ELEZIONI IN MESSICO SFIDE E INCOGNITE DI UN PAESE IN TRASFORMAZIONE - Ispi
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analysis Analysis N. 324, Giugno 2018 ELEZIONI IN MESSICO SFIDE E INCOGNITE DI UN PAESE IN TRASFORMAZIONE Massimo De Giuseppe Il 1° luglio del 2018 quasi novanta milioni di cittadini (per essere precisi 87.895.313) su una popolazione di oltre 129 milioni di abitanti, saranno chiamati alle urne per eleggere il 58° presidente degli Estados Unidos Mexicanos, oltre ai 500 membri della Camera (300 a maggioranza relativa, 200 con metodo proporzionale), i 128 del Senato (64 a maggioranza relativa, 32 proporzionale, 32 di minoranza), 8 governatori, il capo di governo della capitale e un’infinita lista di autorità regionali e locali (per un totale di 2.777 incarichi). Un’elezione monstre, la più grande nella storia del paese, che arriva a centouno anni da quella che cercò di chiudere la fase armata della rivoluzione messicana, dopo il varo della Costituzione federale del febbraio del 1917, con il drastico ridimensionamento politico-militare dei due grandi caudillos popolari, Pancho Villa (nel Nord) ed Emiliano Zapata (nel Sud-ovest), e l’elezione, il 1° maggio, del primer jefe costituzionalista, Venustiano Carranza. Massimo De Giuseppe, professore associato di Soria Contemporanea, Università IULM. ©ISPI2018 1 Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI. Le pubblicazioni online dell’ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo
LE EREDITÀ SOSPESE DI UN SECOLO “LUNGO” Il 1° luglio del 2018 quasi novanta milioni di cittadini (per essere precisi 87.895.313) su una popolazione di oltre 129 milioni di abitanti, saranno chiamati alle urne per eleggere il 58° presidente degli Estados Unidos Mexicanos, oltre ai 500 membri della Camera (300 a maggioranza relativa, 200 con metodo proporzionale), i 128 del Senato (64 a maggioranza relativa, 32 proporzionale, 32 di minoranza), 8 governatori, il capo di governo della capitale e un’infinita lista di autorità regionali e locali (per un totale di 2.777 incarichi). Un’elezione monstre, la più grande nella storia del paese, che arriva a centouno anni da quella che cercò di chiudere la fase armata della rivoluzione messicana, dopo il varo della Costituzione federale del febbraio del 1917, con il drastico ridimensionamento politico-militare dei due grandi caudillos popolari, Pancho Villa (nel Nord) ed Emiliano Zapata (nel Sud-ovest), e l’elezione, il 1° maggio, del primer jefe costituzionalista, Venustiano Carranza 1. In realtà la rivoluzione in armi si sarebbe protratta per almeno altri tre anni, conoscendo nuovi rovesciamenti, morti illustri e popolari, fino alla vittoria del gruppo modernizzatore dei “sonorensi” di Alvaro Obregón il quale cercò di completare la pacificazione nazionale, rimise ordine all’impianto istituzionale e bancario, lanciò con José Vasconcelos un ambizioso piano educativo e culturale (nel quale trovò spazio anche il progetto muralista di Rivera, Orozoco e Siquieros), aprendo la strada alla lunga stabilizzazione postrivoluzionaria. Il suo successore, il radicale Plutarco Elías Calles, superata la tempesta della guerra cristera (contro battaglioni di cattolici in armi) e le tensioni con la S. Sede (culminate in tre anni di sciopero del culto), seppe completare il processo di Nation Building attraverso l’invenzione, nella primavera del 1929, di uno strumento politico all’epoca senza pari: il Partido Nacional de la Revolución (PNR). Una creatura sui generis destinata a compenetrare ambizioni laburiste ed investimenti nordamericani, nazionalismo inclusivo ed esigenze di real-politik, politiche proto-indigeniste e laicismo di stato, processi di federalizzazione e spinte periferiche, accordi taciti e reti clientelari, costruendo una macchina in grado di governare il paese per un settantennio. Un sistema che lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa avrebbe definito, a margine di un convegno di intellettuali del 1990, la “dictadura perfecta”, facendo indispettire le autorità messicane e il suo anfitrione Octavio Paz che volle ricordare come quel sistema fosse egemonico culturalmente e politicamente ma anche estraneo a forme di dittatura militare così comuni nello scenario politico latino-americano. 1 M. De Giuseppe, La rivoluzione messicana, Il Mulino, Bologna 2013. 2
Il PNR, ribattezzato nel 1938 Partido de la Revolución Mexicana, quindi creativamente ridefinito (il 18 gennaio del 1946, nell’ultimo anno di presidenza Ávila Camacho), Partido Revolucionario Institucional (PRI), ha effettivamente saputo superare nel tempo scosse e tempeste: ha resistito alla nazionalizzazione petrolifera voluta da Lazaro Cárdenas nel 1938 come auge del suo programma socialisteggiante; si è ridefinito durante la guerra fredda, quando l’alleanza discreta di Città del Messico e Washington, sancita dagli accordi di Chapultepec e dal Trattato di Rio, non impedì di mantenere relazioni diplomatiche con la Cuba castrista né di avviare singolari esperimenti terzomondisti2. Il PRI è sopravvissuto al tragico 1968 (l’anno dei giochi olimpici macchiati dal massacro di giovani attivisti e studenti a Tlatelolco, nella Plaza de las Tres culturas, durante la presidenza di Gustavo Díaz Ordaz) 3, ha accompagnato le ambizioni regionalistiche di Echeverría e López Portillo e si è riadattato per gradi alle riforme liberiste e tecnocratiche, intraprese dai governi de La Madrid, Salinas de Gortari e Zedillo tra anni Ottanta e Novanta, sugellate nel 1994 dall’entrata in vigore del North American Free Trade Agreement (NAFTA) o Tratado de Libre Comercio Norteamericano (TLCAN), come è conosciuto sotto the border/la línea, ovvero gli oltre tremila chilometri di frontiera che separano Usa e Messico 4. Nel 2000 il PRI, nel nuovo clima della globalizzazione post-bipolare e sulla scorta di una graduale erosione di consensi e di rottura delle vecchie reti, non troppo improvvisamente implose 5. La presidenza passò allora al candidato del vecchio Partido de Acción Nacional (PAN); una formazione di centro-destra, fondata nel 1939 dall’ex rettore dell’Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM, oggi uno degli atenei più grandi del mondo con circa 320.000 studenti) Manuel Gómez Morín e dall’avvocato jalisciense Efraín Gonzáles Luna. Un partito anomalo rispetto alle esperienze democratico-cristiane latinoamericane e che nei decenni è apparso sempre più sganciato dalla sua originaria matrice di nazionalismo cattolico, conservatore e sociale, aprendosi gradualmente ai dettami modernizzatori del liberismo di mercato 6. Alle soglie del XXI secolo, il 2 G.M. Joseph, D. Spenser (a cura di), In from the cold: Latin Americas new encounter with the Cold War, Duke University Press, Durham, London 2008. 3 J. Pensado, Rebel Mexico. Student Unrest and Authoritarian Political Culture During the Long Sixties, Stanford University Press, Redwood City, 2013. 4 V. Ronchi, La metamorfosi della rivoluzione: il liberalismo sociale nel Messico di Salinas (1988-1994), Mimesis, Milano, 2015. 5 T. Bertaccini (a cura di), Il tramonto del regime rivoluzionario: Messico: 1979-2010, Otto, Torino, 2012 6 M.J. Ard, An Eternal Struggle: How the National Action Party Transformed Mexican Politics, Praeger, Santa Barbara (CA) 2003; R. Y Ortega Ortíz, Presidential Elections in Mexico: From Hegemony to Pluralism, Palgrave-MacMillan, London-New York, 2017. 3
peculiare “populismo-tecnocratico” del presidente Vicente Fox (che dietro all’immagine di simpatico ranchero dal linguaggio diretto e popolare, celava l’esperienza di ex ad di Coca Cola México), marcò una transizione democratica efficace sotto il profilo istituzionale ma al contempo intrisa di luci ed ombre: tra aperture che portarono il Messico a crescere rapidamente in termini macroeconomici (dal 1999 il paese era entrato a far parte del gruppo dei G20) e segnali di una crescente polarizzazione della ricchezza e di una rapida marginalizzazione della produzione agricola (come denunciato dalla campagna popolare “sin maíz no hay país”) 7. La transizione politica messicana e il processo di “nordamericanizzazione” del paese, si collocò inoltre sullo sfondo di uno spostamento geopolitico delle rotte del narcotraffico internazionale (conseguente all’impatto del Plan Colombia, lanciato dall’amministrazione Clinton nel 2000) che rendeva sempre più intraprendenti e globalizzati i grandi cartelli criminali attivi (principalmente nel Nord) del paese 8. Tra speranze e incertezze, il voto del 2006 sancì così un punto di volta, con il PRI ancora fermo al palo e un testa a testa spasmodico tra il candidato panista, l’avvocato michoacano Felipe Calderón Hinojosa, e Andrés Manuel López Obrador, leader del Partido de la Revolución Democrática (PRD), la formazione nata 1989 da una scissione a sinistra del PRI voluta dal figlio di Lázaro Cárdenas, Cuauhtémoc. La vittoria di misura, duramente contestata dall’opposizione che per mesi organizzò manifestazioni di protesta e azioni ostruzionistiche, avrebbe minato la capacità di governo di Calderón, la cui idea di intraprendere un “guerra al narco” (nell’ambito della Mérida iniziative, lanciata nel 2008 con il sostegno dell’amministrazione Bush jr.), avrebbe avuto l’effetto di incrementare esponenzialmente la violenza (le vittime complessive durante il suo mandato sono state stimate in circa 70.000) 9. Nel 2012 il ritorno del PRI alla guida del paese, con il telegenico ex governatore dell’Estado de México, Enrique Peña Nieto (questa volta impostosi nettamente, con 7 punti di distanza su López Obrador e 13 sulla candidata del PAN, Josefina Vásquez Mota), sembrava dunque il frutto di un compromesso tra passato e futuro 10. A un discorso tacito di ritorno alla pace sociale, il PRI 7 S. Whus, Savage Democracy: Institutional Change and Party Development in Mexico, Penn State University Press, University Park (PA), 2007, A. Gálvez, Eating Nafta: Trade, Food Policies, and the Destruction of Mexico, University of California Press, Berkeley (CA), 2018. 8 J.A. Aguilar Rivera (ed.), Las Bases Sociales del Crimen Organizado y la Violencia en México, Centro de Investigación y Estudios en Seguridad - Secretaría de Seguridad Pública, Mexico, 2012. 9 J. Osorio, Contagion of Drug Violence: Spatio-temporal Dynamics of the Mexican “War on Drugs”, in “Journal ofConflict Resolution”, Special Issue on Mexican Drug Violence, 2015, 59(8), pp. 1403-1432. 10 J. Tuckman, Mexico. Democracy Interrupted, Yale University Press, New Haven (CT), 2012. 4
associò una spiccata volontà riformista (in ambiti cruciali quali energia, sistema elettorale, fiscale, educativo, sanitario e infrastrutture) che sembrava rilanciare i dettami modernizzatori del vecchio progetto salinista (sotto l’egida del Pacto por México sottoscritto solennemente nel castello di Chapultepec, all’indomani dell’insediamento del presidente, dai leader di PRI, PAN e PRD). In realtà un intreccio di fattori internazionali e interni avrebbe finito per esacerbare le grandi contraddizioni nazionali, togliendo credibilità al partito e ad uno Stato ambizioso e dinamico nei consessi internazionali ma apparentemente indebolito proprio nel cuore del paese profondo, un tempo cruciale per il progetto postrivoluzionario. VERSO LE ELEZIONI, IL MESSICO NEI NUOVI SCENARI GLOBALI Alla vigilia del voto del 1° luglio 2018 il Messico appare dunque come un paese sospeso: da un lato una grande open economy, 15° economia mondiale (recentemente superata dalla Spagna), con ampi margini di sviluppo, come evidenziato recentemente dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE/OECD) 11, nonostante l’ultimo triennio abbia registrato un calo della crescita del Pil reale (dal 3,27% del 2015, al 2,91% del 2016 al 2.04% del 2017, con previsioni del 2,29% per l’anno in corso). Il Messico è comunque saldamente la seconda economia dell’America latina (dietro solo al Brasile), con un deficit fermo al -2,6% del Pil, e sembra uscito indenne dalle nuove turbolenze regionali che hanno investito il subcontinente, confermandosi forte in settori strategici quali il comparto automobilistico, delle comunicazioni, petrolifero, energetico, minerario, turistico, perfino biomedico e spaziale. Un paese di grandi tycoon (a partire da Carlos Slim Helú, patron di Telmex e América Móvil), a livello finanziario più solido rispetto al passato, culturalmente e artisticamente tra i più vivaci al mondo (dalla fine del 2015 è stato introdotto per la prima volta il ministero della Cultura, al posto del Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, scorporato dal ministero dell’Educazione), con un sistema accademico e di tutela del patrimonio niente affatto banale. Al contempo però il Messico attuale appare segnato dall’indebolimento congiunturale del peso rispetto a dollaro ed euro, da una crisi del sistema rurale e da una preoccupante tenuta degli indici di povertà. Nel 2017, nonostante le raccomandazioni del Consejo Nacional de Evaluación de la Política de Desarollo Social (CONEVAL) e del Programma Onu per lo Sviluppo Umano (UNDP), gli studi hanno fissato la soglia di povertà al 45% della popolazione, pari a 53,4 milioni di persone, 9,38 delle quali si trovano in condizioni di povertà 11 http://www.oecd.org/eco/outlook/mexico-economic-forecast-summary.htm 5
estrema 12. Alla marginalizzazione del mondo contadino di sussistenza e delle comunità indigene si sono associati preoccupanti segnali di erosione della classe media urbana, in un contesto su cui pesa contestualmente l’incremento degli indici di corruzione e impunità - diversi ex governatori sono indagati o risultano latitanti, a partire da quelli di Veracruz, Javier Duarte Ochoa, e Quintana Roo, Roberto Borge Ángulo, entrambi del PRI, arrestati nel 2017, rispettivamente in Guatemala e a Panama - e macchiato in modo sempre più profondo dall’escalation della violenza. Una realtà complessa figlia di diversi fattori intrecciati, tra cui la crescita della domanda internazionale di droghe (di transito ma anche di produzione messicana, quali gli oppiacei) e dei flussi incontrollati di armi provenienti dagli Usa, come evidenziato ripetutamente dal responsabile del Comisionado Nacional de Seguridad, Renato Sales; un circolo vizioso che è però anche frutto di una polverizzazione dei cartelli del narcotraffico (anche gli “storici” – Cartel del Golfo, Sinaloa, Beltrán-Leyva, Juárez -, e i “regionali” – La Familia Michoacana, los Caballeros templarios – sembrano adattarsi ai modelli aggressivi, attivi a livello micro e macro insieme, degli Zetas o di Jalisco Nueva Generación), della conflittualità per il controllo delle piazze, terrestri e costiere (sui due oceani): segno del loro esser parte di un mercato globale aperto e al contempo di una penetrazione di matrice mafiosa nel paese profondo 13. Un processo pericoloso nel medio lungo periodo che si intreccia all’incremento nelle uccisioni di giornalisti (secondo il report di Amnesty International, dodici nel solo 2017, tra cui il noto cronista Javier Valdez, freddato da sicari nello Stato di Sinaloa) e attivisti sociali (tra cui numerosi indigeni, compreso il tarahumara, Isidro Baldenegro López, vincitore nel 2005 del Goldman Environmental Prize) e che si riflette nelle sparizioni forzate, nei sequestri di migranti centroamericani e messicani, in taglieggi che sembrano mettere sempre più a rischio la quotidianità, in particolare in Stati quali Tamaulipas, Sinaloa, Chihuahua, Nuevo León, ma anche Michoacán, Jalisco, Veracruz e Guerrero, assurto a triste fama internazionale per la desaparación nei pressi di Iguala dei 43 studenti della scuola magistrale rurale di Ayotzinapa 14. Le forti contraddizioni socio-economiche del Messico attuale sono d’altronde legate anche ai sempre più rapidi mutamenti degli scenari geopolitici in un contesto cangiante di economia e finanza globalizzata. Nel 2012 il passaggio di 12 https://www.coneval.org.mx/Medicion/Paginas/Pobreza_2008-2016.aspx 13 N.P. Jones, Mexico Illicit Drug Networks and the State Reaction, Georgetown University Press, Washington D.C., 2016. 14 L. Schubiger. M. Weintraub, J. Osorio, Disappearing Dissent? Repression and State Consolidation in Mexico, in “Journal of Peace Research”, 2018, 55(2), pp. 252-266. 6
governo dal PAN al PRI si era giocato anche sulle prospettive che avrebbero potuto dischiudersi in seguito all’ingresso del paese (nel giugno di quello stesso anno a due mesi dalla Dichiarazione di Lima) nell’asse portante dell’Alleanza per il Pacifico (con Cile, Colombia, Perù e Australia, Nuova Zelanda, Canada e Singapore come associati), concepita come una nuova grande area di libero scambio e di mercati economici e finanziari integrati, insieme alla Trans-Pacific Partnership (la cui firma, dopo quattro anni di negoziati, risale al febbraio 2016), sullo sfondo di una relazione speciale di nuovo conio con gli Usa dell’amministrazione Obama. Al contempo il consolidamento della dimensione nord-americana del paese, come risultato di una sempre più evidente integrazione economica, commerciale (gli Usa assorbono da soli il 79% delle relazioni economiche messicane), finanziaria, energetica de facto, ha creato crescenti aspettative ma anche dubbi rispetto ai tempi di consolidamento del mercato interno (ancora segnato da un’abnorme comparto informale e da una perdurante fragilità fiscale). Si stima che negli Stati Uniti gli abitanti, a vario titolo, di origine messicana siano oggi circa 35 milioni, di cui 11,5 migranti con cittadinanza del Messico e circa 5,5 clandestini indocumentados. 15 Il ciclone Trump ha apparentemente esasperato la situazione, per l’uso stigmatizzante dei vicini del sud (i “bad hombres”) fatto in campagna elettorale, per la creazione di sanctuary jurisdicions , per la boutade sul muro (che in realtà in buona parte già esiste) da far pagare a Città del Messico, per le provocazioni continue, perlopiù via Twitter, culminate (nei giorni dell’uscita di Washington dal Consiglio ONU per i diritti umani) nella drammatica vicenda dei minori separati dai genitori migranti alla frontiera (circa 2.000 tra il 19 aprile e il 31 maggio 2018). Questa escalation, benché il numero dei flussi migratori dal Messico sia sensibilmente calato nel corso dell’ultimo biennio, ha evidentemente messo in difficoltà la linea moderata dell’amministrazione Peña Nieto, tra minacce di ritorsioni commerciali e ostruzionismo nel processo di rinegoziazione del NAFTA e una visita presidenziale alla Casa bianca cancellata all’ultimo minuto 16. Poche settimane prima dell’insediamento del presidente statunitense, Città del Messico era però già corsa ai ripari sostituendo al ministero degli Esteri Claudia Ruiz Masseu con l’ex ministro delle Finanze Luis Videgaray Caso, già coordinatore della campagna di Peña Nieto, ma soprattutto anima del programma di riforme strutturali del governo e promotore (nel settembre del 2016) della contestata visita a Città del Messico dell’allora candidato 15 E. Levine, S. Núñez, M. Verea (eds.), Nuevas experiencias de la migración de retorno, CISAN-UNAM/Instituto Matías Romero, SRE/Metropolis International, México 2016. 16 “Renegotiating” NAFTA, in “Voices of Mexico”, Centro de Investigaciones sobre América del Norte(CISAN/UNAM), 104, 2017, pp. 18-29. 7
repubblicano. Una mossa finalizzata a rafforzare il potere negoziale bilaterale ma che ha indebolito ulteriormente l’appeal presidenziale agli occhi dell’opinione pubblica. Il ciclone Trump, a livello politico ha però avuto anche effetti imprevisti, da un lato rilanciando la corsa del candidato più esplicitamente populista e nazionalista, López Obrador, dall’altro rimettendo in discussione il percorso di integrazione nordamericana e offrendo al Messico inattese opportunità di diversificazione, culminate lo scorso aprile nella firma di una revisione del trattato con l’Unione Europea (TLCUEM), firmato nel 2000, e nelle aperture a nuovi attori asiatici, Cina in primis (in pochi anni diventata, nel silenzio assoluto, il secondo partner commerciale del Messico) 17. La riforma del energetica (con tanto di modifica costituzionale e rivoluzionarie aperture a imprese straniere nell’ambito delle prospezioni, delle concessioni petrolifere in acque profonde, oltre che nel comparto della distribuzione) e il Piano nazionale infrastrutturale (2014-2018) voluto dall’amministrazione Peña Nieto (che riguarda anche un ritorno degli investimenti nel comparto ferroviario, dopo decenni di abbandono, oltre al piano di un nuovo aeroporto per la capitale) avevano d’altronde già aperto la via alla diversificazione degli investimenti. Mentre Rex Tillerson, la ministra degli esteri canadese Chrystia Freeland e Videgaray (dopo i round di Ottawa) sembrano ancora lontani dal trovare una soluzione concordata sulla nuova versione del NAFTA/TLCAN, le partite sul tavolo negoziale si sono moltiplicate, a cominciare dalla rinegoziazione del Global Compact del 1997, per arrivare al consolidamento della Comprehensive and Progressive Trans Pacific Partnership, la nuova creatura istituita l’8 marzo scorso per compensare l’uscita degli Usa dalla TPP. Il Messico ha d’altronde già firmato una lunga serie di accordi bilaterali di libero commercio e i nuovi partenariati strategici e commerciali interessano anche l’Italia, secondo fornitore europeo (dopo la Germania) e decimo partner commerciale a livello mondiale del paese centroamericano, per un interscambio superiore ai 5 miliardi di euro e una bilancia nettamente spostata a favore del nostro export. LA CORSA AL VOTO L’insieme di questi fattori ha prodotto una campagna elettorale sui generis a detta di tutti gli osservatori; una contesa lunga, tesa ma che, dopo una serie di schermaglie iniziali, ha preso una forma in origine imprevista, consolidando via 17 L. Curzio, Propestas de política exterior en las elecciones de México, in Elecciones presidenciales de México, “Foreign Affairs Latinoamérica”, 18, n. 2, pp. 95-102. 8
via per la posta più alta, la presidenza della Repubblica (la “silla del águila” come la ribattezzò Carlos Fuentes in uno dei suoi ultimi romanzi) 18 l’avanzata di López Obrador. Un trend confermato in tutte le inchieste e sondaggi. La campagna, formalmente iniziata solo nel marzo di quest’anno, dopo l’avvio in dicembre della pre-campagna, aveva di fatto già preso pienamente forma tra agosto e settembre del 2017. Per il partito di governo, segnali poco incoraggianti erano d’altronde già venuti dalle precedenti contese elettorali per i governatori, proprio laddove il PRI aveva avviato, il suo cammino per il ritorno alla testa del paese. Nel giugno del 2016 si era infatti votato in di dodici Stati della Federazione e il partito presidenziale ne aveva conquistati solo cinque, perdendo storici baluardi quali Veracruz (dove Yunes Linares avrebbe trovato un’autostrada aperta dagli scandali di varia natura che avevano travolto il priista Duarte, espulso anche dal partito), Durango e Quintana Roo, soffrendo un’emoraggia di consensi anche nei congressi delle entità. Il PAN ha ottenuto sette Stati, tre in co-abitazione con il PRD, sulla base di una singolare alleanza centro-destra, centro-sinistra, in funzione anti-priista, già sperimentata in passato a Oaxaca (con Gabino Cué), Puebla (Rafael Moreno Valle) e Sinaloa (Mario López Valdés) e in altre realtà locali. Quel voto aveva rappresentato anche il primo non troppo entusiasmante banco di prova per il nuovo partito di López Obrador, il Movimiento de Regeneración Nacional (Morena), il cui acronimo rimanda direttamente al colore della pelle della popolazione indigena e meticcia; un movimento fondato nel 2012 come associazione civile e trasformato in formazione politica nel 2014, una volta consumata la frattura a sinistra con la leadership del PRD e in particolare con Jesús Zambrano Grijalva. Se la prova di Morena nelle elezioni del giugno 2016 non risultò particolarmente brillante, questa si impose viceversa nel voto per l’Assemblea costituente di Città del Messico, ottenendo 22 dei 60 seggi a disposizione, contro i 19 del PRD, i 7 del PAN e i 5 del PRI (votò però meno del 30% degli aventi diritto). Nonostante il boicottaggio dei critici, il 31 gennaio del 2017 sarebbe stata approvata una Costituzione molto progressista e Ciudad de México (la capitale da 22 milioni di abitanti) avrebbe abbandonato la vecchia dizione amministrativa di Distrito Federal, trasformandosi a tutti gli effetti nel 32° Stato della Federazione. Nel giugno del 2017, Morena avrebbe poi conteso fino all’ultimo al partito di governo la guida dello Stato priista per eccellenza, Estado de México (territorio di grandi contrasti, dalle ricchezze di Toluca ai femminicidi di Ecatepec), vinto per un’incollatura da Alfredo del Mazo Maza (con appena il 18 C. Fuentes, La silla del águila, Alfaguara, Madrid 2002. 9
33,69%) su Delfina Gómez Álvarez. Negli altri Stati il PRI ha vinto a Coahuila ma ha perso il Nayarit, passato alla coalizione PAN-PRD. L’avvio informale della campagna elettorale è stato subito scandito dal calo nei consensi del presidente uscente (sceso sotto al 20%) e dalla rinuncia del Procuratore generale di giustizia Raúl Cervantes, nell’ambito di una complessa riforma finalizzata alla costituzione di una nuova tipologia di procura indipendente (la Fiscalía General Autónoma) indirizzata a migliorare la balance of powers. In vista delle presidenziali, il comitato centrale del PRI, dopo un’incertezza iniziale, ha deciso di abbandonare l’ipotesi di candidatura del ministro dell’Interno uscente, Osorio Chong (poi dimessosi in gennaio e sostituito da Alfonso Navarrete) e di puntare su un politico con fama di “tecnico”, meno direttamente legato ai vertici del partito, tanto da abolire la norma che prevedeva una militanza almeno decennale. La scelta è quindi caduta su José Antonio Meade Kuribreña (si pronuncia Mid, all’inglese, anche se molti suoi connazionali non lo sanno). Di origini irlandesi (come Álvaro Obregón) e libanesi (come Carlos Slim, suo padre è un noto scultore), formatosi in istituzioni prestigiose (dall’ITAM a Yale), con esperienza alla Banca Mondiale, alla Central American Bank for Economic Integration e al CONEVAl, Meade è stato già più volte ministro, nel governo Calderón (Energia) e con Peña Nieto, prima agli Esteri (dicembre 2012-agosto 2015), poi allo Sviluppo sociale (agosto 2015-settembre 2016) e infine alle Finanze (settembre 2016-novembre 2017), dicastero lasciato all’ex presidente della compagnia petrolifera pubblica, PEMEX, Antonio González Anaya. Ritenuto un economista oculato - sostenuto anche da Partido Verde Ecologista de México (PVEM) e da Nueva Alianza (NA) nella coalizione Todos por México – Meade sembrava inizialmente una scelta forte per garantire la continuità, ma non si erano fatti i conti con una serie di elementi di debolezza strutturale: una critica sempre più generalizzata all’operato del partito di governo, incapace di riportare la pace sociale promessa e di ridurre l’insicurezza, nonostante alcuni episodi eclatanti come il terzo arresto del boss più famoso al mondo “el Chapo” Guzmán (alias Joaquín Loaera), estradato negli Usa dal gennaio 2017; inoltre hanno pesato sul consenso al partito una percepita incertezza manifestata nei confronti del vicino del Nord e una crescente volontà di cambiamento andata consolidandosi nei mesi in vari strati dell’opinione pubblica da gruppi popolari a esponenti della classe media urbana. Quest’onda montante ha messo in crisi piuttosto sorprendentemente anche i piani di rivalsa del PAN, a sua volta identificato con l’establishment neo-liberista e con la fallimentare guerra al narco di Calderón. Un partito che negli ultimi anni 10
si è inoltre sempre più diviso in fazioni contrapposte, tanto che solo in dicembre, al termine di una lunga disputa, ha formalizzato la candidatura del giovane (39 anni) imprenditore e avvocato, Ricardo Anaya. Una scelta che ha generato diverse polemiche nel centro-destra, tanto da spingere la ex “primera dama”, la moglie di Calderón, l’avvocatessa Margarita Zavala, a lasciare il PAN e a presentare una candidatura alternativa come indipendente, fino alla sua rinuncia ufficiale alla corsa presidenziale, annunciata il 16 maggio. La presenza di candidati indipendenti è d’altronde una delle grandi novità delle elezioni 2018, insieme alla riduzione del mandato presidenziale (sceso da sei a cinque anni e dieci mesi), in un paese che adotta un sistema e turno secco e senza possibilità di rielezione del presidente a un secondo mandato (vecchio principio maderista alla base del Plan de San Luis e della rivoluzione del 1910). In realtà il complesso sistema di raccolta di firme ha permesso che si presentassero solo due indipendenti, Zavala e l’ex governatore del Nuevo León, Jaime Rodríguez Calderón, meglio noto come “el Bronco”, subito segnalatosi in campagna elettorale per alcune uscite quantomeno pittoresche (a cominciare dall’auspicio alla rinuncia alle convenzioni internazionali sui diritti umani per poter combattere al meglio la criminalità, secondo una ricetta del presidente filippino Duterte). Le firme raccolte non sono invece bastate a presentare la candidatura di María de Jesús Patricio, meglio nota come “Marichuy”, rappresentante della Congreso Nacional Indígena de Gobierno, una rete di organizzazione indigeniste supportata anche dai neozapatisti del Chiapas. Anaya, rigettate le polemiche seguite a un presunto scandalo di riciclaggio (a seguito di una denuncia per l’utilizzo di una società fantasma nella compravendita di un terreno), si è posto alla testa della coalizione Por México al Frente, composta da PAN, PRD (la cui presidenza è intanto passata al costituzionalista Manuel Granados Covarrubias) e dai social-democratici di Movimiento Ciudadano (MC) di Dante Delgado. Il candidato panista, con il supporto di peso dell’ex ministro degli Esteri di Fox, Jorge Castañeda Gutman, ha quindi dato il via a una campagna elettorale dinamica e aggressiva, incentrata sulle accuse di debolezza e corruzione al PRI e di populismo “chavista” a López Obrador. Quest’ultimo però, pur senza mutare le proprie strategie classiche, incentrate sulla mobilitazione continua di reti popolari, sindacali e sociali (“politica de la calle”), al pari dei richiami nazionalistici e alla moralità nazionale come principio guida rifondativo contro “la mafia del poder” 19, ha tratto un sorprendente giovamento dalla sua capacità di restare fermo al centro di una sorta di tempesta perfetta. In primo luogo AMLO ha 19 Un suo testo ebmlematico dopo la sconfitta elettorale del 20016 si intitolava La mafia nos robó la presidencia, Mondadori-Grijalbo, México 2007. 11
badato a consolidare per tempo la sua coalizione, Juntos haremos Historia, con il Partito del Lavoro (PT), di sinistra e, per mescolare maggiormente le acque, i conservatori di di Encuentro Social, lavorando dal basso, nei territori più difficili, dalle periferie urbane ai pueblos rurali ma cercando sponde preziose anche nel mondo universitario e mediatico. Si è quindi formato una sorta di pre-gabinetto presidenziale itinerante, con l’ex ministra della Corte suprema di Giustizia, Olga Sánchez Cordero, indicata come ministro degli Interni, il diplomatico e politologo Héctor Vasconcelos (figlio di José Vasconcelos, uno dei padri culturali del Messico postrivoluzionario) agli Esteri, una docente del Colegio de México, Graciela Márquez Colin, all’Economia e l’ex direttrice di Culturas populares, Fausta Guerrero alla Cultura. Vecchio combattente della politica messicana, abituato a giocare sul piano dello scontro, López Obrador ha saputo capitalizzare lo scontento crescente e riadattare vecchie ricette al nuovo contesto. Accusato dagli oppositori di populismo e di potenziale deriva chavista, “el peje” è in realtà, come evidenziato recentemente dallo storico Jean Meyer 20, un figlio di lungo corso della politica messicana che compensa la scarsa abilità retorica con un’esaltazione quasi messianica della propria coerenza, più simile al brasiliano Lula che a un Maduro o a un Ortega. Amlo è originario del Tabasco (da cui il soprannome “el peje” con riferimento a un animale di origine preistorica, il peje lagarto, metà pesce e metà coccodrillo), formatosi nell’Instituto Nacional Indigenista, quindi nel PRI, è poi transitato nel PRD, per cui venne sconfitto alle elezioni di governatore dello Stato (denunciando però una possibile frode) nel 1994, vincendo poi quelle di Città del Messico che governò dal 2000 al 2005. I suoi proclami alla lotta alla corruzione e al ripristino della moralità nazionale sono accompagnati da una certa dose di pragmatismo (come dimostrato dal dialogo avviato con le comunità evangeliche al termine di una conversione pubblica che però sembra convivere pienamente con il proclamato guadalupanesimo e i messaggi di stima a papa Francesco). Una possibile vittoria di López Obrador pone naturalmente delle incognite, sia in materia di politica interna sia estera, sollevando le perplessità di banchieri e investitori ma, sembrerebbe, senza generare panico. Inoltre obbliga ad aprire una riflessione anche sulle modalità di aggiornamento del populismo tradizionale (che ha però un suo alter ego anche nel disperato ricorso di Anaya alla distribuzione di carte prepagate da 1500 pesos) e sui caratteri mutanti delle democrazie occidentali. Anche un intellettuale non certo vicino a Morena quale Héctor Aguilar Camín, sulle pagine di “Nexos”, ha in fondo riconosciuto la capacità del “peje” di ripresentare il sogno di un nazionalismo stabilizzatore a 20 J. Meyer, Ni López Obrador es Hugo Chávez, ni México es Venezuela, “El País”, 24 marzo 2018. 12
livello sociale, pur paventando però per contrappasso, anche i rischi di una potenziale “utopia regressiva” e di un ritorno a uno “Estado rector” 21. La campagna si è quindi snodata tra i grandi confronti-scontri in diretta televisiva – il primo a Città del Messico, nel Palacio de Minería dell’UNAM su violenza, sicurezza, corruzione e impunità, il secondo a Tijuana, Baja California, alla frontiera statunitense, su programmi nazionali e politica estera; il terzo presso il museo del mondo maya di Mérida, Yucatán, su questioni socio-economiche. Si sono tenuti anche alcuni dibattiti ad hoc (interessante quello organizzato da Alianza Americas presso la sede della Comissione diritti umani della capitale che metteva a confronto i programmi degli schieramenti con le richieste delle associazioni di migranti presenti negli Usa). A fine maggio i sondaggi di Consulta Mitofsky (basati su una serie di altre rilevazioni) assegnavano il 47,85% di preferenze a López Obrador, contro il 26,1% di Anaya, il 22% di Meade e il 4,1% del “Bronco” Rodríguez. A fine giugno la distanza appariva ulteriormente cresciuta, nonostante i proclami di vittoria imminente di Meade: 48,1% a López Obrador, 25,5% al candidato del PAN, 22,5% a quello del PRI. Il voto che si avvicina rappresenterà dunque un banco di prova le contraddizioni di un grande paese in trasformazione. L’Instituto Nacional Electoral, ha annunciato, come effetto della riforma del sistema del 2014, una serie di adeguamenti formali e di dati incoraggianti: dall’aumento degli aventi diritto al voto (+10,1%) all’incremento dei seggi elettorali (+9,1%), dei funzionari addetti agli stessi (+39%), degli spazi radio-televisivi garantiti, del monitoraggio dei messaggi promozionali, del contrasto alla compravendita di voti, della semplificazione delle procedure di voto all’estero e nell’accesso di osservatori indipendenti internazionali. Un segnale incoraggiante che sembra voler rispondere alle preoccupazioni del “Foreign Affairs” sullo stato delle democrazie nel mondo 22. Viceversa la campagna elettorale ha anche registrato le sue ombre, accompagnate da una escalation di violenze e omicidi politici nei territori periferici del Messico profondo, dove avrebbero perso la vita, tra settembre e giugno 123 candidati locali (il record spetta al Guerrero con 23, seguito da Oaxaca con 19 e Puebla con 12), uomini e donne, appartenenti a tutti i principali schieramenti politici. Naturalmente tutto può ancora accadere nelle ultime ore di un surriscaldato scenario politico messicano, e certo non conterà solo il voto presidenziale ma 21 H. Aguilar Camín, A las puerta de Amlo, in “Nexos” 1° giugno 2018. El pasado a que mira Amlo, in “Milenio”, 4 maggio 2018 22 Is Democracy Dying? A Global Report, in “Foreign Affairs”, 97, n. 3, Maggio/giugno 2018, pp. 10-59. 13
l’assetto del congresso e dei poteri periferici (dove la coalizione di sinistra resta un’incognita fragile), anche se gli opinionisti sembrano d’accordo su una probabile vittoria del “peje” (Anaya ha addirittura accusato il PRI di supportarlo tacitamente). Nei dibattiti pubblici sono certo entrate le grandi questioni nazionali: la crescita, le politiche di inclusione sociale, la lotta a corruzione e impunità, la riforma del sistema giudiziario, la dialettica cambiamento/continuità, le dinamiche migratorie, che stanno mutando rapidamente, generando processi internazionali e nazionali (facendo del Messico non più solo un paese di fuoriuscita di emigranti ma anche di transito di migranti centroamericani, e di rifugiati interni nelle aree rurali più segnate dalla violenza). Paradossalmente sullo sfondo restano però i programmi di più ampio respiro, in particolare le ricette per ridefinire la lotta alla criminalità organizzata, sempre più transnazionale nella testa ma mai come in passato aggrappata al controllo dei territori nella pancia, mentre residuali sono apparsi temi a lor volta cruciali quali la tutela ambientale e il ruolo delle popolazioni indigene nel nuovo contesto nazionale di un paese che resta in primo luogo un infinito laboratorio di pluriculturalità. * In collaborazione di Gilberto Bonalumi, ISPI Senior Advisor per il Programma America latina 14
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