SULL'ETNA viaggiatori dell'Ottocento - Sentieri della Bellezza e ...

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viaggiatori
dell’Ottocento
  SULL’ETNA

  Tratto da “Le Speronare” di Alexandre Dumas

  Traduzione e commenti di Giuseppe Picciolo
SULL'ETNA viaggiatori dell'Ottocento - Sentieri della Bellezza e ...
Viaggiatori dell’Ottocento sull’Etna
Da Alexandre Dumas
                                                           SOMMARIO
E-book                                                     Da Catania a Nicolosi
Traduzione e commenti di
                                                           I Monti Rossi
                                                           Inizia l’ascensione
Giuseppe Picciolo
                                                           La Casa Inglese
                                                           Sul cratere
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                                                         Thomas Cole (1801–1848)
                                                         Dipinto del 1842

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Da: “Le Speronare”                                          di Alexandre Dumas

Da Catania a Nicolosi

Il giorno dopo il nostro arrivo a Catania, dovevamo, ricordo, tentare una salita sull'Etna. Di-
co “tentare” perché è soprattutto in occasione dei progetti che i viaggiatori fanno sulla sali-
ta a questo monte che si può applicare il proverbio: l'uomo propone e Dio dispone. Nulla è
più comune dei curiosi partiti da Catania per salire sul Gibello, come l'Etna è chiamato in
Sicilia; niente di più raro di quei privilegiati che hanno raggiunto il suo cratere. Questo per-
ché, durante nove o dieci mesi dell'anno, la montagna è veramente inaccessibile: fino al 15
giugno è troppo presto; passato il 1 ° ottobre, è troppo tardi.
Eravamo a questo riguardo nelle condizioni adatte, perché siamo arrivati a Catania il 4
settembre; inoltre, tutto il giorno era stato magnifico; nessun vapore, nessuna nebbia, vela-
va l’Etna. Da tutte le strade che abbiamo percorso, l'abbiamo visto, il giorno prima, calmo e
maestoso. Il leggero fumo che scappava dal cratere seguiva la direzione del vento, fluttuan-
te come una banderuola; infine, il sole, che avevamo visto sdraiato dalla cima della cupola
benedettina, era scivolato in un cielo senza nuvole ed era scomparso dietro il villaggio di
Aderno, promettendo per il giorno dopo un tempo non meno bello di quello che era appe-
na trascorso.
Quindi, alle cinque del mattino, la nostra guida ci ha svegliati annunciando un tempo fatto
apposta per noi. Siamo corsi subito alle finestre che si affacciano sull'Etna, e abbiamo visto
balenare la testa colossale del gigante nei vapori biondi del mattino. Le tre regioni da attra-
versare per raggiungere il vertice, la regione coltivata, la regione boschiva, la regione deser-
ta erano perfettamente distinguibili. Contro l'ordinario, il suo cono era completamente spo-

Alexandre Dumas padre (Villers-Cotterêts, 24 luglio 1802 – Dieppe, 5 dicembre 1870) è stato uno scrittore e dram-
maturgo francese. Maestro del romanzo storico e del teatro romantico.

È famoso soprattutto per i capolavori Il conte di Montecristo e la trilogia dei moschettieri formata da I tre mo-
                                                schettieri, Vent'anni dopo e Il visconte di Bragelonne.

                                               Dumas amava molto viaggiare; fu in Russia, Austria, Ungheria,
                                               Germania e venne più volte in Italia. Il primo importante viaggio
                                               in Italia lo compì nel 1835 toccando Genova, Livorno, Roma, Na-
                                               poli, la Sicilia e le Isole Eolie. Il viaggio faceva parte di un progetto
                                               più ampio che aveva per fine la riscoperta delle radici della cultura
                                               Mediterranea. Il progetto fu finanziato da sottoscrittori privati fra
                                               i quali c’era Victor Hugo.

                                               Il viaggio intorno alla Sicilia è descritto nel romanzo intitolato “Le
                                               Speronare” dal nome dell’imbarcazione usata. Nel corso del viag-
                                               gio fu a Messina, Taormina, Catania, Siracusa, Pantelleria, Girgenti
                                               (Agrigento), Palermo. L’equipaggio della Speronara era formato
                                               da marinai del Villaggio Pace nei pressi di Messina, comandati dal
                                               Capitano Giuseppe Arena. Dumas era accompagnato dall’amico
                                               pittore Louis Godefroy Jadin, dal cane Milord e dal cuoco persona-
                                               le Cama.

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gliato della neve.
                                                                Ordinariamente non è a quell’ora che
                                                                si parte, ma volevamo fermarci per
                                                                qualche ora a Nicolosi e visitare il Mon-
                                                                te Rosso, uno delle centinaia di vulcani
                                                                secondari tra i quali si erge la cresta
                                                                del Monte Etna. Inoltre, c'era, mi è sta-
                                                                to detto, a Nicolosi, un certo gentiluo-
                                                                mo, M. Gemellaro, uno studioso mo-
                                                                desto e amabile, che era stato lì per
                                                                cinquant'anni e che sarebbe stato feli-
 Catania e l’Etna intorno al 1840. Di C. Reiss e I.G. Martini   ce di rispondere a tutte le mie doman-
                                                              de. Avevo chiesto una lettera di presen-
                                                              tazione per lui; mi è stato detto che era
inutile e che la sua ospitalità si estendeva a ogni viaggiatore che intraprendeva l'ascensio-
ne, sempre faticosa e spesso pericolosa, che avremmo tentato.
Alle cinque, dunque, dopo aver preso una bottiglia del miglior rum che abbiamo potuto
trovare, cavalcammo i nostri muli e ci avviammo alla volta di Nicolosi. Eravamo ognuno nel
nostro costume ordinario, al quale, nonostante le raccomandazioni del nostro ospite, non
avevamo aggiunto nulla, non potendo credere che dopo aver goduto nella pianura una
temperatura buona per cucinare un uovo, avremmo avuto dieci gradi di freddo sulla mon-
tagna.
Non conosco niente di più bello, più originale, più robusto, più fertile e più selvaggio al
tempo stesso della strada che da Catania conduce a Nicolosi e che attraversa a sua volta
mari di sabbia, oasi di alberi d'arancio, fiumi di lava,
tappeti di raccolta e pareti di basalto. Tre o quattro
villaggi sono sulla strada, poveri, storditi, malati,
affollati di mendicanti, come tutti i villaggi siciliani;
con tutto ciò, hanno nomi sonori e poetici, che risuo-
nano come nomi felici: si chiamano Gravina, Santa
Lucia, Massanunziata; sono cresciuti sulla lava co-
struiti con lava coperti di lava; sbucavano dagli an-
fratti della montagna, come i poveri fiori appassiti
che prima che siano nati un vento tempestoso deve
portare via.
Siamo arrivati a Nicolosi, una piccola cittadina co-
struita sul confine del mondo abitabile. Due o tre mi-
glia dopo Nicolosi si comincia ad entrare in una re-
gione desolata, ma ancora a mezzo miglio si vedono
bellissime piantagioni e una collina coperta di viti.
Qualche fuoco interiore sostituisce parzialmente il La Speronara era un tipo di imbarcazione veloce
calore del sole, che già a questa altezza comincia a e leggera, lunga circa 15 metri, dotata di una
temperarsi? Questo è ancora uno di quei misteri su vela latina.
cui la guida ignorante e il viaggiatore istruito non

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possono dire una parola.
Siamo scesi in uno di quei luoghi che solo la Sicilia ha l'audacia di battezzare con il nome di
“albergo” e, essendo ancora in anticipo, abbiamo inviato, preparando la nostra colazione,
le nostre mappe a Monsieur Gemellaro, chiedendogli il permesso di fargli visita. Il signor
Gemellaro rispose che stava per sedersi a cena e che se volevamo condividere il suo desi-
nare saremmo stati benvenuti. Qualunque fosse l'aspetto del pranzo che ci aspettava e il
nostro desiderio di accettare un'offerta così graziosa, abbiamo avuto la discrezione di rifiu-
tarla e siamo diventati sobri fino a che non ci siamo accontentati del pasto presso la locan-
da. Era un'azione meritoria e degna di essere confrontata con i digiuni più forti dei padri
del deserto.
Dopo una magra colazione, abbiamo ordinato alla nostra guida di cercare un paio di polli o
una mezza dozzina di piccioni, stirargli i colli, tagliarli e arrostirli. Era il nostro cibo per il
pranzo per il giorno successivo; con questa precauzione, proseguimmo verso la casa di
Monsieur Gemellaro, la più imponente di tutto il villaggio. Il servo fu informato e ci intro-
dusse nello studio, dove il suo maestro ci stava aspettando. Dopo aver visto M. Gemellaro,
ho pronunciato un grido di sorpresa mescolato alla gioia: era lo stesso che, a Aci-Reale, ci
aveva indicato con tanta gentilezza la via della grotta di Polifemo.
«Ah! Siete voi» ci disse quando ci vide «sospettavo che avrei rivisto vecchie conoscenze.
Ogni viaggiatore che mette piede in Sicilia appartiene a me per diritto; deve passare da qui.
Avete trovato la vostra grotta?» «Perfettamente, signore, grazie alla vostra gentilezza, che
abbiamo nuovamente messo alla prova.»

Mario Gemmellaro (Nicolosi, 1773 –1839) è stato naturalista e geologo.
Lo zio Raimondo Gemellaro lo introdusse presto nello studio delle scienze naturali assieme al fratello minore, Car-
lo.
A Nicolosi occupò varie cariche pubbliche: fu giudice conciliatore e giudice supplente fino alla morte. Difensore dei
contadini contro le pretese feudali fece realizzare una serie di importanti opere pubbliche incluso un sistema di
parafulmini sulle cime montuose che circondano la cittadina e promosse la diffusione dell’istruzione introducendo
nel 1821 le scuole lancasteriane.
Il suo principale interesse furono le ricerche sull'Etna, iniziate già intorno all'anno 1800. Nel 1804, con la partecipa-
zione di J. Ochocorne, vicecomandante delle forze britanniche nel Mediterraneo e vulcanologo dilettante, costruì
una piccola casa, detta "Gratissima" sull'orlo della lava dell'eruzione del 1787, oltre quota 2940. Sette anni dopo,
grazie anche al finanziamento del comandante delle forze inglesi a Messina, Lord Forbes, costruì un'altra casa più
ampia e confortevole, la "Casa Inglese" o "Casa di Gemmellaro". La "Casa Inglese" rappresentò il primo Osservato-
rio Scientifico ad alta quota esistente al mondo per lo studio dei fenomeni vulcanici. I due edifici divennero poi il
nucleo dell'Osservatorio vulcanologico dell'Etna.
Gemellaro studiò tutti gli aspetti dell’attività del vulcano e la sua struttura dimostrando che esso è un agglomerato
di tanti piccoli vulcani che hanno in comune la camera magmatica.
Venne accolto in diverse accademie: nell’Accademia Gioenia di Catania, nell'Istituto Colombiano di Washington,
nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli ed in quella di Palermo.

Gli scritti rimasti del Gemellaro sono: Giornale dell'eruzione dell'Etna avvenuta alli 27 ottobre 1801, pubblicato da
W. Sartorius von Waltershausen, Der Aetna, I-II, Leipzig 1880; Memoria dell'eruzione dell'Etna avvenuta nell'anno
1809, Messina 1809 (2a ed., Catania 1820); Giornale dell'eruzione dell'Etna avvenuta alli 27 maggio 1819, Catania
1819.

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«Ai vostri ordini, signori», rispose il signor Gemellaro, mettendosi in moto per sedersi, «e
devo dire che se volete informazioni sul paese, non avete di meglio che parlare con me».
Infatti, il signor Gemellaro viveva da sessant'anni nel paese di Nicolosi, dove è nato, e l'oc-
cupazione della sua vita era di osservare il vulcano che aveva costantemente davanti ai suoi
occhi. Per sessant'anni la montagna non aveva fatto un movimento, che il signor Gemellaro
non avesse cominciato a studiare; il cratere non era cambiato durante di forma, che il si-
gnor Gemellaro non l'avesse disegnato nel suo nuovo aspetto; infine, il fumo non si era ad-
densato o volatilizzato una volta, che il signor Gemellaro non avesse tratto dalla sua debo-
lezza o dalla sua forza previsioni che non fossero state confermate. In breve, il signor Ge-
mellaro è Empedocle moderno; solo, più saggio dell’antico. Così il signor Gemellaro cono-
sce il suo Etna a menadito. Per tremila anni la montagna non ha eruttato lava della quale il
signor Gemellaro non abbia un campione.

Carl Rottmann 1830

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I Monti Rossi

Dall'eruzione del 1781, l'Etna ha avuto solo qualche leggera inclinazione a sconvolgere la
Sicilia; ma poiché questi capricci non hanno conseguenze gravi, è lecito pensare che ciò che
ha fatto è solo per rispetto di se stesso e per preservare la sua reputazione di vulcano.
Di tutte le sue eruzioni, una delle più terribili fu quella del 1669. Poiché l'eruzione del 1669
lasciò il Monte Rosso e il Monte Rosso è a mezzo miglio a sinistra di Nicolosi, ci siamo mes-
si sulla strada, Jadin ed io, per visitare il cratere, dopo aver promesso al signor Gemellaro di
essere a cena con lui.
Prima di tutto, bisogna sapere che l'Etna si considera troppo al di sopra dei normali vulcani
per comportarsi come loro; Il Vesuvio, lo Stromboli, l'Hecla stesso, versano la lava dalla ci-
ma del loro cratere, come il vino che trabocca da un bicchiere troppo pieno. L'Etna non ha
tanti problemi. Il suo cratere è solo una sorta di cratere di cerimonia, che si accontenta di
giocare a coppa e pallone con rocce incandescenti grandi come case normali, che noi se-
guiamo nella loro ascesa aerea, come si potrebbe seguire una bomba che emerge da un
mortaio; ma, durante questo periodo, la forte eruzione sta effettivamente accadendo altro-
ve. Infatti, quando l'Etna è al lavoro, spinge semplicemente sul retro, in un punto o nell'al-
tro, una specie di bolla delle dimensioni di Montmartre; poi la bolla scoppia, e viene fuori
un fiume di lava che per la sua pendenza, si dirige verso il basso, bruciando o investendo
tutto ciò che trova lungo il suo corso, e alla fine si getta in mare. E L'Etna è ricoperto da una
quantità di piccoli crateri che hanno formato come immensi mucchi di fieno; ognuno di es-
si ha la sua data e il suo nome particolare, e tutti hanno fatto, nel loro tempo, più o meno
rumore e più o meno danni.

   Jean-Pierre Houël Veduta dei Monti Rossi

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Il Monte Rosso è, come abbiamo detto, il primo grado di questa aristocrazia secondaria;
sarebbe, in qualsiasi altro luogo, una montagna molto carina, alta novecento piedi, cioè
tre volte più alta delle torri di Notre-Dame. Il vulcano deve il suo nome al colore delle sco-
rie di cui è formato; vi si sale con una pendenza abbastanza facile, e alla fine di una
mezz'ora di salita, si è sul bordo del suo cratere.
È come una specie di saliera, che si offre allo sguardo con un'aria di bonomia e perfetta
tranquillità. Anche se non c'è un sentiero praticabile, si può raggiungere il fondo con delle
corde; la sua profondità può essere di duecento piedi e la circonferenza di cinque o seicen-
to.
È da questa bocca, ora muta e fredda, che nel 1669 venne una tale pioggia di pietre e cene-
ri che letteralmente, durante tre mesi, oscurò il sole, e il vento la trasportò fino a a Malta.
La violenza dell'eruzione fu tale che una roccia lunga una quindicina di metri fu sollevata a
mille passi dal cratere da cui era emersa, e affondò, per una profondità di venticinque pie-
di. Alla fine la lava apparve a sua volta, ribollì verso l'orifizio, traboccò sul pendio meridio-
nale e, lasciando Nicolosi alla sua destra e Boriello alla sua sinistra, cominciò a scorrere,
non come un torrente, ma come un fiume di fuoco; coprì con le sue onde infuocate i villag-
gi di Campo Rotondo, San Pietro e Gigganeo, e si gettò nel porto di Catania, spingendo con

Eruzione del 1669. La colata lavica illustrata nel dipinto del pittore Giacinto Platania, testimone oculare dell'evento.
Affresco nel Duomo di Catania

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il suo fronte una parte della città.
Cominciò una lotta orribile tra acqua e fuoco; il mare, dapprima respinto, cedette e riti-
rò scoprendo all'occhio umano le sue profondità. I vascelli vennero bruciati nel porto,
grandi pesci morti galleggiavano sulla superficie dell'acqua; poi, come se fosse furioso per
la sua sconfitta, il mare a sua volta tornò ad attaccare la lava. Il combattimento durò due
settimane; infine, la lava vinta si fermò e dallo stato fuso cominciò a passare allo stato
compatto. Per altri quindici giorni il mare rimase ancora ribollendo, occupato a rinfrescare
la nuova spiaggia che era stata costretto ad accettare, e poi, a poco a poco, le bolle si spen-
sero. Ma l'intera campagna fu devastata, tre villaggi furono distrutti. Catania fu distrutta
per tre quarti e il porto fu riempito per metà.
Dalla cima del Monte Rosso o piuttosto Monti Rossi (perché la montagna è divisa in due
vette come il Vesuvio), vediamo questa scia di lava, lunga cinque leghe, a volte larga tre, e
che in quasi due secoli ha coperto solo due pollici di terra. Dal punto in cui mi trovavo, alla
mia destra e alla mia sinistra, davanti e dietro di me, all'orizzonte che il mio occhio poteva
abbracciare, ho contato ventisei montagne, tutte prodotte da eruzioni vulcaniche, e di for-
ma e altezza simile a quella sulla quale mi trovavo.
Mentre guardavo intorno a me, vidi ai piedi di un altro vulcano spento le rovine di quel fa-
moso convento di San Nicola il vecchio, dove il conte di Weder era stato così ben accolto
da Dom Gaetano; un luogo che conservava tali ricordi meritava sotto ogni aspetto la nostra
visita. Quindi, appena scesi dai Monte-Rossi, ci dirigemmo verso il convento.
Si tratta di un edificio edificato, secondo Fazello, del conte Simone, nipote di Ruggero il
Normanno, il più popolare conquistatore di tutta la Sicilia, e ancora noto a tutti i contadini
con il nome di Ruggieri. Alcuni studiosi affermano che questo monastero si trova sul sito
dell'antica città di Inessa; è vero che altri studiosi sostengono che l'antica città di Inessa
sorgesse sul lato opposto dell'Etna. Dissertavano su questo argomento i volumi di studiosi
di Catania, Taormina e Messina, e il fatto rimaneva un po 'più oscuro di prima, tanto aveva
ciascuno fornito una prova eccellente a sostegno della sua opinione.
Questo convento, dove, secondo le intenzioni del loro pio fondatore, i Benedettini furono
condannati a vivere esposti alle devastazione del vulcano che le loro preghiere dovevano
allontanare, non è altro che una rovina. Il meglio conservato è la cappella e la famosa sala
dove il conte di Weder, novello Faust, ha partecipato al Sabbat di Gaetano-Mefistofele. Un
altopiano che domina il monastero non è altro che una massa di lava strappata a voragini
profonde, e dalla cui cima si domina un anfiteatro di crateri estinti.
Erano le quattro di sera; dovevamo cenare alle quattro e mezza dal nostro eccellente ospi-
te, il signor Gemellaro; così tornammo a casa con ancora più velocità, poiché la colazione
del mattino ci aveva resi meravigliosamente predisposti a un secondo pasto. Abbiamo tro-
vato il tavolo ammirevolmente imbandito.
Monsieur Gemellaro era uno di quegli scienziati che amo, che imparano sperimentando,
che odiano ogni teoria e parlano solo di ciò che hanno visto. Durante tutta la cena, la con-
versazione rotolò sulla montagna del nostro ospite. Dico la montagna del nostro ospite,
perché Monsieur Gemellaro è convinto che l'Etna sia sua, e sarebbe molto sorpreso se un
giorno Sua Maestà il Re delle Due Sicilie accampasse qualche pretesa.

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Eruzione dell’Etna del 1669

L'eruzione dell'Etna del 1669 è considerata la più devastante in epoca storica: ebbe inizio in primavera e si concluse a metà
luglio dello stesso anno. Devastò e seppellì decine di centri abitati giungendo fino al mare in corrispondenza dei quartieri occi-
dentali di Catania. Oltre a Catania i comuni più direttamente interessati furono: Nicolosi, Belpasso, San Pietro Clarenza, Cam-
porotondo, Misterbianco, Mascalucia, Gravina.

In seguito all'eruzione la morfologia di tutta l'area sud del vulcano subì notevoli trasformazioni. Alla quota di circa 1000 m
s.l.m. si formarono i due caratteristici coni gemelli detti Monti Rossi. Tra essi e il Monte della Nocilla si formarono 15 conetti
ed altri 6 coni avventizi nei pressi di quest'ultimo. Nei pressi del Monte Fusaro rimane a tutt'oggi la fenditura di scorrimento
detta Fossa della Palomba. Molte delle vallate furono colmate dai pro-
dotti piroclastici ed altre come il Piano Tavola, trasformate in vasti pia-
nori. Fu parzialmente seppellito il fiume Amenano che scavò un nuovo
letto nel sottosuolo. Il Castello Ursino di Catania, costruito in prossimità
del mare, venne circondato dalla lava, perdette il fossato cinquecentesco
e si trovò allontanato dalla costa da oltre un chilometro di lava. Venne
modificata profondamente la linea di costa a sud della città di Catania in
seguito all'accumulo di arenile a ridosso del nuovo contrafforte lavico.
Persero del tutto la prospettiva in elevazione le mura cittadine per tutto
l'arco da nord ad ovest e fino alla parte sud. Scomparvero anche molte
tracce degli insediamenti di tutte le epoche precedenti, come i cosiddetti
Circo Massimo e la Naumachia, strutture di presunta origine romana.

                                                   Etna 10 Viaggiatori
Inizia l’ascensione
Dopo cena, M. Gemellaro chiese che precauzioni avevamo preso per arrivare sull'Etna: gli
dissi che le precauzioni erano limitate all'acquisto di una bottiglia di rum e alla cottura di
due o tre polli. . Monsieur Gemellaro poi guardò i nostri costumi, e vedendo Jadin con la
sua giacca e me con la mia giacca di tela, ci chiese, rabbrividendo, se non avevamo né vesti
né cappotti. Abbiamo risposto che avevamo assolutamente per il momento solo ciò che era
sul nostro corpo. «Ecco i francesi», mormorò il signor Gemellaro, «non c’è un tedesco o un
inglese che si imbarchi così. Aspetta, aspetta», e lui ci recuperò due grandi cappotti con
cappuccio, come i nostri cappotti militari, assicurandoci che non avremmo fatto due leghe
al di là di Nicolosi, per rendere omaggio alla sua preveggenza.
La conversazione durò fino alle nove di sera; poi la nostra guida con i nostri muli bussò alla
porta. Gli abbiamo chiesto se fosse riuscito a procurare qualcosa da mangiare: lui ha rispo-
sto mostrandoci quattro di quei polli sfortunati, che esistono solo in Italia e che quattro di
loro non valgono un buon piccione. Inoltre aveva comprato due bottiglie di vino, pane, uva
e pere; con quello c'era abbastanza per fare in tutto il giro del mondo.
Abbiamo montato i nostri muli e siamo partiti in una notte che ci apparve, venendo da una
stanza ben illuminata, di una spaventosa oscurità; ma a poco a poco cominciammo a distin-
guere il paesaggio, grazie al bagliore delle miriadi di stelle che punteggiano il cielo.
Ci sembrava, da come i nostri muli affondavano sotto di noi, che stavamo attraversando

 L’Etna ritratto da Thomas Cole nel 1842

                                           Etna 11 Viaggiatori
delle sabbie. Presto siamo entrati nella seconda regione, o nella regione delle foreste, se
però i pochi alberi, sparsi, maligni e contorti, che coprono il terreno, meritano il nome della
foresta. Abbiamo camminato per circa due ore, seguendo con fiducia il percorso in cui la
nostra guida, o meglio i nostri muli, ci portavano, un sentiero che sembrava spaventosa-
mente ruvido.
Già dopo un'ora avevamo riconosciuto l'accuratezza delle previsioni di M. Gemellaro, relati-
ve al freddo, e avevamo indossato le nostre cappuccio, quando arrivammo in una specie di
casa senza tetto, dove i nostri muli si fermarono. Eravamo arrivati alla Casa del Bosco o
della Neve. Era, disse la nostra guida, il nostro luogo di riposo. Al suo invito, abbiamo
smontato e siamo entrati.
La Casa della Neve era come un preludio alla desolazione che ci aspettava. Senza un tetto,
senza tapparelle e senza porte, non offriva alcun riparo oltre le sue quattro pareti. Fortuna-
tamente la nostra guida aveva una piccola ascia, e ci ha portato un fascio di legna; abbiamo
subito usato l'accenditore fosforico e abbiamo acceso un grande fuoco. Capimmo che era
benvenuto, quando abbiamo appreso da un piccolo termometro da tasca che avevamo con
noi che la temperatura era già scesa di 18 gradi rispetto a Catania.
Una volta che il nostro fuoco fu acceso, la nostra guida ci invitò a dormire e ci lasciò per
prendersi cura dei nostri muli. Abbiamo cercato di seguire i suoi consigli, ma siamo stati
svegli come topi e non abbiamo potuto chiudere gli occhi. Abbiamo integrato il nostro son-
no con alcuni bicchieri di rum. Alle dodici, la nostra guida ci invitò a tornare sui nostri muli.

Da: Viaggio in Italia
Johann Wolfgang von Goethe
Traduzione dal tedesco di Eugenio Zaniboni, 1903

Catania, sabato 5 maggio 1787
Seguendo questo buon consiglio, la mattina per tempo ci siam messi in cam-
mino e rivolgendoci sempre a guardare indietro, dall’alto dei nostri muli, ab-
biam raggiunto la zona delle lave non ancora domate dal tempo. Blocchi e
lastre frastagliate ci presentavano le loro masse irrigidite, attraverso le quali
le nostre cavalcature si aprivano a caso un sentiero. Giunti alla prima vetta
d’una certa importanza, abbiamo fatto sosta. Il Kniep ha riprodotto con gran-
de esattezza ciò che si presentava innanzi a noi dalla parte della montagna: le
masse di lava in primo piano, le vette gemelle dei Monti Rossi a sinistra, e di
rimpetto a noi la selva di Nicolosi, sopra la quale si ergeva il cono dell’Etna
ricoperto di neve e leggermente fumante. Ci siamo accostati ancor più sotto i
Monti Rossi ed io ne ho raggiunto una cima: è tutta un ammasso di rottami vulcanici di color rosso, di cenere e di
lapilli. Avrei potuto girare senza difficoltà intorno al cratere, se un impetuoso vento di burrasca non avesse reso
mal sicuro ogni passo innanzi; per procedere un poco, avrei dovuto togliermi il mantello; ma il cappello era sem-
pre in pericolo di volare entro il cratere, ed io dietro a lui. Perciò mi posi a sedere, per riavermi un po’ e per con-
templare il paesaggio, ma anche questa posizione non giovò a nulla; la burrasca veniva proprio da oriente, co-
prendo la magnifica regione che si stendeva ai miei piedi in lungo e in largo fino al mare. Avevo sott’occhio tutta la
distesa della spiaggia da Messina a Siracusa, con le sue insenature e i suoi golfi, ora completamente libera, ora un
po’ nascosta da qualche scoglio sulla riva. Come fui ridisceso, tutto stordito, trovai il Kniep, che sotto una tettoia
aveva impiegato bene il suo tempo, fissando a rapide linee sulla carta quello che la furia dell’uragano, non che
imprimermi nella mente, m’aveva a mala pena lasciato travedere.

                                               Etna 12 Viaggiatori
La Casa Inglese
Durante la nostra sosta, il cielo si era arricchito di una mezzaluna, che, per quanto tenue,
era sufficiente per far luce. Continuammo per un quarto d'ora più o meno in mezzo agli al-
beri, che diventavano sempre più rari e che finalmente scomparvero del tutto. Eravamo ap-
pena entrati nella terza regione dell'Etna e sentivamo, dal passo dei nostri muli, quando
passavano sopra la lava, quando attraversavano le ceneri, o quando battevano una specie
di muschio, l'unica vegetazione che sale fino a quell’altezza. Per quanto riguarda gli occhi,
erano di nessuna utilità, il terreno ci appariva più o meno colorato, ma senza essere in gra-
do, a causa dell'oscurità, di distinguere alcun dettaglio.
Tuttavia, mentre salivamo, il freddo era diventato più intenso e nonostante i nostri pastrani,
siamo stati congelati. Questo cambiamento di temperatura aveva sospeso la conversazione
e ognuno di noi, concentrato in se stesso, come se mantenesse il suo calore, avanzava in
silenzio. Camminavo in testa e, se non riuscivo a vedere la terra su cui stavamo avanzando,
potevo distinguere perfettamente gigantesche scarpate e picchi immensi, che erano come
giganti e le cui silhouette nere si disegnavano sull’azzurro scuro del cielo. Più avanzavamo,
più queste apparizioni assumevano aspetti strani e fantastici; si capiva bene che la natura
non aveva fatto queste montagne in questo modo e che era stata una lunga lotta tra titani
che le aveva spogliate. Eravamo sul campo di battaglia dei titani; risalivamo Pelio accatasta-
to su Ossa.
Tutto era terribile, scuro, maestoso. Vedevo e sentivo perfettamente la poesia di questo
viaggio notturno, eppure era così freddo che non ho avuto il coraggio di scambiare una pa-
rola con Jadin per chiedere se tutte queste visioni non erano il risultato di intorpidimento
dei sensi, o se non avessi sognato. Di tanto in tanto strani rumori sconosciuti, diversi da uno
qualsiasi dei rumori che si sentivano solitamente, arrivavano dalle viscere della terra, che
sembravano lamentarsi come un essere animato. Questi rumori avevano qualcosa di inatte-
so, doloroso e solenne, che faceva rabbrividire. Spesso, a questi rumori, i nostri muli fer-
mandosi brevemente, avvicinavano le loro narici aperte e fumanti al terreno e poi alzavano
la testa, nitrendo tristemente, come a voler fare intendere che comprendevano la grande
voce della solitudine, ma che non volevano scrutare oltre i suoi misteri.
Continuavamo a salire, e il freddo diveniva sempre più intenso; avevo appena la forza di
portare il mio fiasco di rum alla bocca. Inoltre, questa operazione doveva essere seguita da
un'operazione ancora più difficile, che consisteva nel ritappare il fiasco; le mie mani erano
così gelate che non avevano più la percezione di oggetti che toccavano ei miei piedi erano
così pesanti che mi sembrava di indossare un'incudine alla fine di ogni gamba. Infine, sen-
tendo che mi stavo intorpidendo, ho fatto uno sforzo su di me, ho fermato il mio mulo e so-
no smontato. Durante questa evoluzione ho visto Jadin passare sul suo mulo. Gli ho chiesto
se non avrebbe fatto quanto avevo fatto io; ma, senza rispondermi, scosse la testa in segno
di rifiuto e continuò a camminare.
All'inizio non potevo camminare; mi sembrava di mettere i piedi nudi su migliaia di spine.
Ebbi quindi l'idea di aiutarmi con il mio mulo, e lo presi per la coda; ma esso apprezzava
troppo il vantaggio che aveva di sbarazzarsi del suo cavaliere da non tentare di preservare
la sua indipendenza. Non appena sentì il contatto delle mie mani scalciò da dietro con le
sue due gambe; uno dei suoi piedi ha raggiunto la coscia e mi ha gettato a dieci metri di di-
stanza. La mia guida è venuta a soccorrermi.

                                     Etna 13 Viaggiatori
Non avevo niente rotto; inoltre l’emozione aveva in qualche modo ripristinato la circolazio-
ne del sangue. Non sentivo quasi dolore, però, dalla mia caduta, mi è stato chiaramente
mostrato che il colpo era stato violento. Cominciai a camminare e mi sentii meglio. Dopo
cento passi ho trovato Jadin che mi stava aspettando. Il mulo, che l'aveva raggiunto senza
di me né la guida, gli aveva detto che mi era successo qualcosa. Lo rassicurai e continuam-
mo il nostro cammino; lui e la guida sul mulo, io a piedi. Erano le due del mattino.
Abbiamo camminato per circa tre quarti d'ora su strade ripide e robuste e poi ci siamo tro-
vati su un pendio delicatamente inclinato, dove attraversavamo di tanto in tanto grandi
pozze di neve in cui sprofondavo fino a metà gamba, e che alla fine sono diventate conti-
nue. Finalmente la volta scura del cielo cominciò a svanire, un debole crepuscolo illuminò il
terreno su cui stavamo camminando, portando un'aria ancora più ghiacciata di quella che
avevamo respirato fino ad allora. In questo luccichio tenue e dubbioso, abbiamo visto da-
vanti a noi qualcosa come una casa; ci siamo avvicinati, Jadin al trotto del suo mulo, e io
correndo il più possibile. La guida spinse una porta e ci ritrovammo nalla Casa Inglese, co-
struita ai piedi del cono per il massimo sollievo dei viaggiatori.
Il mio primo grido fu per chiedere del fuoco, ma era uno di quei desideri istintivi che è più
facile formarsi che vedere compiuti; gli ultimi limiti della foresta sono a due leghe dalla ca-
sa, e nei dintorni completamente invasi da lava, ceneri o neve, non cresce un'erba, non una
pianta. La guida illuminò una lampada che si trovava in un angolo, chiuse la porta il più
stretto possibile e ci disse di riscaldarci al meglio avvolgendoci nei nostri pastrani e di man-
giare qualcosa mentre guidava i muli nella stalla.
Poiché, nel complesso, la cosa migliore da fare era uscire dallo stato di torpore nel quale
eravamo, abbiamo cominciato a battere le suole nel nostro meglio, io e Jadin. In casa, il ter-
mometro segnava 6 gradi sotto zero: era una differenza di 41 gradi con la temperatura di
Catania.
La nostra guida tornò, riportando una manciata di rami secchi e di paglia, che senza dubbio
dovevamo alla munificenza di un inglese, il nostro predecessore. Infatti, talvolta è accaduto
che questi meritevoli isolani, sempre perfettamente informati delle precauzioni da prende-
re, assumano un altro mulo e, attraversando la foresta, lo caricano di legna. Così poco An-

                 La Casa Inglese.

                                      Etna 14 Viaggiatori
glomane come sono, tuttavia è un consiglio che darò a coloro che vorrebbero fare lo stesso
viaggio. Un mulo costa una piastra, e so che avrei dato dieci luigi per un fuoco con tutto il
cuore.

L'apparenza di questo fuoco, così breve come era, ci riportava il nostro coraggio. Ci siamo
avvicinati come se lo volessimo divorare, estendendo i nostri piedi in mezzo alla fiamma;
poi, un po rinfrancati, siamo andati a colazione.
Tutto era congelato, pane, polli, vino e frutta; solo il nostro rum era rimasto intatto. Abbia-
mo divorato due polli, abbiamo dato il terzo alla nostra guida e abbiamo mantenuto il
quarto per la fame che verrà. Quanto ai frutti, era come se avessimo morso nel ghiaccio;
abbiamo bevuto un rum invece di dessert, e ci siamo trovati un po’ ristorati.
Erano le tre del mattino; la nostra guida ci ha ricordato che avevamo ancora almeno tre
quarti di un'ora di salita, e che se volevamo arrivare sulla cima del cono per l'alba, non c'e-
ra tempo da sprecare.

 Jacob Philipp Hackert 1778

                                     Etna 15 Viaggiatori
Sul cratere

Abbiamo lasciato la casa inglese. Gli oggetti stavano cominciando a essere distinguibili:
tutto intorno a noi giaceva una vasta pianura di neve, nel mezzo della quale, con un angolo
di circa quarantacinque gradi, si alzava il cono dell'Etna. Sotto di noi tutto era nell'oscurità;
solo a est, una leggera ombra di opale colorava il cielo su cui si ergevano le montagne della
Calabria.
A cento passi oltre la casa inglese, abbiamo trovato le prime onde di un altopiano lavico
che imprimeva il suo colore nero nella neve, da cui emergeva come un'isola scura. Abbia-
mo dovuto salire su queste onde solide, saltare da una all'altra, come avevo già fatto Cha-
mouny sul Mer de glace, con la differenza che i bordi tagliati tagliavano la pelle delle nostre
scarpe e ci strappavano i piedi. Questo tratto del viaggio, durato un quarto d'ora, è stato
uno dei più dolorosi di tutto il percorso.
Arrivammo finalmente ai piedi del cono, che, sebbene salendo tredici metri sopra l'altopia-
no dove eravamo, era completamente spogliato della neve, o l'inclinazione era troppo
grande per il fermarsi della neve o il fuoco dentro non lasciava che i fiocchi restassero sulla
sua superficie. È questo cono, eterno mobile, che cambia forma con ogni nuova eruzione,
che cade nel vecchio cratere e si riforma con un nuovo cratere.
Abbiamo cominciato a salire su questa nuova montagna, tutta composta da un terreno fria-
bile mescolato a pietre che si sgretolavano sotto i nostri piedi e rotolavano dietro di noi. In
certi luoghi, la pendenza era così ripida che, con le punte delle nostre mani e senza piegar-
ci, toccavamo il pendio; inoltre, mentre salivamo, l'aria è diventava scarsa e sempre meno
respirabile. Ricordai tutto quello che Balmat mi aveva detto durante la sua prima ascesa al
Monte Bianco, e cominciavo a sperimentare gli stessi effetti. Anche se eravamo già circa
mille piedi sopra le nevi eterne e dovevamo salire ancora ad un'altezza di ottocento piedi, il
mantello che avevo sulle mie spalle diventò insopportabile e sentivo l'impossibilità di in-
dossarlo più a lungo; mi pesava come uno di quei cappelli sotto i quali Dante vide, nel sesto
cerchio dell'inferno, gli ipocriti schiacciati.
Così l'ho lasciata andare sulla strada, non avendo il coraggio di trascinarla ulteriormente e
lasciandola alla mia guida per farla passare; presto fu così con il personale che portavo in
mano e con il cappello che avevo sulla mia testa. Questi due oggetti, che ho abbandonato
in successione, rotolavano alla base del cono e si fermarono solo sulla lava, così ripida era
la pendenza. Da parte sua, vidi Jadin, che si stava liberando di tutto ciò che il suo costume
gli sembrava offrire di superfluo, e che ogni tanto si fermava per prendere il respiro.
Eravamo circa un terzo della salita; l'est diventa più chiaro e leggero; la paura di non arriva-
re in cima al cono in tempo per vedere l'alba ci ha dato tutto il nostro coraggio e ci siamo
ripresi, senza fermarci a guardare l'immenso orizzonte che, ad ogni passo, ancora si allarga-
va sotto i nostri piedi; ma più avanzavamo, più le difficoltà aumentavano; ad ogni passo il
pendio diventava più ripido, la terra più friabile e l'aria più rarefatta.
Presto, alla nostra destra, cominciammo a sentire ruggiti sotterranei che attirarono la no-
stra attenzione. La nostra guida si avvicinò davanti a noi e ci condusse ad una fenditura da
cui usciva un grande rumore, spinto da una corrente d'aria interna, un fumo spesso e zolfo.
Mentre ci avvicinavamo ai bordi di questa fessura, abbiamo visto, in una profondità che
non potevamo misurare, un liquido fondente rosso e incandescente; e quando giravamo i
piedi, la terra risonava in lontananza come un tamburo. Fortunatamente l’aria era perfetta-

                                      Etna 16 Viaggiatori
mente calma, perché se il vento avesse spinto questo fumo dalla parte nostra, ci avrebbe
soffocato, tanto portava con esso un terribile odore di zolfo.
Dopo una pausa di qualche minuto ai margini di questa fornace, andammo sulla strada. Co-
minciai a gonfiarmi nella mia testa, come se il sangue uscisse attraverso le mie orecchie, e
l'aria, che stava diventando sempre meno respirabile, mi fece pensare che il respiro mi sa-
rebbe mancato del tutto. Volevo sdraiarmi per riposare un po', ma la terra esalava un tale
odore di zolfo, che era necessario rinunciare. Ebbi l'idea di mettere la mia cravatta sulla
bocca e respirare attraverso il tessuto: e questo mi è stato di sollievo.
Comunque, poco a poco, eravamo arrivati a tre quarti della salita, e vedevamo a solo poche
centinaia di metri sopra le nostre teste il vertice della montagna. Abbiamo fatto un ultimo
sforzo, e mezzo in piedi, mezzo su tutti e quattro, ci siamo alzati per salire su questo breve
spazio, non osando guardare sotto di noi per paura che la testa ci avrebbe frastornato, così
ripido era il pendio. Finalmente Jadin, che era qualche passo davanti a me, fece un grido di
trionfo: era arrivato e si trovava di fronte al cratere; pochi secondi più tardi, ero vicino a lui.
Eravamo letteralmente tra due abissi.
Una volta lì, e non avendo più bisogno di fare movimenti violenti, cominciammo a respirare
con maggiore facilità; inoltre, la vista che avevamo davanti era così impressionante che di-
sperse il nostro disagio, comunque grande.
Ero davanti al cratere immenso, di ben otto miglia in circonferenza e nove centimetri di
profondità; le pareti di questo scavo erano dall'alto verso il basso coperte da materiali sca-
rificati di zolfo e allume. Fondamentalmente, per quanto abbiamo potuto vedere dalla di-
stanza alla quale eravamo in piedi, c'era una materia che bolliva, e da questo abisso si alza-
va un fumo sottile e tortuoso, come un serpente gigantesco che si appoggiava sulla coda . I
bordi del cratere erano tagliati irregolarmente e più o meno elevati. Siamo stati in uno dei
punti più alti.
La nostra guida ci ha lasciato per un attimo tutto questo spettacolo, trattenendoci di tanto
in tanto per la nostra giacca quando ci avvicinavamo troppo al bordo, perché la pietra è co-
sì friabile che potrebbe mancare sotto i piedi e che ripeterebbe lo scherzo di Empedocle;
poi ci ha invitati a muoverci a circa venti metri dal cratere, per evitare qualsiasi incidente e
per guardare intorno a noi.
L'Oriente, che dal colore opale che avevamo notato lasciando la casa inglese si era trasfor-
mato in una rosa morbido, era ora inondato dalle fiamme del sole, il disco che si stava co-
minciando a vedere sotto i monti della Calabria. Sul fianco di queste montagne blu scuro e
uniforme, villaggi e città si distinguevano come piccoli punti bianchi. Lo Stretto di Messina
sembrava un semplice fiume, mentre a destra e a sinistra si vedeva il mare come un enor-
me specchio. A sinistra, questo specchio era macchiato di diversi punti neri: questi puntini
neri erano le isole dell'arcipelago Lipariote. Di tanto in tanto una di queste isole brillava co-
me un faro intermittente; era Stromboli, che stava lanciando fiamme. Ad Occidente, tutto
era ancora nell'oscurità. L'ombra dell'Etna si proiettava su tutta la Sicilia.
Per tre quarti d'ora, lo spettacolo aumentò solo in magnificenza. Ho visto il sole sorgere sul-
le Righi e sul Faulhorn, questi due titani della Svizzera: niente è paragonabile a quello che
vediamo dalla cima dell'Etna. Calabria, dal Pizzo al Capo degli Armi, lo stretto da Scilla a
Reggio, il Mar Tirreno e il Mar Ionio; a sinistra, le isole Eolie, che sembrano a portata di ma-
no; a destra, Malta, che galleggia all'orizzonte come una nebbia; intorno a sé, tutta la Sici-

                                       Etna 17 Viaggiatori
lia, vista in linea d'aria, con le sue insenature, promontori, porti, baie; le sue quindici città, i
suoi trecento villaggi; le sue montagne che sembrano colline; le sue valli, dove passano i
solchi degli aratri; i suoi fiumi, che appaiono fili d'argento, quando in autunno scendono
dal cielo sull'erba dei prati; infine, l'immenso cratere, ruggente, pieno di fiamme e di fumo;
sulla sua testa il cielo, sotto i suoi piedi inferno; un tale spettacolo ci ha fatto dimenticare
tutto, fatica, pericolo, sofferenza. Ammiravo interamente, senza restrizioni, in buona fede,
con gli occhi del corpo e gli occhi dell'anima. Non avevo mai visto Dio così vicino, e perciò
così grande.
Abbiamo trascorso un'ora così, dominando tutto il vecchio mondo di Omero, Virgilio, Ovi-
dio e Teocrito, senza che sia sembrato il caso a Jadin o a me di toccare una matita, tanto ci
sembrava che questo quadro naturale andasse in profondità nei nostri cuori e dovesse ri-
manervi inciso senza l'aiuto della scrittura o del disegno. Poi abbiamo gettato un ultimo
sguardo su quell’orizzonte di trecento leghe, che si può abbracciare una volta nella vita e
cominciammo a scendere.
A parte il pericolo di scivolare giù dal cono, la difficoltà della discesa non può essere para-
gonata a quella della salita. In dieci minuti eravamo sull'isola di lava e un quarto d'ora dopo
nella Casa Inglese.
Il freddo, sempre piccante, aveva smesso di essere doloroso; siamo andati nella Casa Ingle-
se per rimetterci un po' in ordine, perché, come abbiamo detto, il nostro assetto aveva su-
bito diverse modifiche durante l'ascesa.

Jacob Philipp Hackert 1800 (The Bridgeman Art Library, Object 265710)

                                                Etna 18 Viaggiatori
La Valle del Bove
Dopo un ulteriore sosta di un quarto d'ora, durante la quale abbiamo consumato il nostro
pollo e il resto del pane, siamo usciti di nuovo dalla Casa Inglese e ci siamo trovati sull'alto-
piano chiamato senza dubbio per antifrase, il Piano del Frumento. Era completamente co-
perto di neve, anche se eravamo nel momento più caldo dell'anno. Una traccia, battuta vi-
sibilmente, indicava il sentiero seguito dai viaggiatori. Lo abbiamo attraversato per andare
a visitare la Valle del Bove. Ad ogni passo che abbiamo fatto su questa neve vergine, siamo
sprofondati circa sei pollici.
La Valle del Bove renderebbe all'Opera una magnifica scenografia per l'inferno della Tenta-
zione o per l’Amore del diavolo. Non ho mai visto niente di più triste e desolato di questo
gigantesco precipizio, con le sue cascate di lava nera, congelate nel mezzo del loro corso su
questo terreno incandescente. Non un albero, non un erba, non un muschio, non un essere
animato. Totale assenza di rumore, movimento e esistenza. Alle tre regioni che formano
l'Etna, si potrebbe certamente aggiungere un quarto più terribile di tutti gli altri, la regione
del fuoco.
Nella parte inferiore della Valle del Bove, vediamo tre o quattro mila piedi sotto di noi, due
vulcani estinti che aprono le loro bocche gemelle. Sono due montagne di cinquecento piedi
ciascuna.
Ci sono volute tutte le arti della nostra guida per strapparci via da questo spettacolo. Nulla
ci ricordava che avevamo trenta miglia per tornare a Catania. Inoltre, Catania era lì sotto i
nostri piedi; abbiamo voluto estendere le nostre mani, l’abbiamo quasi toccata.
Siamo tornati sui nostri muli e siamo partiti. Quattro ore dopo siamo tornati alla casa del
signor Gemellaro. L’ avevamo lasciato con una sensazione di amicizia, lo abbiamo ritrovato
con una sensazione di gratitudine.

Veduta della Valle del Bove, Etna (Principles of geology; Charles Lyell)

                                                   Etna 19 Viaggiatori
Etna 20 Viaggiatori
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