A.a. 2020/2021 CRITICA LETTERARIA ITALIANA - Testi

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CRITICA LETTERARIA ITALIANA
       a.a. 2020/2021

            Testi
           parte 1
Indice

Lezione 1-2
      1) Cos’è la critica letteraria? [da Benedetto Croce]                    p. 1
      2) Cosa si intende con l’espressione Critica letteraria [da B. Croce]   p. 4
      3) I momenti della critica letteraria [da B. Croce]                     p. 4
      4) Altre parti del lavoro intorno all’opera letteraria [da B. Croce]    p. 6
      5) Il giudizio estetico [da B. Croce]                                   p. 7
Lezione 3-4
      1) G.M. Crescimbeni, Lo stampatore a chi legge                          p. 9
      2) G.M. Crescimbeni, Introduzione                                       p. 9
      3) G. Tiraboschi, Prefazione                                            p. 10
      4) G. Tiraboschi, su Petrarca                                           p. 11
Lezione 5-6
      1) S. Bettinelli, dalle Lettere virgiliane (let. 3)                     p. 13
      2) S. Bettinelli, dalle Lettere virgiliane (let. 9)                     p. 14
      3) S. Bettinelli, dalle Lettere virgiliane                              p. 16
Lezione 7-8
      1) G. Baretti, da La frusta letteraria (introduzione)                   p. 18
      2) G. Baretti, da La frusta letteraria (Memorie istoriche etc.)         p. 19
      3) B. Croce, L’Arcadia e la poesia del Settecento                       p. 19
      4) G. Baretti, rec. a Il Mattino di G. Parini                           p. 21
Lezione 10
      1) N. Tommaseo, Recensione                                              p. 23
Critica letteraria italiana - a.a. 2020/2021
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1. Cos’è la critica letteraria?
[Testi tratti da BENEDETTO CROCE, Breviario di Estetica, cap. IV, La critica e la storia dell'arte1]

        La critica letteraria e artistica è concepita sovente dagli artisti come un burbero e tirannico
pedagogo, che dia ordini capricciosi e imponga proibizioni e conceda licenze, e giovi così o noccia alle
opere loro col determinarne a suo libito le sorti. E perciò gli artisti o le si fanno intorno sottomessi, umili,
lusinghevoli, adulatori, in cuor loro aborrendola; ovvero, quando non ottengono il loro intento o l'animo
fiero vieta di discendere a quelle arti da cortigiano, le si rivoltano contro negandole utilità, imprecando,
beffeggiando e paragonando (il ricordo è personale) il critico a un asino, che entra nella bottega del vasaio
e frantuma col quadrupedante ungulae sonitu i delicati prodotti dell'arte, che stavano ad asciugarsi al sole. La
colpa è questa volta, a dir vero, degli artisti, che non sanno che cosa sia la critica, e ne aspettano favori
che essa non è in grado di concedere, e ne temono danni che non è in grado d'infliggere: essendo chiaro
che, come nessun critico può rendere artista chi artista non è, così nessun critico può mai, per metafisica
impossibilità, disfare, abbattere, e nemmeno intaccare lievemente un artista, che sia artista […]. Ma, tal'
altra volta, sono i critici stessi, o i sedicenti critici, che si atteggiano effettivamente a pedagoghi, ad oracoli,
a guide dell'arte, a legislatori, a veggenti, a profeti; e comandano agli artisti di far questo e non quello, e
assegnano loro i temi, e dichiarano poetiche certe materie e certe altre no, e sono scontenti dell'arte che
si produce nel presente, e ne vorrebbero una simile a quella che si faceva in questa o quella età passata, o
un'altra che essi dicono d'intravvedere nel prossimo o lontano avvenire; e rimproverano Tasso perché
non è Ariosto, Leopardi perché non è Metastasio, Manzoni perché non è Alfieri, D'Annunzio per ché
non è Berchet o fra Iacopone; […]
        Ad onore della critica è necessario, per altro, soggiungere, che quei critici capricciosi non sono
tanto critici, quanto, piuttosto, artisti: artisti mancati, che tendono bramosi a una certa forma d'arte, da
essi non potuta raggiungere sia perché la tendenza era contradittoria e vacua, sia perché fallivano loro le
forze; e che, serbando per tal modo nell'animo l'amarezza dell'ideale inattuato, non sanno parlare d'altro
che di quello, e ne lamentano dappertutto l'assenza e ne invocano dappertutto la presenza. Talvolta, sono
anche artisti tutt'altro che mancati, artisti anzi felici, ma dalla stessa energia della loro personalità resi
incapaci a uscire da sé per intendere forme d'arte diverse dalle proprie, e disposti perciò a respingerle con
violenza; aiutando in siffatta negazione l’odium figulinum, la gelosia dell'artista verso l'artista, l'invidia, che
è difetto senza dubbio, [...]
        E c'è un'altra concezione della critica, che si esprime, come la precedente nel pedagogo e nel
tiranno, essa nel magistrato e nel giudice; e attribuisce alla critica l’ufficio non già di promuovere e guidare
la vita dell'arte - che è promossa e guidata, se pur così piace dire, solo dalla storia, cioè dal moto

1in B. CROCE, Nuovi saggi di estetica, a cura di Mario Scotti, Napoli, Bibliopolis, 1991 (Edizione Nazionale delle
Opere di Benedetto Croce, Saggi filosofici, vol. 5), pp. 71-76
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complessivo dello spirito nel suo corso storico, - sì bene, semplicemente, di discernere, nell’arte che è
stata già prodotta, il bello dal brutto, e consacrare il bello e riprovare il brutto con la solennità delle proprie
austere e coscienziose sentenze. Ma io temo che neppure con questa altra definizione venga tolta alla
critica la taccia d'inutilità, quantunque forse la medesima taccia cangi alquanto di motivazione. C'è bisogno
davvero della critica per discernere il bello dal brutto? La produzione stessa dell'arte non è mai altro se
non codesto discernimento, perché l'artista giunge alla purezza dell'espressione per l'appunto con
l'eliminare il brutto, che minaccia d'invaderla; e quel brutto sono le sue passioni d'uomo che tumultuano
contro la pura passione dell'arte, sono le sue debolezze, i suoi pregiudizi, i suoi comodi, il lasciar correre,
il far presto, l'avere un occhio all'arte e un occhio allo spettatore, all'editore, all'impresario: tutte cose che
impediscono all'artista la gestazione fisiologica e il parto normale della sua immagine-espressione, al poeta
il verso che suona e crea, al pittore il disegno sicuro e il colore armonico, al compositore la melodia, e
che, se non si bada a difendersene, introducono versi sonori e vuoti, scorrezioni, stonature, discordanze
nelle opere loro. E, come l'artista è nell’atto del produrre giudice, e giudice severissimo, di sé stesso, a cui
nulla sfugge - neppure ciò che sfugge agli altri, - gli altri discernono anch'essi, nella spontaneità del
contemplare, immediatamente e benissimo, dove l'artista è stato artista e dove è stato uomo, un povero
uomo; in quali opere e in quali parti di opere regnino sovrani l’entusiasmo lirico e la fantasia creatrice, e
in quali si siano raffreddati, e abbiano ceduto il posto ad altre cose, che s'infingono di essere arte, e perciò
(considerate sotto l'aspetto di questo infingimento) si chiamano «brutte». A che serve la sentenza della
critica, quando la sentenza è stata già data dal genio e dal gusto? E genio e gusto sono legione, sono
popolo, sono consenso generale e secolare. Tanto ciò è vero, che le sentenze della critica giungono
sempre troppo tardi: a consacrare forme già solennemente consacrate dal plauso universale (non si
confonda, del resto, il plauso schietto col battimano e col rumore mondano, la costanza della gloria con
la labilità della fortuna); e a condannare bruttezze già condannate e fastidite e dimenticate, o lodate ancora
bensì a parole, ma con cattiva coscienza, per partito preso e per ostinatezza d'orgoglio. La critica,
concepita come magistrato, uccide il morto o soffia in volto al vivo che è ben vivo, immaginando che
quel suo soffiare sia il soffio del dio avvivatore; cioè, fa cosa inutile, inutile perché già bella e fatta prima
di lei. Vorrei domandare se siano stati i critici a stabilire la grandezza di Dante o di Shakespeare o di
Michelangelo, o non piuttosto le legioni dei lettori e contemplatori. Che se a tali legioni, che hanno
acclamato e acclamano questi grandi, si uniscono, com'è ben naturale, anche letterati e critici di mestiere,
la loro acclamazione non differisce per tale riguardo da quella degli altri tutti, e fin dei fanciulli e del
popolo, tutti egualmente pronti ad aprire il cuore al bello, che parla a tutti, salvoché qualche volta non
taccia per dispetto, - scorgendo la faccia arcigna di un critico-giudice.
        Sorge perciò una terza concezione della critica: la critica interpetrazione o comento, che deve
farsi piccina innanzi alle opere d'arte e restringersi all'ufficio di chi spolvera, colloca in buona luce,
fornisce ragguagli sul tempo in cui fu dipinto e sulle cose che rappresenta un quadro, e spiega le forme

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linguistiche, le allusioni storiche, i presupposti di fatto e d'idee di un poema; e nell'un caso e nell'altro,
adempiuto l'ufficio suo, lascia che l'arte operi spontaneamente nell'animo del riguardante e del lettore,
che giudicherà poi secondo che l'intimo gusto gli dirà di giudicare. Il critico, in questo caso, viene
rappresentato come un colto cicerone o un paziente e discreto maestro di scuola: «la critica è l'arte
d'insegnare a leggere», ha definito per l'appunto un critico famoso; e la definizione non è rimasta senza
eco. Ora nessuno contesta l'utilità delle guide di musei e di esposizioni o dei maestri di lettura, e molto
meno delle guide e dei maestri eruditi, che conoscono tante cose, recondite ai più, e possono
somministrare tanti lumi. Non solamente l'arte più da noi remota ha uopo di codesti aiuti, ma altresì l'arte
del passato prossimo, che si dice contemporanea, e che, quantunque tratti materie o offra forme che
sembrano ovvie, non è sempre ovvia abbastanza; e talvolta è necessario uno sforzo non piccolo per
preparare la gente a sentire la bellezza di una poesiola o di una qualsiasi opera d'arte, nata pur ieri.
Pregiudizi, e abitudini ed oblii, formano siepe all'adito di quell'opera; e ci vuole la mano esperta
dell'interprete e del comentatore, per isgombrarli o rettificarli. La critica, in questo significato, è
certamente utilissima; ma non si sa poi perché si debba chiamarla critica, quando già quella sorta di lavoro
ha il suo proprio nome d'interpetrazione, di comento, di esegesi. Per lo meno, sarebbe opportuno non
chiamarla così, per non ingenerare un fastidioso equivoco. Equivoco, perché la critica chiede di
essere, e vuol essere ed è, qualche altra cosa: non invadere l'arte, non riscoprire la bellezza del
bello e la bruttezza del brutto, non farsi piccina innanzi all'arte, ma anzi farsi grande di fronte a
lei grande, e, in certo senso, sopra lei. Che cosa è, dunque, la critica legittima e vera?
        Anzitutto, essa è tutte tre insieme le cose che io ho finora chiarite; vale a dire, tutte e tre quelle
cose sono le sue necessarie condizioni, senza cui essa non sorgerebbe. Senza il momento dell'arte (e
arte contro arte, è in certo senso, come si è visto, quella critica che si afferma produttiva o aiutatrice di
produzione o reprimente talune forme di produzione a vantaggio di talune altre), mancherebbe alla critica
la materia sopra cui esercitarsi. Senza gusto (critica giudicatrice), mancherebbe al critico l'esperienza
dell'arte, l'arte fattasi interna al suo spirito, sceverata dalla non-arte e goduta contro quella. E
mancherebbe, in fine, codesta esperienza senza l'esegesi, ossia senza che si tolgano gli ostacoli alla
fantasia riproduttrice, fornendo allo spirito quei presupposti di conoscenze storiche, di cui ha bisogno, e
che sono le legna che bruceranno nel fuoco della fantasia.

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2. Cosa si intende con l’espressione “Critica letteraria”?
[I testi 2-5 sono tratti da B. CROCE, La critica letteraria – questioni teoriche, Roma, Loescher, 18962]

        Avrei voluto scrivere: “la cosiddetta critica letteraria”, perchè è questo uno dei molti casi in cui l'uso
linguistico corrisponde così poco ai bisogni della logica, che, a fidarsi ingenuamente ad esso, ci si trova
molto male.
        “Critica letteraria”, fino a quaranta o cinquant'anni fa, presso di noi, voleva dire, ordinariamente,
nient'altro che “apprezzamento o valutazione dell'opera letteraria”. I critici erano i giudici, più o meno
emunctae naris, dell'opera letteraria. E la parola aveva cosi un senso ben determinato, e trovava un pieno
riscontro nella critica teoretica o scientifica, e in quella che potrebbe chiamarsi critica etica, ossia
nell'apprezzamento e valutazione, che tuttodì facciamo, delle azioni umane. La critica letteraria o estetica
rispondeva alla domanda: “È bello quest'oggetto?”, come la critica teoretica alla domanda: “È vera
quest'affermazione?”, e la critica etica a quella: “È buona quest'azione?”.
        Ma, a poco a poco, e mi riferisco specialmente a ciò ch'è accaduto in Italia, la denominazione
“critica letteraria” è venuta estendendo il suo significato e abbracciando una serie di operazioni
svariatissime. […] ormai siamo venuti a tale che si chiama lavoro di critica letteraria così il giudizio estetico
di un'opera letteraria come la ricerca della genesi storica di essa, così l'edizione e il comento del testo
come la biografia dell’autore, così l'esposizione dell'opera come, finanche, le teorie estetiche sulla
letteratura; e critici letterarii sono poi coloro che fanno, più o meno, tutte queste operazioni; e c’è alcuno
degli studiosi moderni italiani ch’è chiamato, dai suoi lodatori delle riviste, “principe della critica
letteraria”, ossia principe di un impero sul quale davvero non tramonta mai il sole, perché ne sono ignoti
o lontanissimi i confini! Insomma, ormai per “critica letteraria” s'intende, in Italia, né più né meno, che
“la somma o il complesso dei lavori che hanno per oggetto l'opera letteraria”. […] La frase “critica
letteraria”, intesa nel senso largo che ha assunto, mantiene un’illusione pericolosa: che cioè con essa si
venga a designare un’operazione unica e determinata con un còmpito o fine proprio. La perifrasi da noi
data scioglie questa illusione, perché ci dice che non già il còmpito, ma semplicemente l’oggetto è unico e
determinato. Gli studii intorno alle opere letterarie, presi nel loro complesso, si travagliano tutti intorno
alle opere letterarie; ma ciascuno di essi in vario modo. Nel parlare del “complesso di essi” l’oggetto è
indicato, ma il modo di operare di ciascuno non è indicato.

3. I momenti della critica letteraria.

        Un primo gruppo di questi [studi sulla letteratura] si riferisce bensì all'opera letteraria concreta,
ma solo indirettamente ed esternamente, o che siano volti a stabilire l'esistenza di essa, o a facilitarne la
conoscenza, o a compiere qualche altro ufficio di questo genere. Tali sono il lavoro dell'editore che
ricostruisce il testo vero dell'opera, svisato dalle vicende dei tempi; il lavoro del comentatore [sic] che

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allontana le difficoltà che il lettore, o meglio un certo dato pubblico di lettori, potrebbe incontrare nel
leggere l'opera, ecc. ecc. Tutto ciò prepara lo spirito ad entrare in relazione diretta ed intima coll'opera
letteraria; ma non è questa [una] relazione. Sono lavori da rassomigliarsi a quelli del restauratore dei dipinti
e del formatore del catalogo di una pinacoteca. E con ciò io non ho il pensiero di diminuire l'importanza,
l'utilità e neanche la dignità di tali lavori. È cosa abbastanza triviale il credere che per essi occorrano
piccole e comuni qualità d'ingegno. Talvolta, l'edizione di un testo rappresenta una spesa di forza
intellettuale […] molto superiore a quella che han costato parecchi lavori d'indole propriamente
scientifica. Ma, per giungere ai lavori proprii che si compiono intorno all'opera letteraria concreta, bisogna
andare oltre il primo gruppo da noi designato, varcare il vestibolo, ed entrare nella cella del nume.
           Ed entriamo in questa cella. Il primo momento della relazione dello spirito con una data opera
letteraria è puramente ricettivo, e consiste nella contemplazione, o come anche si dice (secondo me, non
felicemente), nel godimento estetico dell'opera. Per lavorare intorno a un'opera, bisogna cominciare dal
contemplarla, o trattandosi di opera letteraria, dal leggerla. Non si creda che il contemplar bene e il legger
bene, il saper vedere e il saper capire, siano cose da nulla. È questo anzi un momento importantissimo, e
tale che forma la base di ogni ulteriore operazione. E i contemplatori felici, i lettori non superficiali [...],
gli animi esteticamente disposti, sono più rari che non si creda.
           Ma, passato il momento ricettivo della lettura, lo spirito diventa attivo; e la prima domanda che
si propone è questa: Che cosa ho io letto? Tutti noi che, dopo aver letto un'opera letteraria, usiamo ripiegarci
su noi stessi, e raccogliere le nostre impressioni, e ripensarle, tutti noi facciamo, più o meno consciamente,
più o meno compiutamente, un'operazione ch'è la risposta a quella domanda. […] Essa si chiama
comunemente l'esposizione dell'opera letteraria; e io la chiamerei più volentieri la descrizione o la riproduzione
o la rappresentazione dell'opera letteraria. […] Molti credono che esporre un'opera letteraria sia ripetere in
poche parole il contenuto di essa, farne il sommario, magari inframezzato da una scelta o florilegio dei
brani più belli, quasi a saggio del resto. Ma si tratta di ben altro […] e Francesco De Sanctis l'ha detto più
volte […]: «Il critico […] è dirimpetto all'artista quello che l'artista è dirimpetto alla natura. Come l'artista
vi riproduce la natura, ma con altri mezzi ed altro scopo, così il critico riproduce l'arte, ma coi suoi
processi e co' propri fini, e, quello che più importa, con quella piena coscienza di essa, che manca spesso
all'artista2» […] «Il libro del poeta è l'universo; il libro del critico è la poesia; è un lavoro sopra un altro
lavoro3».
           Ed infatti l'esposizione di un'opera d'arte è per sè stessa un'opera d'arte che ha per materia un'altra
opera d'arte. Un'opera d'arte coglie e riproduce i tratti essenziali di un dato oggetto ossia di un dato fatto
naturale. L'esposizione dell'opera d'arte coglie e riproduce i tratti essenziali di un oggetto e di un fatto

2   F. DE SANCTIS, Saggi critici, Napoli, Morano, 1881, p. 318.
3   Ivi, pp. 171-172.
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ch'è l'opera d'arte. Un'esposizione che fosse un ragguaglio materiale dell'opera d'arte, sarebbe nient'altro
che una descrizione inesatta, languida e spropositata. […]
Assolutamente distinto da questo lavoro di esposizione o descrizione o riproduzione o rappresentazione,
è l'altro lavoro che si può chiamare l'apprezzamento o la valutazione o il giudizio estetico dell'opera letteraria.
         Qualcuno dirà che, fatta l'esposizione alla maniera sopraindicata, il giudizio estetico è implicito e
assorbito in essa; e il De Sanctis par che inclinasse a questa veduta, quando poneva, come sommo e quasi
esclusivo fine della critica, l'esposizione dell'opera letteraria. Ed è vero che, fissata chiaramente la
fisonomia d'un'opera, il giudizio del valore riesce molto più agevole […]. Ma il sottintenderlo non significa
che il giudizio non esista come da sé e pienamente indipendente. Basta por mente a questo, che,
coll'esposizione dell'opera, noi rispondiamo alla domanda: Che cosa è?; col giudizio rispondiamo a
quest'altra: Che cosa vale? […]. Possiamo stabilire dunque che una seconda operazione, che concerne
direttamente l'opera letteraria concreta e ch'è affatto distinta dall'esposizione di essa, è la critica estetica.
Solo a questa operazione si può dare, con pieno diritto, il nome di critica ossia di giudizio.
Esposto e valutata l'opera letteraria, un'altra curiosità si fa viva “Qual è stata la genesi di quest'opera? A
quali vicende è andata soggetta?” […]. Rispondere ad esse è far la storia dell'opera letteraria.
Ora in queste tre operazioni: esposizione - valutazione - storia - si assomma e si esaurisce ogni specie di lavoro
diretto che si può compiere intorno alle opere letterarie concrete. Io, almeno, non sono buono ad
escogitarne altre.

4. Altre parti del lavoro intorno all’opera letteraria: ricerca delle fonti, studio
filologico e biografia degli autori.
[Croce, nelle pagine precedenti a questo passo, cerca di superare le ipotetiche obiezioni finalizzate a
elevare a operazioni sull’opera letteraria altre disparate azioni (la «ricerca delle fonti», «la critica delle
comparazioni o dei paralleli», «lo studio filologico», «la ricerca bibliografica», «studio del contenuto» e
«ricerca biografica») che a suo vedere «rappresentano semplicemente dei momenti o delle parti delle tre
operazioni fondamentali […] indicate; le altre si riattaccano solo lontanamente e indirettamente all'opera
letteraria».]

         La ricerca delle fonti. Di questa maniera di lavori si suol fare, da molti, una scoverta tutta moderna:
il che non è esatto in senso assoluto, perché ricerca delle fonti se n'è fatta sempre, in tutti i tempi. È vero
però che, colla larga e contemporanea esplorazione dei varii campi degli studii letterarii, in questo secolo,
la ricerca delle fonti ha acquistato un'importanza e un'estensione prima non sospettata […]. Se non che,
che cosa è mai l'indicazione delle fonti se non una parte della storia della formazione o della genesi dell'opera
letteraria?
         E qui debbo dire che se la ricerca delle fonti è stata altamente magnifica da molti in questi ultimi
tempi in Italia, si è trascurato tuttavia d'indicare i non pochi pericoli ai quali l'uso eccessivo e storto di
essa può dar luogo. Il principale di questi pericoli è l'illusione che un'opera letteraria possa risolversi nelle

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fonti dalle quali è stata attinta, trascurando, così, nello studio della genesi, un fattore essenziale […]:
l'attività spirituale del creatore dell'opera. [...]
        Lo studio filologico. Se questo studio prende a considerare la fisonomia della lingua adoperata in una
data opera letteraria, concorre, per la sua parte, all'esposizione, alla valutazione e alla storia dell'opera, di cui
la lingua è uno degli elementi. […]
        La biografia dell'autore rientra nella storia della genesi dell'opera, in quanto, tra le varie cause che
hanno operato su di questa, si considera anche la personalità e le vicende dell'autore. […] Io non so fino
a qual punto una compiuta e particolare biografia di Ugo Foscolo mi spieghi le origini dei Sepolcri; ma di
Ugo Foscolo vogliamo una biografia compiuta […] per l'interesse che prendiamo alla sua personalità
morale, indipendentemente dall'opera sua dei Sepolcri. [...]

5. Il giudizio estetico
        Il giudizio estetico è assoluto o relativo? Assoluto, ossia tale che si debba da tutti riconoscere, come
si riconosce la verità di un'affermazione o il pregio morale di un'azione? Ovvero relativo, cioè a dire, tale
che ciascuno lo ponga variamente secondo che la propria individualità glielo ispira, senza obbligo di
discuterlo, come non si discutono i gusti nei piaceri e negli amori?
        In altri termini: esiste un criterio oggettivo del gusto? [...]
        Che il giudizio sull'opera letteraria o in generale sull'opera d'arte, sia assoluto, che esista un criterio
oggettivo, era, un tempo, cosa fuori discussione. La fede nei modelli e nelle regole, nei modelli classici e
nelle regole dei trattatisti, porgeva un solido fondamento di giudizio. Il criterio era Omero e il Pantheon
di Agrippa, Aristotele e Vitruvio.
        Ma, battute e disgregate le antiche teorie letterarie ed artistiche, sostituita alla misurazione di
un'opera secondo un modello la misurazione dell'opera secondo il sentimento e il giudizio personale,
creato insomma il concetto e la parola del gusto, sorsero le discussioni sul modo in cui dovesse intendersi
questa facoltà o questa operazione misteriosa. Del gusto gli antichi ebbero un sentore, e Cicerone e
Quintiliano ci parlano di un judicium cosiffatto che nec magis arte traditur quam gustus aut odor. La poetica
del Rinascimento, come dicevamo, non ne tenne conto; i primi germi della nuova intuizione si notano in
Ispagna, nel secolo decimosettimo; e dalla Spagna passò in Francia, e di là, nel secolo scorso, pervenne a
una notorietà europea. […] Chi fece pel primo il serio tentativo di assidere su basi ferme il giudizio del
gusto fu Emmanuele Kant, nella Critica del giudizio […].
Il giudizio, che dà il critico estetico, non è assoluto, nel senso ch'esso abbia quella pretensione
incondizionata all'accettazione, che può avere una dimostrazione matematica.
        È relativo, perchè non vuol dire se non questo: - Io, critico, sono portavoce di un mio bisogno
individuale, ch'è il bisogno di tutti quelli che si trovano nello stesso mio grado di svolgimento. Vi pare
che questo bisogno sia cosa trascurabile? Ci sono anche bisogni diversi ed opposti? Sia pure: ma vedete
che il mio non abbia più importanza e valore di quello di altri. Io non vi do propriamente un giudizio: vi
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faccio una confessione psicologica; vi racconto i fenomeni che succedono in me alla presenza della tale
o tal altra opera d'arte. E vi do me stesso; ma questo me stesso non è il me stesso di un imbecille e di una
persona ignara dell'arte. -
        E in questo senso il giudizio estetico è relativo, e pure ha un valore.
        Tale soluzione si trova contenuta in germe nei due opposti aforismi dell'opinione comune, la
quale, se da una parte afferma la relatività col dire che: dei gusti non si disputa; dall'altra, afferma il valore del
giudizio estetico, sostenendo che: c'è un gusto buono e un gusto cattivo.
E risponde alla pratica, perchè se, da una parte, si suol lasciare un certo campo alle idiosincrasie e simpatie
individuali, in u

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1. GIOVANNI MARIO CRESCIMBENI, L’Istoria della volgar poesia, Roma, 1698, Lo Stampatore
   a chi legge.

        Eran parecchi anni che l’Autor della presente Istoria andava faticando, per raccor notizie sopra
di essa, e provvedersi d’ogni bisognevole per la fabbrica d’un’Opera, la quale è poco men che infinita:
non pur mercé la spessa mutazion dello stato della Volgar Poesia accaduta nel corso di cinque secoli, che
ella è in uso: ma per la moltitudine quasi innumerabile di quei, che l’han professata; […] e benché egli sia
impedito continuamente da altri più gravosi studi […] era giunto a raccorne, ed accozzarne tre grossi
volumi contenenti sopra mille Rimatori, con isperanza di vedersi arrivato quindi a non molto alla
perfezione dell’Opera. Ma avutasi da lui certezza, per testimonianza d’autorevol Personaggio, che in una
Città d’Italia […] era chi, […] sforzavasi con gran fretta di tessere, e dare alla luce nel presente anno una
simile Istoria, è a lui convenuto […] spogliar detti volumi di notizie, e compilar l’Opera, se non nella vasta
mole che aveva in pensiero di fabbricare, almeno di quel peso, che gli vien permesso da sì importante
sollecitudine […]. La presente Opera, comeché sia intera, debbe esser molto ampliata, con porvisi dentro
non solamente tutti i Rimatori defunti, […] ma tutti gli altri, che di mano in mano si verran raccogliendo,
degni di menzione. […] Le notizie riferite nell’Opera, massimamente le più risguardevoli, son tolte tutte
da libri stampati, o da manuscritti autentici di pubbliche, e famose biblioteche, o con essi riscontrate: non
essendosi l’Autore voluto fidare in ciò della testimonianza d’alcuno. […] In tesser la presente Istoria à
voluto l’Autore piuttosto appoggiarsi a ragioni, e autorità, che abbiam positiva e fisica evidenza, che a
conghietture, e a verbali attestazioni, ancorchè queste siano di Scrittori gravissimi; le quali egli nondimeno
venera, e le lascia nel suo valore, e credito. […] L’ordine, col quale si pongono i Cento Rimatori defunti
nel secondo Libro, è Cronologico, giusta il più certo, o almen più probabil tempo, in che fiorirono: tranne
alcuni pochi, i quali à egli giudicato, doversi collocar sotto l’anno della lor morte. Circa i Cento Rimatori
in detto Libro non intende l’Autore di tesser vite, né elogi: ma dir di loro sol quando basti per condur
l’Opera al fin prescritto di far vedere lo stato della Volgar Poesia in ogni secolo fino a’ nostri giorni; e
perciò tutto quel, che in esso Libro si truova scritto, che positivamente per tal fine non adopera, intende,
che sia puro, e semplice abbellimento, postovi non per altro effetto, che perché riesca più vaga l’Opera,
e rendasene meno rincrescevole la lezione. Nel dare i giudizi sopra le Poesie degli stessi Autori (nel che
consiste il maggior nervo dell’Istoria) egli à camminato, non più con la propria opinione, che con quella
de’ più savi ingegni, che in sì fatte materie fioriscano nella Corte di Roma.

    2. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, Venezia, 1731, Introduzione.

    I. Primieramente adunque ratificherò la mia intenzione, la quale fu, ed è di far consistere il maggior
nervo di questa Istoria ne’ giudizj sopra le Opere de' Poeti più cogniti, e riguardevoli in numero di cento

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Morti, e cinquanta Vivi, compresi tutti nel Libro II. e segnatamente di quelli, che sono stati introduttori,
e capi delle scuole, o maniere, o stili praticati finora; imperciocché da essi dipende il conoscere i
crescimenti, e gli scemamenti della condizione, che la nostra Poesia ha di tempo in tempo avuti ne’ secoli,
che è stata professata: al quale fine ho ordinati essi Poeti cronologicamente. […]
    V. Acciocché poi il Lettore abbia campo di riscontrare i medesimi giudizj, e in qualche modo giudicare
anch'esso, ho dato nel Libro III. un saggio dello stile di chiascuno de’ predetti Rimatori, coll'ordine stesso
cronologico tenuto nel Libro antecedente; e tali saggi io gli ho scelti tra quei componimenti, che ho
giudicati più proprj, e confacevoli allo stile, o carattere più praticato da gli Autori; mentre anche da ciò
dipende il conseguimento del fine dell’Istoria. […]
    VI. Circa i cinquanta Rimatori viventi collocati dopo la suddetta centuria de' morti, non ho voluto
fare altro, che dar notizia della Patria, e della qualità della Persona, e sua professione, per non entrare in
briga di più, e di meno; volendo, che la Repubblica Letteraria dia giudizio in mia vece sopra le loro rime,
i cui saggi si annoverano parimente dopo quelli della centuria.

3. GIROLAMO TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, Modena, Società Tipografica,
   1772, tomo 1 [dalla Prefazione].

        Non vi ha Scrittore alcuno imparziale e sincero, che alla nostra Italia non conceda volentieri il
glorioso nome di Madre e Nudrice delle Scienze, e delle Bell’Arti. Il favore, di cui esse hanno tra noi
goduto, e il fervore del Romano Impero, e ne’ felici secoli del loro risorgimento, le ha condotte a tal
perfezione, e a tal onore le ha sollevate, che gli stranieri, e quegli ancora tra essi che della lor gloria son
più gelosi, sono astretti a confessare, che da noi mosse primieramente quella sì chiara luce, che balenò a’
lor sguardi, e che gli scorse a veder cose ad essi finallora ignote. […] Un sì bel vanto di cui l’Italia va
adorna, ha fatto che molti Eruditi Oltramontani si volgessero con fervore alla Storia della nostra
Letteratura; e in questi ultimi tempi singolarmente abbiam veduto esercitarsi in questo argomento, e dare
alla luce Opere assai pregevoli, Tedeschi e Francesi di non ordinario sapere. […] Egli è questo un nuovo
argomento di lode alla nostra Italia; ma potrebbe anche volgersi a nostro biasimo, se, mentre gli Stranieri
mostrano di avere in sì gran pregio la nostra Letteratura, noi sembrassimo non curarla, ed essi avessero a
rinfacciarci, che ci convien da lor medesimi apprendere le nostre lodi. […] Ma certo pare, che gli Stranieri
possan dolersi di noi, che in un secolo, in cui la Storia Letteraria si è da noi coltivata singolarmente, niuno
abbia ancora pensato a compilare una Storia Generale della Letteratura Italiana. […] Il desiderio adunque
di accrescere nuova lode all’Italia, e di difenderla ancora, se faccia d’uopo, contra l’invidia di alcuni tra gli
Stranieri, mi ha determinato a intraprendere questa Storia Generale della Letteratura Italiana,
conducendola da’ suoi più antichi principj fino presso a dì nostri. […] Ella è la Storia della Letteratura
Italiana, non la Storia de’ Letterati Italiani, ch’io prendo a scrivere. Quindi mal si apporrebbe chi
giudicasse, che di tutti gli Italiani Scrittori, e di tutte l’Opere loro io dovessi quì ragionare, e darne estratti,

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e rammentarne le diverse edizioni. Io verrei allora a formare una Biblioteca non una Storia; e se volessi
unire insieme l’una e l’altra cosa, m’ingolferei in un’Opera, di cui non potrei certo vedere, nè altri forse
vedrebbe mai il fine. […] Per altra parte abbiam già tanti Scrittori di Biblioteche e di Cataloghi, che una
tal fatica sarebbe presso che inutile; […]. Ella è dunque, il ripeto, la Storia della Letteratura Italiana, ch’io
mi son prefisso di scrivere; cioè la Storia dell’Origine e de’ progressi delle Scienze tutte in Italia. Perciò io
verrò svolgendo quali prima delle altre, e per qual modo cominciassero a fiorire, come si andassero
propagando, e giugnessero a maggior perfezione, quali incontrassero o liete o sinistre vicende, chi fossero
coloro, che in esse salissero a maggior fama. Di quelli, che col loro sapere e coll’opere loro si renderon
più illustri parlerò più ampiamente; più brevemente di quelli, che non furono per ugual modo famosi, e
di altri ancora mi basterà accennare i nomi, e rimettere il lettore a quelli, che ne hanno più lungamente
trattato. Della Vita de’ più rinomati Scrittori accennerò in breve le cose, che son più note; e cercherò di
illustrare con maggior diligenza quelle, che son rimaste incerte ed oscure; e singolarmente ciò, che
appartiene al loro carattere, al lor sapere, e al loro stile. La Storia ancora de’ mezzi, che giovano a coltivare
le Scienze, non sarà trascurata; e quindi la Storia delle pubbliche Scuole, delle Biblioteche, delle
Accademie, della Stampa, e di altre somiglianti materie avrà quì luogo.

    4. GIROLAMO TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, Modena, Società Tipografica,
       1774, tomo 5, pp. 434-436.

        Tal fu la vita di Francesco Petrarca, uomo, di cui non giova, ch’io mi trattenga a formare il
carattere, poiché le cose che finora dette ne abbiamo, e quelle, che in altre parti di questo tomo medesimo
si son vedute, cel fanno abbastanza palese; e cel dimostrano uno de’ più rari uomini, che mai vivessero al
mondo, o se ne consideri la vivacità dell’ingegno, il continuo studio, e la moltiplice erudizione, o si voglia
aver riguardo all’indole amabile, e alle non ordinarie virtù, di cui fu adorno, pregi tutti singolarissimi, e
che se vennero alquanto oscurati da qualche ambizione degli onor letterarj, da qualche trasporto nel
rispondere con aspro e pungente stile a’ suoi avversarj, e da alcuni giovanili trascorsi, ebbero però ancora
maggior risalto dal confessar, che fece egli medesimo la sua debolezza, e dal sincero pianto che sparse su’
propri falli. Ma lasciamo le morali virtù, che a questo luogo non appartengono, e parliam solo della poesia
italiana, che è il principale argomento di questo capo. Il Petrarca avea sortita nascendo quella felice
disposizione alla poesia, senza cui inutilmente si cerca di divenire poeta, e ben il diede a vedere
l’avversione, ch’egli ebbe fin da’ primi anni agli studi legali, e il toglier loro quanto poteva di tempo per
occuparlo nella lettura de’ poeti. La poesia latina era quella, che singolarmente egli amava; e forse s’ei non
si fosse innamorato di Laura, noi non avremmo nel Canzonier del Petrarca il più perfetto modello di
poesia italiana. In fatti ei non parla giammai de’ suoi versi volgari, che come di scerzi giovanili, e confessa,
ch’egli era stato più volte tentato di girrargli alle fiamme, sì per la frivolezza dell’argomento, come perché

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essi spargendosi pel volgo, e passando di mano in mano, e di bocca in bocca, si venivano stranamente
sconciando e alterando, sicché era difficilissimo l’averne una copia esatta e corretta. Ei dice inoltre che se
avesse creduto, che i suoi versi italiani dovessero avere sì grande applauso, avrebbe cercato di ripulirgli
vie maggiormente e di perfezionarne lo stile. [...] Certo è però, che il Petrarca era diligentissimo nel
rivedere, e nel correggere più e più volte le sue poesie, e ne abbiamo in pruova i frammenti originali
pubblicati dall’Ubaldini l’anno 1642 e poi aggiunti alla edizione del Muratori l’anno 1711, e a quella fatta
in Padova dal Comino l’anno 1732, ne’ quali si veggono le correzioni diverse, che il Petrarca faceva a un
medesimo verso, e le più maniere, con cui egli l’andava cambiando, finché avesse trovata quella che più
piacevagli. In tal maniera noi abbiamo avuto il Canzoniere di questo immortal poeta, guasto però, com’io
credo, e come abbiamo udito dolersene lui medesimo, in più luoghi da’ copisti ignoranti. Io non prenderò
qui né a rilevarne i pregj, né a noverarne i difetti. Che nelle poesie del Petrarca s’incontrino non rare volte
fredde allusioni, concetti raffinati, pensieri più ingegnosi che giusti, non avvi, a mio credere, uom di buon
senso, che per se stesso nol vegga, e se ne dee incolpare il gusto di que’ tempi introdotto da’ Provenzali,
e da’ primi poeti italiani loro imitatori sempre più propagato, di assottigliare, e di anotomizzare, per così
dire, l’amore, e di seguir poetando l’ingegno più che la natura; gusto da cui dee riconoscer l’Italia il sì gran
numero, da cui in addietro è stata inondata, di freddissimi petrarchisti, che non avendo forza per sollevarsi
in alto con quello, ch’essi prendeano a loro guida, non l’han seguito che ne’ suoi errori, e ne’ suoi
traviamenti. Ma checché sia di tali difetti, è certo, che nel Petrarca abbiamo un sì perfetto modello di
poesia italiana, ossia quand’egli sfoga pietosamente la sua amorosa passione, o quando levasi più sublime,
e prende più nobili oggetti a scopo delle sue rime, che chiunque con saggio discernimento si faccia a
studiarne le bellezze e i pregi, purché la natura fornito l’abbia di quell’animo e di quell’estro, senza il quale
niuno fu mai poeta, potrà seguirlo d’appresso e nella leggiadria del poetare, e nella fama, a cui egli giunse.

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                                        SAVERIO BETTINELLI

1. [S. Bettinelli], Dieci lettere di Publio Virgilio Marone scritte dagli Elisi all’Arcadia di Roma sopra
gli abusi introdotti nella poesia italiana [= Lettere virgiliane] - dalla lettera terza

       […] Dante non dee mirarsi né come epico, né come comico poeta. Non fece altro che
descrivere un suo viaggio, e il capriccio non meno che le passioni furono, più che non io, sue
vere guide e compagne in tal via. Quello non da regole, che ignote erano al tempo suo, non da
presenti esempli illustrato, in tante allusioni, in tanti simboli, ch’ei solo intendea, e in così svariati
luoghi, ed obbietti il traviarono. Queste il condussero a parlare malignamente di tanti fatti, e
persone del tempo suo, delle quali non s’ha più contezza, e a far pompa vana di tanta erudizione
fuor di proposito, poiché in vero dottissimo ei fu, ma qual esser poeta di que’ dì, sopra d’ogn’altro.
Il volerlo tutti imitare, il proporlo ai giovani, l’esaltarlo senza conoscerlo, e senza intenderlo
quest’è che noi condanniamo. Se a miglior tempi fosse vissuto sarebbe forse il maggior de’ poeti.
A Dante null’altro mancò che buon gusto, e discernimento nell’arte. Ma grande ebbe l’anima, e
l’ebbe sublime; l’ingegno acuto e fecondo; la fantasia vivace e pittoresca, onde gli cadono dalla
penna de’ versi, e de’ tratti mirabili. Anzi, giudico che da questi venuto sia l’abuso dell’imitazione
tra gl’italiani. La sua Commedia, mostruosa per altro, presenta qua e là certe imagini così forti e
terribili, de’ terzetti_ sì bene organizzati che t’incantano in guisa da non sentir l’asprezza d’altri
dodici o venti che vengan dopo. Quei si tengono a mente, quelli si recitano, e divengono una
ricchezza della nazione. Il tempo la consacra e si crede mercé di quelli_ più bello assai che non è
tutto il resto. Gl’imitatori, sempre inferiori al lor modello, ne crescono il pregio. Gl’inerti e
pedanteschi letterati vi fanno la glosa; si citano le sentenze dai freddi morali; le strane parole si
registrano ne’ vocabolari e tanti infin partigiani e stimatori col tempo vanno moltiplicando, che_
hai contro di te un popolo immenso a voler censurare il gran poeta. Perché, dimmi ti prego,
quanti sono in una intera nazione che possano giudicare per intimo senso e per anima armonica
del poetar generoso: dieci o dodici al più; e la metà di questi nacque nelle campagne o in
condizione servile, onde si portano nel sepolcro un talento senza aver sospettato giammai di
possederlo. Eccoti come Dante ha trionfato, e ancor regna. Qualche vera bellezza del suo poema,
e un gregge infinito di settatori_ ha fatto il suo culto e la sua divinità. […] E_ così fa_ versi in
lingue particolari di Lombardia e d’altre genti, che non penarono mai dover entrare in un poema
se non burlesco. Né queste bizzarrie già condanno come il vizio peggior del poema. Condanno
l’esser questo presso a poco di un gusto e parlar barbaro e duro perpetuamente, benché le parole
non sian sempre sì barbare. I glosatori_ trovano almeno i più be’ misteri del mondo, e le più vaghe
novelle che fosser mai dentro a que’ strani linguaggi. Leggete, vi prego, i grossi trattati, che han
fatto ne’ loro gran tomi su questi passi divini il Vellutello, il Landino, Benvenuto da Imola, il
Daniello, il Mazzoni, e tant’altri; e quai battaglie non attaccarono anche i moderni? Ma quando
poi giungono al Purgatorio, e al Paradiso, anch’essi questi campioni dan segno di stanchezza per
que’ diserti; perché dovete sapere che non ho citato se non se passi dell’Inferno, che è il più nobile,
e il più poetico della divina Commedia, commedia come già udiste. tutto questo ho voluto leggere
dopo l’ultima nostra conversazione, e parmi d’averne intesa, se troppo non son temerario, la metà

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in circa; ma l’altre due parti ho scorse qua e là prestamente_ per tema_ di perdermi in quell’etena
vacuità._ […] Io concludo che Dante non deve esser letto più d’Ennio e di Pacuvio_, e che al più
se ne devono conservare alcuni frammenti più eletti, come serbansi alcune statue, o bassi rilievi
d’un antico edifizio inutile e diroccato. […]
       Tacque alfin Giovenale e parve a tutti quel declamatore e satirico ch’egli è infatti per sua
natura, ma insieme fu riconosciuto veridico e giudicioso nella sostanza delle sue critiche. Allor
tutte quell’ombre di poeti_ che mi stavano attorno, e massimamente i greci, che si dolevano del
torto lor fatto per tanto tempo dagl’italiani, i quali avean messo Dante in pari fede con esso
loro, dimandarono d’essere redintegrati. Fu dunque deciso che Dante non dovesse aver luogo
tra loro, non avendo il suo poema veruna forma regolare secondo l’arte. Esiodo, Lucrezio e
gli altri autori di poemi istorici o filosofici a’ quali parea più tosto appartenere, ricusaron
d’ammetterlo se non si purgava di tante finzioni ed invenzioni capricciose e non ragionevoli,
che forman per altro una gran parte dell’opera. Terenzio, Aristofane e i comici dimostrarono
che per un titolo di commedia non si può divenire poeta comico, massimamente dove mai
non si ride e spesso si dorme, infin non trovavasi chi volesse dalla divina Commedia restar
onorato, e Dante correva pericolo d’essere escluso dal numero de’ Poeti. Se non che vennemi
in mente di propor loro in buon punto un consiglio: ciò fu di estrarre i miglior pezzi di Dante,
che loro stessi avean recato cotanto diletto e raccoglierli insieme in un picciol volume di tre
o quattro canti veramente poetici e questi ordinare come si può, e i versi poi, che non
potrebbono ad altri legarsi, porli da sé a guisa di sentenze […]. A questa condizione
accettarono tutti i poeti Dante per loro compagno, e gli accordarono il privilegio
dell’immortalità che a loro è concessa dal fato. Io penso, Arcadi, che non sarete di parere
diverso da quel d’Omoro, di Virgilio, d’Orazio, d’Anacreonte e di tutti coloro che voi stessi
tenete per maestri, per classici in poesia. State sani.

2. [S. BETTINELLI] Dieci lettere di Publio Virgilio Marone scritte dagli Elisi all’Arcadia di Roma
sopra gli abusi introdotti nella poesia italiana [= Lettere virgiliane] - dalla lettera nona

       Ma venghiamo alla poesia. Non ho potuto tacervi, amici Italiani, le nuove cose da me
vedute, perché d’alcune purghiate la patria, se far si può, e d’altre intendiate la vanità e la
follia. Così avvenisse pure degli abusi poetici e letterari che allignan tra voi! Per non annoiare
me e voi lungamente parlandone, eccovi in poco i giudizi che greci e latini portarono intorno
a’ vostri scrittori, poiché dalla terra tornato agli Elisi recai loro certe novelle de’ vostri poeti
esaminati da me senza passione_ e con diligenza. Questi egregi maestri pensarono che a far
risorgere l’ottima poesia nell’Italia dovesse in prima scemarsi la vasta ed inutile moltiplicità
de’ poeti e dell’opere loro; l’ottimo

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eleggersi e di quel farsene quasi un sacro deposito ad esempio della gioventù, che
nacque alla poesia_.

                 Scelta e riforma de’ poeti italiani per comodo della vita e della poesia

       Tutti gli antichi_ o contemporanei di Dante si consegnino alla Crusca o al fuoco.
       […]
       Dante sia posto tra’ libri d’erudizione, siccome un codice_ e monumento
d’antichità, lasciando alla poesia que’ cinque canti incirca di pezzi insieme raccolti che
gli antichi stimarono degni nella lettera terza.
       Petrarca regni sopra gli altri, ma non sia tiranno ed unico. Si ripurghi di una terza
parte inutile e le due parti stesse migliori abbian notate in margine, per evitarsi da i
giovani, alcune rime forzate, alcune strane parole, alcuni modi viziosi e tutte le fredde
allusioni.
       Bembo, Casa, Costanzo, Guidiccioni e i cinquecentisti tutti riducansi ad un
librettino di venti sonetti e di tre canzoni, togliendo a un bisogno qua un quaternetto,
là un terzetto o una stanza in cui sia qualche nuova bellezza e mettendo alcuna cosa
nelle chiuse, sicché mostrino d’essere un finimento.
      L’Ariosto può far de’ poeti_ ed eziandio_ più regolati di lui. Egli è gran poeta, se
alcuni canti si tronchino dell’Orlando furiosi ch’egli stesso condanna, e tutte le stanze
che non contengono fuor che turpi buffonerie, miracoli di paladini, incanti di maghi,
o sozze imagini indegne d’uomo bennato. La macchina del poema non ne soffrirà
danno alcuno. I suoi capitoli, che han nome di Satire, si rispettino quand’esse al buon
costume e alla religione han rispetto. […]
       Il Tasso più non si stampi senza provvedimento all’onor suo. L’episodio
d’Olindo e di Sofronia è inutile. I lamenti d’Armida sono indegni del suo dolore.
Erminia si lasci in grazia della poesia. Le piante animate, la mescolanza del sacro e del
profano han bisogno d’emenda. Riducasi dunque a metà tutto il poema, e correggasi
molto lo stile. Ma non si tocchi l’Aminta. Gli si perdonino i suoi difetti per non guastar
sì bell’opera ponendovi mano. Roma ed Atene vorrebbono averne una pari. […]
       Tutta l’Eneide d’Annibal Caro viva ancor essa per lo stile poetico veramente e
franco. Sia lettura de’ giovani principalmente. Si notino insieme le infedeltà della
traduzione con giusta critica. Qualche sonetto di lui si legga […].
       Il Chiabrera ristringasi in un solo volume e sia piccolo. Nessun sonetto di lui
v’abbia luogo, nessun poema, e i modi greci delle canzoni, che sono a forza italiani,
mettansi in libertà. […]
       Dell’Adone_ si spremano quattro o sei canti che ragionevoli siano e castigati. Se
tuttavia pecchino di fumosità, s’adacquino con un poco d’Italia liberata del Trissino

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Critica letteraria italiana - a.a. 2020/2021
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3. [S. BETTINELLI], Codice nuovo di leggi del parnaso italiano [allegato alle Lettere virgiliane]

                                              I
      Non si mettano i giovani allo studio di poesia come le gregge. Un di cento
coltivisi, alcuni pochi se ne informino leggiermente, il resto non si strazi con molt’ore
d’aculeo e di tormento ogni giorno […].

                                              II
      Diasi loro picciol compendio di pochi precetti e subito i buoni esemplari da
leggere. Cento versi di buon poeta insegnano più che tutti i tomi de’ precettori. Questi
si diano a color che son fatti per ruminare, siccome i bovi, per non sapere che farsi.

                                             III
       Non usurpino più le scuole i talenti dal ciel destinati alla milizia, all’aritmetica ed
all’aratro.

                                             IV
       La poesia latina si legga ed intenda affin di perfezionare l’italiano. Chi pretende
di riuscire eccellente poeta latino, essendo nato italiano, condannisi a comporre dentro
d’un mausoleo, poiché scrive a i morti.

                                              V
     Non si leggano Galli o Britanni poeti se non se all’età di quaranta anni, quando
non è più tempo di poetare.

                                             VI
     Non si permettano poesie amorose fuor che a vecchi poeti di sessanta anni
perché si riscaldino; ai giovani no, perché non raffreddino sé e gli altri. Ciò per un
secolo, finché si purghi de’ ridicolo amori il Parnaso italiano.

                                             VII
      L’Arcadia sia chiusa ad ognuno per cinquant’anni e non mandi colonie o diplomi
per altri cinquanta. Colleghisi intanto colla Crusca in un riposo ad ambedue necessario
per ripigliar fama e vigore. Potranno chiudersi per altri cinquant’anni dopo i primi,
secondo il bisogno.

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                                        VIII
       Le Accademie più non ammettano fuor che coloro che giurino legalmente di
voler esser mediocri tutta la vita. Color che avessero mire più alte ne siano esclusi.
[…]

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1. GIUSEPPE BARETTI, La frusta letteraria di Aristarco Scannabue, Introduzione ai leggitori.

     Quel flagello di cattivi libri che si vanno da molti e molti anni quotidianamente stampando in tutte le
parti della nostra Italia, e il mal gusto di cui l’empiono, e il perfido costume che in essa propagano, hanno
alla fin fine mossa tanto la bile ad uno studioso e contemplativo galantuomo, che s’è pur risoluto di fare
nella sua ormai troppo avanzata età quello che non ebbe mai voglia di fare negli anni suoi giovaneschi e
virili, cioè si è risoluto di provvedersi d’una buona metaforica Frusta, e di menarla rabbiosamente addosso
a tutti questi moderni goffi e sciagurati, che vanno tuttodì scarabocchiando commedie impure, tragedie
balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole, e prose e poesie d’ogni generazione che
non hanno in se il minimo sugo, la minima sostanza, la minimissima qualità da renderle o dilettose o
giovevoli ai leggitori ed alla patri.
          Molto magnanimo, come vedete, signori miei, molto magnanimo è il motivo che induce questo
vegeto e robusto vecchio a dichiarare, come solennemente dichiara, una disperatissima guerra a tanti Goti
e Vandali, che dal gelato settentrione dell’ignoranza sono venuti a manomettere, a vituperare e a
imbarbarire il nostro bellissimo e gloriosissimo Stivale. Ma chi è, direte voi, questo bravaccio, il quale con
questa sua terribile Frusta in pugno si lusinga così baldantemente di far più che non fece Morgante col
battaglio, o Dama Robenza col Martello? Chi è costui che viene così d’improvviso ad attaccare tutti i
nostri paladini del calamaio, e si propone di trattarli come i discoli ragazzacci sono trattati dagli austeri e
collerosi pedanti? Chi è costui che giudica le sue forze proporzionate a tanto vasta, a tanto ardua, a tanto
pericolosa intrapresa?
          Chi egli sia, leggitori, non vi si può peranco dire per alcune ragioni, che troverete buonissime
quando verrà il tempo che vi siano manifestate. Dunque abbiate un po’ di flemma e vedetelo prima
adoperare alquanto questa sua Frusta sul deretano a qualche dozzina di questi scrittoracci moderni.
Quand’egli avrà fatte rosseggiare alquanto le carni di questi poltronieri, e quando avrà fatte loro alzare le
grida pel dolore delle prime frustate, allora si torrà dal viso quella maschera che si propone di portare
alcun tempo per maggiormente atterrirli; allora si lascerà guardare nella fisonomia; e sarete allora
informati pel lungo e pel largo della sua nascita, della educazione sua, della sua indole di pensare e di
vivere; ed in sostanza saprete allora fino il numero dei denti che gli rimangono ancora in bocca, se
mostrerete voglia di saperlo. Ma per ora egli non vuol essere che una specie d’indovinello, e si vuol celare
sotto il misterioso nome di Aristarco, e sotto l’allegorico cognome di Scannabue.
          [...] Aristarco ha voluto intraprendere di scrivere i presenti fogli; e perché i moderni dotti
capiscano immediate l’intenzione con cui li scrive, ha voluto intitolarli la Frusta letteraria, che è titolo chiaro
e intelligibile, e nulla bisognevole di commento. Lo scrivere questi fogli gioverà anche ad Aristarco a
sfogare l’innata bizzarria, a fargli purgare un poco di quella stizza che la lettura d’un cattivo libro
naturalmente gli muove, ed a finir di consumare quel breve spazio di vita che gli resta a vivere con qualche
profitto de’ suoi compatrioti. Avvertite dunque, signori leggitori, che Aristarco si mette a malmenare tutti
i moderni cattivi autori che don Petronio gli farà capitare sul tavolino, e si dispone a farne proprio fette
senza la minima misericordia; onde badate a non iscrivere, o a scriver bene, e cose di sustanza, se non
volete toccare qualche maladetta frustata. Ogni quindici dì sarà scritto uno di questi numeri, che voi vi
compiacerete di leggere molto attentamente approfittandovi di quelle molteplici notizie e de’ buoni
documenti, che il vecchio Aristarco Scannabue vi potrà dare in questo po’ di tempo che gli rimane a
picchiar ancora il globo terracqueo con la sua gamba di legno. Valete omnes.

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