Roma, il Principe e il Messia. Fondazione e decostruzione del teologico-politico: Agostino, Machiavelli, Schmitt, Derrida

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GAETANO LETTIERI

                     Roma, il Principe e il Messia.
            Fondazione e decostruzione del teologico-politico:
                Agostino, Machiavelli, Schmitt, Derrida

Cosa si intende per teologico-politico? La categoria è eminentemente ambigua, in
quanto, affermando una generica relazione strutturale tra teologico e politico,
non è in grado di specificare né, ovviamente, quale tipo di religione o quale tipo di
politico caratterizzino gli elementi della relazione, né se questa sia di reciproca
immanenza o piuttosto di distinzione, secondo la modalità del conflitto (modello
dualistico-extramondano, per il quale teologico e politico rappresentano due
dimensioni relazionate dalla loro reciproca opposizione, inconciliabilità,
irriducibilità, essendo il primo del tutto irrappresentabile e trascendente) o
secondo la modalità dell’analogia (modello rappresentativo-intramondano, per il
quale teologico e politico sono due dimensioni certo distinte, eppure connesse da
una relazione di somiglianza, che consente al politico di rappresentare
mondanamente il teologico1), o secondo una modalità più complessa
dell’interazione tra queste due (quella di un’analogia che ospiti il conflitto, capace
di rovesciare la consueta gerarchizzazione teologico-politica), né di evidenziare le
diverse predominanze che governano e specificano la relazione (è il teologico che

    1
       Per un tentativo di classificazione del teologico-politico, cf. i tre volumi su Teoria della
religione e teologia politica, diretti e coordinati da Jacob Taubes: I- Der Fürst dieser Welt (schema
rappresentativo-intramondano); II-Gnosis und Politik (schema dualistico-extramondano,
esemplificato tramite l’anticosmismo gnostico); III- Theokratie. Cf. I. ASSMANN, Politische Theologie
zwischen Ägypten und Israel, München 1992, 33-34; e G. LETTIERI, Riflessioni sulla teologia politica in
Agostino, in P. Bettiolo-G. Filoramo (edd.), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e
contemporaneo, Brescia 2002, 215-265.
Gaetano Lettieri                                          47
determina, assoggetta, utilizza il politico o il politico che governa il teologico?).
Soltanto una contestualizzazione storica dell’analisi può, quindi, permettere di
circoscrivere l’indagine e al tempo stesso di tentare una messa a fuoco almeno
approssimativa della questione.
    Questo saggio intende pertanto verificare la nozione di teologico-politico a
partire dalla sua prima, sistematica definizione e teorizzazione, quella della
theologia civilis operata da Varrone (ispirata alla stoica tripartizione della teologia2)
in riferimento alle tradizioni religiose romane, cui il De civitate Dei di Agostino
dedica una lunga indagine demolitiva (storicamente preziosissima in quanto ci
restituisce testi varroniani altrimenti perduti), volta a sciogliere il legame romano
immanente e circolare (per Agostino idolatrico) tra politico e teologico, per
affermare a) la trascendenza assoluta del Dio cristiano nei confronti della storia e
del politico (affermazione dell’irriducibilità di Dio ad una compiuta
rappresentazione); b) l’inedita dimensione secolare del politico, derivante dalla
desacralizzazione e demitizzazione del teologico-politico pagano; c) la possibilità
di pensare un’altra nozione di teologia politica, escatologico-carismatica e
messianico-kenotica3, che propongo di definire escateologia politica4, in quanto
media 1) la logica egemone dell’escatologica eccedenza del Messia cristiano, del
Dio di grazia indebita e indisponibile, con 2) la sempre più salda egemonia storico-
politica che il cristianesimo riesce ad assumere nell’ambito della religione
pubblica, realizzando così l’affermazione di un ambiguo esca-teologico-politico
cristiano, decisivo per la storia e la cultura occidentali. Alla figura pagana, romana

    2
       Varrone dipende, in proposito, dal recupero da parte di Scevola della teologia tripartita di
Panezio (cf. SVF III,1009): cf., in proposito, M. POHLENZ, Die Stoa. Geschichte einer geistigen
Bewegung, Göttingen 1959, tr. it. La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Firenze 1967, I, 402-403;
545-546; 555-558.
     3
       In questa prospettiva, considero Agostino come l’unico teologo cattolico dei primi secoli
capace di riattivare – pure se all’interno di una configurazione ontoteologico-politica del tutto
inedita – la matrice paolina dell’interpretazione del kerygma: cf. G. LETTIERI, L’altro Agostino.
Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De doctrina christiana, Brescia 2001.
Sul tema immenso della cristologia escatologica, carismatica e kenotica di Paolo, dell’annuncio
universale di grazia del Messia crocifisso e risorto capace di rovesciare la legge e il messianismo
politico giudaico, come qualsiasi potere, gerarchia, legge ontoteologica terrena, mi limito a
rimandare a J. TAUBES, Die politische Theologie des Paulus, München 1993, tr. it. La teologia politica di
San Paolo, Milano 1997 e a G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Torino
2000. Ma come trascurare, proprio in riferimento al pensiero paolino come teologia politica, F.
NIETZSCHE, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum (1888), tr. it. L’Anticristo. Maledizione del
cristianesimo, Milano 1970?
     4
       In proposito, rinvio a G. LETTIERI, Escat(e)ologia politica. La moneta, Cesare, Cristo, di prossima
pubblicazione in “Segno”.
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del teologico-politico (per la quale il teologico-religioso è elemento funzionale,
strumentale del politico) verrà quindi contrapposta non soltanto una generica
figura cristiana del teologico-politico (che vede piuttosto il politico in funzione
del teologico-religioso), ma una specifica (seppure decisiva) restituzione di essa,
quella agostiniana (estremamente complessa, in quanto prospetta al tempo stesso
l’analogia e l’irriducibilità tra il politico e il teologico-cristiano), non
dimenticando come la relazione teologico-politica sia aperta, all’interno della
storia del cristianesimo, a molteplici possibilità di configurazioni alternative (dal
teologico-politico apocalittico-martiriale a quello eusebiano-costantiniano, da
quello cattolico-romano e a quello luterano o calvinista, dal teologico-politico
schmittiano a quello metziano e alla teologia della liberazione, sino allo stesso
moderno stato di diritto laico e, tendenzialmente, sempre più democratico, da
riportare alla sua matrice cristiana-protestante5).
    La verifica del binomio teologico-politico a partire da un confronto polemico
tra modello pagano-romano e modello cristiano-agostiniano metterà, quindi, al
centro della nostra indagine Roma, figura suprema del teologico-politico
occidentale (dal cesaropapismo costantiniano alla monarchia papale, dal sacro
romano impero al mito risorgimentale, dalla retorica fascista alla
mondialatinizzazione derridaiana6). In questa prospettiva, a partire dalla critica
distruttiva agostiniana del mito di Roma – “illuministicamente”7 demitizzato

     5
       Per un’interpretazione della stessa democrazia occidentale come determinata da una
struttura onto-teologico-politica cristiana, eminentemente protestante, quindi da una cristo-
teologia politica, verificata in riferimento ad Hobbes e soprattutto ad Hegel, cf. W. HAMACHER,
Esquisse d’une conférence sur la démocratie, in M. L. Mallet (ed.), La démocratie à venir. Autour de
Jacques Derrida, Paris 2004, 375-405. Riassumendo la prospettiva hegeliana di un fondamento
cristiano del sistema politico protestante dello stato e della libertà dei cittadini in esso,
Hamacher afferma: “Toute ontologie politique est onto-théologie; l’onto-théologie absolue est
anthropo-théologie du soi consciente d’elle-même et consciente de sa conscience consciente et
morale; elle est la théologie du Dieu incarné dans tout Soi individuel et dans la communauté
constituée politiquement de ces Soi; elle est onto-christologie politique” (383).
     6
       Cf. J. DERRIDA, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione,
originariamente pubblicato in traduzione italiana in J. Derrida e G. Vattimo (edd.), La religione,
Roma-Bari 1995, 3-72: “La mondialatinizzazione (quella strana alleanza del cristianesimo, come
esperienza della morte di Dio, con il capitalismo teletecnoscientifico) è insieme egemonica e
finita, superpotente e in via di esaurimento” (14); cf. 12; 26-26; 32-33; 46-47.
     7
       “Quid de sacris eorum boni sentiendum est, quae tenebris operiuntur, cum tam sint detestabilia,
quae proferuntur in lucem?” (AGOSTINO, De civitate Dei VI,7). Sulla valenza illuministica della
confutazione agostiniana della civitas terrena romana, cf. ad es. VI, Praef, dedicata all’apologia
della religione cristiana come rivelazione della “recta cogitatio atque ratio”, opposta alla “stultitia
vel pertinacia” pagane. Sull’abbattimento cristiano dell’intera cultura religiosa pagana, cf., ad es.,
IV,30 e 34.
Gaetano Lettieri                                            49
come occulto meccanismo di inganno e di violenza –, ruolo decisivo assumerà la
questione del fratricidio come atto fondativo della potenza romana, sicchè la
fondazione della suprema civitas religiosa non potrà non chiamare in causa la
questione dell’assolutezza “eccezionale” e “sacrale” dell’origine del politico e del
giuridico, della violenza fondatrice, del sacrificio inaugurale. Sacrificio qui non
inteso certo secondo rigorose (e comunque tra loro divergenti) prospettive
storico-religiose8, bensì interrogato a partire dalla prospettiva – evidentemente
cristiana! – agostiniana (che pure troverebbe alcuni riscontri proprio all’interno
della tradizione religiosa romana9), la quale scorge nella logica sacrificale la
scaturigine della civitas, della comunità politica, sia di quella pagana (fondata sulla
morte dell’altro per l’affermazione della vita dell’identico), che di quella cristiana
(fondata sulla morte dell’Identico per l’affermazione della vita dell’altro10). In
questa prospettiva, la costitutiva opposizione agostiniana tra Romolo e Cristo, il
fratricida e il Messia, riveleranno non due modalità irriducibili di civitates, una
politica e l’altra mistica, ma due diverse modalità di pensare il fondamento
teologico del politico e della relazione sociale: una terrena, violenta, identitaria,

    8
       Rimando, in proposito, alla preziosa trattazione metodologica di C. GROTTANELLI, Uccidere,
donare, mangiare: problematiche attuali del sacrificio antico, in C. Grottanelli e N.F. Parise (edd.),
Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari 1993, 3-53; e Il sacrificio, Roma-Bari 1999.
     9
       Rimando, in proposito, all’importante tesi di dottorato di GIANLUCA DE SANCTIS, La logica del
confine. Morfologia e dinamica dei limiti spaziali nella cultura romana (Siena 2003): a partire da
un’interpretazione funzionale del mito, che intende affermare la subordinazione della gens alla
civitas riconosciuta come sancta, si polemizza contro la tesi proposta da T.P. WISEMAN, Remus: a
Roman Myth, Cambridge 1995, tr. it. Remo. Un mito di Roma, Roma 1999, che interpreta il
fratricidio di Romolo come un sacrificio di fondazione, privilegiando, come testimoni
dell’originario, sacrificale mito fondatore, Floro (“prima victima… sanguine suo consecravit”) e
Properzio (“caeso moenia firma Remo”).
    10
       Proprio a partire da questa prospettiva cristiana, mi pare legittimo fare riferimento alle
note tesi di R. GIRARD (cf. La violence et le sacré, Paris 1972, tr. it. La violenza e il sacro, Milano 1980;
Des choses cachées depuis la fondation du monde, Paris 1978, tr. it. Delle cose nascoste sin dalla
fondazione del mondo, Milano 1983; Le bouc émissaire, Paris 1983, tr. it. Il capro espiatorio, Milano
1987) – per quanto esse possano risultare scientificamente poco fondate agli storici delle
religioni –, la cui teoria del sacrificio come discrimine tra società umane (fondate sull’omicidio
rituale, che catalizza sulla vittima sacrificale la violenza latente che rischia di distruggere la
società) e società cristiana (fondata sul rifiuto della violenza e sulla divinizzazione della vittima
sacrificale) mi pare trovi proprio nella dottrina agostiniana delle due civitates il suo più prezioso
e influente antecedente storico. Vedremo, comunque, che il tema della dipendenza della
comunità politica dalla violenza fondatrice, quindi da un meccanismo omicida più o meno
rimosso, è fondamentale sia in Schmitt che in Derrida.
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indennitaria, fondativa, l’altra escatologica, gratuita, alteritaria, kenotica,
decostruttiva.
    Contro la demitizzante demolizione agostiniana del teologico-politico pagano-
romano vedremo reagire “conservativamente” Niccolò Machiavelli, consapevole
moderno instauratore di un concetto di politico polemicamente autonomo nei
confronti del modello teologico cristiano (in particolare di quello escateologico-
politico), eppure strutturalmente e positivamente caratterizzato dal suo rapporto
con il religioso. La stessa figura del fondatore, il mitico princeps della città
teologico-politica, come quella del principe - suo eccezionale, ultimo
conservatore/redentore/rifondatore - continueranno a misurarsi, originalmente,
con la necessità del fratricidio e della violenza fondatrice, con il ruolo
eminentemente civile della religione, con la riflessione sulla natura
profondamente politica del potere messianico, risecolarizzato e riromanizzato,
eppure ancora cristianamente condizionato, al punto che pare possibile
interpretare il Principe come un’immanentizzata cristologia politica. La potente
riproposizione del binomio teologico-politico, della violenza fratricida fondatrice
del politico e del rapporto tra fondativa eccezione politico-giuridica ed eccezione
messianico-carismatica è riproposta in ambito contemporaneo dal cattolico Carl
Schmitt, che, pure se consapevole della peculiarità secolarizzata del politico
moderno, al tempo stesso pretende ancora di ancorare il politico al religioso (ma
questa volta cristiano!), lo stato alla provenienza teologica della nozione di
autorità e di potere, presupponendo la nozione polemica di opposizione
amico/nemico come costitutiva del politico, nozione influenzata da Agostino (che
identificava nel fratricidio la stessa scaturigine della civitas terrena), eppure
verificata politicamente a partire da Machiavelli (che scorge proprio nel
fratricidio di Romolo l’origine potente dell’insuperato archetipo romano del
politico). La reinterpetazione schmittiana del teologio-politico è stata
recentemente sottoposta a radicale decostruzione da Jacques Derrida, impegnato
a mettere in questione il fondamento polemico del politico, in una prospettiva
non più teologica, ma rigorosamente filosofica, eppure capace di recuperare non
dogmaticamente un’eredità messianico-kenotica ed escatologica, culminante
nella paradossale affermazione (certo, essa stessa da decostruire) di un possibile e
liberatorio futuro cristiano (ma meglio sarebbe dire: giudaico-cristiano-
islamico11), e non più greco-romano, della politica europea ed occidentale. Si
disegnerà, quindi, in relazione al teologico-politico una complessa e insospettabile
connessione tra Agostino e Derrida, da una parte, e teologia politica romana,
Machiavelli e Schmitt, dall’altra.

      11
           Cf., ad esempio, J. DERRIDA, Donner la mort, Paris 1999, tr. it. Donare la morte, Milano 2002, 98-
99.
Gaetano Lettieri                                             51

1.   La teologia politica varroniana e la demitizzazione agostiniana del mito di
     Roma

Nel De civitate Dei (411-427), Agostino intraprende una sistematica, “apocalittica”12,
dissacrante13 demolizione della civiltà teologico-politica pagana (interpretata
come universale civitas terrena, edificata e governata dalla legge dell’amor sui),
sostanzialmente articolata nella confutazione di quelli che egli considera i due
vertici della civiltà mondiale, l’ideologia imperialistica di Roma (libri I-VII) e la
filosofia pagana, culminante nel platonismo (libri VIII-X). Il mito di Roma come
civitas eterna/divina, vera/gloriosa e pacifica/pacificante (ove, per Agostino, pure
se inconsapevolmente, ideologia imperialistica romana e filosofia pagana si
strutturano trinitariamente, come inconsapevoli, antitetiche figure della
rivelazione salvifica cristiana dell’unico Dio trinitario, eterno, vero e beatifico)
viene quindi smascherato come precario fenomeno secolare, come illusoria
menzogna idolatrica socialmente imposta (con il quale la totalità delle genti
celebra come causa divina del successo storico quegli dèi cittadini che le
asserviscono), come celebrazione totalitaria della potenza egemonica di pochi
principes (umani e, sopra questi, demoniaci), trionfanti, tramite stragi, inganni e
violenze, sull’infelicità sottomessa e “pacificata” delle masse, dei popoli14.

     12
        Pure se all’interno di una configurazione storica completamente mutata, caratterizzata
dalla postcostantiniana cristianizzazione dell’impero romano e del trionfo storico universale
della chiesa cattolica, Agostino riattiva la critica radicale dell’apocalittica cristiana (si pensi in
part. all’Apocalissi di Giovanni o al secondo capitolo dellla Seconda lettera ai Tessalonicesi)
all’impero e alla storia imperialistica pagana e romana: il potere politico storicamente egemone
ha, in questa prospettiva, un’origine demoniaca, perversamente mimetica dell’unico,
trascendente potere di Dio, che trionferà escatologicamente attraverso il definitivo
annientamento delle potenze cosmico-politiche. La pur provvidenziale conversione del potere
civile al cristianesimo è non solo minimizzata, ma anche dichiarata come soltanto provvisoria.
     13
        La critica cristiana alle divinità pagane è atto politicamente rivoluzionario e professione
di ateismo (pur se relativo): “Nell’antichità l’ateismo non è una differenziazione religiosa
rispetto alla fede, ma è un tipo politico di eresia in rapporto ai fondamenti religiosi della polis…
Nei primi secoli, i cristiani furono considerati e chiamati, ancora in senso politico, atei dai
pagani religiosi: innovatori pericolosi per lo stato, in quanto non credevano nei vecchi dèi della
polis e del kosmos” (K. LÖWITH, Wissen und Glaube (1954), tr. it. in Storia e fede, Roma-Bari 1985, 35-
65, in part. 50-51).
     14
        Per una ricostruzione della logica trinitaria che governa l’analogia antitetica tra le due
civitates, cf. G. LETTIERI, Il senso della storia in Agostino d’Ippona. Il saeculum e la gloria nel De civitate
Dei, Roma 1988, in part. 15-60 e 220-308.
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    Strategico, in proposito, è il confronto di Agostino con Varrone: nel libro VI
del De civitate Dei, questi - sulla scia di Cicerone15 - è identificato come il massimo
interprete della tradizione religiosa romana16, quindi della sua stessa potenza
teologico-politica, il cui primato, com’è noto, Cicerone riportava alla supremazia
della pietas nel culto teologico-politico delle divinità stabilite17. Per Varrone,
esistono tre specificazioni della theologia (cf. VI, 5 e 12): 1) la theologia naturalis (cf.
VI,5 e 8), vera, eppure politicamente del tutto superflua (cf. IV, 27), propria dei
soli filosofi e deputata alla conoscenza dell’unico vero dio, l’anima del mondo
interpretata come unico logos stoico immanente nella natura (cf. VII, 6),
religiosamente rifratto in una pluralità di figure mitiche corrispondenti alla
pluralità delle sue funzioni provvidenziali; 2) la theologia civilis (cf. VI, 4-7), che è
invece la creazione dei principes dello stato, che si servono della religione come
instrumentum regni, necessario cemento dell’ordine e delle gerarchie sociali, che
assicuri la saldezza della fondazione politica e l’osservanza dei comandamenti e
dei vincoli politici, sociali, giuridici; 3) la theologia mythica o fabulosa o theatrica (cf.
VI, 5-7), mera specificazione operativa di quella civile o politica (cf. VI, 6-7; 9; 12),
in quanto dedicata ad elaborare e variare miticamente, nelle favole inventate dai
poeti e celebrate nei teatri, la configurazione rappresentativa, appunto
celebrativa, immaginaria e psicagogica (volta alla produzione della partecipazione
“fedele”, del consenso collettivi al culto sancito) della religione politica. Già

    15
       Cf. l’elogio di Varrone in CICERONE, Academica I, fr. 125, riportato in DeCivDei VI,2: “nos,
inquit, in nostra urbe peregrinantes errantesque tamquam hospites tui libri quasi domum reduxerunt, ut
possemus aliquando qui et ubi essemus agnoscere. Tu aetatem patriae, tu descriptiones temporum, tu
sacrorum iura, tu sacerdotum, tu domesticam, tu publicam disciplinam, tu sedem regionum locorum, tu
omnium divinarum humanarumque rerum nomina genera, officia causas aperuisti”. L’opera di
Varrone, quindi, è capace di rivelare i fondamenti della civitas, dando patria e casa a cittadini
altrimenti peregrini, ancorando quindi il corpo politico al fondamento religioso di Roma.
    16
        Cf. DeCivDei IV,27, ove, in riferimento a Scevola pontifex maximus, già si deduce la
tripartizione della religione in funzione del ruolo sociale che essa assume: “tria genera deorum:
unum a poetis, alterum a philosophis, tertium a principibus civitatis”. Per verificare l’attendibilità
storica della restituzione agostiniana del teologico-politico romano, cf. l’utile saggio di J. SCHEID,
La religione a Roma, Roma-Bari 1983. Più in part., cf. A. MANDOUZE, Saint Augustin et la religion
romaine, in “Recherches Augustiniennes” I, 1958, 187-223.
    17
       “Etenim quis est tam vaecors qui aut, cum suspexit in caelum, deos esse non sentiat, et ea quae
tanta mente fiunt ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit casu fieri
putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et
auctum et retentum? Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero
Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique hoc ipso huius gentis ac
terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia,
quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus”
(CICERONE, De haruspicum responsis, 19).
Gaetano Lettieri                                            53
perfettamente teorizzato dalla teologia politica romana è il carattere meramente
strumentale della religione (la religione pubblica non è né deve essere vera, ma è
e deve essere soltanto celebrata, deve cioè funzionare socialmente18), decisiva dal
punto di vista politico: senza religione, la civitas non può cementarsi, non può
essere né fondata né mantenuta, in quanto il rapporto con il divino fonda la stessa
pretesa di identità, di durata, di verità, di interna gerarchia sociale della civitas.
Questa è una macchina sacrale, che garantisce indennità, vita, potenza. Non è un
caso, allora, che Romolo, il fondatore della civitas romana venga, al tempo stesso,
riconosciuto nella sua mera umanità e mortalità, eppure divinizzato all’interno
del culto cittadino: non certo la verità della sua divinità, ma la sacralizzazione e la
celebrazione sociale del suo atto di fondazione politica è ciò che, per i romani,
rimane religiosamente decisivo19.
    La civitas terrena si presenta, pertanto, come comunità storica divinizzata, nella
quale il divino è al tempo stesso a) fondamento sacrale dell’identità sociale e
politica, b) instrumentum regni, cioè sacralizzazione di una determinata egemonia
politica, sociale e mondiale; d’altra parte, secondo la prospettiva apocalittico-
cristiana di Agostino, c) inconsapevolmente la religione romana è il culto pubblico
che, legando gli dèi-demòni alla città, sottomette ad essi, realizzando un
complesso meccanismo di alienante appropriazione idolatrica, attraverso il quale
l’altro (il divino), inghiottito nell’identico (l’immanenza del politico) in funzione
dal quale è riconosciuto e celebrato, è a sua volta l’identico (il potere superiore dei
demòni) nel quale l’altro (l’intera componente umana della civitas terrena) è
dominato e annullato: la logica dell’identità autoreferenziale (incapace di aprirsi
alla fede e al culto del vero Dio, assolutamente trascendente, indisponibile,
inoggettivabile) non può che culminare nel totalitarismo del potere egemone20.

     18
        Secondo Varrone, la theologia civilis stabilisce “quod” in urbibus cives, maxime sacerdotes,
nosse atque administrare debent. In quo est, quos deos publice sacra ac sacrificia colere et facere quemque
par sit” (citato in DeCivDei VI,5).
     19
        Cf. il confronto con Cicerone ed altre “scettiche” fonti romane sulla leggenda della
divinità di Romolo (cf. ad esempio LIVIO, Ab urbe condita I,16), religiosamente celebrata nel culto
romano, in AGOSTINO, DeCivDei III,15 e XXII,6.
     20
        L’inganno sociale, gerarchicamente perpetrato, è il fondamento religioso della civitas
terrena romana, che contribuisce a perdere quei cittadini che a lei si affidano per vivere,
conoscere, essere felici, finendo invece per essere perduti (secolarmente ed eternamente),
ingannati, infelici; cf. quanto Agostino afferma in riferimento al pontefice massimo Scevola:
“Expedire igitur existimat falli in religione civitates…Praeclara religio, quo confugiat liberandus infirmus,
et cum veritatem qua liberetur inquirat, credatur ei expedire quod fallitur” (IV,27). Così, in riferimento
a Varrone, Agostino denuncia il disegno egemonico dei potenti operato tramite lo strumento
religioso, “totum consilium prodidit velut sapientium, per quos civitates et populi regerentur. Hac tamen
fallacia miris modis maligni daemones delectantur, qui et deceptores et deceptos pariter possident” (IV,
31,1). “Hominum velut prudentium et sapientium negotium fuit populum in religionibus fallere et in eo
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Infatti, proprio nell’essere civiltà che si fa carico di mediare tempo ed eterno,
umano e divino (gli dèi), la civitas terrena realizza il desiderio (l’amor sui) della
creatura soltanto nella storia e nei suoi rapporti di dominio, di egemonia, di
trionfo secolare dell’uno sull’altro (dei potenti sulle masse, degli dèì/demoni su
tutti gli uomini). L’amor sui è la legge dinamica che governa l’identità della civitas
terrena: pulsione metafisica vitale e distruttiva, è il desiderio di assolutizzare
l’identità, di affermare la disponibilità e la proprietà del sé sugli altri e contro gli
altri, costituendo quindi un orizzonte politico-sociale (la civitas) autoreferenziale
ed identitario, attivando al suo interno rapporti (più o meno ingannevolmente
celati e ideologicamente mediati) di discriminazione, violenza, odio e
sopraffazione. La civitas terrena è allora l’universale civiltà umana che, nella storia,
vive di un disegno unitario di autoaffermazione che non può che originare, al suo
interno, una logica mortifera della violenza, dell’assoggettamento, del
fratricidio/omicidio unificata dal condiviso amor sui; essa aggrega per dividere,
unisce assoggettando, violentando, uccidendo, sacrificando lo stesso proprio
corpo sociale, presso il quale si celebra collettivamente il trionfo dell’identità
egemone21.
    Non a caso, quindi, a partire dalla Genesi, la nascita e la natura della civitas
terrena sono riportate a Caino, fratricida e primo fondatore di una civitas storica,
pertanto archetipo storico della civitas terrena (cf. XV,5). L’autistico amor sui di
Caino, rivelata dall’uccisione di Abele come dalla fondazione della prima civitas
storica (immagine perversa dell’unica, vera, felice civitas Dei), è rivelato sin dalla
perversione del suo stesso sacrificare a Dio, che determina il rifiuto divino e
________________________
ipso non solum colere, sed imitari etiam daemones, quibus maxima est fallendi cupiditas. Sicut enim
daemones nisi eos, quos fallendo deceperint, possidere non possunt, sic et homines principes, non sane
iusti, sed daemonum similes, ea, quae vana esse noverant, religionis nomine populis tamquam vera
suadebant, hoc modo eos civili societati velut aptius alligantes, quo similiter subditos possiderent. Quis
autem infirmus et indoctus evaderet simul fallaces et principes civitatis et daemones?” (IV, 32). Sulla
religione romana come instrumentum regni, mantenuto dai potenti pure se conosciuto come
falso e persino immorale, cf. soprattutto VII,34-35.
     21
        La civitas terrena, concretamente Roma come qualsiasi civiltà umana storicamente
costituitasi, “dividitur litigando, bellando atque pugnando et aut mortiferas aut certe mortales victorias
requirendo” (XV,4). Cf. l’importante confronto con il De republica di Cicerone, in DeCivDei XIX,21,
ove Agostino dichiara la strutturale ingiustizia della civitas romana, fondata sulla sopraffazione
e l’ideologica giustificazione, avanzata proprio da Cicerone, dell’utile asservimento
dell’inferiore per natura al superiore, quindi del dominio dei potenti e di Roma sulle masse e
sugli altri popoli, asservimento culminante nel sacrificare agli dèi. Per Agostino, proprio in
quanto idolatricamente fondata sul sacrificio ai demòni, quindi sulla negazione del
riconoscimento che solo all’unico vero Dio è dovuto il sacrificio, la civiltà romana non riconosce
a ciascuno il suo, non è fondata sull’autentica giustizia, è quindi costretta a riperpetuare al suo
interno un’alienante, ingiusta violenza.
Gaetano Lettieri                                            55
l’invidia fratricida. Se non si dà nessuna societas storico-politica senza relazione
fondante al religioso e senza visibile, pubblico sacrificio di culto, comunque il
teologico-politico cainitico riconosce Dio/gli dèi e sacrifica loro soltanto per
amare e affermare se stesso:

“Hoc ipso male dividebat [Cain], dans Deo aliquid suum, sibi autem se ipsum. Quod omnes
faciunt, qui non Dei, sed suam sectantes voluntatem, id est non recto, sed perverso corde
viventes, offerunt tamen Deo munus, quo putant eum redimi, ut eorum non opituletur
sanandis pravis cupiditatibus, sed explendis. Et hoc est terrenae proprium civitatis, Deum
vel deos colere, quibus adiuvantibus regnet in victoriis et pace terrena, non caritate
consulendi, sed dominandi cupiditate. Boni quippe ad hoc utuntur mundo, ut fruantur Deo;
mali autem contra, ut fruantur mundo, uti volunt Deo; qui tamen eum vel esse vel res
humanas curare iam credunt” (XV,7).

Il teologico-politico terreno (cainitico o romano) strumentalizza il vero Dio o i
falsi dèi, al quale/ai quali concede un sacrificio religioso puramente esteriore,
materiale, in quanto l’atto di culto è finalizzato unicamente all’amor sui e alla libido
dominandi che vorrebbe superbamente assolutizzarlo22, sicché il fratricidio rivela e
compie l’identica perversione del sacrificio autoreferenziale. Caratteristica del
teologico-politico terreno (pagano, ma anche cristiano pervertito) è quindi l’usare
Dio/gli dèi per fruire di sé, per affermare la res, la visibile realizzazione mondana
di sé – la civitas terrena vive “in re huius saeculi” (XV,21) - il possesso sacralizzato di
sé (il nome Caino è etimologicamente interpretato come possessio, mentre quello
di suo figlio Enoch, attribuito alla stessa civitas cainitica, è interpretato come
dedicatio, ad indicare l’esclusiva consacrazione terrena al saeculum23) tramite il
disporre dell’altro, mentre l’autentico teologico-politico cristiano accetta di usare
il mondo, la storia, la politica stessa, per fruire soltanto di Dio, indirizzando a Dio
un integrale sacrificio spirituale: il morire a se stessi, il sacrificare la propria
stessa identità, per confessare la scaturigine trascendente e gratuita del proprio
stesso amore. Interpretato come dono a Dio di parte di sé (di una parte del proprio
amor, che in realtà nel caso della civitas terrena è comunque illusoriamente
ripiegato su se stesso) o di tutto se stesso (nel caso della civitas Dei, l’amor della
creatura è tutto rimesso a Dio, confessato come dono di Dio da restituire a Dio), il

    22
       “Omnes si possint, suos facere velint [mali], ut uni cuncti et cuncta deserviant… Sic enim superbia
perverse imitatur Deum. Odit namque cum sociis aequalitatem sub illo, sed inponere vult sociis
dominationem suam pro illo” (XIX,12).
    23
       “Sicut autem Cain, quod interpretatur possessio, terrenae conditor civitatis, et filius eius, in cuius
nomine condita est, Enoch, quod interpretatur dedicatio, indicat istam civitatem et initium et finem
habere terrenum, ubi nihil speratur amplius, quam in hoc saeculo cerni potest” (XV,17).
56                                       Roma, il Principe e il Messia

meccanismo sacrificale (allegorizzato nella teoria dei due amores) è identificato da
Agostino come l’intimo principio di fondazione di ciascuna delle due civitates24.
     Nella stessa fondazione di Roma, supremo caput storico della civitas terrena, il
fratricidio e la logica del sacrificio autoreferenziale ritornano inevitabilmente
come indelebile marchio di appartenenza alla legge identitaria dell’amor sui, che
lega l’affermazione di sé - il conatus essendi che naturalmente si compie nella libido
dominandi – al desiderio di economia, alla legge dell’abitare terreno, dello stabilire
res, possessio e proprietà sacralizzata del sé. Sicché lo stare al mondo subordina il
riconoscimento dell’altro alla proprietà del sé, spinta sino all’assoggettamento e
all’eliminazione dell’altro. Come Caino fratricida è l’archetipo della civitas terrena,
così Romolo fratricida è la sua suprema imago storica (cf. XV,5): egli elimina
sempre l’altro, prima il “fratrem… quem cupiebat auferri” (XV,7,2) - “fratrem geminum
non pertulit” (III, 13); “ut ergo totam dominationem haberet unus, ablatus est socius”
(XV,5) -, quindi Tito Tazio Sabino - “Ut maior deus esset, regnum solus obtinuit”
(III,13) -. Roma, suprema realizzazione storica della civitas Dei, è dunque città-
civiltà sacrale fondata sul sangue, come confessa un verso di Lucano:

“fraterno primi maduerunt sanguine muri”. Sic enim condita est Roma, quando occisum
Remum a fratre Romolo romana testatur historia” (XV,5).

L’amor sui, la brama di divina identità, di unitas, di potestas assoluta, non può non
prolungarsi in politica, imperialistica libido dominandi (cf. I, Praefatio), ove
strutturale è l’immolazione dell’alter (“alter scelere ablatus”: III,6).

“Libido ista dominandi magnis malis agitat et conterit humanum genus. Hac libidine Roma
tunc victa Albam se vicisse triumphabat et sui sceleris laudem gloriam nominabat… Nam
et hoc plus quam civile bellum fuit, quando filia civitas cum civitate matre pugnavit”
(III,14,2).

La storia di Roma, fondata su un fratricidio, prosegue passando per il matricidio:
la libido dominandi, che cerca la gloria nella politica reductio ad unum, nella
delirante contrazione della totalità dello spazio nell’identità assoluta del punto25 -

     24
        Cf. G. LETTIERI, Sacrificium civitas est. Sacrifici pagani e sacrificio cristiano nel De Civitate Dei di
Agostino, in “Annali di Storia dell’Esegesi”, 19/1, 2002, 127-166.
     25
        “Le mythe fondateur romain, tel que nous l’a transmis Livius, fait débuter urbs et orbis
avec le tracé d’une frontière, avec la séparation du dedans et du dehors ainsi qu’avec
l’orientation de tous les intérêts républicains sur un centre de décision définissant l’espace
politique et monopol-politique. La politique, en particuliere ladite politique expansionniste
d’un empire, consiste en la réduction de l’espace en un point. Elle est donc, à proportions égales,
politique d’idéalisation et politique de puissance” (W. HAMACHER, Esquisse d’une conférence sur la
Gaetano Lettieri                                            57
la grande politica si rivela sempre ispirata da una perversa intenzione metafisica,
autodivinizzante - è sempre violenza intestina, autodistruttiva. La legge
immunitaria dell’identico degenera necessariamente in aggressione
autoimmunitaria. I “sacrificia homicidiorum” (VII,27,2) romani riperpetuano, così,
l’evento fondativo del fratricidio: vera e propria macchina sacrificale26, il
teologico-politico romano opera comunque la sacrale perdizione dei cittadini che
vi partecipano27, non soltanto delle masse immolate al perverso sogno
imperialistico di assoggettare il mondo e la storia sotto un potere unico e
universale (perverso idolo dell’unico potere assoluto di Dio)28, ma degli stessi
principes, ingannati dai demòni ai quali consacrano il loro stesso impero per
renderli complici del loro disegno egemonico29. La celeberrima condanna
agostiniana degli stati pagani, privi di giustizia, come “magna latrocinia”30, acquista
tutta la sua profondità soltanto se collegata al tema della natura
parenticida/parricida31 dell’identità terrena: la negazione dell’alterità (e in primo

________________________
démocratie, in M.L. Mallet (ed.), La démocratie à venir. Autour de Jacques Derrida, Paris 2004, 375-405,
in part. 404).
     26
        “Clarebant sacerdotia, fana renidebant, sacrificabatur, ludebatur, furebatur in templis, quando
passim tantus civium sanguis a civibus non modo in ceteris locis, verum etiam inter ipsa deorum altaria
fundebatur” (III,31).
     27
        “Ubi nihil daemones nisi negotium suum egerunt, non curantes quem ad modum illi viverent, immo
curantes ut etiam perdite viverent, dum tamen honori suo illa omnia metu subditi ministrarent” (II,22,1).
“Illa igitur res publica malis moribus cum periret, nihil dii eorum pro dirigendis vel pro corrigendis
egerunt moribus, ne periret; immo depravandis et corrumpendis addiderunt moribus, ut periret” (II,23,2).
     28
        La perversa libido dominandi è l’intenzione suprema e fondante dell’imperialismo romano,
che si traduce nel dominio patologico di pochi sulla massa strumentalizzata: “Ipsa libido
dominandi, quae inter alia vitia generis umani meracior inerat universo populo Romano, postea quam in
paucis potentioribus vicit, obtritos fatigatosque ceteros etiam iugo servitutis oppressit” (I,30). Sulla
logica violenta e criminale dell’imperialismo romano, cf. ad esempio IV,4 e 15; III,13.
     29
        “Non ob aliud daemones arrogantes sibi divinitatem deosque se credi cupientes sibi expetere
sacrificium et gaudere huius modi honoribus, nisi quia verum sacrificium vero Deo deberi sciunt”29.
Infatti, la civitas terrena “fecit sibi quos voluit el undecumque vel etiam ex hominibus falsos deos, quibus
sacrificando serviret illa autem, quae caelestis peregrinatur in terra, falsos deos non facit, sed a vero Deo
ipsa fit, cuius verum sacrificium ipsa sit” (XVIII,54,2). Sull’opposizione tra sacrificia fallaci e
dannatori imposti dai demòni (e giustificati dagli stessi filosofi pagani) e l’unico sacrificio di
Cristo confessato come fondamento della civitas Dei, cf. i libri IX e X; XV,7,1.
     30
        “Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? Quia et latrocinia quid sunt nisi
parva regna? Manus et ipsa hominum est, imperio principis regitur, pacto societatis astringitur, placiti
lege praeda dividitur. Hoc malum si in tantum perditorum hominum accessibus crescit, ut et loca teneat
sedes constituat, civitates occupet populos subiuget, evidentius regni nomen adsumit, quod ei iam in
manifesto confert non dempta cupiditas, sed addita inpunitas” (DeCivDei IV,4).
     31
        Com’è noto, parricida è in latino colui che uccide qualsiasi parente, dai genitori ai fratelli,
ai congiunti. Cf., in DeCivDei III,6 il parricidium di Romolo; in III,7, la definizione di Fimbria come
58                                    Roma, il Principe e il Messia

luogo dell’alterità assoluta di Dio, con il riconoscimento della quale è identificata
la iustitia32), si traduce in necessario trionfo totalitario ed idolatrico del sé, in
sistema politico di violenza impunita e celebrata.
    Alla civitas terrena Agostino oppone la civitas Dei, luogo sociale della fruizione
del vero Dio, teologico-politico, collettivo sacrificio spirituale al Dio-Trinità,
fondato dall’eterna, predestinante grazia di Cristo, radunato a partire dal suo
sacrificio storico. Mentre la civitas terrena è formata da demòni ed uomini (a quelli
asserviti) legati da un unico e autodistruttivo amor sui, la civitas Dei è formata da
angeli e uomini, tutti stretti dall’amor Dei, dall’amore di Dio operato dalla grazia di
Dio. Proprio in quanto populus, societas unificata dalla condivisione di un atto di
culto, insieme visibile - il sacramento battesimale ed eucaristico - e invisibile -
l’olocausto che è il sacrificio spirituale di tutti se stessi a Dio –, la stessa civitas Dei è
evidentemente una comunità teologico-politica, che trova nell’unico vero Dio-
Trinità, quindi in Cristo che storicamente lo rivela, il suo capo, il suo trascendente
unus, assoluto fondamento metafisico del corpo sociale. L’opposizione tra le due
civitates, pertanto, non è affatto l’opposizione tra religione (la civitas Dei come
invisibile comunità di fede) e politica (la civitas terrena incarnata da Roma), bensì
l’opposizione tra due modelli teologico-politici antitetici33: uno che immanentizza
il religioso nell’affermazione di una realtà puramente terrena, secolare, mondana;
l’altro che confessa, pure se all’interno della storia e del mondo - tramite la
rappresentazione religiosa pubblicamente, visibilmente condivisa della chiesa
cattolica -, la trascendenza irriducibile del religioso rispetto al saeculum, alla
storia, al mondo, a quella stessa sua sacramentale rappresentazione storica che
pure secolarmente lo rende presente e fruibile. Per Agostino, quindi, la politica è
sempre (perversamente o salvificamente) teologica, la teologia (pagana e
cristiana) è sempre politica. Così come la teologia politica è sempre ontoteologia,
ovvero l’ontoteologia è inseparabile da una dimensione teologico-politica: infatti,
la teologia politica dice l’aggregarsi sociale a partire dall’identificazione di un
principio riconosciuto come divino, potente fondamento di essere, di gloria, di
pace, sia esso il dio-demonio pagano o Romolo divinizzato (a testimonianza
dell’orizzonte esclusivamente statuale del religioso romano)34, sia esso il Dio-
Trinità.
    Eppure, se la civitas Dei è un corpo onto-teologico-politico, storicamente
operante - essa stessa chiamata a garantire indennità eterna del proprio essere,
________________________
parricida, in quanto distruttore romano di Ilio, città madre di Roma; e in III,15, la definizione di
Tarquinio il superbo come parricida per avere ucciso suo suocero.
    32
       Cf. supra, nota 30.
    33
       Cf. G. LETTIERI, Civitas in Agostino, in “Parola, Spirito e Vita. Quaderni di lettura biblica” 50,
2004, 181-211.
    34
       Cf., in proposito, DeCivDei XXII,6.
Gaetano Lettieri                                       59
sacrale, gloriosa identità celeste, che l’esalterà trionfando sulla civitas terrena
eternamente punita -, nel suo dinamismo spirituale essa testimonia una logica
radicalmente opposta a quella della civitas terrena: come rivela Abele, ucciso da
Caino e immagine del sacrificio di Cristo crocifisso come scaturigine dell’identità
sociale graziata - “… altitudo sacramenti, qua sanguis eius in remissione fusus est
peccatorum” (XVIII,49) -, la civitas Dei, proprio perché originata dalla grazia del Dio
eterno e protesa verso la pienezza escatologica della sua fruizione, non può che
vivere in hoc saeculo come peregrina, come colei che non abita davvero, come civitas
secolarmente infondata, che vive non in re, ma in spe, nella paradossale tensione di
una speranza, che anticipa ciò che non potrà mai possedere secolarmente:

“Gratia peregrinus deorsum, gratia civis sursum… Abel tamquam peregrinus non condidit
(civitatem)” (XV,1,2).

Mentre la civitas terrena vive della pretesa di possessio e di identificazione della
storia e del proprio stare al mondo, la civitas Dei peregrina (rappresentata dalla
parte spirituale invisibile nascosta all’interno della stessa chiesa cattolica e nota
soltanto a Dio) vive nel luctus35, nella morte a questo secolo e nella confessione
dell’alterità rispetto alla storia. Ma la decisiva opposizione tra le due civitates
dipende dall’essere fondata l’una dalla natura (decaduta, pervertita,
necessariamente autoreferenziale e violenta), l’altra dalla grazia: l’una dall’amor
sui (la legge del desiderio naturale, autistico e incapace di amore dell’alterità),
l’altra dall’amor Dei (la grazia di Dio, l’amore che Dio ha per l’uomo, che solo fonda
l’autentico, disinteressato amore dell’uomo per Dio)36.

“Sicut enim in uno homine, quod dixit apostolus, experimur, quia non primum quod
spiritale est, sed quod animale, postea spiritale (unde unusquisque, quoniam ex damnata
propagine exoritur, primo sit necesse est ex Adam malus atque carnalis; quod si in
Christum renascendo profecerit, post erit bonus et spiritalis): sic in universo genere
humano, cum primum duae istae coeperunt nascendo atque moriendo procurrere civitates,
prior est natus civis huius saeculi, posterius autem isto peregrinus in saeculo et pertinens
ad civitatem Dei, gratia praedestinatus gratia electus, gratia peregrinus deorsum gratia
civis sursum”37.

   35
      “Abel, quod interpretatur luctus,… mors Christi… figuratur” (XV,18).
   36
      Sull’assoluta centralità della teologia della grazia indebita e predestinata nel pensiero
maturo di Agostino e sulla sua complessa dialettica, cf. G. LETTIERI, L’altro Agostino, cit.
   37
      DeCivDei XV,1,2. Sul tema della grazia predestinata, cf. XI,19-21; XII,6-10; 27,2; XIII,23,3;
XIV,1; 10-11; 26-27; XV,1-6; 21; XVI,35; XVII,4; XIX,4,1; 13,1-4; 23,5; XX,15; 8,1; XXI,16; 24,3;
XXII,1-2; 24; 30,3-4.
60                                   Roma, il Principe e il Messia

Mentre l’uomo terreno o animale (l’uomo che vive sotto la legge) è prigioniero
della propria natura perversa, della coazione all’affermazione di sé come identico
e assoluto, l’uomo spirituale è l’uomo strappato a se stesso, al suo perverso
solipsismo, dallo Spirito: l’uomo che vive solo di grazia, di dono (caritas), di fede
(non nella res del suo potere, ma nell’apertura rischiosa all’altro che viene), di
attesa (spes) che l’evento dell’alterità torni sempre a visitarlo. Così, mentre la
civitas terrena celebra il divino per assicurarsi il possesso della propria identità
politica mondana, la civitas Dei celebra il divino per ringraziarlo di un dono
escatologico (ultimo, indisponibile, indebito, incondizionato, dipendente
dall’irruzione gratuita dello Spirito nel desiderio perverso della creatura) che
sottrae alla logica dell’identità e del possesso, mette in movimento verso l’evento
gratuito della civitas escatologica e carismatica, mai posseduta, né costruita
umanamente. Alla legge dell’autonomia e dell’assoggettamento all’identità
egemone si contrappone la legge dell’assoluta eteronomia, che fa irrompere nella
storia una logica dell’alterità e del dono, dell’alienazione salvifica
(dell’identificazione soltanto nell’alius e per l’alius) e dell’utopia (di ciò che nella
storia si dà come ciò che non ha mai effettivo luogo o res, ma come ciò che ha il
suo luogo e la sua realtà in un altrove, che è quello indisponibile del dono e
dell’evento). Le due civitates si oppongono reciprocamente opponendo, quindi, la
logica dell’identità alla logica dell’alterità, la logica dell’identificazione a quella
dell’alterazione (ove l’alter non è colui che dev’essere assoggettato o soppresso,
ma confessato come evento di grazia che costituisce la stessa identità come
donata), entrambe storicamente incarnate in strutture sociali collettive di
celebrazione visibile del divino. Mentre il teologico-politico pagano afferma la
radicale immanentizzazione del divino nel saeculum (quindi la fondazione della
divinità della propria identità, della storia come propria abitazione e possesso),
quello cristiano afferma la radicale trascendenza del divino rispetto al saeculum,
pur costituendosi come civitas storica, come chiesa che organizza il senso pubblico
religioso, la relazione collettiva e visibile degli uomini al sacro. Ad un sacrificio
perpetrato con violenza ai danni dell’altro chiamato a soccombere, la civitas Dei
risponde con il sacrificio subito da Dio stesso – e dai suoi testimoni, i martiri38 –,
ove Cristo è la vittima divina, che morendo dona la sua vita per la salvezza eterna
del corpo sociale che aggrega. Ad una civitas fondata sull’affermazione storica
dell’identità politica e del potere dei principes sulle masse, che si prolunga in
imperialistico disegno di assoggettamento violento di qualsiasi alterità, è
contrapposta una civitas che si aggrega storicamente come societas kenotica e
oblativa, caritatevole, che confessa l’unica possibilità di senso nel dono di sé, sino

    38
       Cf. DeCivDei VIII, 27: i martiri sono coloro che si sacrificano, ma ai quali non è dovuto alcun
sacrificio. Il loro sacrificio è, in tal senso, del tutto gratuito.
Gaetano Lettieri                                          61
alla morte di sé per amore dell’altro. Romolo, pertanto - interpretato come figura
di Caino, l’archetipo del fratricida fondatore di civitas terrena - può anche essere
esplicitamente contrapposto a Cristo, il vero Dio fondatore della civitas Dei, il
Messia che, morendo nel saeculum, rivela l’evento escatologico del dono gratuito
(cf. XXII,6-7): lo stesso asilo di Romolo (l’accoglimento nella nuova civitas di
criminali ai quali si dona il diritto di cittadinanza) è, per Agostino, figura
paradossale della giustificazione cristiana, che accoglie nella chiesa e nella civitas
celeste dannati ai quali toglie il peccato39. D’altra parte, Agostino ha ben presente
quanto scriveva Cicerone, riassumendo perfettamente la teologia politica romana:

“Neque enim est ulla res, in qua propius ad deorum numen virtus accedat humana, quam
civitatis aut condere novas aut conservare iam conditas”40.

La fondazione e la conservazione della civitas sono atti eminentemente teologici,
sacrali, religiosi: aprire e difendere l’orizzonte sociale del senso, l’identità della
patria, il possesso, la realtà, il potenziamento del proprio essere, celebrare
ideologicamente la gloria, la cultura e la civiltà fondate dal proprio potere,
significa assolvere quella funzione ontologica, o meglio ontoteologica, senza la
quale non si dà comunità umana, né singolo uomo. Ma è sempre inscritto,
all’interno di questo ruolo sacrale e religioso, l’atto della violenza che difendendo
uccide, fondando identità esclude alterità, curando l’essere proprio sacrifica
l’essere altrui. E’ forse possibile pensare un altro politico, un’altra civitas? E
quest’alterità è secolarmente rappresentabile, oppure rimane una pura astrazione
mistica? La peculiarità del teologico-politico agostiniano sta nella sua
paradossalità: la civitas Dei è storica, religiosa rappresentazione (la chiesa

    39
       Cf. DeCivDei I,34 e soprattutto V,17.
    40
       CICERONE, De republica I,7,12; cf. anche VI,13,13 (= Somnium Scipionis): “Sed quo sis, Africane,
alacrior ad tutandam rem publicam, sic habeto, omnibus, qui patriam conservaverint, adiuverint,
auxerint, certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruantur; nihil est enim illi
principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia coetusque
hominum iure sociati, quae “civitates” appellantur; harum rectores et conservatores hinc profecti huc
revertuntur”. Si noti quanto N. MACHIAVELLI scrive in Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,
edizione a cura di G. Inglese, Milano 1984, X,30: “E veramente, cercando uno principe la gloria
del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto
come Cesare, ma per riordinarla come Romolo. E veramente i cieli non possono dare agli uomini
maggiore occasione di gloria, né gli uomini la possono maggiore desiderare”; cf., inoltre,
Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in M. Martelli (ed.), N.
MACHIAVELLI, Tutte le opere, Firenze 1971, 30-31: “Credo che il maggiore bene che si faccia, e il più
grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto
in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le
repubbliche e i regni: questi sono, dopo quegli che sono stati Iddii, i primi laudati”.
62                             Roma, il Principe e il Messia

cattolica) di una realtà del tutto escatologica, quindi rappresentazione
dell’irrappresentabile, rivelazione di un’assoluta eccedenza, visibilità
dell’invisibile, presenza del dono indisponibile, sociale manifestazione storica
della partecipazione ad una comunità politica secolarmente inaccessibile e
segreta, che soltanto la grazia di Dio, il Dono che è lo Spirito Santo, fonda, regge,
conosce. In tal senso, il rapporto tra ontologico-politico e religioso, in Agostino, è
al tempo stesso un rapporto di compatibilità e di irriducibilità, di
rappresentabilità e di opposizione, di analogia e di dualismo. Per questo, quella
agostiniana è un’ambigua escateologia o escatontoteologia politica: la nuova (certo
solo escatologicamente compiuta) ontoteologia identitaria e immunitaria
comunque è accessibile unicamente tramite l’evento assolutamente gratuito,
indisponibile, anarchico ed escatologico (mondanamente incondizionato e
inattingibile) della grazia. Così, la provvidenzialmente trionfante, visibile,
pubblica celebrazione del religioso socialmente salvifico, quindi il teologico-
politico cristiano (la connessione analogico-rappresentativa tra il religioso e il
politico) è sì affermato come la nuova religione che sottomette il saeculum,
diffonde il nuovo culto e la nuova cultura salvifici, media il dono di grazia e libera
dal dominio del culto teologico-politico idolatrico – sicché è legittimo riconoscere
nella chiesa cattolica anche una storica retractatio del trionfante, intollerante
imperialismo romano, del suo mondiale affermarsi come gloriosa,
incontrovertibile verità -, ma è anche relativizzato come mera ombra rispetto alla
luce trascendente dell’escatologica civitas Dei, rispetto alla quale la stessa chiesa
cattolica è mera permixtio secolare tra (pochi) buoni e (molti) cattivi, quindi
ambigua coesistenza della fallacia della visibilità secolare e della divina verità del
nucleo di grazia che comunque, all’interno della chiesa, è nascosto, indisponibile.
Dunque, il religioso pubblico universalmente trionfante, l’identità sacrale
ontoteologica - il teologico-politico-imperialistico cristiano - è affermato da
Agostino soltanto come traccia ambigua dell’escatologico di grazia, in una
complessa tensione tra visibile e pubblica (appunto politica) presenza del sacro e
sottrazione del sacro al saeculum e all’ansia di res e possessio che lo caratterizza.
Possiamo anche esprimere questa peculiare tensione dialettica tra teologico-
politico ed escatologico come tensione tra logica dell’ordine ontoteologico (per il
quale il politico è strumento secolare di mantenimento della civiltà, della cultura,
della pace, dell’ordine e dell’essere creato e rivelazione di Dio come suprema
garanzia ontologica dell’essere, del senso e della pace mondani e celesti) e logica
del Dono, secolarmente operante, eppure mai traducibile in res, in oggetto
disponibile alla potenza identitaria, economica, autoassicurante della ragione e
della libertà dell’uomo, proprio perché evento gratuito, anarchico, che fa
irrompere un senso dell’essere assolutamente eccedente, altro, caritatevole,
kenotico, culminante nel sacrificio di sé per amore dell’altro. Dio, allora, è
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