Wiederkehr (ritorno): come passa - anzi com'è passato - il tempo - LUCA LOMBARDI

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Wiederkehr (ritorno):
     come passa – anzi com’è passato – il tempo...

                                   Luca Lombardi

Quando ho formulato il titolo di questa conferenza-concerto, non era avvenuto il
terremoto che ha colpito il Giappone. Non mi è facile, di fronte a questa tragedia,
parlare serenamente della mia musica. Le catastrofi naturali ci ricordano la nostra
fragilità ed effimerità. Pur non conoscendo abbastanza il Giappone, credo di poter dire
che la sua cultura giapponese è permeata dalla coscienza della caducità. Lo dimostra,
per esempio, la bellissima tradizione della contemplazione dei fiori di ciliegio, la
hanami. Non dipende probabilmente solo dalla bellezza di questi fiori, che proprio essi,
la cui esistenza è così breve, siano ammirati e venerati, e non altri, forse non meno belli.
L’entusiasmo per questo spettacolo naturale è certamente legato anche al significato
profondo dell’esistenza umana, alla consapevolezza della sua fragilità e caducità.
Caducità e fragilità che, se ce ne fosse il bisogno, ci ricorda questa nuova terribile
tragedia che ha colpito in Giappone. L’uomo pensa di essere forte, artefice delle sue
scelte, alle volte addirittura onnipotente – non bisognerebbe arrivare a confrontarsi
con la potenza – quella sí poderosa – della natura, per ridimensionarsi, essere più umili,
capire quali sono le cose importanti della vita, quali quelle trascurabili, apprezzare il
dono della vita e cercare di utilizzare questo dono nel miglior modo possibile...
La natura è meravigliosa e terribile, così come gli uomini sono meravigliosi e terribili.
       La prima volta sono stato in Giappone nel 1992 e ci sono tornato poi, sempre
per brevi periodi, nel 1996, 2000 e 2001. Nel 2002, grazie a un invito della Japan
Foundation, ci sono rimasto sei mesi di seguito, avendo la possibilità di conoscere il
paese molto più di quanto non mi fosse stato possibile nelle quattro visite precedenti.
Ma conosco ancora troppo poco, e da allora, purtroppo, non ci sono più tornato.
I sei mesi passati a Yokohama sono stati una full immersion nella vita giapponese. A
casa, nel nostro piccolo appartamento giapponese, dormivamo sul futon e respiravamo
l’odore, così piacevolmente vicino alla natura e alla terra, di un tatami appena
installato. Passavo lunghe ore seduto su un cuscino al basso tsukue. Alla radio
ascoltavo musica di tutti i generi - forse mai ho ascoltato tanta musica di tutto il pianeta,
giacché il Giappone è aperto e curioso di tutte le culture -, ma ero particolarmente
contento quando potevo ascoltare musica tradizionale giapponese, con quell’uso della
voce così diverso dal belcanto italiano, così fisico, corporale, e, direi, nonostante la
sapiente stilizzazione di questa tecnica vocale tramandata nei secoli, profondamente
naturale, un po’ come il tatami: mi sembra che in questo paese, nonostante il frenetico
processo di modernizzazione, permanga un forte attaccamento alle basi naturali della
vita. Di questo fa parte anche la cura del proprio corpo e del benessere fisico. Vicino a
casa nostra c’era un onsen e con gioia abbiamo approfittato di questa opportunità.
Anche i vecchi Romani amavano molto le terme, ma, ahimè, a Roma, mia città natale,
questa tradizione si è persa da tempo. Avevo, durante il mio ultimo soggiorno in
Giappone, anche la fortuna di avere un albero di ciliegio proprio davanti alla mia
finestra, così, nel periodo della fioritura, potevo ammirare i fiori direttamente da casa
mia, un grande privilegio!
Appena arrivato in Giappone, era fine dicembre del 2001, mi accorsi di avere
dimenticato in Italia tutto il materiale per la composizione che avevo intenzione di
scrivere. Così, girando disoccupato per le strade di Yokohama, mi venne in mente un
breve pezzo per pianoforte, che tornato a casa, annotai. In questo pezzo c’è un’eco
della melodia del venditore di patate dolci, che avevo ascoltato durante le mie
peregrinazioni. Il pezzo si intitola “Commiato dall’anno vecchio – saluto dell’anno
nuovo” (in giapponese: .iku toshi tono wakare – kuro toshi eno aisatsu). Il brano non è
festoso, perché anche in quell’anno c’era stato un avvenimento tragico, l’attacco
terroristico alle due torri, che aveva inaugurato una stagione di odio e violenza, dalla
quale non siamo ancora usciti. Meraviglioso e terribile è l’uomo...

Es. mus.: Commiato...
Poi, recuperato il materiale che avevo dimenticato in Italia, in particolare il testo da
comporre, mi misi al lavoro e scrissi Lucrezio. Un oratorio materialistico. Parte II,
Amore, su testo di Lucrezio, tradotto in italiano da Edoardo Sanguineti. La
composizione è per voce recitante, soprano, baritono ed ensemble. E’ basata sul
poema filosofico “De Rerum Natura”, scritto da Tito Lucrezio Caro (I secolo prima della
nostra era) ed è una descrizione del mondo e degli uomini sera Dei. Tutto deriva dalla
materia stessa, dalla interazione degli atomi. Lucrezio era un seguace di Epicuro
(vissuto tra il IV e il III secolo prima della nostra era), che, a sua volta, era un seguace
della filosofia atomistica di Democrito (vissuto tra il V e il IV secolo prima della nostra
era). Ricordo che alla prima esecuzione, in Germania, feci fatica a fare capire ai
cantanti il tipo di emissione vocale che desideravo e che avevo indicato in partitura con
particolari termini, come per esempio “gutturale”, o “molto (esageratamente) vibrato”
ecc.
Scrivendo il pezzo, pensavo al modo di cantare dei musicisti del teatro Noh, ma
naturalmente un cantante europeo impara all’accademia tutt’altro, e, c’è
evidentemente un abisso tra l’ideale estetico del belcanto e il modo di cantare nella
musica tradizionale giapponese, come nel teatro Noh, quel modo, come già dicevo,
“fisico”, “corporale”, che avevo tentato di trasferire nella mia composizione, pur con
tutti i cambiamenti del caso, giacché non volevo certo fare una pura e semplice copia
stilistica.

Esempio musicale: Lucrezio, Parte II, Amore (frammento)

Nell’autunno 1968 andai a Colonia, in Germania, per studiare con Karlheinz
Stockhausen, il grande compositore tedesco, nato nel 1928 e morto nel 2007.
Stockhausen era allora molto
attratto dall’Oriente e dalla sua filosofia. Sono molte le sue composizioni legate al
Giappone, e una, dal ciclo “Für kommende Zeiten” (per il tempo che verrà) si intitola
proprio “Japan”.
A quell’epoca io ero viceversa attratto da altre sirene, in particolare dal marxismo, e
per quanto riguarda la musica, dunque, non da una musica meditativa, ma da una
musica di intervento politico, cosa che mi portò in seguito a occuparmi del
compositore comunista Hanns Eisler (sul quale mi laureai) e ad andare a studiare a
Berlino Est con Paul Dessau. Sia Dessau che Eisler furono collaboratori musicali di
Bertolt Brecht, il grande scrittore e poeta tedesco. Il terzo importante collaboratore

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musicale di Brecht era stato Kurt Weill, sicuramente uno dei principali compositori del
Novecento. Questo mio interesse per una musica politicamente impegnata mi pose in
conflitto con Stockhausen, le cui posizioni mi apparivano, se non proprio reazionarie,
almeno fortemente irrazionaliste. Anche perché un conto è la filosofia orientale in
Oriente, altra cosa è trasportare idee valide in un determinato contesto culturale in un
contesto completamente diverso.
Anni prima (nel 1956) Stockhausen aveva scritto un saggio dal titolo “...wie die Zeit
vergeht...” (come passa il tempo), in cui faceva una interessante riflessione sul tempo
musicale, istituendo una nuova teoria del rapporto tra altezze e durate, messa in
pratica in alcune sue composizioni (come Zeitmaße, Gruppen e i Klavierstücke V-XI).
La riflessione sul tempo attraversa tutta la storia del pensiero umano. Ci sono tante
diverse definizioni su che cosa è il tempo e filosofi e neuroscienziati continuano a
interrogarsi su di esso. Con Agostino (vissuto tra il IV e V secolo della nostra era)
possiamo dire del tempo che
„si nemo a me quaerat, scio, si quaerenti explicare velim, nesci” (se nessuno me lo
chiede, lo so, ma se devo spiegarlo a qualcuno che me lo chiede, non lo so). Sappimo
tutti che il tempo può essere vissuto in tanti modi diversi – tanto che possiamo parlare
di tempo psicologico e tempo ontologico, ovvero di tempo soggettivo e tempo
oggettivo. “Un’ora non è solo un’ora” – come dice Proust nella Recherche du temps
perdu, ma “è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi... “ Può
naturalmente anche essere un vaso vuoto, dipende da tanti fattori diversi, soprattutto,
direi, dal nostro stato d’animo e dalla capacità di el nostro cervello di reagire agli
stimoli che lo colpiscono.

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Wiederkehr, la composizione che ascolteremo tra poco, è anche, in un certo senso, una
composizione sul tempo. Tornando però alle mie visite in Giappone, vorrei parlare di
un altro aspetto che mi colpì, quello della contraddizione – forse solo apparente - tra
realtà diverse. Per inciso, è interessante che la parola “contraddizione” in giapponese
si traduca con gli ideogrammi di scudo e spada; questo, se sono bene informato, per
una vecchia favola nipponica che racconta di un mercante che vendette a due
avversari rispettivamente una spada che poteva distruggere tutti gli scudi e uno scudo
che poteva resistere e rompere tutte le spade. Il risultato dello scontro fu che entrambi
gli arnesi si ruppero.
La contraddizione ha comunque anche aspetti positivi, io almeno – pur non essendo
uno hegeliano – ritengo che da una tesi e un’antitesi possa prodursi un risultato nuovo
e più alto. Ma forse, più che di contraddizione, bisognerebbe parlare, per i casi che ho
in mente, di giustapposizione di realtà eterogenee. Penso, per esempio, a quel bel
giardino antico di Tokyo al quale bisogna accedere oggi attraversando un enorme e
francamente brutto albergo di stile internazionale. L’amico architetto, che me lo fece
visitare in occasione della mia prima visita in Giappone, non si scandalizzava per nulla di
questa contiguità di realtà così diverse e anzi opposte. E’ ormai normale e forse
“naturale”, nel senso di una seconda natura, che in Giappone convivano frammenti di
fasi culturali diverse; naturalmente questo succede anche in altri paesi, e in Italia,
soprattutto in una città come Roma, siamo abituati alla contemporaneità di piani
temporali diversi: costruzioni romane, medievali, rinascimentali, barocche ecc., fino al
recente Parco della musica, costruito da Renzo Piano, che ingloba i resti di un’antica
villa romana. Ma forse in Giappone, oltre e più che costruzioni di diverse epoche,
convivono ancora comportamenti legati alle diverse fasi della storia giapponese, così
per esempio certe forme standardizzate nei rapporti tra le persone che vanno
assolutamente osservate se si vuole essere un “vero giapponese”, anche se possono
sembrare in contraddizione con i ritmi e le semplificazioni suggerite dal ritmo della vita
moderna. (Qui si potrebbero citare esempi tratti dai diversi aspetti della vita, dagli
inchini con cui ci si saluta, che, a seconda della loro ampiezza, suggeriscono
immediatamente la gerarchia delle persone che si stanno salutando; all’uso degli
auguri per l’anno nuovo, che vanno spediti e ricevuti tassativamente entro una certa
data; al fatto di potere incontrare sullo stesso vagone di certe linee della metropolitana,
sia una ragazza che indossa pantaloncini ultracorti che una signora fasciata – come
probabilmente già sua mamma e sua nonna – da un elegante kimono).
Non penso che in musica le cose siano fondamentalmente diverse: anche qui può

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capitare di imbattersi in frammenti che appartengono a differenti realtà musicali. Non
mi riferisco a quell’attitudine postmoderna in voga un po’ dappertutto. Se di
postmoderno si dovesse trattare, sarebbe sicuramente una variante del tutto
giapponese che, più che con fattori legati alle mode culturali, ha a che fare con la
compresenza di atteggiamenti e comportamenti diversi. Ricordo che mi colpì molto,
nella composizione di un famoso compositore giapponese, l’irrompere, improvviso e
apparentemente immotivato, di un accordo di gusto “francese”, un “accordo di nona”,
che per un ascoltatore europeo, rimanda immediatamente alla musica di Debussy o
Ravel. Gliene chiesi la ragione, e lui, meravigliandosi della domanda, mi rispose
candidamente che quell’accordo “gli piaceva”. Quando a un mio insegnante di
composizione, che mi chiedeva il perché di una certa nota in una mia composizione,
risposi allo stesso modo, che quella nota mi piaceva, lui non fu affatto soddisfatto della
mia risposta. In Europa siamo abituati a chiedere la legittimità storica, prima che
estetica, di qualsiasi nota scriviamo, mentre, se è possibile generalizzare, in Giappone,
si è interessati ai singoli “frammenti”, da qualsiasi parte essi vengano: se quel
frammento culturale piace, si troverà il modo di inserirlo nel proprio progetto e di farlo
proprio. A questo punto è però l’europeo a essere ingenuo, pensando che quel
determinato    accordo    rimandi   alla   musica degli    impressionisti   francesi.   E’
semplicemente un accordo che fa parte dell’universo musicale oggi a disposizione del
compositore e che questo decontestualizza, inserendolo in un suo nuovo contesto.

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Così, la stessa concezione del tempo musicale, in Occidente e in Oriente, è
profondamente diversa. La questione del tempo, già lo dicevo, è molto complessa. La
musica occidentale - per semplificare grandemente la questione - ha in genere un
inizio, uno sviluppo, un climax e una fine, mentre la musica giapponese è costituita -
anche qui semplifico molto - dalla giustapposizione di diversi eventi sonori. Forse è la
stessa differenza che c’è nella struttura di un pranzo occidentale - con il suo antipasto,
il primo, il secondo, la frutta, il formaggio, il dolce e il caffè - e il pranzo giapponese,
dove le singole parti sembrano non seguire una gerarchia così precisa e si può passare
con maggiore libertà da una portata all’altra. Lo stesso sushi può apparire come una
riuscita apologia del frammento, dove un frammento segue l’altro, senza, per così dire,
uno sviluppo o una particolare organizzazione formale: quando si sono avuti - mangiati
per quanto riguarda il sushi, scritti o ascoltati, per quanto riguarda la musica - un
numero sufficiente di “eventi-frammenti”, il pranzo o la composizione possono essere
considerati conclusi, senza che, come in Occidente, la fine, di un pranzo come di una
musica, sia strutturalmente connotata come tale.
       La mia composizione Wiederkehr, (che in tedesco significa “ritorno”), può, per
certi aspetti, essere considerata affine a una concezione del tempo come quella
dell’antica musica giapponese, essendo una composizione non fondata sullo sviluppo
lineare, teleologico, ma sulla giustapposizione, sulla ripetizione, sull’insistenza e la stasi.
E’ curioso che la scrissi quando mi trovavo ancora a Colonia, ero tutto preso dalla
musica di impegno politico e dirigevo il coro del sindacato dei metallurgici tedeschi,
per il quale componevo canzoni che eseguivamo sulle piazze di Colonia. Ma anche la
vita di un compositore è fatta di cose che non si possono sempre spiegare
razionalmente. Si sente il bisogno di fare determinate cose, e si fanno, senza chiedersi
troppo quale ne sia il senso profondo – questo potrà rivelarsi, se e quando c’è, a
posteriori. Nel 1971 – quarant’anni fa! – non conoscevo nulla del Giappone e arrivai
probabilmente a quel tipo di pensiero musicale e di organizzazione formale per il
tramite di certa musica nordamericana, anzi californiana; come è noto, in California si
respira l’aria che il vento porta dall’altra parte del Pacifico – un’immagine che in questi
giorni suona piuttosto inquietante. Fu però solo più tardi – era il 1982 – che ebbi il
primo incontro con il Giappone, visitando, a San Francisco, Japan Town. Un collega
americano, al quale avevo chiesto che regalo tipicamente americano da portare a mia
moglie, mi rispose “regalale un kimono.” Alla mia meraviglia su questa risposta, mi
raccontò che quando andava a scuola, i suoi compagni di classe erano quasi tutti
giapponesi...

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Wiederkehr (che in tedesco significa ritorno – e qui possono venire alla mente
associazioni con la filosofia stoica, o di origine orientale, o con il concetto dell’eterno
ritorno sviluppato da Friedrich Nietzsche in “La gaia scienza” e in “Cosí parlò
Zaratustra”...) si basa sull’utilizzazione di solo 15 accordi. Mi ponevo, in quella
composizione, il problema del controllo dell’armonia. Non volevo usare un sistema
sintattico del passato (la tonalità), ma m’interessava usare invece una “scala” armonica
che comprendesse accordi di diverso significato armonico (più o meno consonanti o
dissonanti).
Wiederkehr è una composizione estremamente “costruita”, ma credo che, proprio in
virtù della sua costruzione, essa possa, paradossalmente, dare l’impressione della
spontaneità.
I 15 accordi sono diversi per densità (numero delle note, da 2 a 8) e per “tensione
armonica” (grado di consonanza e dissonanza).

Es. mus.

Ci sono poi 4 gruppi di 8 accordi che, a differenza dei 15 accordi originari, hanno
sempre la stessa densità (4 note) e, di volta in volta, la stessa caratteristica armonica: il
primo gruppo è costruito con intervalli di seconda (minori e maggiori), il secondo con
intervalli di terza, il terzo con intervalli di quarta e il quarto con intervalli di quinta.
Es. mus.

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L’unione degli accordi originari (eterogenei) con uno dei gruppi di accordi omogenei dà
luogo a un campo armonico che, a seconda del tipo di intervallo usato, sarà un campo
armonico di seconde, terze, quarte e quinte. La composizione utilizza, appunto, 4
diversi campi armonici, Ogni campo armonico ha poi particolari caratteristiche
strutturali, ragione per cui la composizione consta di 4 sezioni, oltre a una sezione
introduttiva. Da un punto di vista formale, il pezzo si sviluppa secondo un gioco di
anticipazioni e ritorni delle 4 sezioni, con i relativi campi armonici. Il titolo
“Wiederkehr”, ritorno, sta a indicare diversi aspetti della composizione: 1) il ritorno
(sebbene sempre variato, anche all’interno di uno stesso campo armonico) dei 15
accordi originari; 2) il ritorno degli stessi campi armonici e, all’interno di essi, di singole
caratteristiche strutturali; 3) in un senso più generale, il ritorno di accordi tabuizzati da
certa musica contemporanea. Non c’è però, come già dicevo, il ritorno a un’
organizzazione sintattica del passato, ma tutti gli accordi (consonanti o dissonanti che
siano) vengono integrati in un sistema ad hoc. Penso di essermi avvicinato in questa
mia composizione giovanile, a una sintesi accettabile tra intuizione e costruzione, tra
disciplina e libertà, nel senso che quest’ultima (la libertà) non viene perseguita come
contrapposizione alla prima (la disciplina), ma attraverso quella. Analogamente, una
musica che si ponga come superamento della vecchia avanguardia, non può essere
raggiunta negando quest’ultima e aggrappandosi a un pensiero musicale storicamente
superato, ma attraverso le esperienze stesse della musica contemporanea.

Es. mus.: Wiederkehr

Arrivati alla conclusione di questa serata, vorrei esprimere il mio desiderio che il titolo
“Ritorno” possa propiziare anche un mio ritorno in Giappone, un paese per il quale
nutro ammirazione e affetto, e per il quale, in questi giorni di tragedia, sono
preoccupato e addolorato. Ma sappiamo come sono bravi i giapponesi, e possiamo
dunque essere sicuri che, nel paese del sol levante, dopo la notte tornerà a risplendere
il giorno.

20 marzo 2011

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