TEORIA E ANALISI DEL DISCORSO 2021-22 - PROF. ILARIA TANI - Facoltà di Lettere e ...

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TEORIA E ANALISI DEL DISCORSO 2021-22

PROF. ILARIA TANI
Ancora sul modello di Ruth Wodak
Strategie referenziali
• La forma più semplice ed elementare di discriminazione linguistica e retorica è
 rappresentata dalla identificazione linguistica di persone o di gruppi di persone:

  • appellativi degradanti, umilianti e offensivi: antroponimi con funzione etnicista (Wodak-Reisigl
    2004: 279)

  • Ricorso alla sineddoche: uno specifico tratto o caratteristica viene selettivamente messo in
    evidenza come ‘una parte per il tutto’.

  • Procedure di esclusione (donne, minoranze etniche)

  • Posizionamento sullo sfondo (es. passivizzazione)

  • Nomi di professione

  • Somatonimi e riferimento alla sfera corporea (forme di oggettivazione secondo Van Leeuwen ma
    non secondo Wodak)

  • Nomi di assimilazione: «Un austriaco non lo accetterà mai»: costruzione di un’essenza di
    gruppo.
Strategie predicazionali
• Assegnazione linguistica di qualità a persone, animali, oggetti, eventi, azioni
 e fenomeni sociali.

• Le predicazioni sono linguisticamente più o meno valutative, esplicite o
 implicite, specifiche o vaghe.

• Sono principalmente realizzate mediante forme specifiche di referenza
 (basate sulla denotazione esplicita o sulla connotazione più o meno implicita),
 mediante attributi (in forma di aggettivi, apposizioni, frasi relative, ecc.),
 mediante comparazioni o figure retoriche:

  • Es.: “gli stranieri sono sempre privilegiati rispetto a noi”
         “gli stranieri sono responsabili degli alti tassi di disoccupazione”
         “gli stranieri non vogliono adattarsi, assimilarsi e adeguarsi”
         ecc.
Discriminazione tramite tropi
• Nella costruzione linguistica delle identità collettive la sineddoche, la metafora
  e la metonimia emergono come forme ricorrenti nella creazione di
  uguaglianze e livellamento delle differenze.

• Effetti   primari della metonimia e della sineddoche sono la de-
  individualizzazione, l’anonimizzazione, l’assorbimento referenziale e la messa
  in rilievo a scopo generalizzante di una selezione di particolarità condivise.

• Sineddoche: all’interno di un unico campo di referenza, un termine è
  sostituito da un altro la cui estensione semantica può essere più ampia o più
  ridotta.
   • Sineddoche particolarizzante (parte per il tutto) o singolare collettivo (singolare per il
     plurale): lo straniero, l’ebreo, l’italiano, lo studente ecc.
   • Sineddoche generalizzante (tutto per la parte)

   Entrambi i tipi possono essere strumenti di assimilazione e inclusione referenziale,
   producendo una generalizzazione e una focalizzazione dell’essenza stereotipata
   riferita in modo livellante a un intero gruppo di persone.
• Metonimia (cambiamento di nome): sostituzione che coinvolge due
 settori semanticamente adiacenti di referenza:

  • Prodotto per la causa: “Questo discorso nazionalista [in luogo dei suoi creatori]
    istiga la gente a compiere atti di ostilità nei confronti degli stranieri”
  • L’oggetto in luogo dell’agente: “i treni sono in sciopero”
  • Il luogo al posto delle persone che lo abitano: “Vienna non deve diventare Chicago»,
    “L’Austria non intende accettare nuovi immigrati”

  Le metonimie consentono al parlante di far scomparire gli attori responsabili di
  determinate azioni (o colpiti da determinate azioni), oppure di mantenerli sullo sfondo
  semantico.
• Metafora (trasferimento di nome)
  • Le personificazioni sono forme specifiche di metafora che consentono di collegare
    due campi semantici diversi, uno caratterizzato dal tratto semantico [- umano] l’altro
    dal tratto semantico [+ umano]. Usate spesso con finalità retorica per conferire
    forma umana a oggetti inanimati, a entità astratte, fenomeni, idee (soggetti collettivi
    immaginati, quali nazioni, etnie) o al contrario rappresentare in termini materiali e
    sensoriali soggetti umani.

  • Le metafore che tendono alla definizione dello spazio in termini di razza, nazione ed
    etnia sono ordinate attorno alle opposizioni binarie, non neutre dal punto di vista
    semantico e valutativo, di “interno”/“esterno”, “alto”/“basso”, “sopra”/“sotto”,
    “centro”/“periferia”, ecc.

  • Le metafore relative a “corpi” e “materialità” razziali, nazionali ed etnici sono spesso
    reperite nel settore dei fenomeni naturali: ambito meteorologico, biologico
    (animalizzazioni, vegetalizzazioni), ecc..
  • Metafore più frequenti nei discorsi tedeschi e austriaci sugli immigrati analizzati nella
    ricerca di Wodak e Reisigl (2004: 294):
     ! Disastri naturali: l’immigrazione/gli immigrati come valanghe e inondazioni
     ! Fuoco: effetti dell’immigrazione/dei conflitti tra gruppi etnici come fuochi che covano
       sotto la cenere
     ! Ebollizione, corpi estranei, sangue, malattia/infezione, guerra/invasione, ecc.
Strategie argomentative
• Convincere: ottenere un consenso razionale, più o meno “universalizzabile”
 (Perelman: uditorio universale); in linea con il concetto habermasiano di
 «comunicazione ideale”, “situazione comunicativa ideale”, (modello critico,
 anche se controfattuale e parzialmente utopistico, verso il quale tendere).

• Persuadere:     raggiungere un consenso “particolare”, cioè ristretto, in
 condizioni di sospensione della razionalità (sollecitazione di emozioni,
 suggestioni, fallacie argomentative) che costringono all’assenso attraverso
 l’inibizione della capacità di giudicare.

• Si tratta di una distinzione astratta e teorica, nei casi concreti non sempre è
 possibile distinguere chiaramente le due forme.

• Wodak ritiene però necessario considerare le 10 regole di van Eemeren e
 Grootendorst (Argumentation, Communication, and Fallacies. A Pragma-
 Dialectical Perspective, 1992), che dovrebbero costituire la base di un’etica
 del discorso.
Le 10 regole dell’approccio pragmadialettico
1.   Libertà di discussione: le parti non devono impedire l’un l’altra la possibilità di avanzare
     obiezioni sui rispettivi punti di vista;
2.   Obbligo di fornire motivazioni: chiunque avanzi un punto di vista è obbligato a difenderlo
     qualora gli venga richiesto
3.   Corretto riferimento al discorso pronunciato dall’avversario
4.   Obbligo di attenersi ai fatti e ad argomenti pertinenti al punto di vista avanzato
5.  Corretto riferimento alle premesse implicite: una persona può essere richiamata alle
    premesse lasciate implicite; per converso gli antagonisti non possono essere attaccati sulla
    base di premesse estranee ai loro enunciati
6. Rispetto dei punti di vista condivisi: una premessa condivisa non può essere respinta e per
    converso una premessa non può essere falsamente assunta come punto di partenza
    comune.
7. Uso di argomenti e di schemi di argomentazione plausibili: un punto di vista deve ritenersi
    definitivamente difeso se la difesa ha luogo per mezzo di argomenti nei quali viene
    applicato correttamente uno schema di argomentazione comunemente accettato.
8. Validità logica: gli argomenti utilizzati in un testo discorsivo devono essere validi o passibili
    di convalida mediante l’esplicitazione di una o più premesse inespresse.
9. Accettazione dei risultati della discussione: una difesa inefficace deve avere come risultato
    l’abbandono del punto di vista, al contrario una difesa efficace deve portare al ritiro dei
    dubbi dell’antagonista.
10. Chiarezza di espressione e corretta interpretazione: le formulazioni non devono essere
    tanto vaghe da risultare enigmatiche, né tanto ambigue da creare confusione e devono
    essere interpretate con la maggiore accuratezza possibile.
Violazioni delle regole
• Nella loro analisi della legittimazione persuasiva, manipolatoria,
 discorsiva della discriminazione Wodak e Reisigl registrano diverse
 violazioni riconducibili alle fallacie dell’argomentazione:

  • Argumentum ad baculum,
  • Argumentum ad hominem
  • Argumentum ad misericordiam
  • Argumentum ad populum
  • Argumentum ad ignorantiam
  • Argumentum ad verecondiam
  • Post hoc ergo propter hoc
  • Petitio principii
  Ecc.

  Inoltre evidenziano l’attivazione di topoi, schemi discorsivi utilizzati per giustificare il
  collegamento tra premesse conclusione.
Formato di partecipazione
• Strategie di coinvolgimento, soggettivanti: espressione di stati interiori, di
 atteggiamenti e sentimenti del parlante al fine di coinvolgere emotivamente
 l’ascoltatore:
  • Sintassi paratattica
  • Lessico semplice ed emotivo
  • Marche di enfasi e intensificazione (prosodica)
  • Elementi lessicali enfatici (davvero, molto, persino) di amplificazione (assolutamente)
  • Parlato sovrapposto
  • Discorso diretto
  • Ripresa della parola altrui
  • Forme personali

• Strategie di distacco o oggettivanti: espedienti discorsivi che codificano la
 distanza
  • Sintassi complessa, ipotattica
  • Lessico specialistico
  • Voce passiva e astratta
  • Forme impersonali
  • Discorso indiretto
Il modello di Foucault
L’ordine del discorso, 1971
• Discorso inaugurale al College de France, 2 dicembre 1970
• La parola è sempre una risposta a un discorso già precedentemente avviato
• Desiderio di porsi in continuità con quanto già detto, di non dover cominciare
  qualcosa di nuovo.
• A questo desiderio l’istituzione risponde offrendo forme ritualizzate, rendendo
  solenni gli esordi (vedi retorica classica), in modo da ricondurre il discorso
  all’«ordine delle leggi», per vigilare «sulla sua apparizione», per “onorarlo” e
  al tempo stesso “disarmarlo”: il potere del discorso deriva dal suo essere
  prodotto dell’istituzione (p. 4).

• Ipotesi centrale:
  «in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e
  distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i
  pericoli, di padroneggiare l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità» (p. 5).
  Tali procedure hanno effetti di potere sul sapere.

  «Ma che c’è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano
  indefinitamente? Dov’è dunque il pericolo?» (p. 4).
1. Procedure e sistemi di esclusione dal discorso
• Interdetto (parola interdetta): «non si ha il diritto di dir tutto […] non si può parlare di tutto in
  qualsiasi circostanza». Tre tipi di interdetto «si incrociano, si rafforzano, si compensano, formando
  un reticolo complesso»: «tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato o esclusivo
  del soggetto che parla», in particolare nelle sfere della sessualità (desiderio) e della politica (potere):
   «il discorso – la psicoanalisi ce l’ha mostrato – non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio
   […] il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso
   cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi» (p. 5).

• Partizione (partage) e rigetto: la parola del folle non è riconosciuta come tale (opposizione
  ragione/follia)
   «per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di
   verità. O cadeva nel nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifrava una ragione ingenua o scaltrita,
   una ragione più ragionevole di quella della gente ragionevole […] La follia del folle si riconosceva attraverso le sue
   parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte o ascoltate» (p. 6). La parola
   del folle è rumore.

• Opposizione vero/falso (volontà di verità): all’interno di un discorso, al livello di una proposizione
  la distinzione vero/falso non è arbitraria, non è istituzionale, non è violenta; occorre collocarsi su una
  diversa scala, quella della «volontà di verità» che attraversa la nostra storia per vedere «profilarsi
  qualcosa come un sistema di esclusione» (pp. 7-8). La volontà di verità poggia su un supporto
  istituzionale (pedagogia, sistema di libri, editoria, biblioteche, laboratori, ecc.) ed è riconfermata dal
  modo in cui il sapere è valorizzato e distribuito in una società. Il discorso vero è quello pronunciato
  «da chi di diritto, e secondo il rituale richiesto» (cfr. Teoria degli atti linguistici).
Volontà di verità: potere e sapere
• La “volontà di verità” (espressione ripresa da Nietzsche) indica un più o meno
  camuffato piano di potere che si esprime in forma di sapere.

• Il rapporto tra sapere e potere è complesso e procede in modo bidirezionale
  sottraendosi a uno schema di causalità:

   «l’esercizio del potere crea perpetuamente sapere e viceversa il sapere porta con sé effetti di
   potere» (Microfisica del potere, Einaudi 1977: 133).

• Non vi sono saperi innocenti. I criteri di razionalità e di scientificità, le demarcazioni
  disciplinari, l’autorità di cui godono alcuni autori, i luoghi di produzione e distribuzione
  delle conoscenze danno potere solo ad alcuni discorsi e ad alcuni parlanti, imponendo
  silenzi ed esclusioni. Questa valenza pratico-sociale dei discorsi è testimoniata dal fatto
  che istituzioni come la clinica, il manicomio o il carcere si configurano come la
  manifestazione esteriore dei regimi di potere del discorso medico, psichiatrico, penale.

• Il discorso vero ha assorbito in sé il discorso del desiderio e quello del potere che prima
  erano altrove e si è fatto volontà di verità.
• Nei poeti greci (Esiodo) vero era il discorso che incuteva rispetto e timore, quello
  pronunciato da chi era legittimato a farlo e secondo un rituale prescritto (il discorso
  della giustizia, del veggente): le condizioni della sua esistenza e la sua capacità
  performativa costituivano la verità del discorso (enunciazione, atto ritualizzato).

• Con Platone (contro i sofisti) la verità viene spostata su ciò che il discorso dice (senso,
  forma, oggetto, referenza dell’enunciato). Questo passaggio sta alla base della forma
  della nostra volontà di sapere.

• A partire dal XVI e XVII secolo la volontà di sapere impone al soggetto conoscente
  (prima ancora di ogni esperienza) una posizione, uno sguardo, una funzione (vedere
  anziché leggere, verificare anziché commentare); la storia della volontà di sapere
  mostra il cambiamento dei piani d’oggetti da conoscere, delle funzioni e posizioni del
  soggetto conoscente, degli investimenti materiali, tecnici, strumentali della conoscenza
  (p. 9).

• Questa volontà di verità poggia su un supporto istituzionale ed è confermata e
  rafforzata da un insieme di pratiche pedagogiche, editoriali, di ricerca ecc., ma anche
  dal modo in cui il sapere è ‘messo in opera’, valorizzato e distribuito.
• La volontà di verità tende a esercitare nella nostra società una sorta
 di pressione sugli altri discorsi (la stessa letteratura occidentale ha
 dovuto cercare sostegno nella scienza, cioè nel discorso vero): anche
 le pratiche economiche e la morale a partire dal XVI secolo hanno
 dovuto cercare le loro basi in una teoria della ricchezza e della
 produzione; e il sistema penale ha dovuto cercare il suo sostegno in
 una teoria del diritto e poi dal XIX secolo in un sapere sociologico,
 psicologico, medico, psichiatrico: «come se la parola stessa della
 legge non potesse più essere autorizzata, nella nostra società, se non
 da un discorso della verità» (10).
2. Procedure interne di controllo e delimitazione del
                       discorso
! Principio del commento: distinzione tra discorsi che passano e discorsi
 che restano (che vengono ripetuti, ripresi, riformulati, commentati) (p. 11).
 Qui l’identità «ha la forma della ripetizione, dello stesso» (p. 15): testi
 religiosi, giuridici, letterari, scientifici, che inaugurano una serie di nuovi atti
 discorsivi (citazione e riuso) (impossibilità di fissare stabilmente queste
 categorie, ciò che resta è la distinzione di funzioni; diversità di forme della
 ripetizione, vedi Odissea: p. 13).
 La funzione del commento è «dire infine ciò che era silenziosamente
 articolato laggiù. […] per la prima volta quel che tuttavia era già stato detto e
 ripetere instancabilmente ciò che, nondimeno, non era mai stato detto» (13).

 In tal modo esclude il caso dal discorso: ciò che può dire di diverso dal testo
 iniziale ha sempre la forma di quel testo stesso, che trova così il suo
 compimento: «il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell’evento del suo
 ritorno»: l’alea non riguarda ciò che è detto ma solo il numero, le forme, le
 sembianze e le circostanze della ripetizione.
! Principio dell’autore: inteso come «principio di raggruppamento dei discorsi,
 come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza» (p.
 13-14). Molti discorsi circolano senza essere riferiti a un autore (rumors,
 parola quotidiana, contratti e decreti, ricette tecniche. Nei campi della
 letteratura, della filosofia, della scienza invece «l’attribuzione a un autore è di
 regola». Tuttavia tale attribuzione «non svolge sempre la stessa funzione»
 (14): nel discorso scientifico è «indice di verità» a partire dal Medioevo, poi
 serve solo come contrassegno identificativo di un teorema, di una sindrome,
 ecc.; nell’ordine del discorso letterario la funzione dell’autore è cresciuta:
 dall’anonimato relativo delle opere dell’antichità, l’autore oggi ha la funzione
 di conferire unità al testo, rivelarne il senso nascosto, metterlo in riferimento
 con la storia reale: «l’autore è ciò che dà all’inquietante linguaggio della
 finzione le unità, i nodi della coerenza, l’inserzione del reale» (14): l’autore è
 una funzione, fissata in diverse forme nelle diverse epoche e in parte di volta
 in volta modificata (qui l’identità ha la forma dell’individualità, dell’io) (p. 15).
! Principio delle discipline:
• La disciplina si oppone al principio dell’autore in quanto «definita da un campo d’oggetti, da
  un insieme di metodi, da un corpus di proposizioni considerate vere, da un gioco di regole e
  di definizioni, di tecniche e di strumenti» che costituiscono una sorta di sistema anonimo, a
  disposizione di chi voglia servirsene).
• La disciplina si oppone anche al commento in quanto non si basa su un senso che deve
  essere riscoperto, né su una identità che va ripetuta, ma è ciò che consente la costruzione di
  nuovi enunciati: «Perché ci sia disciplina, occorre dunque che vi sia possibilità di formulare, e
  di riformulare indefinitamente, nuove proposizioni» (16).
• La disciplina riguarda un piano d’oggetti determinato (16) (es. la struttura visibile della
  pianta, il sistema delle sue somiglianze prossime o lontane, la meccanica dei suoi fluidi
  costituisce l’oggetto della botanica a partire dal XVII secolo, che si separa dai saperi
  simbolici e dal discorso sulle virtù delle piante dell’Antichità)
• Comprende un certo tipo di orizzonte teorico (es.: la ricerca sull’origine delle lingue e del
  linguaggio). Costituisce un filtro, uno sbarramento dei discorsi non omogenei ai criteri
  correnti, perciò è al contempo un insieme di errori e di verità: «Insomma, una proposizione
  deve rispondere a complesse e pesanti esigenze per poter appartenere all’insieme di una
  disciplina; prima di poter dirsi vera, o falsa, essa deve essere, come direbbe G. Canguilhelm,
  “nel vero”» (es. dello studio di Mendel sul carattere ereditario) (17-18).
• «La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso. Essa gli fissa dei limiti
  col gioco di una identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione delle regole»
  (18).

Queste tre funzioni di controllo (commento, autore, disciplina) sono certo anche «risorse per la
creazione dei discorsi» ma restano comunque «principi di costrizione» (18-19).
3. Procedure di controllo dei discorsi attraverso
             le regole della loro messa in opera
• Finalizzate a scongiurare l’imprevisto, l’alea: nessun soggetto parlante «entrerà
  nell’ordine del discorso se non soddisfa a certe esigenze, o se non è […] qualificato per
  farlo» (rarefazione del soggetto parlante); le regioni del discorso non sono tutte
  egualmente «aperte e penetrabili» (19).
• Lo scambio e la comunicazione non possono funzionare se non «all’interno di sistemi
  complessi di restrizione» (20):

   " Rituale: forma più superficiale ed evidente di questi sistemi; definisce la qualifica
     che devono possedere i soggetti che parlano; definisce i gesti, i comportamenti, le
     circostanze e tutto l’insieme dei segni che devono accompagnare il discorso; fissa
     l’efficacia supposta o imposta delle parole, il loro effetto su coloro cui son rivolte, i
     limiti del loro valore costrittivo. I discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici, e in parte
     anche quelli politici, non sono quasi dissociabili da questa utilizzazione di un rituale
     che determina per i soggetti parlanti sia proprietà singolari che ruoli convenuti» (20).

   " Società di discorso: hanno la funzione di conservare e proteggere i discorsi,
     facendoli circolare in uno spazio chiuso, muovendosi tra segreto e divulgazione (es.
     dei rapsodi, ma anche del discorso medico, economico e politico) (20)
" Dottrina: diversamente dalle società di discorso la dottrina aspira a diffondersi, a
 condizione del riconoscimento delle stesse verità e dell’accettazione di certe regole di
 conformità con i discorsi validati (forme dell’enunciato), il cui rispetto marca
 l’appartenenza del soggetto parlante alla dottrina: «la dottrina lega gli individui a certi
 tipi di enunciazione per legare gli individui tra di loro, e differenziarli per ciò stesso da
 tutti gli altri. La dottrina effettua un duplice assoggettamento: dei soggetti parlanti ai
 discorsi e dei discorsi al gruppo, per lo meno virtuale, degli individui parlanti». La
 dottrina è sempre «segno, manifestazione strumento» d’una appartenza, che è «di
 classe, di statuto sociale o di razza, di nazionalità o di interesse, di lotta, di rivolta, di
 resistenza o di accettazione» (22).

" Appropriazione sociale dei discorsi: l’educazione in via di principio è lo strumento
 che consente ad ogni individuo di accedere a qualsiasi tipo di discorso, ma di fatto la
 sua distribuzione è marcata «dalle distanze, dalle opposizioni e dalle lotte sociali. Ogni
 sistema di educazione è un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione
 dei discorsi, con i saperi ed i poteri ch’essi comportano» (23).
Queste quattro procedure sono strettamente interrelate, «costituiscono come
dei grandi edifici che assicurano la distribuzione dei soggetti parlanti nei vari tipi
di discorso e l’appropriazione dei discorsi da parte di una certa categoria di
soggetti […] son queste le grandi procedure d’assoggettamento del discorso».

  «Cos’è, dopo tutto, un sistema d’insegnamento, se non una ritualizzazione della
  parola; se non una qualificazione e una assegnazione di ruoli per i soggetti parlanti; se
  non la costituzione d’un gruppo dottrinale almeno diffuso; se non una distribuzione e
  un’appropriazione del discorso coi suoi poteri e i suoi saperi?» (23).

Qualcosa di analogo può dirsi anche per la scrittura, per il sistema giudiziario, il
sistema istituzionale della medicina (tutti sistemi di assoggettamento del
discorso).

  «Mi chiedo se un certo numero di temi della filosofia non son venuti a rispondere a
  questi giochi di limitazioni e di esclusioni, e forse addirittura a rafforzarli […]
  proponendo una verità ideale come legge del discorso e una razionalità immanente
  come principio del loro svolgimento, e riconfermando altresì un’etica della conoscenza
  che non promette la verità se non al desiderio della verità stessa e al solo potere di
  pensarla» (23).
Il disconoscimento del discorso nel pensiero filosofico
• Il passaggio cruciale è rappresentato dalla esclusione dei sofisti e dei loro paradossi.
• Il discorso viene ridotto a manifestazione del pensiero, pensiero reso visibile dalle
  parole.

• Questo disconoscimento della realtà del discorso nel pensiero filosofico ha assunto
  diverse forme:

   # Filosofia del soggetto fondatore - consente di elidere la realtà del discorso, il soggetto
     fondatore anima le forme vuote della lingua: «nel suo rapporto col senso, il soggetto fondatore
     dispone di segni, di impronte, di tracce, di lettere. Ma non ha bisogno, per manifestarli, di
     passare per l’istanza singolare del discorso» (24).

   # Filosofia dell’esperienza originaria - Il tema dell’esperienza originaria «svolge un ruolo
     analogo»: primitivo riconoscimento di significati aurorali che percorrono il mondo: «una primaria
     complicità col mondo fonderebbe per noi la possibilità di parlar di esso, in esso, di designarlo e
     di nominarlo, di giudicarlo e finalmente di conoscerlo nella forma della verità […] le cose
     mormorano già un senso che il nostro linguaggio non ha più che da far sorgere», di questo
     essere il linguaggio è «una sorta di nervatura» (24-25).

   # Filosofia dell’universale mediazione - Il tema della mediazione universale, il tema del logos
     che media tra il particolare e l’universale sembra riconoscere il ruolo del discorso. «Ma questo
     logos, a dire il vero, non è che un discorso già tenuto, o meglio sono le cose stesse e gli eventi
     che si fanno insensibilmente discorso dispiegando il segreto della loro propria essenza» (25).
• In queste tre direzioni del pensiero filosofico il discorso si riduce a un gioco: a un gioco
  di scrittura, a un gioco di lettura, a un gioco di scambio; in tutti e tre i casi il discorso è
  ridotto a significante.

• Se si vuole analizzare la persistente logofobia della nostra società occorre «rimettere in
  questione la nostra volontà di verità; restituire al discorso il suo carattere d’evento,
  togliere via infine la sovranità del significante» attraverso 4 principi di metodo (26) :

      $ 1. principio del rovesciamento: al posto delle tradizionali figure dell’autore, della disciplina,
        della volontà di verità, posti dalla tradizione come istanze fondamentali e creatrici dei
        discorsi, occorre «riconoscere il gioco negativo di un ritaglio e d’una rarefazione del
        discorso»;

      $ 2. principio di discontinuità: induce a trattare i discorsi come «pratiche discontinue, che si
        incrociano, si affiancano talora, ma anche si ignorano e si escludono»; senza dover
        immaginare un non detto o un impensato, un discorso «illimitato, continuo e silenzioso» che
        è stato represso o rimosso e a cui dovremmo restituire la parola.

      $ 3. principio di specificità: spinge a considerare il discorso come una pratica che si impone
        alle cose («non esiste una provvidenza prediscorsiva» che renda il mondo leggibile e
        «complice della nostra conoscenza» vs filosofie dell’esperienza originaria); «Occorre
        concepire il discorso come una violenza che noi facciamo alle cose, in ogni caso come una
        pratica che imponiamo loro; e proprio in questa pratica gli eventi del discorso trovano il
        principio della loro regolarità».
$ 4. principio della esteriorità: implica un movimento opposto a quello tradizionalmente
     orientato verso il «nucleo interno nascosto del pensiero», che si manifesterebbe nel discorso;
     si tratta di muovere dal discorso stesso, «dalla sua apparizione e regolarità» in direzione
     delle «sue condizioni esterne di possibilità», verso ciò che «dà luogo alla serie aleatoria di
     quegli eventi e che ne fissa i limiti» (Foucault 1971/2004: 27).

• Quattro nuove nozioni devono dunque guidare l’analisi, opponendosi, termine a
  termine, a quelle che hanno generalmente dominato la storia delle idee, dove «si
  cercava il punto della creazione, l’unità di un’opera, di un’epoca o di un tema, il
  contrassegno dell’originalità individuale, e il tesoro indefinito dei significati nascosti»
  (28):

   o evento (vs creazione)
   o serie (vs unità)
   o regolarità (vs originalità)
   o condizione di possibilità (vs significato) .

• Alle nozioni fondamentali «di coscienza e di continuità (con i problemi loro correlativi
  della libertà e della causalità)», «di segno e di struttura» subentrano quelle di
  evento e di serie, attorno a cui ruotano le altre: regolarità, alea, discontinuità,
  dipendenza, trasformazione» (29).

• I discorsi vanno considerati come insiemi di eventi discorsivi, caratterizzati da
  casualità, discontinuità, materialità.
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