Roma, il Principe e il Messia. Fondazione e decostruzione del teologico-politico: Agostino, Machiavelli, Schmitt, Derrida
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GAETANO LETTIERI Roma, il Principe e il Messia. Fondazione e decostruzione del teologico-politico: Agostino, Machiavelli, Schmitt, Derrida Cosa si intende per teologico-politico? La categoria è eminentemente ambigua, in quanto, affermando una generica relazione strutturale tra teologico e politico, non è in grado di specificare né, ovviamente, quale tipo di religione o quale tipo di politico caratterizzino gli elementi della relazione, né se questa sia di reciproca immanenza o piuttosto di distinzione, secondo la modalità del conflitto (modello dualistico-extramondano, per il quale teologico e politico rappresentano due dimensioni relazionate dalla loro reciproca opposizione, inconciliabilità, irriducibilità, essendo il primo del tutto irrappresentabile e trascendente) o secondo la modalità dell’analogia (modello rappresentativo-intramondano, per il quale teologico e politico sono due dimensioni certo distinte, eppure connesse da una relazione di somiglianza, che consente al politico di rappresentare mondanamente il teologico1), o secondo una modalità più complessa dell’interazione tra queste due (quella di un’analogia che ospiti il conflitto, capace di rovesciare la consueta gerarchizzazione teologico-politica), né di evidenziare le diverse predominanze che governano e specificano la relazione (è il teologico che 1 Per un tentativo di classificazione del teologico-politico, cf. i tre volumi su Teoria della religione e teologia politica, diretti e coordinati da Jacob Taubes: I- Der Fürst dieser Welt (schema rappresentativo-intramondano); II-Gnosis und Politik (schema dualistico-extramondano, esemplificato tramite l’anticosmismo gnostico); III- Theokratie. Cf. I. ASSMANN, Politische Theologie zwischen Ägypten und Israel, München 1992, 33-34; e G. LETTIERI, Riflessioni sulla teologia politica in Agostino, in P. Bettiolo-G. Filoramo (edd.), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Brescia 2002, 215-265.
Gaetano Lettieri 47 determina, assoggetta, utilizza il politico o il politico che governa il teologico?). Soltanto una contestualizzazione storica dell’analisi può, quindi, permettere di circoscrivere l’indagine e al tempo stesso di tentare una messa a fuoco almeno approssimativa della questione. Questo saggio intende pertanto verificare la nozione di teologico-politico a partire dalla sua prima, sistematica definizione e teorizzazione, quella della theologia civilis operata da Varrone (ispirata alla stoica tripartizione della teologia2) in riferimento alle tradizioni religiose romane, cui il De civitate Dei di Agostino dedica una lunga indagine demolitiva (storicamente preziosissima in quanto ci restituisce testi varroniani altrimenti perduti), volta a sciogliere il legame romano immanente e circolare (per Agostino idolatrico) tra politico e teologico, per affermare a) la trascendenza assoluta del Dio cristiano nei confronti della storia e del politico (affermazione dell’irriducibilità di Dio ad una compiuta rappresentazione); b) l’inedita dimensione secolare del politico, derivante dalla desacralizzazione e demitizzazione del teologico-politico pagano; c) la possibilità di pensare un’altra nozione di teologia politica, escatologico-carismatica e messianico-kenotica3, che propongo di definire escateologia politica4, in quanto media 1) la logica egemone dell’escatologica eccedenza del Messia cristiano, del Dio di grazia indebita e indisponibile, con 2) la sempre più salda egemonia storico- politica che il cristianesimo riesce ad assumere nell’ambito della religione pubblica, realizzando così l’affermazione di un ambiguo esca-teologico-politico cristiano, decisivo per la storia e la cultura occidentali. Alla figura pagana, romana 2 Varrone dipende, in proposito, dal recupero da parte di Scevola della teologia tripartita di Panezio (cf. SVF III,1009): cf., in proposito, M. POHLENZ, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, Göttingen 1959, tr. it. La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Firenze 1967, I, 402-403; 545-546; 555-558. 3 In questa prospettiva, considero Agostino come l’unico teologo cattolico dei primi secoli capace di riattivare – pure se all’interno di una configurazione ontoteologico-politica del tutto inedita – la matrice paolina dell’interpretazione del kerygma: cf. G. LETTIERI, L’altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De doctrina christiana, Brescia 2001. Sul tema immenso della cristologia escatologica, carismatica e kenotica di Paolo, dell’annuncio universale di grazia del Messia crocifisso e risorto capace di rovesciare la legge e il messianismo politico giudaico, come qualsiasi potere, gerarchia, legge ontoteologica terrena, mi limito a rimandare a J. TAUBES, Die politische Theologie des Paulus, München 1993, tr. it. La teologia politica di San Paolo, Milano 1997 e a G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Torino 2000. Ma come trascurare, proprio in riferimento al pensiero paolino come teologia politica, F. NIETZSCHE, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum (1888), tr. it. L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Milano 1970? 4 In proposito, rinvio a G. LETTIERI, Escat(e)ologia politica. La moneta, Cesare, Cristo, di prossima pubblicazione in “Segno”.
48 Roma, il Principe e il Messia del teologico-politico (per la quale il teologico-religioso è elemento funzionale, strumentale del politico) verrà quindi contrapposta non soltanto una generica figura cristiana del teologico-politico (che vede piuttosto il politico in funzione del teologico-religioso), ma una specifica (seppure decisiva) restituzione di essa, quella agostiniana (estremamente complessa, in quanto prospetta al tempo stesso l’analogia e l’irriducibilità tra il politico e il teologico-cristiano), non dimenticando come la relazione teologico-politica sia aperta, all’interno della storia del cristianesimo, a molteplici possibilità di configurazioni alternative (dal teologico-politico apocalittico-martiriale a quello eusebiano-costantiniano, da quello cattolico-romano e a quello luterano o calvinista, dal teologico-politico schmittiano a quello metziano e alla teologia della liberazione, sino allo stesso moderno stato di diritto laico e, tendenzialmente, sempre più democratico, da riportare alla sua matrice cristiana-protestante5). La verifica del binomio teologico-politico a partire da un confronto polemico tra modello pagano-romano e modello cristiano-agostiniano metterà, quindi, al centro della nostra indagine Roma, figura suprema del teologico-politico occidentale (dal cesaropapismo costantiniano alla monarchia papale, dal sacro romano impero al mito risorgimentale, dalla retorica fascista alla mondialatinizzazione derridaiana6). In questa prospettiva, a partire dalla critica distruttiva agostiniana del mito di Roma – “illuministicamente”7 demitizzato 5 Per un’interpretazione della stessa democrazia occidentale come determinata da una struttura onto-teologico-politica cristiana, eminentemente protestante, quindi da una cristo- teologia politica, verificata in riferimento ad Hobbes e soprattutto ad Hegel, cf. W. HAMACHER, Esquisse d’une conférence sur la démocratie, in M. L. Mallet (ed.), La démocratie à venir. Autour de Jacques Derrida, Paris 2004, 375-405. Riassumendo la prospettiva hegeliana di un fondamento cristiano del sistema politico protestante dello stato e della libertà dei cittadini in esso, Hamacher afferma: “Toute ontologie politique est onto-théologie; l’onto-théologie absolue est anthropo-théologie du soi consciente d’elle-même et consciente de sa conscience consciente et morale; elle est la théologie du Dieu incarné dans tout Soi individuel et dans la communauté constituée politiquement de ces Soi; elle est onto-christologie politique” (383). 6 Cf. J. DERRIDA, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, originariamente pubblicato in traduzione italiana in J. Derrida e G. Vattimo (edd.), La religione, Roma-Bari 1995, 3-72: “La mondialatinizzazione (quella strana alleanza del cristianesimo, come esperienza della morte di Dio, con il capitalismo teletecnoscientifico) è insieme egemonica e finita, superpotente e in via di esaurimento” (14); cf. 12; 26-26; 32-33; 46-47. 7 “Quid de sacris eorum boni sentiendum est, quae tenebris operiuntur, cum tam sint detestabilia, quae proferuntur in lucem?” (AGOSTINO, De civitate Dei VI,7). Sulla valenza illuministica della confutazione agostiniana della civitas terrena romana, cf. ad es. VI, Praef, dedicata all’apologia della religione cristiana come rivelazione della “recta cogitatio atque ratio”, opposta alla “stultitia vel pertinacia” pagane. Sull’abbattimento cristiano dell’intera cultura religiosa pagana, cf., ad es., IV,30 e 34.
Gaetano Lettieri 49 come occulto meccanismo di inganno e di violenza –, ruolo decisivo assumerà la questione del fratricidio come atto fondativo della potenza romana, sicchè la fondazione della suprema civitas religiosa non potrà non chiamare in causa la questione dell’assolutezza “eccezionale” e “sacrale” dell’origine del politico e del giuridico, della violenza fondatrice, del sacrificio inaugurale. Sacrificio qui non inteso certo secondo rigorose (e comunque tra loro divergenti) prospettive storico-religiose8, bensì interrogato a partire dalla prospettiva – evidentemente cristiana! – agostiniana (che pure troverebbe alcuni riscontri proprio all’interno della tradizione religiosa romana9), la quale scorge nella logica sacrificale la scaturigine della civitas, della comunità politica, sia di quella pagana (fondata sulla morte dell’altro per l’affermazione della vita dell’identico), che di quella cristiana (fondata sulla morte dell’Identico per l’affermazione della vita dell’altro10). In questa prospettiva, la costitutiva opposizione agostiniana tra Romolo e Cristo, il fratricida e il Messia, riveleranno non due modalità irriducibili di civitates, una politica e l’altra mistica, ma due diverse modalità di pensare il fondamento teologico del politico e della relazione sociale: una terrena, violenta, identitaria, 8 Rimando, in proposito, alla preziosa trattazione metodologica di C. GROTTANELLI, Uccidere, donare, mangiare: problematiche attuali del sacrificio antico, in C. Grottanelli e N.F. Parise (edd.), Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari 1993, 3-53; e Il sacrificio, Roma-Bari 1999. 9 Rimando, in proposito, all’importante tesi di dottorato di GIANLUCA DE SANCTIS, La logica del confine. Morfologia e dinamica dei limiti spaziali nella cultura romana (Siena 2003): a partire da un’interpretazione funzionale del mito, che intende affermare la subordinazione della gens alla civitas riconosciuta come sancta, si polemizza contro la tesi proposta da T.P. WISEMAN, Remus: a Roman Myth, Cambridge 1995, tr. it. Remo. Un mito di Roma, Roma 1999, che interpreta il fratricidio di Romolo come un sacrificio di fondazione, privilegiando, come testimoni dell’originario, sacrificale mito fondatore, Floro (“prima victima… sanguine suo consecravit”) e Properzio (“caeso moenia firma Remo”). 10 Proprio a partire da questa prospettiva cristiana, mi pare legittimo fare riferimento alle note tesi di R. GIRARD (cf. La violence et le sacré, Paris 1972, tr. it. La violenza e il sacro, Milano 1980; Des choses cachées depuis la fondation du monde, Paris 1978, tr. it. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano 1983; Le bouc émissaire, Paris 1983, tr. it. Il capro espiatorio, Milano 1987) – per quanto esse possano risultare scientificamente poco fondate agli storici delle religioni –, la cui teoria del sacrificio come discrimine tra società umane (fondate sull’omicidio rituale, che catalizza sulla vittima sacrificale la violenza latente che rischia di distruggere la società) e società cristiana (fondata sul rifiuto della violenza e sulla divinizzazione della vittima sacrificale) mi pare trovi proprio nella dottrina agostiniana delle due civitates il suo più prezioso e influente antecedente storico. Vedremo, comunque, che il tema della dipendenza della comunità politica dalla violenza fondatrice, quindi da un meccanismo omicida più o meno rimosso, è fondamentale sia in Schmitt che in Derrida.
50 Roma, il Principe e il Messia indennitaria, fondativa, l’altra escatologica, gratuita, alteritaria, kenotica, decostruttiva. Contro la demitizzante demolizione agostiniana del teologico-politico pagano- romano vedremo reagire “conservativamente” Niccolò Machiavelli, consapevole moderno instauratore di un concetto di politico polemicamente autonomo nei confronti del modello teologico cristiano (in particolare di quello escateologico- politico), eppure strutturalmente e positivamente caratterizzato dal suo rapporto con il religioso. La stessa figura del fondatore, il mitico princeps della città teologico-politica, come quella del principe - suo eccezionale, ultimo conservatore/redentore/rifondatore - continueranno a misurarsi, originalmente, con la necessità del fratricidio e della violenza fondatrice, con il ruolo eminentemente civile della religione, con la riflessione sulla natura profondamente politica del potere messianico, risecolarizzato e riromanizzato, eppure ancora cristianamente condizionato, al punto che pare possibile interpretare il Principe come un’immanentizzata cristologia politica. La potente riproposizione del binomio teologico-politico, della violenza fratricida fondatrice del politico e del rapporto tra fondativa eccezione politico-giuridica ed eccezione messianico-carismatica è riproposta in ambito contemporaneo dal cattolico Carl Schmitt, che, pure se consapevole della peculiarità secolarizzata del politico moderno, al tempo stesso pretende ancora di ancorare il politico al religioso (ma questa volta cristiano!), lo stato alla provenienza teologica della nozione di autorità e di potere, presupponendo la nozione polemica di opposizione amico/nemico come costitutiva del politico, nozione influenzata da Agostino (che identificava nel fratricidio la stessa scaturigine della civitas terrena), eppure verificata politicamente a partire da Machiavelli (che scorge proprio nel fratricidio di Romolo l’origine potente dell’insuperato archetipo romano del politico). La reinterpetazione schmittiana del teologio-politico è stata recentemente sottoposta a radicale decostruzione da Jacques Derrida, impegnato a mettere in questione il fondamento polemico del politico, in una prospettiva non più teologica, ma rigorosamente filosofica, eppure capace di recuperare non dogmaticamente un’eredità messianico-kenotica ed escatologica, culminante nella paradossale affermazione (certo, essa stessa da decostruire) di un possibile e liberatorio futuro cristiano (ma meglio sarebbe dire: giudaico-cristiano- islamico11), e non più greco-romano, della politica europea ed occidentale. Si disegnerà, quindi, in relazione al teologico-politico una complessa e insospettabile connessione tra Agostino e Derrida, da una parte, e teologia politica romana, Machiavelli e Schmitt, dall’altra. 11 Cf., ad esempio, J. DERRIDA, Donner la mort, Paris 1999, tr. it. Donare la morte, Milano 2002, 98- 99.
Gaetano Lettieri 51 1. La teologia politica varroniana e la demitizzazione agostiniana del mito di Roma Nel De civitate Dei (411-427), Agostino intraprende una sistematica, “apocalittica”12, dissacrante13 demolizione della civiltà teologico-politica pagana (interpretata come universale civitas terrena, edificata e governata dalla legge dell’amor sui), sostanzialmente articolata nella confutazione di quelli che egli considera i due vertici della civiltà mondiale, l’ideologia imperialistica di Roma (libri I-VII) e la filosofia pagana, culminante nel platonismo (libri VIII-X). Il mito di Roma come civitas eterna/divina, vera/gloriosa e pacifica/pacificante (ove, per Agostino, pure se inconsapevolmente, ideologia imperialistica romana e filosofia pagana si strutturano trinitariamente, come inconsapevoli, antitetiche figure della rivelazione salvifica cristiana dell’unico Dio trinitario, eterno, vero e beatifico) viene quindi smascherato come precario fenomeno secolare, come illusoria menzogna idolatrica socialmente imposta (con il quale la totalità delle genti celebra come causa divina del successo storico quegli dèi cittadini che le asserviscono), come celebrazione totalitaria della potenza egemonica di pochi principes (umani e, sopra questi, demoniaci), trionfanti, tramite stragi, inganni e violenze, sull’infelicità sottomessa e “pacificata” delle masse, dei popoli14. 12 Pure se all’interno di una configurazione storica completamente mutata, caratterizzata dalla postcostantiniana cristianizzazione dell’impero romano e del trionfo storico universale della chiesa cattolica, Agostino riattiva la critica radicale dell’apocalittica cristiana (si pensi in part. all’Apocalissi di Giovanni o al secondo capitolo dellla Seconda lettera ai Tessalonicesi) all’impero e alla storia imperialistica pagana e romana: il potere politico storicamente egemone ha, in questa prospettiva, un’origine demoniaca, perversamente mimetica dell’unico, trascendente potere di Dio, che trionferà escatologicamente attraverso il definitivo annientamento delle potenze cosmico-politiche. La pur provvidenziale conversione del potere civile al cristianesimo è non solo minimizzata, ma anche dichiarata come soltanto provvisoria. 13 La critica cristiana alle divinità pagane è atto politicamente rivoluzionario e professione di ateismo (pur se relativo): “Nell’antichità l’ateismo non è una differenziazione religiosa rispetto alla fede, ma è un tipo politico di eresia in rapporto ai fondamenti religiosi della polis… Nei primi secoli, i cristiani furono considerati e chiamati, ancora in senso politico, atei dai pagani religiosi: innovatori pericolosi per lo stato, in quanto non credevano nei vecchi dèi della polis e del kosmos” (K. LÖWITH, Wissen und Glaube (1954), tr. it. in Storia e fede, Roma-Bari 1985, 35- 65, in part. 50-51). 14 Per una ricostruzione della logica trinitaria che governa l’analogia antitetica tra le due civitates, cf. G. LETTIERI, Il senso della storia in Agostino d’Ippona. Il saeculum e la gloria nel De civitate Dei, Roma 1988, in part. 15-60 e 220-308.
52 Roma, il Principe e il Messia Strategico, in proposito, è il confronto di Agostino con Varrone: nel libro VI del De civitate Dei, questi - sulla scia di Cicerone15 - è identificato come il massimo interprete della tradizione religiosa romana16, quindi della sua stessa potenza teologico-politica, il cui primato, com’è noto, Cicerone riportava alla supremazia della pietas nel culto teologico-politico delle divinità stabilite17. Per Varrone, esistono tre specificazioni della theologia (cf. VI, 5 e 12): 1) la theologia naturalis (cf. VI,5 e 8), vera, eppure politicamente del tutto superflua (cf. IV, 27), propria dei soli filosofi e deputata alla conoscenza dell’unico vero dio, l’anima del mondo interpretata come unico logos stoico immanente nella natura (cf. VII, 6), religiosamente rifratto in una pluralità di figure mitiche corrispondenti alla pluralità delle sue funzioni provvidenziali; 2) la theologia civilis (cf. VI, 4-7), che è invece la creazione dei principes dello stato, che si servono della religione come instrumentum regni, necessario cemento dell’ordine e delle gerarchie sociali, che assicuri la saldezza della fondazione politica e l’osservanza dei comandamenti e dei vincoli politici, sociali, giuridici; 3) la theologia mythica o fabulosa o theatrica (cf. VI, 5-7), mera specificazione operativa di quella civile o politica (cf. VI, 6-7; 9; 12), in quanto dedicata ad elaborare e variare miticamente, nelle favole inventate dai poeti e celebrate nei teatri, la configurazione rappresentativa, appunto celebrativa, immaginaria e psicagogica (volta alla produzione della partecipazione “fedele”, del consenso collettivi al culto sancito) della religione politica. Già 15 Cf. l’elogio di Varrone in CICERONE, Academica I, fr. 125, riportato in DeCivDei VI,2: “nos, inquit, in nostra urbe peregrinantes errantesque tamquam hospites tui libri quasi domum reduxerunt, ut possemus aliquando qui et ubi essemus agnoscere. Tu aetatem patriae, tu descriptiones temporum, tu sacrorum iura, tu sacerdotum, tu domesticam, tu publicam disciplinam, tu sedem regionum locorum, tu omnium divinarum humanarumque rerum nomina genera, officia causas aperuisti”. L’opera di Varrone, quindi, è capace di rivelare i fondamenti della civitas, dando patria e casa a cittadini altrimenti peregrini, ancorando quindi il corpo politico al fondamento religioso di Roma. 16 Cf. DeCivDei IV,27, ove, in riferimento a Scevola pontifex maximus, già si deduce la tripartizione della religione in funzione del ruolo sociale che essa assume: “tria genera deorum: unum a poetis, alterum a philosophis, tertium a principibus civitatis”. Per verificare l’attendibilità storica della restituzione agostiniana del teologico-politico romano, cf. l’utile saggio di J. SCHEID, La religione a Roma, Roma-Bari 1983. Più in part., cf. A. MANDOUZE, Saint Augustin et la religion romaine, in “Recherches Augustiniennes” I, 1958, 187-223. 17 “Etenim quis est tam vaecors qui aut, cum suspexit in caelum, deos esse non sentiat, et ea quae tanta mente fiunt ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit casu fieri putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum? Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique hoc ipso huius gentis ac terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus” (CICERONE, De haruspicum responsis, 19).
Gaetano Lettieri 53 perfettamente teorizzato dalla teologia politica romana è il carattere meramente strumentale della religione (la religione pubblica non è né deve essere vera, ma è e deve essere soltanto celebrata, deve cioè funzionare socialmente18), decisiva dal punto di vista politico: senza religione, la civitas non può cementarsi, non può essere né fondata né mantenuta, in quanto il rapporto con il divino fonda la stessa pretesa di identità, di durata, di verità, di interna gerarchia sociale della civitas. Questa è una macchina sacrale, che garantisce indennità, vita, potenza. Non è un caso, allora, che Romolo, il fondatore della civitas romana venga, al tempo stesso, riconosciuto nella sua mera umanità e mortalità, eppure divinizzato all’interno del culto cittadino: non certo la verità della sua divinità, ma la sacralizzazione e la celebrazione sociale del suo atto di fondazione politica è ciò che, per i romani, rimane religiosamente decisivo19. La civitas terrena si presenta, pertanto, come comunità storica divinizzata, nella quale il divino è al tempo stesso a) fondamento sacrale dell’identità sociale e politica, b) instrumentum regni, cioè sacralizzazione di una determinata egemonia politica, sociale e mondiale; d’altra parte, secondo la prospettiva apocalittico- cristiana di Agostino, c) inconsapevolmente la religione romana è il culto pubblico che, legando gli dèi-demòni alla città, sottomette ad essi, realizzando un complesso meccanismo di alienante appropriazione idolatrica, attraverso il quale l’altro (il divino), inghiottito nell’identico (l’immanenza del politico) in funzione dal quale è riconosciuto e celebrato, è a sua volta l’identico (il potere superiore dei demòni) nel quale l’altro (l’intera componente umana della civitas terrena) è dominato e annullato: la logica dell’identità autoreferenziale (incapace di aprirsi alla fede e al culto del vero Dio, assolutamente trascendente, indisponibile, inoggettivabile) non può che culminare nel totalitarismo del potere egemone20. 18 Secondo Varrone, la theologia civilis stabilisce “quod” in urbibus cives, maxime sacerdotes, nosse atque administrare debent. In quo est, quos deos publice sacra ac sacrificia colere et facere quemque par sit” (citato in DeCivDei VI,5). 19 Cf. il confronto con Cicerone ed altre “scettiche” fonti romane sulla leggenda della divinità di Romolo (cf. ad esempio LIVIO, Ab urbe condita I,16), religiosamente celebrata nel culto romano, in AGOSTINO, DeCivDei III,15 e XXII,6. 20 L’inganno sociale, gerarchicamente perpetrato, è il fondamento religioso della civitas terrena romana, che contribuisce a perdere quei cittadini che a lei si affidano per vivere, conoscere, essere felici, finendo invece per essere perduti (secolarmente ed eternamente), ingannati, infelici; cf. quanto Agostino afferma in riferimento al pontefice massimo Scevola: “Expedire igitur existimat falli in religione civitates…Praeclara religio, quo confugiat liberandus infirmus, et cum veritatem qua liberetur inquirat, credatur ei expedire quod fallitur” (IV,27). Così, in riferimento a Varrone, Agostino denuncia il disegno egemonico dei potenti operato tramite lo strumento religioso, “totum consilium prodidit velut sapientium, per quos civitates et populi regerentur. Hac tamen fallacia miris modis maligni daemones delectantur, qui et deceptores et deceptos pariter possident” (IV, 31,1). “Hominum velut prudentium et sapientium negotium fuit populum in religionibus fallere et in eo
54 Roma, il Principe e il Messia Infatti, proprio nell’essere civiltà che si fa carico di mediare tempo ed eterno, umano e divino (gli dèi), la civitas terrena realizza il desiderio (l’amor sui) della creatura soltanto nella storia e nei suoi rapporti di dominio, di egemonia, di trionfo secolare dell’uno sull’altro (dei potenti sulle masse, degli dèì/demoni su tutti gli uomini). L’amor sui è la legge dinamica che governa l’identità della civitas terrena: pulsione metafisica vitale e distruttiva, è il desiderio di assolutizzare l’identità, di affermare la disponibilità e la proprietà del sé sugli altri e contro gli altri, costituendo quindi un orizzonte politico-sociale (la civitas) autoreferenziale ed identitario, attivando al suo interno rapporti (più o meno ingannevolmente celati e ideologicamente mediati) di discriminazione, violenza, odio e sopraffazione. La civitas terrena è allora l’universale civiltà umana che, nella storia, vive di un disegno unitario di autoaffermazione che non può che originare, al suo interno, una logica mortifera della violenza, dell’assoggettamento, del fratricidio/omicidio unificata dal condiviso amor sui; essa aggrega per dividere, unisce assoggettando, violentando, uccidendo, sacrificando lo stesso proprio corpo sociale, presso il quale si celebra collettivamente il trionfo dell’identità egemone21. Non a caso, quindi, a partire dalla Genesi, la nascita e la natura della civitas terrena sono riportate a Caino, fratricida e primo fondatore di una civitas storica, pertanto archetipo storico della civitas terrena (cf. XV,5). L’autistico amor sui di Caino, rivelata dall’uccisione di Abele come dalla fondazione della prima civitas storica (immagine perversa dell’unica, vera, felice civitas Dei), è rivelato sin dalla perversione del suo stesso sacrificare a Dio, che determina il rifiuto divino e ________________________ ipso non solum colere, sed imitari etiam daemones, quibus maxima est fallendi cupiditas. Sicut enim daemones nisi eos, quos fallendo deceperint, possidere non possunt, sic et homines principes, non sane iusti, sed daemonum similes, ea, quae vana esse noverant, religionis nomine populis tamquam vera suadebant, hoc modo eos civili societati velut aptius alligantes, quo similiter subditos possiderent. Quis autem infirmus et indoctus evaderet simul fallaces et principes civitatis et daemones?” (IV, 32). Sulla religione romana come instrumentum regni, mantenuto dai potenti pure se conosciuto come falso e persino immorale, cf. soprattutto VII,34-35. 21 La civitas terrena, concretamente Roma come qualsiasi civiltà umana storicamente costituitasi, “dividitur litigando, bellando atque pugnando et aut mortiferas aut certe mortales victorias requirendo” (XV,4). Cf. l’importante confronto con il De republica di Cicerone, in DeCivDei XIX,21, ove Agostino dichiara la strutturale ingiustizia della civitas romana, fondata sulla sopraffazione e l’ideologica giustificazione, avanzata proprio da Cicerone, dell’utile asservimento dell’inferiore per natura al superiore, quindi del dominio dei potenti e di Roma sulle masse e sugli altri popoli, asservimento culminante nel sacrificare agli dèi. Per Agostino, proprio in quanto idolatricamente fondata sul sacrificio ai demòni, quindi sulla negazione del riconoscimento che solo all’unico vero Dio è dovuto il sacrificio, la civiltà romana non riconosce a ciascuno il suo, non è fondata sull’autentica giustizia, è quindi costretta a riperpetuare al suo interno un’alienante, ingiusta violenza.
Gaetano Lettieri 55 l’invidia fratricida. Se non si dà nessuna societas storico-politica senza relazione fondante al religioso e senza visibile, pubblico sacrificio di culto, comunque il teologico-politico cainitico riconosce Dio/gli dèi e sacrifica loro soltanto per amare e affermare se stesso: “Hoc ipso male dividebat [Cain], dans Deo aliquid suum, sibi autem se ipsum. Quod omnes faciunt, qui non Dei, sed suam sectantes voluntatem, id est non recto, sed perverso corde viventes, offerunt tamen Deo munus, quo putant eum redimi, ut eorum non opituletur sanandis pravis cupiditatibus, sed explendis. Et hoc est terrenae proprium civitatis, Deum vel deos colere, quibus adiuvantibus regnet in victoriis et pace terrena, non caritate consulendi, sed dominandi cupiditate. Boni quippe ad hoc utuntur mundo, ut fruantur Deo; mali autem contra, ut fruantur mundo, uti volunt Deo; qui tamen eum vel esse vel res humanas curare iam credunt” (XV,7). Il teologico-politico terreno (cainitico o romano) strumentalizza il vero Dio o i falsi dèi, al quale/ai quali concede un sacrificio religioso puramente esteriore, materiale, in quanto l’atto di culto è finalizzato unicamente all’amor sui e alla libido dominandi che vorrebbe superbamente assolutizzarlo22, sicché il fratricidio rivela e compie l’identica perversione del sacrificio autoreferenziale. Caratteristica del teologico-politico terreno (pagano, ma anche cristiano pervertito) è quindi l’usare Dio/gli dèi per fruire di sé, per affermare la res, la visibile realizzazione mondana di sé – la civitas terrena vive “in re huius saeculi” (XV,21) - il possesso sacralizzato di sé (il nome Caino è etimologicamente interpretato come possessio, mentre quello di suo figlio Enoch, attribuito alla stessa civitas cainitica, è interpretato come dedicatio, ad indicare l’esclusiva consacrazione terrena al saeculum23) tramite il disporre dell’altro, mentre l’autentico teologico-politico cristiano accetta di usare il mondo, la storia, la politica stessa, per fruire soltanto di Dio, indirizzando a Dio un integrale sacrificio spirituale: il morire a se stessi, il sacrificare la propria stessa identità, per confessare la scaturigine trascendente e gratuita del proprio stesso amore. Interpretato come dono a Dio di parte di sé (di una parte del proprio amor, che in realtà nel caso della civitas terrena è comunque illusoriamente ripiegato su se stesso) o di tutto se stesso (nel caso della civitas Dei, l’amor della creatura è tutto rimesso a Dio, confessato come dono di Dio da restituire a Dio), il 22 “Omnes si possint, suos facere velint [mali], ut uni cuncti et cuncta deserviant… Sic enim superbia perverse imitatur Deum. Odit namque cum sociis aequalitatem sub illo, sed inponere vult sociis dominationem suam pro illo” (XIX,12). 23 “Sicut autem Cain, quod interpretatur possessio, terrenae conditor civitatis, et filius eius, in cuius nomine condita est, Enoch, quod interpretatur dedicatio, indicat istam civitatem et initium et finem habere terrenum, ubi nihil speratur amplius, quam in hoc saeculo cerni potest” (XV,17).
56 Roma, il Principe e il Messia meccanismo sacrificale (allegorizzato nella teoria dei due amores) è identificato da Agostino come l’intimo principio di fondazione di ciascuna delle due civitates24. Nella stessa fondazione di Roma, supremo caput storico della civitas terrena, il fratricidio e la logica del sacrificio autoreferenziale ritornano inevitabilmente come indelebile marchio di appartenenza alla legge identitaria dell’amor sui, che lega l’affermazione di sé - il conatus essendi che naturalmente si compie nella libido dominandi – al desiderio di economia, alla legge dell’abitare terreno, dello stabilire res, possessio e proprietà sacralizzata del sé. Sicché lo stare al mondo subordina il riconoscimento dell’altro alla proprietà del sé, spinta sino all’assoggettamento e all’eliminazione dell’altro. Come Caino fratricida è l’archetipo della civitas terrena, così Romolo fratricida è la sua suprema imago storica (cf. XV,5): egli elimina sempre l’altro, prima il “fratrem… quem cupiebat auferri” (XV,7,2) - “fratrem geminum non pertulit” (III, 13); “ut ergo totam dominationem haberet unus, ablatus est socius” (XV,5) -, quindi Tito Tazio Sabino - “Ut maior deus esset, regnum solus obtinuit” (III,13) -. Roma, suprema realizzazione storica della civitas Dei, è dunque città- civiltà sacrale fondata sul sangue, come confessa un verso di Lucano: “fraterno primi maduerunt sanguine muri”. Sic enim condita est Roma, quando occisum Remum a fratre Romolo romana testatur historia” (XV,5). L’amor sui, la brama di divina identità, di unitas, di potestas assoluta, non può non prolungarsi in politica, imperialistica libido dominandi (cf. I, Praefatio), ove strutturale è l’immolazione dell’alter (“alter scelere ablatus”: III,6). “Libido ista dominandi magnis malis agitat et conterit humanum genus. Hac libidine Roma tunc victa Albam se vicisse triumphabat et sui sceleris laudem gloriam nominabat… Nam et hoc plus quam civile bellum fuit, quando filia civitas cum civitate matre pugnavit” (III,14,2). La storia di Roma, fondata su un fratricidio, prosegue passando per il matricidio: la libido dominandi, che cerca la gloria nella politica reductio ad unum, nella delirante contrazione della totalità dello spazio nell’identità assoluta del punto25 - 24 Cf. G. LETTIERI, Sacrificium civitas est. Sacrifici pagani e sacrificio cristiano nel De Civitate Dei di Agostino, in “Annali di Storia dell’Esegesi”, 19/1, 2002, 127-166. 25 “Le mythe fondateur romain, tel que nous l’a transmis Livius, fait débuter urbs et orbis avec le tracé d’une frontière, avec la séparation du dedans et du dehors ainsi qu’avec l’orientation de tous les intérêts républicains sur un centre de décision définissant l’espace politique et monopol-politique. La politique, en particuliere ladite politique expansionniste d’un empire, consiste en la réduction de l’espace en un point. Elle est donc, à proportions égales, politique d’idéalisation et politique de puissance” (W. HAMACHER, Esquisse d’une conférence sur la
Gaetano Lettieri 57 la grande politica si rivela sempre ispirata da una perversa intenzione metafisica, autodivinizzante - è sempre violenza intestina, autodistruttiva. La legge immunitaria dell’identico degenera necessariamente in aggressione autoimmunitaria. I “sacrificia homicidiorum” (VII,27,2) romani riperpetuano, così, l’evento fondativo del fratricidio: vera e propria macchina sacrificale26, il teologico-politico romano opera comunque la sacrale perdizione dei cittadini che vi partecipano27, non soltanto delle masse immolate al perverso sogno imperialistico di assoggettare il mondo e la storia sotto un potere unico e universale (perverso idolo dell’unico potere assoluto di Dio)28, ma degli stessi principes, ingannati dai demòni ai quali consacrano il loro stesso impero per renderli complici del loro disegno egemonico29. La celeberrima condanna agostiniana degli stati pagani, privi di giustizia, come “magna latrocinia”30, acquista tutta la sua profondità soltanto se collegata al tema della natura parenticida/parricida31 dell’identità terrena: la negazione dell’alterità (e in primo ________________________ démocratie, in M.L. Mallet (ed.), La démocratie à venir. Autour de Jacques Derrida, Paris 2004, 375-405, in part. 404). 26 “Clarebant sacerdotia, fana renidebant, sacrificabatur, ludebatur, furebatur in templis, quando passim tantus civium sanguis a civibus non modo in ceteris locis, verum etiam inter ipsa deorum altaria fundebatur” (III,31). 27 “Ubi nihil daemones nisi negotium suum egerunt, non curantes quem ad modum illi viverent, immo curantes ut etiam perdite viverent, dum tamen honori suo illa omnia metu subditi ministrarent” (II,22,1). “Illa igitur res publica malis moribus cum periret, nihil dii eorum pro dirigendis vel pro corrigendis egerunt moribus, ne periret; immo depravandis et corrumpendis addiderunt moribus, ut periret” (II,23,2). 28 La perversa libido dominandi è l’intenzione suprema e fondante dell’imperialismo romano, che si traduce nel dominio patologico di pochi sulla massa strumentalizzata: “Ipsa libido dominandi, quae inter alia vitia generis umani meracior inerat universo populo Romano, postea quam in paucis potentioribus vicit, obtritos fatigatosque ceteros etiam iugo servitutis oppressit” (I,30). Sulla logica violenta e criminale dell’imperialismo romano, cf. ad esempio IV,4 e 15; III,13. 29 “Non ob aliud daemones arrogantes sibi divinitatem deosque se credi cupientes sibi expetere sacrificium et gaudere huius modi honoribus, nisi quia verum sacrificium vero Deo deberi sciunt”29. Infatti, la civitas terrena “fecit sibi quos voluit el undecumque vel etiam ex hominibus falsos deos, quibus sacrificando serviret illa autem, quae caelestis peregrinatur in terra, falsos deos non facit, sed a vero Deo ipsa fit, cuius verum sacrificium ipsa sit” (XVIII,54,2). Sull’opposizione tra sacrificia fallaci e dannatori imposti dai demòni (e giustificati dagli stessi filosofi pagani) e l’unico sacrificio di Cristo confessato come fondamento della civitas Dei, cf. i libri IX e X; XV,7,1. 30 “Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? Quia et latrocinia quid sunt nisi parva regna? Manus et ipsa hominum est, imperio principis regitur, pacto societatis astringitur, placiti lege praeda dividitur. Hoc malum si in tantum perditorum hominum accessibus crescit, ut et loca teneat sedes constituat, civitates occupet populos subiuget, evidentius regni nomen adsumit, quod ei iam in manifesto confert non dempta cupiditas, sed addita inpunitas” (DeCivDei IV,4). 31 Com’è noto, parricida è in latino colui che uccide qualsiasi parente, dai genitori ai fratelli, ai congiunti. Cf., in DeCivDei III,6 il parricidium di Romolo; in III,7, la definizione di Fimbria come
58 Roma, il Principe e il Messia luogo dell’alterità assoluta di Dio, con il riconoscimento della quale è identificata la iustitia32), si traduce in necessario trionfo totalitario ed idolatrico del sé, in sistema politico di violenza impunita e celebrata. Alla civitas terrena Agostino oppone la civitas Dei, luogo sociale della fruizione del vero Dio, teologico-politico, collettivo sacrificio spirituale al Dio-Trinità, fondato dall’eterna, predestinante grazia di Cristo, radunato a partire dal suo sacrificio storico. Mentre la civitas terrena è formata da demòni ed uomini (a quelli asserviti) legati da un unico e autodistruttivo amor sui, la civitas Dei è formata da angeli e uomini, tutti stretti dall’amor Dei, dall’amore di Dio operato dalla grazia di Dio. Proprio in quanto populus, societas unificata dalla condivisione di un atto di culto, insieme visibile - il sacramento battesimale ed eucaristico - e invisibile - l’olocausto che è il sacrificio spirituale di tutti se stessi a Dio –, la stessa civitas Dei è evidentemente una comunità teologico-politica, che trova nell’unico vero Dio- Trinità, quindi in Cristo che storicamente lo rivela, il suo capo, il suo trascendente unus, assoluto fondamento metafisico del corpo sociale. L’opposizione tra le due civitates, pertanto, non è affatto l’opposizione tra religione (la civitas Dei come invisibile comunità di fede) e politica (la civitas terrena incarnata da Roma), bensì l’opposizione tra due modelli teologico-politici antitetici33: uno che immanentizza il religioso nell’affermazione di una realtà puramente terrena, secolare, mondana; l’altro che confessa, pure se all’interno della storia e del mondo - tramite la rappresentazione religiosa pubblicamente, visibilmente condivisa della chiesa cattolica -, la trascendenza irriducibile del religioso rispetto al saeculum, alla storia, al mondo, a quella stessa sua sacramentale rappresentazione storica che pure secolarmente lo rende presente e fruibile. Per Agostino, quindi, la politica è sempre (perversamente o salvificamente) teologica, la teologia (pagana e cristiana) è sempre politica. Così come la teologia politica è sempre ontoteologia, ovvero l’ontoteologia è inseparabile da una dimensione teologico-politica: infatti, la teologia politica dice l’aggregarsi sociale a partire dall’identificazione di un principio riconosciuto come divino, potente fondamento di essere, di gloria, di pace, sia esso il dio-demonio pagano o Romolo divinizzato (a testimonianza dell’orizzonte esclusivamente statuale del religioso romano)34, sia esso il Dio- Trinità. Eppure, se la civitas Dei è un corpo onto-teologico-politico, storicamente operante - essa stessa chiamata a garantire indennità eterna del proprio essere, ________________________ parricida, in quanto distruttore romano di Ilio, città madre di Roma; e in III,15, la definizione di Tarquinio il superbo come parricida per avere ucciso suo suocero. 32 Cf. supra, nota 30. 33 Cf. G. LETTIERI, Civitas in Agostino, in “Parola, Spirito e Vita. Quaderni di lettura biblica” 50, 2004, 181-211. 34 Cf., in proposito, DeCivDei XXII,6.
Gaetano Lettieri 59 sacrale, gloriosa identità celeste, che l’esalterà trionfando sulla civitas terrena eternamente punita -, nel suo dinamismo spirituale essa testimonia una logica radicalmente opposta a quella della civitas terrena: come rivela Abele, ucciso da Caino e immagine del sacrificio di Cristo crocifisso come scaturigine dell’identità sociale graziata - “… altitudo sacramenti, qua sanguis eius in remissione fusus est peccatorum” (XVIII,49) -, la civitas Dei, proprio perché originata dalla grazia del Dio eterno e protesa verso la pienezza escatologica della sua fruizione, non può che vivere in hoc saeculo come peregrina, come colei che non abita davvero, come civitas secolarmente infondata, che vive non in re, ma in spe, nella paradossale tensione di una speranza, che anticipa ciò che non potrà mai possedere secolarmente: “Gratia peregrinus deorsum, gratia civis sursum… Abel tamquam peregrinus non condidit (civitatem)” (XV,1,2). Mentre la civitas terrena vive della pretesa di possessio e di identificazione della storia e del proprio stare al mondo, la civitas Dei peregrina (rappresentata dalla parte spirituale invisibile nascosta all’interno della stessa chiesa cattolica e nota soltanto a Dio) vive nel luctus35, nella morte a questo secolo e nella confessione dell’alterità rispetto alla storia. Ma la decisiva opposizione tra le due civitates dipende dall’essere fondata l’una dalla natura (decaduta, pervertita, necessariamente autoreferenziale e violenta), l’altra dalla grazia: l’una dall’amor sui (la legge del desiderio naturale, autistico e incapace di amore dell’alterità), l’altra dall’amor Dei (la grazia di Dio, l’amore che Dio ha per l’uomo, che solo fonda l’autentico, disinteressato amore dell’uomo per Dio)36. “Sicut enim in uno homine, quod dixit apostolus, experimur, quia non primum quod spiritale est, sed quod animale, postea spiritale (unde unusquisque, quoniam ex damnata propagine exoritur, primo sit necesse est ex Adam malus atque carnalis; quod si in Christum renascendo profecerit, post erit bonus et spiritalis): sic in universo genere humano, cum primum duae istae coeperunt nascendo atque moriendo procurrere civitates, prior est natus civis huius saeculi, posterius autem isto peregrinus in saeculo et pertinens ad civitatem Dei, gratia praedestinatus gratia electus, gratia peregrinus deorsum gratia civis sursum”37. 35 “Abel, quod interpretatur luctus,… mors Christi… figuratur” (XV,18). 36 Sull’assoluta centralità della teologia della grazia indebita e predestinata nel pensiero maturo di Agostino e sulla sua complessa dialettica, cf. G. LETTIERI, L’altro Agostino, cit. 37 DeCivDei XV,1,2. Sul tema della grazia predestinata, cf. XI,19-21; XII,6-10; 27,2; XIII,23,3; XIV,1; 10-11; 26-27; XV,1-6; 21; XVI,35; XVII,4; XIX,4,1; 13,1-4; 23,5; XX,15; 8,1; XXI,16; 24,3; XXII,1-2; 24; 30,3-4.
60 Roma, il Principe e il Messia Mentre l’uomo terreno o animale (l’uomo che vive sotto la legge) è prigioniero della propria natura perversa, della coazione all’affermazione di sé come identico e assoluto, l’uomo spirituale è l’uomo strappato a se stesso, al suo perverso solipsismo, dallo Spirito: l’uomo che vive solo di grazia, di dono (caritas), di fede (non nella res del suo potere, ma nell’apertura rischiosa all’altro che viene), di attesa (spes) che l’evento dell’alterità torni sempre a visitarlo. Così, mentre la civitas terrena celebra il divino per assicurarsi il possesso della propria identità politica mondana, la civitas Dei celebra il divino per ringraziarlo di un dono escatologico (ultimo, indisponibile, indebito, incondizionato, dipendente dall’irruzione gratuita dello Spirito nel desiderio perverso della creatura) che sottrae alla logica dell’identità e del possesso, mette in movimento verso l’evento gratuito della civitas escatologica e carismatica, mai posseduta, né costruita umanamente. Alla legge dell’autonomia e dell’assoggettamento all’identità egemone si contrappone la legge dell’assoluta eteronomia, che fa irrompere nella storia una logica dell’alterità e del dono, dell’alienazione salvifica (dell’identificazione soltanto nell’alius e per l’alius) e dell’utopia (di ciò che nella storia si dà come ciò che non ha mai effettivo luogo o res, ma come ciò che ha il suo luogo e la sua realtà in un altrove, che è quello indisponibile del dono e dell’evento). Le due civitates si oppongono reciprocamente opponendo, quindi, la logica dell’identità alla logica dell’alterità, la logica dell’identificazione a quella dell’alterazione (ove l’alter non è colui che dev’essere assoggettato o soppresso, ma confessato come evento di grazia che costituisce la stessa identità come donata), entrambe storicamente incarnate in strutture sociali collettive di celebrazione visibile del divino. Mentre il teologico-politico pagano afferma la radicale immanentizzazione del divino nel saeculum (quindi la fondazione della divinità della propria identità, della storia come propria abitazione e possesso), quello cristiano afferma la radicale trascendenza del divino rispetto al saeculum, pur costituendosi come civitas storica, come chiesa che organizza il senso pubblico religioso, la relazione collettiva e visibile degli uomini al sacro. Ad un sacrificio perpetrato con violenza ai danni dell’altro chiamato a soccombere, la civitas Dei risponde con il sacrificio subito da Dio stesso – e dai suoi testimoni, i martiri38 –, ove Cristo è la vittima divina, che morendo dona la sua vita per la salvezza eterna del corpo sociale che aggrega. Ad una civitas fondata sull’affermazione storica dell’identità politica e del potere dei principes sulle masse, che si prolunga in imperialistico disegno di assoggettamento violento di qualsiasi alterità, è contrapposta una civitas che si aggrega storicamente come societas kenotica e oblativa, caritatevole, che confessa l’unica possibilità di senso nel dono di sé, sino 38 Cf. DeCivDei VIII, 27: i martiri sono coloro che si sacrificano, ma ai quali non è dovuto alcun sacrificio. Il loro sacrificio è, in tal senso, del tutto gratuito.
Gaetano Lettieri 61 alla morte di sé per amore dell’altro. Romolo, pertanto - interpretato come figura di Caino, l’archetipo del fratricida fondatore di civitas terrena - può anche essere esplicitamente contrapposto a Cristo, il vero Dio fondatore della civitas Dei, il Messia che, morendo nel saeculum, rivela l’evento escatologico del dono gratuito (cf. XXII,6-7): lo stesso asilo di Romolo (l’accoglimento nella nuova civitas di criminali ai quali si dona il diritto di cittadinanza) è, per Agostino, figura paradossale della giustificazione cristiana, che accoglie nella chiesa e nella civitas celeste dannati ai quali toglie il peccato39. D’altra parte, Agostino ha ben presente quanto scriveva Cicerone, riassumendo perfettamente la teologia politica romana: “Neque enim est ulla res, in qua propius ad deorum numen virtus accedat humana, quam civitatis aut condere novas aut conservare iam conditas”40. La fondazione e la conservazione della civitas sono atti eminentemente teologici, sacrali, religiosi: aprire e difendere l’orizzonte sociale del senso, l’identità della patria, il possesso, la realtà, il potenziamento del proprio essere, celebrare ideologicamente la gloria, la cultura e la civiltà fondate dal proprio potere, significa assolvere quella funzione ontologica, o meglio ontoteologica, senza la quale non si dà comunità umana, né singolo uomo. Ma è sempre inscritto, all’interno di questo ruolo sacrale e religioso, l’atto della violenza che difendendo uccide, fondando identità esclude alterità, curando l’essere proprio sacrifica l’essere altrui. E’ forse possibile pensare un altro politico, un’altra civitas? E quest’alterità è secolarmente rappresentabile, oppure rimane una pura astrazione mistica? La peculiarità del teologico-politico agostiniano sta nella sua paradossalità: la civitas Dei è storica, religiosa rappresentazione (la chiesa 39 Cf. DeCivDei I,34 e soprattutto V,17. 40 CICERONE, De republica I,7,12; cf. anche VI,13,13 (= Somnium Scipionis): “Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam, sic habeto, omnibus, qui patriam conservaverint, adiuverint, auxerint, certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruantur; nihil est enim illi principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae “civitates” appellantur; harum rectores et conservatores hinc profecti huc revertuntur”. Si noti quanto N. MACHIAVELLI scrive in Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, edizione a cura di G. Inglese, Milano 1984, X,30: “E veramente, cercando uno principe la gloria del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo. E veramente i cieli non possono dare agli uomini maggiore occasione di gloria, né gli uomini la possono maggiore desiderare”; cf., inoltre, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in M. Martelli (ed.), N. MACHIAVELLI, Tutte le opere, Firenze 1971, 30-31: “Credo che il maggiore bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le repubbliche e i regni: questi sono, dopo quegli che sono stati Iddii, i primi laudati”.
62 Roma, il Principe e il Messia cattolica) di una realtà del tutto escatologica, quindi rappresentazione dell’irrappresentabile, rivelazione di un’assoluta eccedenza, visibilità dell’invisibile, presenza del dono indisponibile, sociale manifestazione storica della partecipazione ad una comunità politica secolarmente inaccessibile e segreta, che soltanto la grazia di Dio, il Dono che è lo Spirito Santo, fonda, regge, conosce. In tal senso, il rapporto tra ontologico-politico e religioso, in Agostino, è al tempo stesso un rapporto di compatibilità e di irriducibilità, di rappresentabilità e di opposizione, di analogia e di dualismo. Per questo, quella agostiniana è un’ambigua escateologia o escatontoteologia politica: la nuova (certo solo escatologicamente compiuta) ontoteologia identitaria e immunitaria comunque è accessibile unicamente tramite l’evento assolutamente gratuito, indisponibile, anarchico ed escatologico (mondanamente incondizionato e inattingibile) della grazia. Così, la provvidenzialmente trionfante, visibile, pubblica celebrazione del religioso socialmente salvifico, quindi il teologico- politico cristiano (la connessione analogico-rappresentativa tra il religioso e il politico) è sì affermato come la nuova religione che sottomette il saeculum, diffonde il nuovo culto e la nuova cultura salvifici, media il dono di grazia e libera dal dominio del culto teologico-politico idolatrico – sicché è legittimo riconoscere nella chiesa cattolica anche una storica retractatio del trionfante, intollerante imperialismo romano, del suo mondiale affermarsi come gloriosa, incontrovertibile verità -, ma è anche relativizzato come mera ombra rispetto alla luce trascendente dell’escatologica civitas Dei, rispetto alla quale la stessa chiesa cattolica è mera permixtio secolare tra (pochi) buoni e (molti) cattivi, quindi ambigua coesistenza della fallacia della visibilità secolare e della divina verità del nucleo di grazia che comunque, all’interno della chiesa, è nascosto, indisponibile. Dunque, il religioso pubblico universalmente trionfante, l’identità sacrale ontoteologica - il teologico-politico-imperialistico cristiano - è affermato da Agostino soltanto come traccia ambigua dell’escatologico di grazia, in una complessa tensione tra visibile e pubblica (appunto politica) presenza del sacro e sottrazione del sacro al saeculum e all’ansia di res e possessio che lo caratterizza. Possiamo anche esprimere questa peculiare tensione dialettica tra teologico- politico ed escatologico come tensione tra logica dell’ordine ontoteologico (per il quale il politico è strumento secolare di mantenimento della civiltà, della cultura, della pace, dell’ordine e dell’essere creato e rivelazione di Dio come suprema garanzia ontologica dell’essere, del senso e della pace mondani e celesti) e logica del Dono, secolarmente operante, eppure mai traducibile in res, in oggetto disponibile alla potenza identitaria, economica, autoassicurante della ragione e della libertà dell’uomo, proprio perché evento gratuito, anarchico, che fa irrompere un senso dell’essere assolutamente eccedente, altro, caritatevole, kenotico, culminante nel sacrificio di sé per amore dell’altro. Dio, allora, è
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