ELEZIONI IN MESSICO SFIDE E INCOGNITE DI UN PAESE IN TRASFORMAZIONE - Ispi

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                         Analysis N. 324, Giugno 2018

                         ELEZIONI IN MESSICO
                         SFIDE E INCOGNITE DI UN PAESE
                         IN TRASFORMAZIONE

                         Massimo De Giuseppe

                         Il 1° luglio del 2018 quasi novanta milioni di cittadini (per essere precisi 87.895.313)
                         su una popolazione di oltre 129 milioni di abitanti, saranno chiamati alle urne per
                         eleggere il 58° presidente degli Estados Unidos Mexicanos, oltre ai 500 membri
                         della Camera (300 a maggioranza relativa, 200 con metodo proporzionale), i 128 del
                         Senato (64 a maggioranza relativa, 32 proporzionale, 32 di minoranza), 8
                         governatori, il capo di governo della capitale e un’infinita lista di autorità regionali e
                         locali (per un totale di 2.777 incarichi). Un’elezione monstre, la più grande nella
                         storia del paese, che arriva a centouno anni da quella che cercò di chiudere la fase
                         armata della rivoluzione messicana, dopo il varo della Costituzione federale del
                         febbraio del 1917, con il drastico ridimensionamento politico-militare dei due grandi
                         caudillos popolari, Pancho Villa (nel Nord) ed Emiliano Zapata (nel Sud-ovest), e
                         l’elezione, il 1° maggio, del primer jefe costituzionalista, Venustiano Carranza.
                         Massimo De Giuseppe, professore associato di Soria Contemporanea, Università
                         IULM.
©ISPI2018

            1   Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
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LE EREDITÀ SOSPESE DI UN SECOLO “LUNGO”
    Il 1° luglio del 2018 quasi novanta milioni di cittadini (per essere precisi
    87.895.313) su una popolazione di oltre 129 milioni di abitanti, saranno chiamati
    alle urne per eleggere il 58° presidente degli Estados Unidos Mexicanos, oltre ai
    500 membri della Camera (300 a maggioranza relativa, 200 con metodo
    proporzionale), i 128 del Senato (64 a maggioranza relativa, 32 proporzionale,
    32 di minoranza), 8 governatori, il capo di governo della capitale e un’infinita
    lista di autorità regionali e locali (per un totale di 2.777 incarichi). Un’elezione
    monstre, la più grande nella storia del paese, che arriva a centouno anni da
    quella che cercò di chiudere la fase armata della rivoluzione messicana, dopo il
    varo della Costituzione federale del febbraio del 1917, con il drastico
    ridimensionamento politico-militare dei due grandi caudillos popolari, Pancho
    Villa (nel Nord) ed Emiliano Zapata (nel Sud-ovest), e l’elezione, il 1° maggio,
    del primer jefe costituzionalista, Venustiano Carranza 1.
    In realtà la rivoluzione in armi si sarebbe protratta per almeno altri tre anni,
    conoscendo nuovi rovesciamenti, morti illustri e popolari, fino alla vittoria del
    gruppo modernizzatore dei “sonorensi” di Alvaro Obregón il quale cercò di
    completare la pacificazione nazionale, rimise ordine all’impianto istituzionale e
    bancario, lanciò con José Vasconcelos un ambizioso piano educativo e
    culturale (nel quale trovò spazio anche il progetto muralista di Rivera, Orozoco
    e Siquieros), aprendo la strada alla lunga stabilizzazione postrivoluzionaria. Il
    suo successore, il radicale Plutarco Elías Calles, superata la tempesta della
    guerra cristera (contro battaglioni di cattolici in armi) e le tensioni con la S. Sede
    (culminate in tre anni di sciopero del culto), seppe completare il processo di
    Nation Building attraverso l’invenzione, nella primavera del 1929, di uno
    strumento politico all’epoca senza pari: il Partido Nacional de la Revolución
    (PNR). Una creatura sui generis destinata a compenetrare ambizioni laburiste
    ed investimenti nordamericani, nazionalismo inclusivo ed esigenze di
    real-politik, politiche proto-indigeniste e laicismo di stato, processi di
    federalizzazione e spinte periferiche, accordi taciti e reti clientelari, costruendo
    una macchina in grado di governare il paese per un settantennio. Un sistema
    che lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa avrebbe definito, a margine di un
    convegno di intellettuali del 1990, la “dictadura perfecta”, facendo indispettire le
    autorità messicane e il suo anfitrione Octavio Paz che volle ricordare come quel
    sistema fosse egemonico culturalmente e politicamente ma anche estraneo a
    forme di dittatura militare così comuni nello scenario politico latino-americano.

    1
        M. De Giuseppe, La rivoluzione messicana, Il Mulino, Bologna 2013.

2
Il PNR, ribattezzato nel 1938 Partido de la Revolución Mexicana, quindi
    creativamente ridefinito (il 18 gennaio del 1946, nell’ultimo anno di presidenza
    Ávila Camacho), Partido Revolucionario Institucional (PRI), ha effettivamente
    saputo superare nel tempo scosse e tempeste: ha resistito alla
    nazionalizzazione petrolifera voluta da Lazaro Cárdenas nel 1938 come auge
    del suo programma socialisteggiante; si è ridefinito durante la guerra fredda,
    quando l’alleanza discreta di Città del Messico e Washington, sancita dagli
    accordi di Chapultepec e dal Trattato di Rio, non impedì di mantenere relazioni
    diplomatiche con la Cuba castrista né di avviare singolari esperimenti
    terzomondisti2. Il PRI è sopravvissuto al tragico 1968 (l’anno dei giochi olimpici
    macchiati dal massacro di giovani attivisti e studenti a Tlatelolco, nella Plaza de
    las Tres culturas, durante la presidenza di Gustavo Díaz Ordaz) 3, ha
    accompagnato le ambizioni regionalistiche di Echeverría e López Portillo e si è
    riadattato per gradi alle riforme liberiste e tecnocratiche, intraprese dai governi
    de La Madrid, Salinas de Gortari e Zedillo tra anni Ottanta e Novanta, sugellate
    nel 1994 dall’entrata in vigore del North American Free Trade Agreement
    (NAFTA) o Tratado de Libre Comercio Norteamericano (TLCAN), come è
    conosciuto sotto the border/la línea, ovvero gli oltre tremila chilometri di
    frontiera che separano Usa e Messico 4.
    Nel 2000 il PRI, nel nuovo clima della globalizzazione post-bipolare e sulla
    scorta di una graduale erosione di consensi e di rottura delle vecchie reti, non
    troppo improvvisamente implose 5. La presidenza passò allora al candidato del
    vecchio Partido de Acción Nacional (PAN); una formazione di centro-destra,
    fondata nel 1939 dall’ex rettore dell’Universidad Nacional Autónoma de México
    (UNAM, oggi uno degli atenei più grandi del mondo con circa 320.000 studenti)
    Manuel Gómez Morín e dall’avvocato jalisciense Efraín Gonzáles Luna. Un
    partito anomalo rispetto alle esperienze democratico-cristiane latinoamericane
    e che nei decenni è apparso sempre più sganciato dalla sua originaria matrice
    di nazionalismo cattolico, conservatore e sociale, aprendosi gradualmente ai
    dettami modernizzatori del liberismo di mercato 6. Alle soglie del XXI secolo, il

    2
      G.M. Joseph, D. Spenser (a cura di), In from the cold: Latin Americas new encounter with the Cold War,
    Duke University Press, Durham, London 2008.
    3
      J. Pensado, Rebel Mexico. Student Unrest and Authoritarian Political Culture During the Long Sixties,
    Stanford University Press, Redwood City, 2013.
    4
      V. Ronchi, La metamorfosi della rivoluzione: il liberalismo sociale nel Messico di Salinas (1988-1994),
    Mimesis, Milano, 2015.
    5
      T. Bertaccini (a cura di), Il tramonto del regime rivoluzionario: Messico: 1979-2010, Otto, Torino, 2012
    6
      M.J. Ard, An Eternal Struggle: How the National Action Party Transformed Mexican Politics, Praeger,
    Santa Barbara (CA) 2003; R. Y Ortega Ortíz, Presidential Elections in Mexico: From Hegemony to
    Pluralism, Palgrave-MacMillan, London-New York, 2017.

3
peculiare “populismo-tecnocratico” del presidente Vicente Fox (che dietro
    all’immagine di simpatico ranchero dal linguaggio diretto e popolare, celava
    l’esperienza di ex ad di Coca Cola México), marcò una transizione democratica
    efficace sotto il profilo istituzionale ma al contempo intrisa di luci ed ombre: tra
    aperture che portarono il Messico a crescere rapidamente in termini
    macroeconomici (dal 1999 il paese era entrato a far parte del gruppo dei G20) e
    segnali di una crescente polarizzazione della ricchezza e di una rapida
    marginalizzazione della produzione agricola (come denunciato dalla campagna
    popolare “sin maíz no hay país”) 7.
    La transizione politica messicana e il processo di “nordamericanizzazione” del
    paese, si collocò inoltre sullo sfondo di uno spostamento geopolitico delle rotte
    del narcotraffico internazionale (conseguente all’impatto del Plan Colombia,
    lanciato dall’amministrazione Clinton nel 2000) che rendeva sempre più
    intraprendenti e globalizzati i grandi cartelli criminali attivi (principalmente nel
    Nord) del paese 8. Tra speranze e incertezze, il voto del 2006 sancì così un
    punto di volta, con il PRI ancora fermo al palo e un testa a testa spasmodico tra
    il candidato panista, l’avvocato michoacano Felipe Calderón Hinojosa, e Andrés
    Manuel López Obrador, leader del Partido de la Revolución Democrática
    (PRD), la formazione nata 1989 da una scissione a sinistra del PRI voluta dal
    figlio di Lázaro Cárdenas, Cuauhtémoc. La vittoria di misura, duramente
    contestata dall’opposizione che per mesi organizzò manifestazioni di protesta e
    azioni ostruzionistiche, avrebbe minato la capacità di governo di Calderón, la
    cui idea di intraprendere un “guerra al narco” (nell’ambito della Mérida iniziative,
    lanciata nel 2008 con il sostegno dell’amministrazione Bush jr.), avrebbe avuto
    l’effetto di incrementare esponenzialmente la violenza (le vittime complessive
    durante il suo mandato sono state stimate in circa 70.000) 9.
    Nel 2012 il ritorno del PRI alla guida del paese, con il telegenico ex governatore
    dell’Estado de México, Enrique Peña Nieto (questa volta impostosi nettamente,
    con 7 punti di distanza su López Obrador e 13 sulla candidata del PAN,
    Josefina Vásquez Mota), sembrava dunque il frutto di un compromesso tra
    passato e futuro 10. A un discorso tacito di ritorno alla pace sociale, il PRI

    7
      S. Whus, Savage Democracy: Institutional Change and Party Development in Mexico, Penn State
    University Press, University Park (PA), 2007, A. Gálvez, Eating Nafta: Trade, Food Policies, and the
    Destruction of Mexico, University of California Press, Berkeley (CA), 2018.
    8
      J.A. Aguilar Rivera (ed.), Las Bases Sociales del Crimen Organizado y la Violencia en México, Centro
    de Investigación y Estudios en Seguridad - Secretaría de Seguridad Pública, Mexico, 2012.
    9
      J. Osorio, Contagion of Drug Violence: Spatio-temporal Dynamics of the Mexican “War on Drugs”, in
    “Journal ofConflict Resolution”, Special Issue on Mexican Drug Violence, 2015, 59(8), pp. 1403-1432.
    10
       J. Tuckman, Mexico. Democracy Interrupted, Yale University Press, New Haven (CT), 2012.

4
associò una spiccata volontà riformista (in ambiti cruciali quali energia, sistema
    elettorale, fiscale, educativo, sanitario e infrastrutture) che sembrava rilanciare i
    dettami modernizzatori del vecchio progetto salinista (sotto l’egida del Pacto por
    México sottoscritto solennemente nel castello di Chapultepec, all’indomani
    dell’insediamento del presidente, dai leader di PRI, PAN e PRD). In realtà un
    intreccio di fattori internazionali e interni avrebbe finito per esacerbare le grandi
    contraddizioni nazionali, togliendo credibilità al partito e ad uno Stato ambizioso
    e dinamico nei consessi internazionali ma apparentemente indebolito proprio
    nel cuore del paese profondo, un tempo cruciale per il progetto
    postrivoluzionario.

    VERSO LE ELEZIONI, IL MESSICO NEI NUOVI SCENARI GLOBALI
    Alla vigilia del voto del 1° luglio 2018 il Messico appare dunque come un paese
    sospeso: da un lato una grande open economy, 15° economia mondiale
    (recentemente superata dalla Spagna), con ampi margini di sviluppo, come
    evidenziato recentemente dall’Organizzazione per la cooperazione e lo
    sviluppo economico (OCSE/OECD) 11, nonostante l’ultimo triennio abbia
    registrato un calo della crescita del Pil reale (dal 3,27% del 2015, al 2,91% del
    2016 al 2.04% del 2017, con previsioni del 2,29% per l’anno in corso). Il
    Messico è comunque saldamente la seconda economia dell’America latina
    (dietro solo al Brasile), con un deficit fermo al -2,6% del Pil, e sembra uscito
    indenne dalle nuove turbolenze regionali che hanno investito il subcontinente,
    confermandosi forte in settori strategici quali il comparto automobilistico, delle
    comunicazioni, petrolifero, energetico, minerario, turistico, perfino biomedico e
    spaziale. Un paese di grandi tycoon (a partire da Carlos Slim Helú, patron di
    Telmex e América Móvil), a livello finanziario più solido rispetto al passato,
    culturalmente e artisticamente tra i più vivaci al mondo (dalla fine del 2015 è
    stato introdotto per la prima volta il ministero della Cultura, al posto del Consejo
    Nacional para la Cultura y las Artes, scorporato dal ministero dell’Educazione),
    con un sistema accademico e di tutela del patrimonio niente affatto banale.
    Al contempo però il Messico attuale appare segnato dall’indebolimento
    congiunturale del peso rispetto a dollaro ed euro, da una crisi del sistema rurale
    e da una preoccupante tenuta degli indici di povertà. Nel 2017, nonostante le
    raccomandazioni del Consejo Nacional de Evaluación de la Política de
    Desarollo Social (CONEVAL) e del Programma Onu per lo Sviluppo Umano
    (UNDP), gli studi hanno fissato la soglia di povertà al 45% della popolazione,
    pari a 53,4 milioni di persone, 9,38 delle quali si trovano in condizioni di povertà

    11
         http://www.oecd.org/eco/outlook/mexico-economic-forecast-summary.htm

5
estrema 12. Alla marginalizzazione del mondo contadino di sussistenza e delle
    comunità indigene si sono associati preoccupanti segnali di erosione della
    classe media urbana, in un contesto su cui pesa contestualmente l’incremento
    degli indici di corruzione e impunità - diversi ex governatori sono indagati o
    risultano latitanti, a partire da quelli di Veracruz, Javier Duarte Ochoa, e
    Quintana Roo, Roberto Borge Ángulo, entrambi del PRI, arrestati nel 2017,
    rispettivamente in Guatemala e a Panama - e macchiato in modo sempre più
    profondo dall’escalation della violenza. Una realtà complessa figlia di diversi
    fattori intrecciati, tra cui la crescita della domanda internazionale di droghe (di
    transito ma anche di produzione messicana, quali gli oppiacei) e dei flussi
    incontrollati di armi provenienti dagli Usa, come evidenziato ripetutamente dal
    responsabile del Comisionado Nacional de Seguridad, Renato Sales; un circolo
    vizioso che è però anche frutto di una polverizzazione dei cartelli del
    narcotraffico (anche gli “storici” – Cartel del Golfo, Sinaloa, Beltrán-Leyva,
    Juárez -, e i “regionali” – La Familia Michoacana, los Caballeros templarios –
    sembrano adattarsi ai modelli aggressivi, attivi a livello micro e macro insieme,
    degli Zetas o di Jalisco Nueva Generación), della conflittualità per il controllo
    delle piazze, terrestri e costiere (sui due oceani): segno del loro esser parte di
    un mercato globale aperto e al contempo di una penetrazione di matrice
    mafiosa nel paese profondo 13. Un processo pericoloso nel medio lungo periodo
    che si intreccia all’incremento nelle uccisioni di giornalisti (secondo il report di
    Amnesty International, dodici nel solo 2017, tra cui il noto cronista Javier
    Valdez, freddato da sicari nello Stato di Sinaloa) e attivisti sociali (tra cui
    numerosi indigeni, compreso il tarahumara, Isidro Baldenegro López, vincitore
    nel 2005 del Goldman Environmental Prize) e che si riflette nelle sparizioni
    forzate, nei sequestri di migranti centroamericani e messicani, in taglieggi che
    sembrano mettere sempre più a rischio la quotidianità, in particolare in Stati
    quali Tamaulipas, Sinaloa, Chihuahua, Nuevo León, ma anche Michoacán,
    Jalisco, Veracruz e Guerrero, assurto a triste fama internazionale per la
    desaparación nei pressi di Iguala dei 43 studenti della scuola magistrale rurale
    di Ayotzinapa 14.
    Le forti contraddizioni socio-economiche del Messico attuale sono d’altronde
    legate anche ai sempre più rapidi mutamenti degli scenari geopolitici in un
    contesto cangiante di economia e finanza globalizzata. Nel 2012 il passaggio di

    12
       https://www.coneval.org.mx/Medicion/Paginas/Pobreza_2008-2016.aspx
    13
       N.P. Jones, Mexico Illicit Drug Networks and the State Reaction, Georgetown University Press,
    Washington D.C., 2016.
    14
       L. Schubiger. M. Weintraub, J. Osorio, Disappearing Dissent? Repression and State Consolidation in
    Mexico, in “Journal of Peace Research”, 2018, 55(2), pp. 252-266.

6
governo dal PAN al PRI si era giocato anche sulle prospettive che avrebbero
    potuto dischiudersi in seguito all’ingresso del paese (nel giugno di quello stesso
    anno a due mesi dalla Dichiarazione di Lima) nell’asse portante dell’Alleanza
    per il Pacifico (con Cile, Colombia, Perù e Australia, Nuova Zelanda, Canada e
    Singapore come associati), concepita come una nuova grande area di libero
    scambio e di mercati economici e finanziari integrati, insieme alla Trans-Pacific
    Partnership (la cui firma, dopo quattro anni di negoziati, risale al febbraio 2016),
    sullo sfondo di una relazione speciale di nuovo conio con gli Usa
    dell’amministrazione Obama. Al contempo il consolidamento della dimensione
    nord-americana del paese, come risultato di una sempre più evidente
    integrazione economica, commerciale (gli Usa assorbono da soli il 79% delle
    relazioni economiche messicane), finanziaria, energetica de facto, ha creato
    crescenti aspettative ma anche dubbi rispetto ai tempi di consolidamento del
    mercato interno (ancora segnato da un’abnorme comparto informale e da una
    perdurante fragilità fiscale). Si stima che negli Stati Uniti gli abitanti, a vario
    titolo, di origine messicana siano oggi circa 35 milioni, di cui 11,5 migranti con
    cittadinanza del Messico e circa 5,5 clandestini indocumentados. 15
    Il ciclone Trump ha apparentemente esasperato la situazione, per l’uso
    stigmatizzante dei vicini del sud (i “bad hombres”) fatto in campagna elettorale,
    per la creazione di sanctuary jurisdicions , per la boutade sul muro (che in realtà
    in buona parte già esiste) da far pagare a Città del Messico, per le provocazioni
    continue, perlopiù via Twitter, culminate (nei giorni dell’uscita di Washington dal
    Consiglio ONU per i diritti umani) nella drammatica vicenda dei minori separati
    dai genitori migranti alla frontiera (circa 2.000 tra il 19 aprile e il 31 maggio
    2018). Questa escalation, benché il numero dei flussi migratori dal Messico sia
    sensibilmente calato nel corso dell’ultimo biennio, ha evidentemente messo in
    difficoltà la linea moderata dell’amministrazione Peña Nieto, tra minacce di
    ritorsioni commerciali e ostruzionismo nel processo di rinegoziazione del
    NAFTA e una visita presidenziale alla Casa bianca cancellata all’ultimo
    minuto 16. Poche settimane prima dell’insediamento del presidente statunitense,
    Città del Messico era però già corsa ai ripari sostituendo al ministero degli Esteri
    Claudia Ruiz Masseu con l’ex ministro delle Finanze Luis Videgaray Caso, già
    coordinatore della campagna di Peña Nieto, ma soprattutto anima del
    programma di riforme strutturali del governo e promotore (nel settembre del
    2016) della contestata visita a Città del Messico dell’allora candidato

    15
       E. Levine, S. Núñez, M. Verea (eds.), Nuevas experiencias de la migración de retorno,
    CISAN-UNAM/Instituto Matías Romero, SRE/Metropolis International, México 2016.
    16
       “Renegotiating” NAFTA, in “Voices of Mexico”, Centro de Investigaciones sobre América del
    Norte(CISAN/UNAM), 104, 2017, pp. 18-29.

7
repubblicano. Una mossa finalizzata a rafforzare il potere negoziale bilaterale
    ma che ha indebolito ulteriormente l’appeal presidenziale agli occhi
    dell’opinione pubblica.
    Il ciclone Trump, a livello politico ha però avuto anche effetti imprevisti, da un
    lato rilanciando la corsa del candidato più esplicitamente populista e
    nazionalista, López Obrador, dall’altro rimettendo in discussione il percorso di
    integrazione nordamericana e offrendo al Messico inattese opportunità di
    diversificazione, culminate lo scorso aprile nella firma di una revisione del
    trattato con l’Unione Europea (TLCUEM), firmato nel 2000, e nelle aperture a
    nuovi attori asiatici, Cina in primis (in pochi anni diventata, nel silenzio assoluto,
    il secondo partner commerciale del Messico) 17.
    La riforma del energetica (con tanto di modifica costituzionale e rivoluzionarie
    aperture a imprese straniere nell’ambito delle prospezioni, delle concessioni
    petrolifere in acque profonde, oltre che nel comparto della distribuzione) e il
    Piano nazionale infrastrutturale (2014-2018) voluto dall’amministrazione Peña
    Nieto (che riguarda anche un ritorno degli investimenti nel comparto ferroviario,
    dopo decenni di abbandono, oltre al piano di un nuovo aeroporto per la capitale)
    avevano d’altronde già aperto la via alla diversificazione degli investimenti.
    Mentre Rex Tillerson, la ministra degli esteri canadese Chrystia Freeland e
    Videgaray (dopo i round di Ottawa) sembrano ancora lontani dal trovare una
    soluzione concordata sulla nuova versione del NAFTA/TLCAN, le partite sul
    tavolo negoziale si sono moltiplicate, a cominciare dalla rinegoziazione del
    Global Compact del 1997, per arrivare al consolidamento della
    Comprehensive and Progressive Trans Pacific Partnership, la nuova creatura
    istituita l’8 marzo scorso per compensare l’uscita degli Usa dalla TPP. Il
    Messico ha d’altronde già firmato una lunga serie di accordi bilaterali di libero
    commercio e i nuovi partenariati strategici e commerciali interessano anche
    l’Italia, secondo fornitore europeo (dopo la Germania) e decimo partner
    commerciale a livello mondiale del paese centroamericano, per un interscambio
    superiore ai 5 miliardi di euro e una bilancia nettamente spostata a favore del
    nostro export.

    LA CORSA AL VOTO
    L’insieme di questi fattori ha prodotto una campagna elettorale sui generis a
    detta di tutti gli osservatori; una contesa lunga, tesa ma che, dopo una serie di
    schermaglie iniziali, ha preso una forma in origine imprevista, consolidando via

    17
     L. Curzio, Propestas de política exterior en las elecciones de México, in Elecciones presidenciales de
    México, “Foreign Affairs Latinoamérica”, 18, n. 2, pp. 95-102.

8
via per la posta più alta, la presidenza della Repubblica (la “silla del águila”
    come la ribattezzò Carlos Fuentes in uno dei suoi ultimi romanzi) 18 l’avanzata di
    López Obrador. Un trend confermato in tutte le inchieste e sondaggi.
    La campagna, formalmente iniziata solo nel marzo di quest’anno, dopo l’avvio
    in dicembre della pre-campagna, aveva di fatto già preso pienamente forma tra
    agosto e settembre del 2017. Per il partito di governo, segnali poco
    incoraggianti erano d’altronde già venuti dalle precedenti contese elettorali per i
    governatori, proprio laddove il PRI aveva avviato, il suo cammino per il ritorno
    alla testa del paese. Nel giugno del 2016 si era infatti votato in di dodici Stati
    della Federazione e il partito presidenziale ne aveva conquistati solo cinque,
    perdendo storici baluardi quali Veracruz (dove Yunes Linares avrebbe trovato
    un’autostrada aperta dagli scandali di varia natura che avevano travolto il priista
    Duarte, espulso anche dal partito), Durango e Quintana Roo, soffrendo
    un’emoraggia di consensi anche nei congressi delle entità. Il PAN ha ottenuto
    sette Stati, tre in co-abitazione con il PRD, sulla base di una singolare alleanza
    centro-destra, centro-sinistra, in funzione anti-priista, già sperimentata in
    passato a Oaxaca (con Gabino Cué), Puebla (Rafael Moreno Valle) e Sinaloa
    (Mario López Valdés) e in altre realtà locali. Quel voto aveva rappresentato
    anche il primo non troppo entusiasmante banco di prova per il nuovo partito di
    López Obrador, il Movimiento de Regeneración Nacional (Morena), il cui
    acronimo rimanda direttamente al colore della pelle della popolazione indigena
    e meticcia; un movimento fondato nel 2012 come associazione civile e
    trasformato in formazione politica nel 2014, una volta consumata la frattura a
    sinistra con la leadership del PRD e in particolare con Jesús Zambrano Grijalva.
    Se la prova di Morena nelle elezioni del giugno 2016 non risultò particolarmente
    brillante, questa si impose viceversa nel voto per l’Assemblea costituente di
    Città del Messico, ottenendo 22 dei 60 seggi a disposizione, contro i 19 del
    PRD, i 7 del PAN e i 5 del PRI (votò però meno del 30% degli aventi diritto).
    Nonostante il boicottaggio dei critici, il 31 gennaio del 2017 sarebbe stata
    approvata una Costituzione molto progressista e Ciudad de México (la capitale
    da 22 milioni di abitanti) avrebbe abbandonato la vecchia dizione
    amministrativa di Distrito Federal, trasformandosi a tutti gli effetti nel 32° Stato
    della Federazione. Nel giugno del 2017, Morena avrebbe poi conteso fino
    all’ultimo al partito di governo la guida dello Stato priista per eccellenza, Estado
    de México (territorio di grandi contrasti, dalle ricchezze di Toluca ai femminicidi
    di Ecatepec), vinto per un’incollatura da Alfredo del Mazo Maza (con appena il

    18
         C. Fuentes, La silla del águila, Alfaguara, Madrid 2002.

9
33,69%) su Delfina Gómez Álvarez. Negli altri Stati il PRI ha vinto a Coahuila
     ma ha perso il Nayarit, passato alla coalizione PAN-PRD.
     L’avvio informale della campagna elettorale è stato subito scandito dal calo nei
     consensi del presidente uscente (sceso sotto al 20%) e dalla rinuncia del
     Procuratore generale di giustizia Raúl Cervantes, nell’ambito di una complessa
     riforma finalizzata alla costituzione di una nuova tipologia di procura
     indipendente (la Fiscalía General Autónoma) indirizzata a migliorare la balance
     of powers. In vista delle presidenziali, il comitato centrale del PRI, dopo
     un’incertezza iniziale, ha deciso di abbandonare l’ipotesi di candidatura del
     ministro dell’Interno uscente, Osorio Chong (poi dimessosi in gennaio e
     sostituito da Alfonso Navarrete) e di puntare su un politico con fama di “tecnico”,
     meno direttamente legato ai vertici del partito, tanto da abolire la norma che
     prevedeva una militanza almeno decennale. La scelta è quindi caduta su José
     Antonio Meade Kuribreña (si pronuncia Mid, all’inglese, anche se molti suoi
     connazionali non lo sanno). Di origini irlandesi (come Álvaro Obregón) e
     libanesi (come Carlos Slim, suo padre è un noto scultore), formatosi in
     istituzioni prestigiose (dall’ITAM a Yale), con esperienza alla Banca Mondiale,
     alla Central American Bank for Economic Integration e al CONEVAl, Meade è
     stato già più volte ministro, nel governo Calderón (Energia) e con Peña Nieto,
     prima agli Esteri (dicembre 2012-agosto 2015), poi allo Sviluppo sociale
     (agosto 2015-settembre 2016) e infine alle Finanze (settembre 2016-novembre
     2017), dicastero lasciato all’ex presidente della compagnia petrolifera pubblica,
     PEMEX, Antonio González Anaya.
     Ritenuto un economista oculato - sostenuto anche da Partido Verde Ecologista
     de México (PVEM) e da Nueva Alianza (NA) nella coalizione Todos por México
     – Meade sembrava inizialmente una scelta forte per garantire la continuità, ma
     non si erano fatti i conti con una serie di elementi di debolezza strutturale: una
     critica sempre più generalizzata all’operato del partito di governo, incapace di
     riportare la pace sociale promessa e di ridurre l’insicurezza, nonostante alcuni
     episodi eclatanti come il terzo arresto del boss più famoso al mondo “el Chapo”
     Guzmán (alias Joaquín Loaera), estradato negli Usa dal gennaio 2017; inoltre
     hanno pesato sul consenso al partito una percepita incertezza manifestata nei
     confronti del vicino del Nord e una crescente volontà di cambiamento andata
     consolidandosi nei mesi in vari strati dell’opinione pubblica da gruppi popolari a
     esponenti della classe media urbana.
     Quest’onda montante ha messo in crisi piuttosto sorprendentemente anche i
     piani di rivalsa del PAN, a sua volta identificato con l’establishment neo-liberista
     e con la fallimentare guerra al narco di Calderón. Un partito che negli ultimi anni

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si è inoltre sempre più diviso in fazioni contrapposte, tanto che solo in dicembre,
     al termine di una lunga disputa, ha formalizzato la candidatura del giovane (39
     anni) imprenditore e avvocato, Ricardo Anaya. Una scelta che ha generato
     diverse polemiche nel centro-destra, tanto da spingere la ex “primera dama”, la
     moglie di Calderón, l’avvocatessa Margarita Zavala, a lasciare il PAN e a
     presentare una candidatura alternativa come indipendente, fino alla sua
     rinuncia ufficiale alla corsa presidenziale, annunciata il 16 maggio. La presenza
     di candidati indipendenti è d’altronde una delle grandi novità delle elezioni 2018,
     insieme alla riduzione del mandato presidenziale (sceso da sei a cinque anni e
     dieci mesi), in un paese che adotta un sistema e turno secco e senza possibilità
     di rielezione del presidente a un secondo mandato (vecchio principio maderista
     alla base del Plan de San Luis e della rivoluzione del 1910). In realtà il
     complesso sistema di raccolta di firme ha permesso che si presentassero solo
     due indipendenti, Zavala e l’ex governatore del Nuevo León, Jaime Rodríguez
     Calderón, meglio noto come “el Bronco”, subito segnalatosi in campagna
     elettorale per alcune uscite quantomeno pittoresche (a cominciare dall’auspicio
     alla rinuncia alle convenzioni internazionali sui diritti umani per poter
     combattere al meglio la criminalità, secondo una ricetta del presidente filippino
     Duterte). Le firme raccolte non sono invece bastate a presentare la candidatura
     di María de Jesús Patricio, meglio nota come “Marichuy”, rappresentante della
     Congreso Nacional Indígena de Gobierno, una rete di organizzazione
     indigeniste supportata anche dai neozapatisti del Chiapas.
     Anaya, rigettate le polemiche seguite a un presunto scandalo di riciclaggio (a
     seguito di una denuncia per l’utilizzo di una società fantasma nella
     compravendita di un terreno), si è posto alla testa della coalizione Por México al
     Frente, composta da PAN, PRD (la cui presidenza è intanto passata al
     costituzionalista Manuel Granados Covarrubias) e dai social-democratici di
     Movimiento Ciudadano (MC) di Dante Delgado. Il candidato panista, con il
     supporto di peso dell’ex ministro degli Esteri di Fox, Jorge Castañeda Gutman,
     ha quindi dato il via a una campagna elettorale dinamica e aggressiva,
     incentrata sulle accuse di debolezza e corruzione al PRI e di populismo
     “chavista” a López Obrador. Quest’ultimo però, pur senza mutare le proprie
     strategie classiche, incentrate sulla mobilitazione continua di reti popolari,
     sindacali e sociali (“politica de la calle”), al pari dei richiami nazionalistici e alla
     moralità nazionale come principio guida rifondativo contro “la mafia del
     poder” 19, ha tratto un sorprendente giovamento dalla sua capacità di restare
     fermo al centro di una sorta di tempesta perfetta. In primo luogo AMLO ha

     19
       Un suo testo ebmlematico dopo la sconfitta elettorale del 20016 si intitolava La mafia nos robó la
     presidencia, Mondadori-Grijalbo, México 2007.

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badato a consolidare per tempo la sua coalizione, Juntos haremos Historia, con
     il Partito del Lavoro (PT), di sinistra e, per mescolare maggiormente le acque, i
     conservatori di di Encuentro Social, lavorando dal basso, nei territori più difficili,
     dalle periferie urbane ai pueblos rurali ma cercando sponde preziose anche nel
     mondo universitario e mediatico. Si è quindi formato una sorta di pre-gabinetto
     presidenziale itinerante, con l’ex ministra della Corte suprema di Giustizia, Olga
     Sánchez Cordero, indicata come ministro degli Interni, il diplomatico e
     politologo Héctor Vasconcelos (figlio di José Vasconcelos, uno dei padri
     culturali del Messico postrivoluzionario) agli Esteri, una docente del Colegio de
     México, Graciela Márquez Colin, all’Economia e l’ex direttrice di Culturas
     populares, Fausta Guerrero alla Cultura. Vecchio combattente della politica
     messicana, abituato a giocare sul piano dello scontro, López Obrador ha saputo
     capitalizzare lo scontento crescente e riadattare vecchie ricette al nuovo
     contesto. Accusato dagli oppositori di populismo e di potenziale deriva chavista,
     “el peje” è in realtà, come evidenziato recentemente dallo storico Jean Meyer 20,
     un figlio di lungo corso della politica messicana che compensa la scarsa abilità
     retorica con un’esaltazione quasi messianica della propria coerenza, più simile
     al brasiliano Lula che a un Maduro o a un Ortega. Amlo è originario del Tabasco
     (da cui il soprannome “el peje” con riferimento a un animale di origine
     preistorica, il peje lagarto, metà pesce e metà coccodrillo), formatosi
     nell’Instituto Nacional Indigenista, quindi nel PRI, è poi transitato nel PRD, per
     cui venne sconfitto alle elezioni di governatore dello Stato (denunciando però
     una possibile frode) nel 1994, vincendo poi quelle di Città del Messico che
     governò dal 2000 al 2005. I suoi proclami alla lotta alla corruzione e al ripristino
     della moralità nazionale sono accompagnati da una certa dose di pragmatismo
     (come dimostrato dal dialogo avviato con le comunità evangeliche al termine di
     una conversione pubblica che però sembra convivere pienamente con il
     proclamato guadalupanesimo e i messaggi di stima a papa Francesco).
     Una possibile vittoria di López Obrador pone naturalmente delle incognite, sia in
     materia di politica interna sia estera, sollevando le perplessità di banchieri e
     investitori ma, sembrerebbe, senza generare panico. Inoltre obbliga ad aprire
     una riflessione anche sulle modalità di aggiornamento del populismo
     tradizionale (che ha però un suo alter ego anche nel disperato ricorso di Anaya
     alla distribuzione di carte prepagate da 1500 pesos) e sui caratteri mutanti delle
     democrazie occidentali. Anche un intellettuale non certo vicino a Morena quale
     Héctor Aguilar Camín, sulle pagine di “Nexos”, ha in fondo riconosciuto la
     capacità del “peje” di ripresentare il sogno di un nazionalismo stabilizzatore a

     20
          J. Meyer, Ni López Obrador es Hugo Chávez, ni México es Venezuela, “El País”, 24 marzo 2018.

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livello sociale, pur paventando però per contrappasso, anche i rischi di una
     potenziale “utopia regressiva” e di un ritorno a uno “Estado rector” 21.
     La campagna si è quindi snodata tra i grandi confronti-scontri in diretta
     televisiva – il primo a Città del Messico, nel Palacio de Minería dell’UNAM su
     violenza, sicurezza, corruzione e impunità, il secondo a Tijuana, Baja California,
     alla frontiera statunitense, su programmi nazionali e politica estera; il terzo
     presso il museo del mondo maya di Mérida, Yucatán, su questioni
     socio-economiche. Si sono tenuti anche alcuni dibattiti ad hoc (interessante
     quello organizzato da Alianza Americas presso la sede della Comissione diritti
     umani della capitale che metteva a confronto i programmi degli schieramenti
     con le richieste delle associazioni di migranti presenti negli Usa).
     A fine maggio i sondaggi di Consulta Mitofsky (basati su una serie di altre
     rilevazioni) assegnavano il 47,85% di preferenze a López Obrador, contro il
     26,1% di Anaya, il 22% di Meade e il 4,1% del “Bronco” Rodríguez. A fine
     giugno la distanza appariva ulteriormente cresciuta, nonostante i proclami di
     vittoria imminente di Meade: 48,1% a López Obrador, 25,5% al candidato del
     PAN, 22,5% a quello del PRI.
     Il voto che si avvicina rappresenterà dunque un banco di prova le contraddizioni
     di un grande paese in trasformazione. L’Instituto Nacional Electoral, ha
     annunciato, come effetto della riforma del sistema del 2014, una serie di
     adeguamenti formali e di dati incoraggianti: dall’aumento degli aventi diritto al
     voto (+10,1%) all’incremento dei seggi elettorali (+9,1%), dei funzionari addetti
     agli stessi (+39%), degli spazi radio-televisivi garantiti, del monitoraggio dei
     messaggi promozionali, del contrasto alla compravendita di voti, della
     semplificazione delle procedure di voto all’estero e nell’accesso di osservatori
     indipendenti internazionali. Un segnale incoraggiante che sembra voler
     rispondere alle preoccupazioni del “Foreign Affairs” sullo stato delle democrazie
     nel mondo 22. Viceversa la campagna elettorale ha anche registrato le sue
     ombre, accompagnate da una escalation di violenze e omicidi politici nei territori
     periferici del Messico profondo, dove avrebbero perso la vita, tra settembre e
     giugno 123 candidati locali (il record spetta al Guerrero con 23, seguito da
     Oaxaca con 19 e Puebla con 12), uomini e donne, appartenenti a tutti i principali
     schieramenti politici.
     Naturalmente tutto può ancora accadere nelle ultime ore di un surriscaldato
     scenario politico messicano, e certo non conterà solo il voto presidenziale ma

     21
        H. Aguilar Camín, A las puerta de Amlo, in “Nexos” 1° giugno 2018.
     El pasado a que mira Amlo, in “Milenio”, 4 maggio 2018
     22
        Is Democracy Dying? A Global Report, in “Foreign Affairs”, 97, n. 3, Maggio/giugno 2018, pp. 10-59.

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l’assetto del congresso e dei poteri periferici (dove la coalizione di sinistra resta
     un’incognita fragile), anche se gli opinionisti sembrano d’accordo su una
     probabile vittoria del “peje” (Anaya ha addirittura accusato il PRI di supportarlo
     tacitamente). Nei dibattiti pubblici sono certo entrate le grandi questioni
     nazionali: la crescita, le politiche di inclusione sociale, la lotta a corruzione e
     impunità, la riforma del sistema giudiziario, la dialettica
     cambiamento/continuità, le dinamiche migratorie, che stanno mutando
     rapidamente, generando processi internazionali e nazionali (facendo del
     Messico non più solo un paese di fuoriuscita di emigranti ma anche di transito di
     migranti centroamericani, e di rifugiati interni nelle aree rurali più segnate dalla
     violenza). Paradossalmente sullo sfondo restano però i programmi di più ampio
     respiro, in particolare le ricette per ridefinire la lotta alla criminalità organizzata,
     sempre più transnazionale nella testa ma mai come in passato aggrappata al
     controllo dei territori nella pancia, mentre residuali sono apparsi temi a lor volta
     cruciali quali la tutela ambientale e il ruolo delle popolazioni indigene nel nuovo
     contesto nazionale di un paese che resta in primo luogo un infinito laboratorio di
     pluriculturalità.

     * In collaborazione di Gilberto Bonalumi, ISPI Senior Advisor per il Programma America
     latina

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