desidero”: il termine bisogno rimanda alle necessità biologiche in funzione della sopravvivenza, il bisogno è la percezione di una mancanza totale o parziale di uno o più elementi che costituiscono il benessere di un individuo. L’essere umano esprime il bisogno già nelle primissime fasi dello sviluppo, il bisogno veicola la necessità, l’urgenza, l’intollerabilità dell’attesa (Sarno & Epifanio, 2005). Il bisogno è correlato allo stato somato-psichico presente agli esordi della vita. La vita del neonato è costellata da un inevitabile presenza di bisogni il cui soddisfacimento garantisce la sua sopravvivenza, contrariamente l’impossibilità da parte dell’ambiente di colmarli insinua in questo 4
una condizione di sofferenza intollerabile. Il bisogno si vede correlato alla “cultura” dell’oggetto il quale è necessario a saturare un bisogno incoercibile. Nella “cultura” del bisogno il valore dell’oggetto si traduce in un utilizzo immediato (Pieretti & Manella). I sentimenti di indifferenza, l’abbandono di sé ai piaceri, l’ingordigia sottolineano come gli abusi presenti nella cultura del bisogno vadano a tradursi in azioni. L’assenza dell’oggetto conduce ad una fame che non riesce ad essere soppressa sintomaticamente, la fame diviene una coazione volta a riempire un vuoto provocato da una mancanza, e l’oggetto viene ricercato in maniera compulsiva. Se la vita dell’oggetto dipende dal suo immediato utilizzo e può avere una sostituibilità infinita, questo non ha la possibilità di avere delle specifiche caratteristiche (Winnicott, 1960). Se la “cultura” è veicolata da un desiderio il valore dell’oggetto è stabilito in relazione alle sue qualità intrinseche. Il desiderio, si alimenta delle attese: le relazioni, i pensieri, possono incrementarsi in uno spazio -tempo dove è presente l’assenza dell’oggetto. Le rappresentazioni che nascono in assenza dell’oggetto, servono a far sì che l’oggetto sia presente mentalmente nel tempo della sua “assenza”. Primariamente la rappresentazione visiva e successivamente la parola permettono al bambino di tollerare l’assenza della mamma, in accordo con la necessità o con il desiderio della sua presenza (Alberti, 2017). Se la “cultura” è veicolata da un desiderio il valore dell’oggetto è stabilito in relazione alle sue qualità intrinseche (Pieretti & Manella) Nella nostra cultura tali caratteristiche conducono a confini indefiniti tra quei comportamenti presunti normali e comportamenti tossicomanicamente patologici (Freda, 2001). 3) I NUOVI STILI DI CONSUMO GIOVANILE Nei paesi occidentali negli ultimi anni il consumo di sostanze è un fenomeno che vede un incremento esponenziale, il quale va assumendo caratteristiche preoccupanti. Prima tra le quali è l’ingresso delle droghe nella “normalità”, nel vivere quotidiano (Gatti & Grosso, 2006). Il mondo della dipendenza porta con sé scenari pieni di dolore e devianza riguardanti sempre di più gruppi sociali già in partenza svantaggiati ed emarginati, o soggetti con pregresse problematiche di sofferenza mentale. Ciò che si evidenzia è come la maggior parte dei giovani 5
consumatori stia andando verso un uso occasionale e intermittente di sostanze di sintesi, legato a contesti ricreativi. La grande varietà e disponibilità di sostanze e farmaci sul mercato, nonché l’aumento della popolazione di consumatori, nei prossimi anni condurranno ad un incremento dell’incide nza di casi di soggetti che per motivi propri o aggiuntivi si inseriranno nelle trame della dipendenza patologica. In previsione di questo incremento si rende necessario potenziare la formazione e la riflessione sull’intervento delle dipendenze patologiche, settore verso il quale la psicologia clinica e la psichiatria ancora ad oggi mostrano una malcelata diffidenza (Di Blasi, 2003). Il consumo intermittente o occasionale di sostanze sembra essere l’area del fenomeno numericamente più vasta, ma allo stesso tempo poco conosciuta, poiché viene resa invisibile dall’alone di normalità che circonda i giovani consumatori. In questa area è possibile confrontare una vasta gamma di variabilità fenomenologica che si esprime in comportamenti fisiologici, normalmente trasgressivi, spesso incautamente pericolosi e a volte chiaramente problematici (Bertoletti & Meringolo, 2010). Tali comportamenti, si riscontrano prevalentemente nella fase adolescenziale: con questo termine si indica la fascia di età compresa tra i 12 e i 19 anni, un passaggio dall’infanzia all’età adulta, quella maggiormente più ricca di cambiamenti a livello fisico, psichico ed emotivo. L’adolescente si trova in una fase di profondo mutamento, in cui deve fare scelte che saranno poi fondamentali per la costruzione di una identità adulta. L’adolescenza da un lato prevede l’abbandono dei valori giovanili, e dall’altro l’apertura verso nuovi comportamenti, verso la sperimentazione di nuovi ruoli, e l’esplorazione di un ambiente socio-culturale in cui l’adolescente si trova a vivere. L’elemento caratteristico nella costruzione dell’identità è rappresentato dal corpo dell’adolescente: l’inizio della pubertà vede il raggiungimento della capacità riproduttiva, conducendo a notevoli cambiamenti sia a livello fisico che mentale. L’adolescente si ritrova in un corpo nuovo, e deve imparare ad accettarlo tanto biologicamente che psicologicamente. Il giovane ha bisogno di tempo per elaborare la sua trasformazione, che implica la perdita e la costruzione della sua nuova immagine interna: deve creare la propria identità corporea. Il maggior rischio che il giovane corre è quello di poter considerare il corpo come un ostacolo nel rapporto con gli altri e per questo tende a tenerlo a distanza, a negarlo, a odiarlo, a metterlo in pericolo (Pesce, 2020). 6
Un altro aspetto della costruzione della propria identità riguarda la sfera emotiva: l’adolescente inizia a provare sensazioni, emozioni e sentimenti nuovi, sconosciuti e indecifrabili (Nicolò & Ruggiero, 2016). Rilevante risulta anche essere il tema della separazione e dell’individuazione, il soggetto si trova a scegliere tra modelli vecchi e nuovi, tra imposizioni e ribellioni, tra essere come si vuole o come si dovrebbe essere (Monti et al., 2018). I delicati compiti evolutivi che devono essere affrontati nel periodo adolescenziale possono far emergere contesti complicati o stati transitori di bisogno, che rendono l’adolescente un “soggetto a rischio” per problemi di diversa natura. Assumono particolare rilevanza, tanto per gli aspetti sociali, quanto per quelli psicologici, le problematiche correlate ai comportamenti di dipendenza, poiché l’adolescenza sembra essere il periodo cruciale per la sperimentazione della maggior parte delle sostanze psicoattive lecite e illecite (Ravenna, 2001). Tradizionalmente il consumo di sostanze stupefacenti si vedeva correlato al disagio, a vicende familiari più o meno traumatizzanti, così che oggi ci si trova spiazzati di fronte a questi comportamenti giovanili che appaiono maggiormente connessi alle difficoltà tipiche presenti nella fase adolescenziale, declinate in uno scenario antropologico-culturale molto complesso. Questi comportamenti hanno in comune la ricerca del piacere immediato, i conseguenti rischi sono legati alla perdita o alla mancanza di controllo sul consumo, tuttavia si muovono all’interno di uno spazio così vasto rispetto al quale risulta essere molto difficile stabilire un confine tra sano e patologico, tra normalità e devianza (Cambria, 2004). A volte, tali comportamenti, cecano di esprimere le difficoltà legate al raggiungimento d i tappe evolutive importanti, quali l’assunzione di una nuova identità sociale e sessuale, o il delineare un progetto di vita che possa risultare interessante e convincente. Nello stesso tempo, esprimono impulsi vitali che appaiono sintonici tanto ad alcune caratteristiche del nostro tempo e del nostro modo di vivere, che vede come elementi fondamentali la velocità, il consumismo, l’efficienza e il rischio, quanto alle esigenze fase-specifiche dove il soggetto va alla ricerca di un senso, e l’accostamento al rischio viene percepito come un comportamento naturale che si sviluppa all’interno del processo di crescita (Di Blasi, 2003). 7
Le droghe catalizzano sia i consumatori occasionali che sono spinti dalla curiosità nello sperimentare degli stati di alterazione della coscienza, sia i consumatori problematici che utilizzano la sostanza come una protesi a cui viene affidato il compito di risolvere, anche solo temporaneamente, le proprie difficoltà. Diversi ragazzi vivono condizioni di difficoltà psicologiche di varia natura, rispetto alle quali il consumo di droghe, rappresenta una sorta di soluzione sintomatica più o meno consapevole. Per molti adolescenti il consumo di sostanze è preceduto e si sovrappone ad una situazione di malessere. Il disagio dell’adolescente si mostra, principalmente, nella relazione con i co etanei, e si esprime attraverso un sentimento di inadeguatezza e di inferiorità che non gli permette di vivere in maniera naturale le situazioni sociali, costringendoli all’isolamento all’interno del gruppo di appartenenza. Il profondo timore che la propria identità sociale e sessuale, non corrisponda né alle proprie aspettative né a quelle dei coetanei, sembra indicare una fragilità nell’area delle rappresentazioni narcisistiche del Sé. L’uso di droghe sembra rappresentare un facilitatore nelle relazioni, consentendo al giovane di viverle in maniera più fluida, sentendosi all’altezza del compito (Pietropolli, 2000). Le droghe divengono protesi chimiche che consentono di gestire meglio le proprie difficoltà interne e relazionali, di districare transitoriamente i nodi problematici facendo sì che la propria vita relazionale e sociale trascorra in modo apparentemente “normale”. L’Io conquista una maggiore fluidità che permette di gestire in maniera più funzionale aspetti e rappresentazioni di sé narcisisticamente conflittuali. Con il tempo, molti soggetti sperimentano che la tenuta di questa strategia è scarsa e che il sollievo rispetto alla sofferenza è insufficiente. Ben presto ai problemi sottostanti all’assunzione si vanno ad aggiungere i problemi legati all’abuso della sostanza (Carbone, 2003). La letteratura sulle dipendenze non rileva numerosi autori che rendono chiaro cosa si intenda con il termine dipendenza. Sono rari i lavori in cui viene data un’indicazione di cosa possa essere considerato un segno distintivo, un tratto peculiare del comportamento e dell’esperienza della dipendenza (Skog, 1999). 8
Sembra che coloro che scrivono sul tema delle dipendenze, diano per scontato che tutti sappiano cosa si intenda con questo termine, ma in particolar modo si crede che esista un consenso unanime sull’esatto significato di questo concetto per le differenti scienze che se ne occupano. Questa trascuratezza rispetto alla definizione di dipendenza sembra indicare l’esistenza di un accordo su come tanti differenti tratti comportamentali, e la variegata e complessa galassia di comportamenti associabili al concetto di dipendenza, abbia effettivamente un nucleo di elementi e manifestazioni comuni che possano essere legittimamente sussunti all’interno di una unica classe teorica. Ad oggi anche le dipendenze comportamentali vengono considerate forme di dipendenza, poiché i tratti più caratterizzanti di queste forme di comportamento richiamano fortemente i sintomi delle dipendenze da sostanze in termini di tolleranza, astinenza, perdita di controllo ed altre caratteristiche elencate nelle diverse versioni dei criteri diagnostici dei DSM e degli ICD (Potenza, 2006, Griffiths, 2011, Kraus, potenza, 2016). La proposta di assimilare le dipendenze comportamentali alle classiche dipendenze da sostanze viene sostenuta anche in virtù di presunte analogie nelle dimensioni fisiopatologiche e nei correlati neurali (American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders: DSM-5,2013; Potenza et al., 2013; Potenza, 2014; Kuss & Griffiths, 2012; Romanczuk-Seiferth, Van Den Brink & Goudriaan, 2014). Per ciò che riguarda le dipendenze, ciò che spesso viene impropriamente denominato come malattia, rappresenta, invece, solo una sindrome, vale a dire u na costellazione di sintomi che appaiono occorrere in modo congiunto, per correlazioni o nessi causali ampiamente sconosciuti. Nel recente DSM-5 la categoria “disturbi da dipendenza e correlati all’uso di sostanze” ha conosciuto cambiamenti sostanziali rispetto alle edizioni precedenti: le categorie di “abuso” e “dipendenza da sostanze” sono state riunificate in un unico disturbo, misurato su un continuum da lieve a grave, i cui criteri per la diagnosi sono stati uniti in un unico elenco di 11 sintomi. Il DSM 5 pone le seguenti condizioni per la diagnosi di un Disturbo da Uso di Sostanze (DUS): Una modalità patologica d’uso della sostanza che conduce a disagio o compromissione clinicamente significativi, come manifestato da almeno due delle condizioni seguenti, che si verificano entro un periodo di 12 mesi: 9
1) La sostanza è spesso assunta in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dal soggetto; 2) Desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza; 3) Una grande quantità di tempo viene spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza (per es., recandosi in visita da più medici o guidando per lunghe distanze), ad assumerla (per es., fumando “in catena”), o a riprendersi dai suoi effetti; 4) Craving o forte desiderio o spinta all’uso della sostanza; 5) Uso ricorrente della sostanza che causa un fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa; 6) Uso continuativo della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza; 7) Importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate o rid otte a causa dell’uso della sostanza; 8) Uso ricorrente della sostanza in situazioni nelle quali è fisicamente pericolosa; 9) Uso continuato della sostanza nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o esacerbato dalla sostanza; 10) Tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti: a) il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato; b) un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità della sostanza; 11) Astinenza, come manifestata da ciascuno dei seguenti: a) la caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza (riferirsi ai Criteri A e B dei set di criteri per Astinenza dalle sostanze specifiche); b) la stessa sostanza (o una strettamente correlata) è assunta per attenuare o evitare i sintomi di astinenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità indica la dipendenza come quella “condizione psichica e talvolta anche fisica, derivante dell’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica, e caratterizzata da risposte comportamentali e da altre reazioni, che comprendono sempre un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione” (Vichi & Ghirini, 2017). Nella pratica clinica, la nozione di dipendenza viene sempre più spesso utilizzata per spiegare quelle sintomatologie derivanti dalla ripetizione di attività, socialmente accettate, prodotte indipendentemente dall’uso di sostanze. A sostegno dell’ipotesi dell’esistenza di una base comune delle dipendenze, vi sono i risultati di numerosi studi che riferiscono un’elevata frequenza di condizioni di polidipendenza, vale a dire la compresenza di una o più dipendenze, da sostanze e 10
comportamentali, nella stessa persona, e di cross-addiction, cioè il passaggio nel corso della storia di vita di un soggetto da una dipendenza all’altra (Johnson, 1999). A sostegno dell’ipotesi di un concetto unificato di dipendenza vanno sottolineati i risultati rispetto all’efficacia di trattamenti terapeutici simili nella cura delle tossicodipendenze e delle dipendenze comportamentali, come nel caso dei gruppi di auto-aiuto (Margaron & Aguglia, 2003). 4) ADOLESCENZA E DIPENDENZA Come già sottolineato, l’adolescenza sembra un periodo particolarmente critico per lo sviluppo di comportamenti dipendenti. La ricerca condotta da Baiocco e colleghi (2004), ha fatto emergere chiaramente che già intorno ai 13 anni si evidenziano i primi comportamenti problematici e che questi vanno a configurarsi come una vera e propria sindrome da dipendenza verso i 17 anni. Il fenomeno della tossicodipendenza negli ultimi anni ha visto un coinvolgimento preponderante nei giovani, nonché nei minori maggiormente concentrati nelle grandi città a causa della graduale riduzione dell’età legata alla prima assunzione si sostanze stupefacenti, all’aumento del numero dei reati commessi al fine di procurarsi le dosi utili, e della maggiore disponibilità concernente le operazioni della criminalità organizzata dei minori tossicodipendenti. La ricerca sulle dipendenze si vede orientata a comprenderne la natura e conseguentemente ad evidenziarne tanto i fattori di rischio quanto di protezione, al fine di sviluppare dei programmi preventivi adeguati (Baiocco, Couyoumdjian & Del Miglio, 2004). Tapert & Brown (2000) hanno evidenziato una serie di fattori comuni a tutte le forme di dipendenze, correlati al sistema familiare e sociale, i quali vanno ad influenzare lo sviluppo di comportamenti problematici (Tapert & Brown, 2000). L’importanza del contesto familiare è sostenuta dagli studi che evidenziano come la dipendenza patologica si sviluppi prevalentemente in soggetti i cui genitori sono o sono stati a loro volta dipendenti (Baldascini & Pannone, 2019). Migno (2019) ha sottolineato come l’elemento cardine che porta allo sviluppo di comportamenti problematici negli adolescenti sia la socializzazione. Questa ipotesi mette in risalto, come nel corso del processo di socializzazione, i giovani apprendano comportame nti sociali, quali il bere, 11
l’utilizzo di sostanze e il gioco d’azzardo, mediante le interazioni con le persone significative, in una prima fase in particolar modo nel contesto familiare e, successivamente all’interno del gruppo dei pari. Rispetto alle relazioni genitore-figlio, risulta coerente con l’idea generale che la probabilità che un ragazzo manifesti comportamenti problematici, non unicamente di tipo dipendente, sia direttamente connessa con la capacità genitoriale di controllare che i propri figli non siano coinvolti in situazioni a rischio (Mignosl, 2019). Tra le cause che frequentemente inducono i minori all’uso di sostanze stupefacenti vi sono i fattori familiari quali le tormentate relazioni tra i genitori, separazione, divorzio, ostilità, manca nza di calore o di reciproco interesse, un rapporto insussistente tra genitore e figlio con atteggiamenti disciplinari di vago ed inconsistente valore. In ambito familiare si sviluppano particolari dinamiche che provocano nel minore un sentimento di rifiuto inducendolo a ricercare un gruppo alternativo anche se l’atteggiamento di dissenso nei confronti della famiglia originaria non avrebbe carattere decisamente ostile. Diversi studi di Barnes e collaboratori sottolineano come il fattore maggiormente predittivo di comportamenti problematici susseguenti all’utilizzo di alcol, droghe e al gioco d’azzardo sia il grado di controllo genitoriale (parental monitoring) espresso dall’interessamento e dalla conoscenza rispetto alle abitudini dei propri figli (Barnes, Reifman, Farrell & Dintcheff, 2000; Johnson &Johnson, 1999). Bandura (1989), aveva ipotizzato la presenza di meccanismi grazie ai quali le influenze della famiglia agevolino il cambiamento del comportamento dei figli, aumentando l’esposizione a situazioni rischiose o la vulnerabilità verso tali situazioni. La famiglia esercita la sua influenza anche nei confronti della rete sociale del ragazzo, aumentando o diminuendo l’esposizione ad eventi critici. L’utilizzo di sostanze da parte dell’adolescente è maggiormente probabile quando la famiglia risulta essere ben integrata in quartieri dove vi è una maggiore disponibilità e accessibilità alle droghe (Maggiolini & Di Lorenzo, 2018). Tanto i fattori familiari quanto la loro interazione con altre variabili, come l’influenza del gruppo di pari, conduce l’adolescente all’assunzione di sostanze. A ciò si aggiungerebbero condizioni di disagio economico e di difficoltà lavorativa che favorirebbero l’aumento della marginalità. Occorre però circoscrivere il fenomeno del minore tossicodipendente affermando che esso si riscontra in quei delinquenti che potremmo definire di livello inferiore, di inconsistente profitto e 12
di scarso prestigio all’interno del mondo criminale. Si tratterebbe in definitiva di soggetti privi di apprezzamento, poiché falliti nella loro “carriera criminale”. I reati commessi riguardano in concreto non solo la detenzione, l’uso, e l’acquisto delle sostanze stupefacenti ma configurano le fattispecie di reati contro il patrimonio, caratteristici degli eroinodipendenti e di reati contro la persona, come suicidi, omicidi, lesioni personali, dovuti a stati di angoscia, a terrore suscitato da allucinazioni, a confusione onirica o ad idee deliranti che si esplicitano sotto l’effetto degli allucinogeni (Leonzio, 2020). Rispetto ai meccanismi sottostanti all’influenza del gruppo dei pari è stato ipotizzato che, piuttosto che esercitare pressioni dirette, il gruppo dei pari porta a percepire la messa in atto di comportamenti a rischio come normativi e prevalenti, fornendo concrete opportunità per l’attuazione di comportamenti a rischio e portando a percepire tali condotte come un mezzo che può mantenere i legami (Matthews, Baker & Spillers, 2004). Coerentemente alla funzione svolta dal gruppo dei pari di avvicinare il giovane a condotte rischiose, tra i fattori individuali maggiormente indagati nel contesto degli adolescenti risultano la ricerca di sensazioni e l’impulsività. La ricerca di sensazioni si esprime nel bisogno di esperire sensazioni percepite come fuori dalla norma, nel fare esperienze nuove e nella propensione a farsi coinvolgere in situazioni avventurose o pericolose. Questo appare come veritiero in particolar modo per gli adolescenti, i quali si trovano in un periodo di vita in cui il bisogno di assunzione di rischio risulta primario, al fine di mettere alla prova le proprie capacità e di concretizzare la propria autonomia (Malagoli & Lubrano, 2004). Alcuni studi condotti da Santunione e collaboratori (2002) hanno evidenziato una relazione tra la ricerca di sensazioni e l’abuso di droghe in particolar modo nella fase di sperimen tazione. Come la ricerca di sensazioni anche l’impulsività risulta essere un tratto di personalità che rende il soggetto maggiormente suscettibile allo sviluppo di una dipendenza patologica. Secondo gli autori l’impulsività risulta essere alla base di un comportamento spontaneo, non controllato e in assoluto non intenzionale (Santunione, Bolzani, Giannelli & Agostini, 2001). Allen e colleghi (1998) sostengono che un soggetto impulsivo risulti solitamente incapace nel ritardare le gratificazioni, risultando dunque maggiorente orientato verso una gratificazione immediata (Allen, Moeller, Rhoades & Cherek, 1998). 13
Rosenbaum collaboratori (2019) evidenziano come l’impulsività implichi un maggior orientamento verso il presente, un comportamento disinibito e una scarsa capacità di pianificazione. Facendo riferimento a questi aspetti dell’impulsività si può comprendere la maggiore suscettibilità dell’adolescente verso la dipendenza patologica alla luce degli studi riguardanti lo sviluppo cognitivo, in particolar modo alle diverse forme di ragionamento e di pensiero euristico (Rosenbaum & Hartley, 2019). Coffey e colleghi (2003) mediante un confronto tra dipendenti da sostanze e un gruppo di controllo hanno rilevato un’associazione significativa tra impulsività e dipendenza, questa associazione secondo Zuckerman (1999) si attua, principalmente nella persistenza del comportamento dipendente (Coffey, Gudleski, Saladin & Brady, 2003). 5) L’IMPUTABILITA’ DI UN MINORE Il soggetto minorenne non ha ancora raggiunto un grado di sviluppo fisico e psichico tale da poter comprendere quale sia il valore etico-sociale delle sue azioni, non riesce a distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Rispetto a questa considerazione il nostro codice espone come la minore età sia tra le cause di esclusione dell’imputabilità. Seguendo l’orientamento delle scienze psicologiche, visto che l’età della maturazione psichica non è la stessa per tutti i soggetti, ma si modifica da persona a persona, si dovrebbe procedere a valutare l’imputabilità caso per caso. Sussistono, però, esigenze giuridiche di certezza, uguaglianza e praticità dell’accertamento che impongono l’adozione di un criterio cronologico, che, rispetto ai dati offerti dall’esperienza, deve essere altamente presuntivo del raggiungimento della maturità. Un primo dato riguarda la non necessaria correlazione tra maturità fisica e psichica. Anche evidenziando un’anticipazione dello sviluppo puberale e intellettuale di 2/3 anni, questa non si vede accompagnata da una maturazione affettiva, ciò determina che l’età evolutiva si protrae nel periodo post-adolescenziale, andandosi a concludere con il raggiungimento della maturità tra i 18 e i 25 anni, a seconda della costituzione, della razza, della religione (Mantovani Diritto penale). Rari comunque sono i casi di minori per i quali si può parlare di vera e propria tossicodipendenza, trattandosi piuttosto di ragazzi che muovendo da un complessivo disagio esistenziale e da 14
condizioni di identificazione, per integrarsi in un gruppo, per sentirsi partecipi a un certo tipo di sottocultura giovanile. Il rapporto con la droga resta caratterizzato pertanto da questo tipo di motivazioni e, se anche tende a rafforzarsi in relazione all’aumento della dipendenza psicologica ed alla conferma della disistima di sé, raramente giunge alla soglia della vera dipendenza. Il Codice Penale Sardo del ‘59 considerava imputabili i quattordicenni e prevedeva nei loro confronti un accertamento individuale al fine di verificane la capacità o meno di discernimento. I Codici Parmense ed Estense avevano, invece, stabilito il limite della minore età a dieci anni. Il codice Zanardelli considerava non imputabili i minori di nove anni, prevedendo alcune fasce di età (9-14, 14-18, 18-21) rispetto alle quali l’imputabilità era o subordinata alla prova del discernimento o diminuita. Molte legislazioni straniere avevano elevato la soglia dell’imputabilità all’età di 13,14 o 15 anni. Più recentemente, il codice Russo del 1960, ha innalzato l’inizio dell’imputabilità a 16 anni, il Codice Polacco nel 1970 a 17 anni, e il Codice Brasiliano a 18 anni. Un’eccezione è rappresentata dal codice di San Marino del 1975, che considerando la precocità dei ragazzi di oggi ha abbassato l’imputabilità assoluta a 12 anni. Il Codice Rocco ha elevato il limite della non imputabilità assoluta a 14 anni “elevamento giustificato dalla necessità di fondere l’imputabilità sulla certezza che l’agente abbia la capacità di intendere e di volere, e tale certezza, secondo i più recenti studi, devesi senz’altro escludere fino agli anni quattordici per tutti i minori”( Atti della commissione ministeriale, in Lavori preparatori del codice penale, vol. IV, Roma 1929, p. 81). Ha altresì fissato il termine della minore età e l’inizio della piena imputabilità a diciotto anni compiuti. I minorenni vengono suddivisi in due categorie: i minori di quattordici anni e i minori tra i quattordici e i diciotto anni, i primi non sono considerati capaci di intendere e volere, i secondi sono soggetti da parte del giudice ad accertamento della loro imputabilità. L’imputabilità del minore risulta subordinata ad un criterio cronologico: • Fino a quattordici anni il minore non è mai imputabile, perché nei suoi confronti è prevista una presunzione assoluta di incapacità, senza cioè prova contraria. L’art.97 c.p. stabilisce che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, 15
non aveva compiuto i quattordici anni” (codice penale approvato con R.D. 19 ottobre 1930 nr.1398) • Fra i quattordici e diciotto anni il minore è imputabile solo se il giudice ha accertato che al momento del fatto aveva la capacità di intendere e di volere. L’ art. 98 c. p. rinuncia, a qualsiasi presunzione e subordina l’eventuale affermazione della responsabilità penale al concreto accertamento della capacità naturale: “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto quattordici anni, ma non ancora diciotto, se aveva la capacità di intendere e di volere ma la pena è diminuita”. L’imputabilità non è né esclusa né diminuita dall’assunzione volontaria di stupefacenti prima di commettere un fatto costituente reato. Per quanto riguarda i minorenni il cod ice penale prevede sempre una valutazione della capacità di intendere e di volere prendendo in considerazione la realtà soggettiva dell’imputato vista nella sua evoluzione. Quindi, mentre l’art. 93 c.p. (riguardante il fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti) richiede un accertamento relativo al solo momento della commissione del reato, finalizzato a verificare se il minore era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, l’art. 98 richiede ai fini dell’imputabilità una valutazione globale del minore nel suo aspetto evolutivo. Si ritiene che per la valutazione dell’imputabilità con riferimento alle caratteristiche del reato di volta in volta commesso la maturità fisio-psichica vada accertata in relazione sia al momento della consapevolezza che della volontà. Se possiamo ritenere che i minori assuntori di sostanze stupefacenti, anche in considerazione del tipo di reati usualmente commessi, siano in grado di percepire l’antigiuridicità del proprio comportamento, non altrettanto è possibile farlo per quanto riguarda l’aspetto della volontà, dell’attitudine a determinarsi nella scelta fra il bene ed il male, il lecito e l’illecito. Nel comportamento del tossicofilo sono riscontrabili evidenti segni di immaturità, i quali potrebbero portare ad un proscioglimento ex art. 98 c.p. Nella pratica, però, a parte quei rarissimi casi in cui le condizioni del soggetto sono così deteriorate da condurre facilmente al riconoscimento dell’incapacità di intendere e di volere, normalmente le caratteristiche e le problematiche di questi ragazzi non vengono prese esplicitamente in considerazione e non viene attribuita autonoma rilevanza al loro rapporto con la droga, fattore che anzi gioca implicitamente 16
in modo sfavorevole all’imputato, comportando spesso una carcerazione preventiva più lunga ed una pena più pesante nonché una maggiore resistenza alla concessione del perdono giudiziale. Il minore autore di illeciti penali riconosciuto capace di intendere e di volere ancorché tossicodipendente è quindi imputabile e punibile. La disciplina dell’abuso di sostanze stupefacenti, prevista dal DPR 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) prevede agli art. 73 e 74 delle sanzioni penali legate a fattispecie criminali ricorrenti anche nell’esperienza giudiziaria minorile. L’art. 73 comma 1 del Testo Unico punisce chiunque coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre, cede o riceve a qualsiasi titolo distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope, con la reclusione da otto a venti anni. In questa ipotesi non è applicabile il perdono giudiziale che viene concesso dal giudice qualora questi ritenga che il colpevole minorenne di un reato per il quale la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, si asterrà dal commettere altri reati. Sostanzialmente l’uso di sostanze stupefacenti costituisce per i minorenni autori di reato un fattore che può dar luogo ad un aggravio della pena, pur attivando una serie di servizi che sono previsti nel programma terapeutico di riabilitazione per il quale il minorenne deve manifestare la propria disponibilità di volersi o meno sottoporre. 5.1) L’ARTICOLO 97 DEL CODICE PENALE L’art.97 presuppone una presunzione assoluta di non imputabilità, prescindendo dalla capacità di intendere e di volere che non può essere superata neanche se il minore infraquattordicenne si presenta perfettamente capace. “Il giudice nel momento in cui viene constatata la minore età dell’imputato, non può sostituire alla volontà del legislatore un proprio convincimento positivo in merito alla presenza dell’imputabilità” (Bettiol, 1986) In tal caso l’unica causa di esclusione dell’imputabilità è sulla base di un dato esclu sivamente formale quale l’età anagrafica. Si esclude l’imputabilità del minore di quattordici anni, poiché si può pensare che questi vista la sua giovanissima età non abbia tali capacità. Anche se la capacità di intendere, spesso viene acquisita molto prima del compimento dei quattordici anni, la capacità 17
di volere entra in dubbio in quanto si fa dipendere dalla formazione del carattere e della personalità, la quale nel minore di quattordici anni risulta essere ancora in fieri, non applicando a questo, la sanzione penale, si cerca di non impedirne il suo regolare sviluppo. Tuttavia il minore di quattordici anni, prosciolto per difetto di imputabilità, non deve essere incondizionata mente lasciato libero anche se risulta essere pericoloso: al minore che risulta pericoloso socialmente può essere soggetto ad un’attenzione particolare da parte dei Servizi Sociali. 5.2) L’ARTICOLO 98 DEL CODICE PENALE Il minore, che ha più di quattordici anni, ma non ne ha ancora compiuti diciotto, è imputabile solo se al momento in cui ha commesso il fatto, aveva la capacità di intendere e di volere. Il giudice deve accertare volta per volta se il soggetto era imputabile o meno, poiché nei confronti del soggetto non opera nessuna presunzione, né di incapacità né di capacità. Aver previsto un accertamento caso per caso è una scelta specifica del nostro legislatore, poiché alla base c’è la consapevolezza che tra i quattordici e diciotto anni può sussistere la capacità di intendere e di volere necessaria per essere considerati penalmente responsabili delle proprie azioni, come può non esserci, indipendentemente da patologie giuridicamente rilevanti, visto che si parla di una fascia di età in cui i soggetti raggiungono la maturità richiesta ai fini penali in momenti differenti, a causa delle multiformi varietà ambientali in cui si svolge il processo di maturazione. La capacità di intendere e di volere espressa nell’art.98 c.p. è differente dalla stessa espressione contenuta nell’art.85 c.p., bisogna dare alla capacità di intendere e volere del minore infraquattordicenne una sua area di operatività, in considerazione della peculiarità dell’età minorile, diversa e aggiuntiva rispetto a quella propria della capacità di intendere e volere dell’adulto. Tale capacità viene individuata nel concetto di maturità, un concetto molto vago e, recentemente anche molto controverso. 6) IL CONCETTO DI MATURITA’ E L’IMPUTABILITA’ Il termine maturità è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale. Il tema relativo al limite cronologico dell’imputabilità ha condotto alcuni commentatori a richiamare alcuni Atti internazionali relativi ai minori. Il rinvio è senz’altro corretto; da questi, tuttavia, non può trarsi inequivoca soluzione al problema in oggetto. Così, le Regole minime per l’amministrazione della 18
giustizia minorile (le c.d. “Regole di Pechino”), adottate a New York dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1985 (In Giustizia e Costituzione, 1989, 2, 57 ss., nonché in Germanò-Scarcella, Il codice della giustizia minorile, Milano, 1992, 1420 ss.), affermano solamente, all’art. 4, che “In quei sistemi giuridici che riconoscono la nozione di soglia della responsabilità penale, tale inizio non dovrà essere fissato ad un limite troppo basso, tenuto conto della maturità affettiva, mentale ed intellettuale” del minore. Parimenti, la Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989), ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176, stabilisce, all’art. 40 § 3, che “Gli Stati Parti si sforzano di promuovere l’adozione di leggi, di procedure, la costituzione di autorità e istituzioni destinate specificamente ai fanciulli sospettati, accusati o riconosciuti colpevoli di aver commesso reato, ed in particolar modo: • di stabilire un’età minima al di sotto della quale si presume che i fanciulli non abbiano la capacità di commettere reato; • di adottare provvedimenti, ogni qual volta ciò sia possibile ed auspicabile, per trattare questi fanciulli senza ricorrere a procedure giudiziarie, rimanendo tuttavia inteso che i diritti dell’uomo e le garanzie legali debbono essere integralmente rispettati”. Spetta, dunque, al legislatore stabilire quando il minore possa ritenersi di quella maturità affettiva, mentale ed intellettuale, tale da poterlo considerare, ex art. 85 c.p., capace di intendere e di volere e di modificare, eventualmente, la correlata statuizione di cui all’art. 97 c.p. Appare affatto scontato come una risposta, che sia coerente e fondata, non possa essere esclusivamente giuridica, ma debba trarre alimento dai dati di altre discipline scientifiche, psico- socio-comportamentali, che abbiano come oggetto d’indagine il medesimo tema. D’altra parte, non sarà, forse, vano chiedersi quale modello di maturità abbia finora contemplato l’ordinamento giuridico nel suo complesso: un minore penalmente irresponsabile prima dei 14 anni, ma civilmente e politicamente incapace fino ai 18 (art. 2 c.c.); tuttavia in grado di lavorare e, di gestire tale situazione giuridica, ben prima; capace di prestare il proprio consenso ad atti sessuali con adulti (in linea di massima) già a 14 anni e, fra (quasi) coetanei, se appena tredicenne (art. 5 della legge 15 febbraio 1996, n. 66). 19
Il Codice Rocco, introducendo la presunzione assoluta di non imputabilità del minore di quattordici anni e l’obbligo dell’accertamento dell’imputabilità per l’infradiciotenne, identificava quest’ultima con la capacità di intendere e volere, come per l’adulto. Il codice Zanardelli (30 giugno 1889) poneva come condizione necessaria per l’imputabiltà del minore il concetto di “discernimento”, il quale viene abolito nel codice Rocco in quanto ritenuto un elemento “impreciso, incerto, vago al punto da essere argomento di molte discussioni per fissarne il contenuto e l’estensione” (Relazione sul libro I del progetto del guardasigilli Alfredo Rocco, 1929). Per ovviare a tali inconvenienti si optò per “capacità di intendere e di volere”, formula ritenuta maggiormente chiara, “meno nebulosa e maggiormente ancorata a parametri più oggettivi e più scientifici, in quanto non legata ad apprezzamenti etici-intuitivi, ma alla fenomenologia psichica” (Ponti, Gallina, 1983). Tuttavia anche se la giurisprudenza e la dottrina individuano nel concetto di maturità il contenuto della capacità di intendere e di volere, la situazione appare rientrare nella stessa indeterminatezza, rilevandosi, tale termine altrettanto vago e impreciso al pari del discernimento. Rispetto al concetto di maturità la giurisprudenza della Corte di Cassazione è concorde su vari parametri, tra i quali ricorrono più frequentemente: armonico sviluppo della personalità, sviluppo intellettivo adeguato all’età, capacità di valutare adeguatamente i motivi degli stimoli a delinquere, comprensione del valore morale della propria condotta, capacità di soppesare le conseguenze dannose del proprio operato per sé e per gli altri, forza del carattere, comprensione dell’importanza di certi valori etici, dominio acquisito su se stessi, attitudine a distinguere il bene dal male, l’onesto dal disonesto, il lecito dall’illecito, unità funzionale delle facoltà psichiche, il loro normale sviluppo rispetto all’età, capacità di elaborare i comportamenti umani a livello della coscienza, capacità di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e di correlarlo al contesto dei rapporti e interessi socialmente protetti, capacità di volere i propri atti come risultato di una scelta consapevole, attitudine a far entrare nel proprio patrimonio di cognizioni e di esperienze il concetto della violazione, assimilazione delle regole morali e sociali in base ad un’autentica convinzione e non per un processo di imitazione formale (Ponti, Gallina, 1983). In un primo momento, l’interpretazione della capacità di intendere e di volere, si limitava alla considerazione di assenza di deficienze organiche o di turbe del minore. Le valutazioni in ordine alla maturità venivano mutate da ambiti che si avvicinavano a quelli della patologia, portando a 20
considerare imputabile il minore, se normale secondo canoni psichiatrici. Evidente la privazione di un autonomo significato alla capacità di intendere e di volere di cui all’art. 98 c.p.: si faceva coincidere la non imputabilità del minore con l’infermità mentale. Prevale, in questo contesto temporale, il paradigma medico come criterio di riferimento per la valutazione del minorenne. Successivamente, la nozione di maturità si amplia, favorita dal fatto che, a seguito della riforma del 1956, muta la composizione del Tribunale per i minorenni: accanto a due giudici togati, siedono ora due giudici esperti, portatori di conoscenze e di saperi non solo giuridici. La conseguenza è che la base del giudizio sulla maturità si dilata: non solo valutazioni giuridiche, ma anche linee interpretative che guardano al reato commesso dal minore in una prospettiva diversa ed ulteriore rispetto a quella meramente giuridica. Tra l’altro, si diffondeva proprio in questo periodo la convinzione dell’estrema dannosità del carcere su personalità ancora in formazione: una convinzione che anche la Corte costituzionale, accordando all’idea rieducativa la prevalenza sulla stessa realizzazione della pretesa punitiva, contribuiva, non poco, a rafforzare e legittimare. Così operando si amplia la piattaforma dei parametri di riferimento dai quali attingere per fondare il giudizio di maturità o immaturità, includendovi le condizioni economiche, sociali e culturali del minore. Negli anni successivi, si afferma una concezione ancor più estesa, che vede nelle situazioni di disagio e privazione sociale, quale quella che si riscontra ad esempio in famiglie disagiate, sottoposte a condizioni economiche precarie, turbate da fenomeni quali ad esempio la disoccupazione. Analizzando i contributi derivanti dalla letteratura giuridica, medico-legale e psicopedagogica, emerge come il concetto di immaturità sia altra cosa rispetto al vizio di mente: un minore può essere immaturo ma perfettamente sano di mente. Fino a non molto tempo fa il parametro che si prendeva in considerazione per valutare la capacità di intendere e di volere era quello medico: la facoltà intellettiva veniva distinta da quella volitiva, entrambe venivano esaminate al fine di valutare una loro possibile compromissione dovuta o ad una malattia di ordine fisiologico o psichiatrico, facendo sì che si potesse determinare un quadro clinico del soggetto. Si è tentato di ancorare il giudizio di immaturità a criteri biologici e organici, come i ritardi dello sviluppo intellettivo, l’immaturità psicomotoria, le carenze, per cui il ragazzo è incapace se, dalla perizia psichiatrica e da diversi esami clinici, come l’elettroencefalogramma, risulta essere epilettoide, paranoide, cerebropatico, schizoide etc. L’attenzione viene dunque rivolta esclusivamente alla sua condizione mentale, senza prendere in considerazione la su a storia o le modalità di commissione del reato. Il vantaggio di questo è che la scienza medica e psichiatrica 21
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