VIOLENZA DOMESTICA Una perversione sociale - Carolina M. Scaglioso - Armando Editore

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Carolina M. Scaglioso

                   VIOLENZA DOMESTICA
                                   Una perversione sociale

                                                           ARMANDO
                                                            EDITORE

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Sommario

             Premessa                                                                  7

             Parte prima
             Per chi suona la campana? Il quotidiano e il vissuto:                    15
             una realtà piena di ombre
                  1.1 Dati in movimento                                               15
                  1.2 Modelli, pratiche, messaggi: una realtà piena di ombre          32
                  1.3 Parole e violenza                                               53

             Parte seconda
             La violenza domestica: una icona, un segno,                              57
             una contraddizione
                  2.1 Violenza domestica. Gli attori: vittima e abusante             57
                  2.2 Violenza domestica. La trama                                   64
                  2.3 La colpa della donna abusata                                   74
                      2.3.1 Il livello socioculturale come aggravante                75
                      2.3.2 Eppure restano                                           77
                      2.3.3 La patologizzazione: condanna per la donna, scappatoia   85
                            per il colpevole
                  2.4 Quando la violenza è il Sé                                     90

             Parte terza
             Una cultura e un ambiente che nutrono la violenza                       100
                  3. Una perversione sociale                                         100
                     3.1 Una mutazione antropologica                                 102

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3.2 Tempo, precarietà, morte                       105
                      3.3 L’etica della sopraffazione                    107
                      3.4 Analfabetismo affettivo e alessitimia          114
                      3.5 Media e società: responsabilità in relazione   119

             Parte quarta
             Il bisogno dell’Altro                                       128
                  4.1 Il valore di Sé, il valore dell’Altro              128
                  4.2 Narrazione e vita, tra formazione e terapia        144
                  4.3 La cura                                            157

             Per concludere. L’utopia della formazione                   163

             Bibliografia                                                166

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Premessa

                 Ci sono momenti nella nostra vita che azzerano ogni percorso di
             crescita, e ci affogano in uno spaesamento in cui nessun Sé è più rin-
             tracciabile; le conquiste identitarie si dissaldano e si fanno instabili
             oltre ogni sostenibilità, e senza rendercene conto non si è più con-
             sapevoli dei nostri confini allentati e della nostra permeabilità. Tutte
             le persone e tutto ciò che incontriamo in questi momenti (momenti
             che possono durare anni) ci trova imberbi ed esposti come stracci che
             sventolano in balìa di ogni intemperie che abbia deciso di strapparli
             ancora di più. Quando l’uragano è passato, lo straccio si posa, e aspet-
             ta una mano capace di scuoterne via i residui di sporco, di rammendar-
             lo con rispetto e amore. Anche noi esseri umani non siamo capaci di
             ripararci da soli: abbiamo bisogno di un mondo di relazioni schiette,
             non contraffatte, agìte senza superficialità e senza secondi fini, che
             possono rivelarci il dolore immeritato in cui siamo affogati ma anche
             suggerirci che abbiamo la possibilità e possiamo avere la forza di ri-
             emergerne. Soltanto in un contesto fatto da relazioni tali, un contesto
             comunitario, ci è dato ricreare, al posto della narrazione in cui si è
             vissuti come succubi, un testo inverso, una riscrittura della nostra vita
             capace di farci rinascere non per quelli che eravamo ma per quelli che
             siamo. Non vogliamo permettere a un lutto o a un grave abuso di can-
             cellare il nostro essere al mondo, e al tempo stesso abbiamo bisogno
             di certificarci che l’esperienza del male che abbiamo attraversato ci ha
             come vaccinato, perché non permetteremo che succeda più. Narrarla
             vuol dire esorcizzarla, per continuare a vivere.

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In un secondo momento, quando la polvere è ormai posata, emer-
             ge la necessità di condividere di fronte a una collettività più ampia,
             come se sentissimo la responsabilità di dover partecipare quello che
             ci ha straziato e che sappiamo può tormentare e rovinare anche gli
             altri: il male e il dolore esistono, e per primi a noi più che a degli
             ipotetici lettori serve mettere in fila le parole per cercare risposte alla
             nostra esperienza di dolore. Si pone il problema della possibilità o
             meno di comunicare le esperienze traumatiche forti a chi ha vissuto
             e vive nella regolarità delle contrarietà quotidiane; forse è oggettiva-
             mente impossibile fare testimonianza comprensibile e condivisibile
             del male, in un contesto culturale che da una parte invita costan-
             temente a rimuoverlo, dall’altra parte invece lo spettacolarizza su
             orizzonti estremi che indiscutibilmente ci attraggono: dalle serie di
             Criminal Minds e Fox Crime, che vantano schiere di fedelissimi af-
             fascinati dal male assoluto che emerge dalle situazioni più normali,
             alla diffusione del genere horror, che in una sorta di rito tra il sov-
             vertitore e l’apotropaico finisce per stemperarsi nella moda dell’ab-
             bigliamento e degli accessori gothic. Questi comportamenti parlano
             della necessità di strappare il male dalla sua indicibilità e restituirlo
             al narrato, nonostante il (e forse a causa del) disincanto riguardo a
             questi temi che caratterizza la nostra società postmoderna; perché ci
             sono eventi che, non narrati, precipitano persone e situazioni nell’a-
             bisso. Sarebbe ingenuo pensare di poter scrivere un prontuario del
             male, eppure continuiamo a sforzarci di trovare le parole, non fosse
             altro che per intercettarlo se anche non siamo capaci di prevenirlo,
             o almeno cercare di farsene una ragione. Quello che è stato resta, il
             raccontare non cancella, ma è pur sempre l’urlo tenuto rappreso per
             tanto tempo, il lampo che è passato attraverso la feritoia e ora per-
             mette di abbattere il muro della solitudine, di farci vedere che non si
             è soli, e di scoprire insieme agli altri il nome del buio che ci ha per un
             po’ annientato. Condividere la vulnerabilità, la volontà di riscatto,
             il desiderio della felicità che sappiamo di meritare è il primo passo;
             impariamo a maneggiare il fuoco rovente dei nostri ricordi trami-
             te parole capaci di risuonare nei ricordi dei nostri simili, e insieme
             decidiamo che non è il caso di sorvolare, di accettare, di tacere, se

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vogliamo vivere come persone. Abbiamo varcato il confine, e ne
             siamo ritornati: è questo passaggio quasi sacrale a una seconda vita
             che sentiamo la necessità di testimoniare, senza rinnegare la paura
             che a volte si riaffaccia, il dolore che continuiamo a ricordare ma che
             non ci soffoca più.
                 Non basta: il processo di autocoscienza richiede un passaggio suc-
             cessivo, che va oltre la traversata degli accadimenti particolari che ci
             riguardano; ci sentiamo interpellati a una presa di posizione più deci-
             sa, sentiamo il bisogno di interrogarci su quanto è accaduto allargando
             lo sguardo oltre la nostra esperienza limitata per quanto significativa.
             “Parlare significa […] nuovamente dire il mondo”, ricomprendersi a
             partire dal confronto con il mondo che il testo ci rivela attraverso il
             suo potere rifigurativo che è tanto maggiore quanto più ampia è la
             distanza dal momento configurativo dell’esperienza (Ricoeur 1995:
             53*).1E allora l’ultimo passaggio, quando già siamo capaci di guardare
             la rabbia, i ripensamenti, l’angoscia di quanto vissuto dall’alto della
             collina, consiste nell’analizzare i nostri fatti che quasi ormai sentiamo
             storia comune degli altri, e cercare di trovare risposte nel mondo che
             abbiamo intorno: riorganizzato il nostro quaderno interiore, vogliamo
             cercare le risposte ai perché più grandi e provare a tracciare non tanto
             quadri di sintesi, ma sentieri percorribili perché quello che è accaduto
             e che accade non accada più, e non soltanto a noi.

                 Questo saggio tratta aspetti della violenza perpetrata dagli uomini
             in quanto maschi contro le donne in quanto femmine, e non si occupa
             della violenza agìta da donne contro uomini. Non si nega l’esistenza
             e la possibilità di abusi per mano femminile: la violenza contro le
             donne, tuttavia, le ha rese vittime per secoli, è stata culturalmente e
             socialmente accettata, e costituisce ad oggi un fenomeno che in tutte le
             sue forme supera in percentuale statistica e in gravità la violenza delle
             donne contro gli uomini. Le donne hanno sempre avuto difficoltà, e
             soprattutto nelle culture mediterranee, a individuare obiettivi comuni,
             a sentirsi e fare gruppo: si sono unite quando hanno preso consape-
                  * Le citazioni riportano l’anno di uscita dei testi, in nota bibliografica segnate tra parentesi

             nella citazione estesa; le pagine sono quelle dell’edizione italiana in nota bibliografica.

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volezza del loro squilibrio di potere rispetto agli uomini, quando non
             hanno più accettato che la loro appartenenza di sesso fosse utilizzata
             per discriminarle, sminuirle, sottopagarle, per far loro violenza. “Il
             primo animale domestico dell’uomo è stata la donna. Non posso am-
             mettere che l’uomo sia l’essere ideale della creazione e debba servire
             da unità di paragone. La donna non è né superiore, né inferiore; è quel
             che è. E tale qual è non v’ha ragione ch’essa si trovi in condizioni
             inferiori” (Kuliscioff 1894). Dietro il perpetrarsi degli abusi contro le
             donne e la rassegnazione ad essi ci sono motivazioni antropologiche,
             sociali e culturali, e meccanismi psicologici che rendono difficile e
             complesso l’intervento che intende combatterli.
                 Il presupposto della mia riflessione resta che la violenza contro
             le donne non è una questione femminile, da affrontare e risolvere tra
             donne, ma una questione di tutti, e prima di tutto un problema del
             maschio, cui va ricondotta la responsabilità sia dei comportamen-
             ti violenti sia del suo possibile cambiamento attraverso un percorso
             serio e strutturato. Trovo che l’idea del cambiamento debba essere
             sottolineata per gli uomini che vogliono uscire dalla loro condizio-
             ne di violenti, ma temo anche che possa risultare ambigua per molte
             delle donne maltrattate dal loro compagno, che anziché denunciare
             e allontanarsi immediatamente continuano a scegliere di restare, in
             silenzio, aspettando il cambiamento. Affermare che c’è la possibilità
             di un cambiamento non vuol dire che il cambiamento ci sia sempre,
             e il lavoro è arduo quando si interviene su personalità stratificate nel-
             la violenza. Per le stesse ragioni, i fattori correlati all’insorgere della
             violenza, pure presenti lungo la trattazione del presente saggio, non
             costituiscono mai giustificazione, non sollecitano nessuna tolleranza:
             in ogni situazione vissuta da ognuno di noi, il nostro comportamento è
             coagente a fattori socioeconomici, culturali, psicologici, o fosse pure
             psicopatologici che ci definiscono, ma è anche vero che non tutti quel-
             li che hanno in comune una stessa storia sviluppano una narrazione di
             violenza perpetrata.
                 Il saggio non tratta programmaticamente aspetti che riguardano la
             violenza assistita, e inoltre, all’interno delle molteplici forme di violenza
             che vedono vittime le donne, tratta esclusivamente aspetti della cosid-

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detta violenza nella relazione d’intimità1 (che da ora in poi per brevità
             chiamerò sempre violenza domestica o violenza), partendo dall’assun-
             to che chi offre consigli per far funzionare la coppia quando ci sono
             episodi di violenza (di ogni tipo) è responsabile delle conseguenze di
             quella violenza (e di quelle che seguiranno) al pari dell’attore stesso.
                 La violenza domestica è il tipo di violenza più subdolo e vigliacco,
             ancora minimizzato o addirittura accettato, a volte dalle stesse vittime,
             e comunque sempre il più difficile da individuare subito per quello
             che effettivamente è, fino a che non si giunge all’epilogo fulminan-
             te. Nell’ambito della violenza domestica è sempre presente insieme
             alla violenza fisica anche la violenza psicologica, a volte anche quella
             sessuale, e anche economica2. Può capitare che subiscano violenza
             donne con compagni che si comportano in maniera violenta anche
             fuori dalla relazione intima, magari con difficoltà giudiziarie o coin-
             volti in affari malavitosi. Possono capitare uomini che riversano esclu-
             sivamente sulle donne che hanno accanto le insoddisfazioni e le mise-
             rie di una esistenza priva di riconoscimenti e segnata dalle ristrettezze

                  1 L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1996 ha definito violenza domestica “ogni

             forma di violenza fisica, psicologica o sessuale e riguarda tanto soggetti che hanno, hanno
             avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, quanto soggetti che all’interno
             di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affetti-
             vo”. Ci si riferisce dunque al tipo di relazione che intercorre tra l’abusante e la vittima, e non
             al luogo in cui avviene la violenza. Con violenza nella relazione d’intimità si intendono “le
             violenze che avvengono ad opera di partner o ex partner, quindi all’interno di una relazione
             amorosa/sessuale, qualunque ne sia il livello di intensità e a prescindere dalla convivenza”.
             Rispetto alla violenza domestica, la definizione di violenza nella relazione d’intimità dà ulte-
             riore enfasi al contesto relazionale delle violenze, alla relazione che intercorre fra due persone
             che dovrebbero avere una progettualità comune. La violenza nelle relazioni di intimità è l’e-
             sercizio di potere e controllo sul partner o ex partner diretto a fargli del male, nell’immediato
             o ripetuto nel tempo, l’esercizio sistematico di violenza, insomma, diretto a ferire, intimidire,
             terrorizzare e brutalizzare (Feder 2008, cfr Creazzo-Bianchi 2009: 18), erosivo nella sua con-
             tinuità quotidiana.
                  2 Si usa distinguere tre forme di violenza: quella fisica (per gravità ascendente: essere

             minacciata di essere colpita fisicamente, essere spinta/ afferrata/ strattonata, essere colpita con
             un oggetto/ schiaffeggiata/ presa a calci, pugni o morsi, subire un tentativo di strangolamento,
             di soffocamento, di ustione e la minaccia con armi); quella sessuale (stupro, tentato stupro,
             molestia fisica sessuale, rapporti sessuali con terzi, rapporti sessuali non desiderati subiti per
             paura delle conseguenze, attività sessuali degradanti e umilianti); quella psicologica (deni-
             grazioni, controllo dei comportamenti, strategie di isolamento, intimidazioni). Le limitazioni
             economiche subite da parte del partner appartengono al terzo tipo di violenza, per quanto a
             volte vengano considerate violenza a sé stante.

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economiche, sfogandosi su vittime su cui è facile provare la propria
             superiorità. Ma ci sono anche molti casi di uomini normali, spesso be-
             nestanti e che godono di una certa rispettabilità sociale, che esprimono
             la loro fame di controllo e di potere, la loro incapacità di relazionarsi e
             di vivere, attraverso la violenza sulla loro donna; le vittime della vio-
             lenza di questi uomini diventano capri espiatori dei rancori antichi e
             delle sconfitte esistenziali del loro compagno: la violenza psicologica
             è esercitata con maggiore competenza, la violenza fisica con maggiore
             attenzione alla visibilità. Non a caso negli ultimissimi anni, nell’otti-
             ca della prevenzione dei femminicidi, si è cominciato a studiare con
             interesse più attento sia il cosiddetto sommerso, sia la dinamica delle
             violenze psicologiche, queste ultime uno dei fattori utili a mantenere
             la vittima nel silenzio: una fitta rete di soprusi quotidiani che sapiente-
             mente riducono la vittima in uno stato di soggezione e sottomissione,
             più difficile da individuare e a volte anche da ammettere nella sua
             ferocia, profondamente distruttiva.
                 In ogni modo, i dati statistici di ogni regione testimoniano che il
             compagno o comunque la persona legata da una relazione sentimenta-
             le è l’aggressore principale (le percentuali parlano di 1 sola violenza
             su 100 a opera di sconosciuti, e di un 61 per 100 di violenza consu-
             mata dentro le mura domestiche), ed è anche quello più spietato: qua-
             si sempre le violenze avvengono in casa, nella maggior parte in una
             famiglia normale, a opera di uomini normali e su donne normali. La
             violenza è frequentemente multiforme e di tipo reiterato (78 per cento
             dei casi). Il 13 per cento delle donne ha subito violenza domestica per
             periodi tra i dieci e i venti anni, per più di venti anni l’11 per cento. Il
             femminicidio, in questo quadro, non è che la fiamma definitiva di un
             omicidio identitario più o meno tirato per le lunghe.

                 Coerentemente agli intenti esplicitamente dichiarati in questa pre-
             messa, il saggio consiste in una riflessione che si è avvalsa di con-
             tributi di ricerca e di dati, questi ultimi quanto possibile aggiornati e
             recenti, tutti rintracciabili nella nota bibliografica. A tali studi rimando
             per analisi approfondite. Nel corso della riflessione e nei riferimenti
             utilizzati si noterà il co-housing di studi afferenti a campi di indagine

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differenti: dalla sociologia all’antropologia, alla psicologia, e soprat-
             tutto alla psicoanalisi, alla psichiatria, alle neuroscienze, oltre agli
             studi più specificatamente detti di genere, dalla pedagogia alla lette-
             ratura. Credo in una riflessione pedagogica aperta alle teorie unificate
             della mente, ho fiducia soltanto in una educazione come programma
             di ricerca esperienziale continua, capace di svilupparsi all’intersezio-
             ne delle differenti scienze che operano per fare dell’uomo un soggetto
             che possa dominare e governare la multiformità in continuo cambia-
             mento, riflettendo sui luoghi, sui tempi, sui modi e su quanto di que-
             sti universi di conoscenza sia controllabile e possa trovare risposta e
             relazionarsi con i meccanismi del nostro cervello, permettendoci di
             fare nostri gli strumenti che ci servono per metterci in condizione di
             muoverci senza farci seppellire dal magma delle umane esperienze
             (Scaglioso 2008): una teoria unificata in cui le emozioni condividono
             con i fenomeni cognitivi comuni metodi di ricerca.

                  Pertanto, sono sì consapevole che, soprattutto su un tema quale
             quello affrontato (storicamente impostato secondo parametri collettivi
             che privilegiano il genere di appartenenza prima delle storie persona-
             li), porre le questioni anche in termini individualistici e psicologici
             piuttosto che politici, economici o sociali rischia accuse di psicologiz-
             zazione, di depoliticizzazione a sostegno dello status quo e dei rappor-
             ti di potere dominanti. Di fronte all’epidemia che ci strazia, tuttavia,
             non vedo altra strategia possibile al di fuori di un tentativo multipro-
             spettico e interdisciplinare (lontano esso per primo da suggestioni bi-
             narie) in cui una riflessione sociale sulla violenza contro le donne non
             escluda la riflessione in termini psicologici e psicoanalitici.
                  Ho constatato anche il pericolo insito nel rivolgere una attenzione
             analitico-terapeutica propria della psicoanalisi non tanto alla dimen-
             sione individuale ma al contesto sociale in cui e su cui ci strutturiamo
             come persone, e ho rilevato la difficoltà, in una sintesi di questo tipo,
             di contaminare concetti, categorie interpretative e metodi propri di un
             campo di ricerca quando li utilizziamo su terreni che non sono loro
             propri. Resto convinta che ne valga la pena.

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Il saggio si apre con un breve excursus (parte prima) che riguar-
             da l’insieme dei provvedimenti legislativi e degli interventi messi in
             atto sul territorio; si circoscrive poi l’insieme delle contraddizioni pre-
             senti nel contesto socio-culturale che ci appartiene, il quale insieme,
             riguardo soprattutto alla tipologia di violenza che ci interessa (parte
             seconda), si muove su un piano di estrema ambiguità sollecitando un
             tessuto di reazioni sostanzialmente giustificatorie per il maltrattante,
             colpevolizzanti per la vittima.
                 Nel proseguire la riflessione, mi sono mossa su due direttive. Nella
             terza parte intendo suggerire che la violenza del maschio nelle attuali
             contingenze possa essere strettamente legata alla progressiva narcisiz-
             zazione dell’uomo, come suggerisce l’approccio psicologico classico
             che tende a rinvenire nella scarsa stima di sé le radici dei comportamenti
             violenti; credo tuttavia che la profonda crisi vissuta da maschi ango-
             sciati dalla propria impotenza che cercano di controllare e sottomette-
             re la compagna come rimedio alla scarsa stima di sé e all’aggressività
             strutturale che li accompagna non sia risolvibile all’interno di conte-
             sti sociali e culturali intrisi di contrapposizioni binarie; c’è bisogno
             di rivoluzionare dall’interno la nostra realtà formativa che, anziché
             tendere al superamento degli aspetti dicotomici, sostiene e supporta
             svariati analfabetismi (tra cui l’analfabetismo affettivo), ed è, narcisa
             e perversa essa stessa o no, comunque profondamente ammalata.
                 Nella quarta parte, di conseguenza, cerco di giustificare due assi di
             intervento utili non soltanto per il trattamento dei soggetti maltrattanti
             e delle vittime, ma anche per definire percorsi educativi che formino
             all’alleanza e non al conflitto: la necessità non rimandabile di educare
             l’intelligenza emotiva sia dei maschi sia delle femmine, e a questo
             scopo l’utilizzo dell’approccio narrativo, risorsa preziosa in ogni fase
             della formazione fin dalla più tenera età, sia a scopo preventivo nei
             percorsi curricolari delle scuole di ogni ordine e grado, sia nel recupe-
             ro delle vittime della violenza.

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Parte prima
             Per chi suona la campana? Il quotidiano
             e il vissuto: una realtà piena di ombre

             1.1 Dati in movimento

                 Il codice penale italiano presenta strumenti normativi adatti a pre-
             venire e sanzionare i comportamenti illeciti che si riscontrano nelle
             situazioni di abuso domestico3: gli strumenti sono numerosi, discipli-
             nati nei vari testi, dal codice penale al civile fino alle leggi speciali,
                  3 Si fanno notare tra gli altri i seguenti reati del codice penale: articoli: 570 Violazione

             degli obblighi di assistenza familiare; 571 Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina; 572
             Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli; 575 Omicidio; 580 Istigazione o aiuto al suicidio;
             581 Percosse; 582 Lesione personale; 583-bis Pratiche di mutilazione degli organi genita-
             li femminili; 594 Ingiuria; 595 Diffamazione; 605 Sequestro di persona; 609-bis Violenza
             sessuale; 609-octies Violenza sessuale di gruppo; 610 Violenza privata; 612 Minaccia; 612-
             bis Atti persecutori; 616 Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza; 617 Co-
             gnizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o
             telefoniche; 617-bis Installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comuni-
             cazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche; 660 Molestia o disturbo alle persone. Una
             volta riconosciuta la responsabilità penale, il codice di procedura penale riconosce inoltre
             pene accessorie. Meritano un cenno, tra le altre, le misure cautelari coercitive [quali il divieto
             di espatrio (articolo 281), l’obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria (articolo
             282), l’allontanamento dalla casa familiare (articolo 282-bis), il divieto di dimora (articolo
             283), l’obbligo di dimora in un dato comune (articolo 283), gli arresti domiciliari (articolo
             284), la custodia cautelare in carcere (articolo 285), la custodia in luogo di cura (articolo 286]
             e le misure interdittive che impediscono o limitano l’esercizio di diritti e facoltà del soggetto
             in causa. L’articolo 288, ad esempio, prevede la decadenza e la sospensione dall’esercizio del-
             la potestà genitoriale e la privazione di ogni diritto di rappresentanza e amministrazione degli
             interessi e dei beni dei figli; l’articolo  609-nonies tratta l’interdizione perpetua dagli uffici
             attinenti alla tutela ed alla curatela.  Al reato di atti persecutori (stalking) il recente articolo
             282-ter ha aggiunto il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.  

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e si trovano nella formulazione iniziale dei codici che sono stati suc-
             cessivamente ampliati e modificati in conseguenza dei mutamenti
             verificatisi nel tessuto sociale. Molti degli interventi normativi sono
             stati elaborati in risposta agli aspetti contingenti del fenomeno, per
             quanto in un primo momento non fossero ancora sostenuti da analisi
             strutturali di livello sistemico. I primi dati sugli omicidi di genere, in-
             fatti, si hanno in Italia nel 2006. Risale soltanto al 1992, d’altra parte,
             anche il conio di una nuova categoria criminologica, il femminicidio,
             che definisce l’atto di violenza definitiva da parte di un uomo con-
             tro una donna perché donna4. Il femminicidio, dal 1992 in poi, non
             è sinonimo di assassinio, ma racconta di una morte che è l’esito di
             atteggiamenti o pratiche sociali misogine: denuncia le responsabilità
             diffuse, sottese o meno, in un tessuto sociale che rende le donne sog-
             getti facilmente subordinabili, su cui sfogare le istanze di controllo
             e potere, magari tenute altrove a freno, nei differenti modi sempre
             violenti, ma più o meno espliciti, più o meno elaborati e perversi
             a seconda delle capacità dell’uomo che esercita questa violenza. Il
             femminicidio, dunque, non è che l’ultimo atto di una penosa tragedia
             che ha solide radici ramificate.
                 Seguire il filo di queste storie di violenza sul terreno giuridico, che
             si concludano o no con la morte della donna vittima, è estremamente
             complesso, dal momento che vengono perpetrati spesso più atti di vio-
             lenza e di diverso tipo contemporaneamente: l’assetto delle norme è
             ancora in evoluzione, nel tentativo di dare risposte a una realtà frasta-
             gliata e stratificata. Bisogna aspettare il 2013 per un decreto legge che
             come tutti i decreti legge sottolinea l’urgenza di interventi specifici
             non più procrastinabili e introduce esplicitamente nell’ordinamento
             legislativo italiano una serie di norme nel tentativo di arginare la vio-
             lenza, di ogni forma, perpetrata sulle donne in quando donne5. Tra

                  4Russell 1992; cfr. anche Spinelli 2008.
                  5Decreto-legge del 14 agosto 2013, n. 93, convertito in legge il 15 ottobre 2013, n. 119:
             “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto alla violenza di genere, non-
             ché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”. Le modifiche hanno
             portato lo sguardo anche sui due ambiti della violenza assistita (cioè la violenza su figure di
             riferimento o significative esperita dal bambino che assiste ai maltrattamenti, direttamente o
             indirettamente: è sufficiente che ne sia a conoscenza) e sul trattamento del maltrattante. Per

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le altre norme, nell’articolo 5 bis del decreto si garantisce prima di
             tutto l’attività dei centri antiviolenza e delle case rifugio, attraverso
             finanziamenti in forma continuata. In questo decreto, poi, per la prima
             volta viene introdotto un concetto di relazione affettiva, più rispettoso
             dei cambiamenti intervenuti nelle dinamiche familiari e interpersonali
             dei nostri giorni: il codice penale dopo il 2013 considera la relazione
             tra due persone senza considerare come dirimenti ai fini di indagine e
             processuali le convivenze o i vincoli matrimoniali, attuali o pregressi:
             una relazione affettiva è una relazione affettiva. Sempre in questa ot-
             tica di aggiornamento e di maggiore sensibilità ai differenti contesti e
             modi di perpetrare violenza, nel 2017 ci si è preoccupati di approvare
             la legge n° 71 per la prevenzione e il contrasto al cyber bullismo, ed
             è stata istituita una Commissione parlamentare, che ha lavorato su Le
             Parole dell’odio6 e ha elaborato un vademecum per arginare le espres-
             sioni che possono risultare lesive o addirittura incitare a forme di raz-
             zismo e sessismo, con una attenzione particolare al web. La violenza
             infatti si fa più sfacciata e strafottente attraverso i canali informatici e
             sui social, dove è possibile condividere in gruppi chiusi (su Facebook
             o Instagram o WhatsApp che siano) foto e video intime di malcapitate
             su cui il branco, sicuro dell’impunità, infierisce in maniera offensiva;
             o dove le stesse foto e video private, a volte elaborate, spesso rubate

             quanto riguarda il maltrattante, si prevede l’ammonimento in modalità preventiva da parte
             del questore, ammonimento che successivamente in caso di processo penale può essere con-
             dizionante: il questore, verbalmente, informa e suggerisce i servizi disponibili nel territorio,
             quali, a seconda della situazione, i Consultori Familiari, i Servizi di Salute Mentale, i Servizi
             per le tossicodipendenze idonei all’intervento sulle dinamiche della violenza domestica. Per i
             servizi sociali si introduce l’obbligo di comunicare (art. 482-quarter) se l’autore del reato di
             maltrattamenti abbia seguito un programma di prevenzione, e con quale esito. Per le vittime
             di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili è prevista la possibi-
             lità di accedere al gratuito patrocinio indipendentemente dal reddito. Priorità nell’accesso e
             trattamento dei processi ai reati di maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale, atti
             sessuali con minori, corruzione di minori e violenza sessuale di gruppo. Sempre per i reati di
             stalking e maltrattamenti in famiglia, le indagini preliminari non potranno superare la durata
             di un anno. Una relazione tra due soggetti, inoltre, è finalmente considerata relazione a pre-
             scindere dalla convivenza o dal vincolo matrimoniale (in atto o pregressi che siano).
                  6 Hate speech, o parole dell’odio: definizione coniata in ambito legislativo negli Stati

             Uniti per parole, metafore, discorsi in genere che sottendono o esplicitano odio e intolleranza.
             La Commissione (Commissione Jo Cox dal nome della deputata presso la Camera dei Comuni
             del Regno Unito, uccisa il 16 giugno 2016) è stata istituita il 10 maggio 2016 (DDL 363 del
             Senato della Repubblica) e ha prodotto la sua relazione finale il 6 luglio 2017.

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con modalità delinquenziali, vengono pubblicate per vendetta o utiliz-
             zate per ricatti (revenge porn).
                 La serie di misure prese a livello istituzionale sembra dimostrare
             sempre più sentita l’urgenza di rispondere alla violenza perpetrata sul-
             le donne in ogni settore della vita sociale, e su un piano che non sia
             soltanto legislativo, per quanto questo sia irrinunciabile, ma molto pri-
             ma, e molto più profondamente, attraverso l’attivazione di reti precoci
             di acculturazione, per formare persone capaci di relazionarsi con se
             stessi, e con gli altri, liberi essi stessi da una mentalità di sopraffazio-
             ne, svalutazione, e reificazione dell’universo femminile.
                 In questa direzione, il passato governo ha messo a punto un Piano
             strategico antiviolenza per il triennio 2017-2020 che insisteva sulla
             necessità di un approccio strutturale: non limitarsi a rispondere alle
             emergenze, perché non si tratta di emergenze; e invece attivarsi per
             lavorare contro una mentalità radicata che produce, alimenta, giu-
             stifica, minimizza la violenza sulle donne. Per contrastare le origini
             culturali della violenza ci si è proposti di lavorare sulla prevenzione
             prima di tutto, poi sulla protezione/sostegno delle vittime, infine sulla
             persecuzione e punizione degli autori di violenza; indispensabili le
             politiche integrate di intervento, monitorate attraverso un sistema di
             raccolta dati omogeneo in grado di valutarne le capacità esecutive.
             Riguardo alla prevenzione, l’obiettivo primario è lavorare in maniera
             concorde all’interno del sistema formativo: sia nel settore scuola, sia
             nell’educazione degli operatori, facendo allo stesso tempo opera di
             sensibilizzazione dei mass media sul ruolo che stereotipi e sessismo
             hanno nel costituirsi della violenza contro le donne. Viene sottolineata
             la necessità di offrire percorsi di rieducazione per gli uomini che mal-
             trattano, come stabilito nel Consiglio di Istanbul7.
                 Riguardo alla protezione e al sostegno delle vittime nel loro per-
             corso di risalita dalla violenza, il Piano ha esteso le previsioni di pro-
             tezione oltre che alle donne anche ai minori e agli eventuali testimoni;
             sono stati annunciati percorsi di sostegno alle donne per la crescita

                 7 Il Consiglio d’Europa dell’11 maggio del 2011, cosiddetto Consiglio di Istanbul dal

             luogo in cui venne firmata la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta
             contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

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della consapevolezza di sé e per il recupero dell’autonomia personale,
             compresa quella economico-lavorativa.
                 Riguardo alle punizioni per gli autori di violenza, l’obiettivo resta
             la massima tutela dei diritti delle donne e dei minori durante le fasi dei
             procedimenti giudiziari, affidando al Consiglio superiore della magi-
             stratura il compito di incentivare la creazione di sezioni specializzate
             per i reati di violenza contro le donne, nel pieno coordinamento tra i
             differenti uffici giudiziari.
                 Trasversale, infine, il lavoro di un comitato tecnico che supporti regio-
             ni, province, comuni, nel coordinamento sul territorio delle reti antivio-
             lenza, in modo che siano garantiti raccordo e continuità tra tutti i servizi.
                 Un Piano ambizioso, giustificato dai vantaggi economici che stu-
             di recenti8 dimostrano essere la diretta conseguenza di una politica di
             prevenzione e contrasto mirata e diffusa sulla violenza contro le donne.
                 Se confrontiamo la situazione odierna a quella di soltanto pochi
             anni fa, dunque, è netta la differenza: ha avuto grande risonanza nel
             2013 l’autobiografia di Malala Yousafzai, diciassettenne Premio No-
             bel per la pace che ha dato voce a quante nascono in società nelle quali
             nascere donna è una condanna, e una colpa da scontare subendo vio-
             lenza; il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti nel dicembre
             2016 ha richiamato in un documento ad hoc i giornalisti all’uso di un
             linguaggio rispettoso e affrancato da pregiudizi e stereotipi; l’esem-
             pio è stato seguito nel 2017 dalle Commissioni pari opportunità della
             Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi) e dell’Unione Sindacale
             Giornalisti Rai (USIGRAI) insieme all’Associazione Giulia e al Sin-
             dacato Giornalisti Veneto, che hanno redatto e firmato il Manifesto
             delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere
             nell’informazione, contro ogni forma di violenza e discriminazione
             attraverso parole e immagini9.

                  8 Cfr. WeWorld Onlus 1 marzo 2017 Violenza sulle donne. Non c’è più tempo. L’Italia,

             tra danni immediati dei maltrattamenti e effetti (pesanti) a lungo termine degli stessi, “paga”
             circa 17 miliardi (stima WeWorld 2013). Investendo 84 milioni (lo 0, 0052% del Pil) nella
             prevenzione o nel contrasto, il guadagno sarebbe di 1 miliardo.
                  9 Documenti tanto più apprezzabili quanto più, nel passaggio dall’assenza totale al mol-

             tiplicarsi delle informazioni in questo campo, le informazioni, spesso ridondanti, superflue,
             aggressive e non pertinenti, sono venute a caratterizzarsi come violente esse stesse.

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