Solo un riconoscimento istituzionale può salvare la musica dalla crisi

Pagina creata da Andrea Nardi
 
CONTINUA A LEGGERE
Solo un riconoscimento istituzionale può salvare la musica dalla crisi
Solo un riconoscimento istituzionale può
salvare la musica dalla crisi

Ormai è chiaro: fase uno, fase due o fase tre, la musica dal vivo sarà in ogni caso l’ultima a ripartire.
A livello globale, qualche settimana fa, in una conversazione sul New York Times l’esperto di
bioetica Zeke Emanuel, già al fianco di Obama nell’ObamaCare, ha immaginato come data valida
l’autunno del 2021 – un anno e mezzo giù dal palco, quindi. Se possibile, l’Istituto Superiore di
Sanità per l’Italia ha rilasciato delle stime ancor più nere: per loro, finché non si trova un vaccino
sarà impossibile solo ipotizzare assembramenti simili. Tradotto: zero concerti ancora per molto –
perlomeno per come li conosciamo.

Di fronte alla pressoché totale certezza di uno stop del genere, a due mesi dall’inizio lockdown è già
partito l’effetto domino su tutto il settore della musica, dall’industria discografica ai tecnici. Gli aiuti
economici? Sono inadeguati, o rischiano comunque di perdersi: vuoi perché molti enti del settore
non hanno riconoscimento giuridico specifico (e quindi vengono associati a figure simili, e trattati
come tali; ma con differenze in questo momento ancor più evidenti), vuoi perché trascurati
culturalmente, in un ambiente considerato alla stregua di un hobby – come denunciato dalle
associazioni di categoria, e testimoniato dal polverone che si alza a ogni appello degli artisti,
considerati dei miliardari che dovrebbero suonare e basta. Nel dubbio, andiamo per gradi.

L’industria discografica è a rischio?

Partiamo dall’alto. Un po’ di numeri: secondo la Fimi, dopo la chiusura dei negozi – complice anche il
fatto che molte delle uscite sono state posticipate a data da destinarsi – la vendita di cd e vinili è
crollata di oltre il 60%, arrivando al 70% se si considerano anche i diritti connessi. Una volta in casa,
saremmo dovuti passare allo streaming – che nel virtuoso mercato Americano vale il 90% del
fatturato del settore. Non è successo, per motivi ancora ignoti (certo è che si è preferita la tv, a
Spotify), e per il 2020 Siae ha messo in conto un danno da 200 milioni di euro per gli autori.

Non va meglio per la grande musica dal vivo, per la quale Assomusica parla – a fine estate – di un
rosso da oltre un miliardo, in gran parte per l’indotto. Per questo un appello come quello che Tiziano
Ferro aveva sollevato a Che tempo che fa era più che adeguato, e le critiche fuoriluogo: bisogna
sapere cosa fare, potersi organizzare; non tanto per gli artisti stessi, quanto per le 60mila persone
che vivono dietro le quinte, perché alle spalle di ogni grande evento (di ogni, diciamo, San Siro) ci
sono 200-300 fra tecnici, musicisti, promoter. E – se i grandi organizzatori di concerti adotteranno
dei voucher nei confronti dei clienti che chiederanno rimborsi, sia per i live cancellati che per quelli
posticipati – gli altri operatori, per adesso, non godono delle stesse tutele. Non tutti cadono in piedi,
insomma.

Gli intermittenti
Solo un riconoscimento istituzionale può salvare la musica dalla crisi
I più esposti alla crisi (e dimenticati dalle istituzioni) sono i lavoratori intermittenti, che nel sistema
dello spettacolo italiano sono 200mila. Precari e in gran parte lavoratori dei concerti, la loro
presenza massiccia nel settore è dovuta alle dinamiche stesse del mondo della musica, e per la
maggior parte sono raggruppati in cooperative – sia per avere più opportunità, sia per snellire gli
iter burocratici. Sono tecnici e maestranze varie: vivono di incarico in incarico, di mese in mese, e se
già la situazione non è granché per gli autonomi – che godono del bonus dei 600 euro ma che,
ovviamente, ripartiranno molto più tardi delle altre partite Iva – per loro, che sono “dipendenti”, è
anche peggio. Di fatto, sono stati i primi a fermarsi, ma finora non hanno avuto pressoché alcun
aiuto. Ed è un paradosso che nasce da lontano: chi crea cultura come loro, in Italia, è invisibile, non
riconosciuto, escluso da ogni contratto di lavoro.

Nel caso di questi tecnici ‘a chiamata’, per dire, stavano per ricevere la cassa integrazione in
deroga, ma poi l’Inps ha stabilito che l’indennità spettasse solo per le giornate in cui era già stata
effettuata una chiamata prima della chiusura totale: pochissime, se si considera che a referto ci sono
solo gennaio e febbraio. Ma non pensiamo solo a loro: fra le categorie più colpite dal lockdown ci
sono tanto i musicisti più piccoli, quanto gli artisti stessi. Al di là dei cantanti che riempiono gli stadi,
infatti, nel gruppo dei precari sono in tanti (compreso chi fa pianobar) a mantenersi con le proprie
esibizioni dal vivo.

Tutte queste categorie devono essere riconosciute autonomamente, sapere quando tornare a lavoro
e, in ogni caso, avere accesso ad ammortizzatori sociali come il reddito di emergenza, da cui tutt’ora
sono esclusi. Perché il rischio è che, di fronte alle difficoltà, decidano di cambiare mestiere: un guaio
non da poco, se si considera che si tratta di personale più qualificato della media, nonché altamente
specializzato. Per questo, quando tutto questo sarà finito ci si potrebbe trovare a organizzare di
nuovo concerti, sì… ma senza fonici, operai, tecnici.

Gli spazi che rischiano di sparire

Ma la crisi non risparmia neanche i live club italiani, che rischiano di sparire creando un problema
d’impoverimento di spazi – da sommare a quello relativo al personale. Parliamo dei piccoli locali di
musica dal vivo, dove le band propongono il loro repertorio originale, e che da noi non hanno un
inquadramento giuridico specifico: alcuni sono associati alle discoteche, altri ai pub; ma con costi
tecnici maggiori di quelli di entrambi, oltre che con necessità di programmare con largo anticipo le
serate. Adesso, quelli riconosciuti come imprese hanno ottenuto i primi fondi, mentre gli inseriti nel
terziario niente. Ma, con la prospettiva di essere comunque gli ultimi a ripartire, il rischio per
entrambi è di non riaprire affatto. Così, però, andrebbero perse venue essenziali per la nostra
musica, che oltre a rappresentare degli incubatori di cultura garantiscono spazio agli artisti che non
possono permettersi location più grandi, sopperendo anche all’assenza di strutture adeguate in
determinate zone del Paese.

La soluzione (come suggerisce l’associazione di categoria KeepOn Live) è applicare su quelle “mura”
un modello in stile cinema d’essai – ovvero: sgravi fiscali e tutele, stabilendo criteri oggettivi di
inclusione. Ritenerli, insomma, dei “centri di cultura”. Senza un intervento di questo tipo, il pericolo
è che per sopravvivere diventino altro – ristoranti, pub, discoteche. E sarebbe la conseguenza
naturale del mancato riconoscimento esclusivo: non inquadrati autonomamente pur essendolo di
fatto, per resistere si snaturano e finiscono col somigliare proprio a ciò a cui la legge tende a
equipararli. Rinunciando, così, alla loro peculiarità. E non sono neanche le sole oasi che rischiamo di
perdere: anche l’ecosistema dei Festival è a rischio. Svanita la programmazione di quest’anno,
bisognerà rivedere la prossima estate con quale voglia (e quali fondi) si potrà ripartire. E sempre se,
si potrà ripartire.

Ha senso pensare a delle alternative?
Solo un riconoscimento istituzionale può salvare la musica dalla crisi
Ora: al di là della riapertura dei piccoli negozi, non è comunque chiaro se l’industria discografica
saprà far fronte alla crisi della liquidità. Le nuove uscite, infatti, potrebbero essere rimandate a
lungo, perché legate a doppia mandata ad un’attività promozionale “dal vivo”, che sia l’instore o il
concerto. In questo senso, tutte le richieste (comprese le dieci, trasversali, delle principali
associazioni di categoria) vanno verso la conservazione della situazione attuale – il reddito
d’emergenza, gli sgravi fiscali. Al netto, ovviamente, di un riconoscimento giuridico degli enti
coinvolti. Ma è possibile pensare a delle alternative nel frattempo? Esiste un surrogato sostenibile
dei live o degli instore?

Per gli incontri col pubblico, anche in Italia è già stata provata (da Ghemon per l’uscita del suo
ultimo album, lo scorso 24 aprile) la soluzione “digitale”, con una sorta di video-call a due che
potrebbe sostituire l’abbraccio fra artista e fan. Certo: manca il contatto fisico, ma sarebbe una
modalità “nuova”, per certi versi paradossalmente più intima della rapida stretta di mano in negozio.
Semmai, quindi, resta da capire piuttosto quanti musicisti saranno disposti a pubblicare i loro lavori
senza la possibilità di suonarli dal vivo – visto che è qui la gran parte del problema, oltre alla più alta
concentrazione di precari da salvare.

Da una parte, i piccoli locali: che potrebbero riaprire a capienza ridotta, coi posti a sedere
distanziati, ma col dubbio che non sia un modello sostenibile a livello di ricavi e di costi di
sanificazione, e che gli artisti stessi non siano disposti a esibirsi a queste condizioni. Al netto anche
del fatto che, tra l’altro, il pubblico dovrebbe essere convinto a partecipare, a fronte del rischio
contagio. Dall’altro lato, è assurdo pensare che prima di un anno si possa tornare a suonare davanti
a più di (diciamo) mille paganti – ed è qui che la faccenda propone più soluzioni. Negli Stati Uniti,
per esempio, un set di Erykah Badu è disponibile in pay per view. In Italia, questo, è un modello che
per quanto riguarda i contenuti originali finora è stato adottato nella stand-up comedy da Luca
Ravenna, ma resta da stabilire se e quanto sia esportabile nella musica. Certo è che questo report di
Rockit racconta che il 75% degli intervistati non ama i live online, senza contare che gran parte dei
lavoratori ne rimarrebbero comunque esclusi.

Gli ostacoli, insomma, non mancano in nessuna delle due dimensioni – quella grande o quella più
intima dei live club. E il dubbio è che sia una questione di immaginario: concerti “fisici” ma con
stringenti limitazioni, privi di “assembramenti” e senza “contatto”, non sono facili da digerire per
nessuno, come rimarca anche lo scetticismo generale degli addetti ai lavori. Per questo, anche
quella della musica drive-in sembra un’idea poco percorribile – oltre che economicamente
insostenibile.

La parola d’ordine, allora, diventa “resistere”, con un eventuale ripensamento di alcune dinamiche
della musica dal vivo da valutare solo poi. Per ora, conta salvare gli operatori del mondo della
musica, e per farlo serviranno fondi e ammortizzatori sociali mirati. Quelli che non possono che
arrivare dopo un riconoscimento istituzionale specifico, che non proceda più per “assimilazione”. E
che parta dal presupposto che si tratta di agenti culturali.

Analfabeti sonori, cosa manca al pubblico (e
alla critica) di oggi?

Analfabeti sonori. Musica e presente è l’ultimo libro di Carlo Boccadoro, uscito da pochi mesi per
l’Einaudi. Si tratta di un breve testo, di fatto un pamphlet, in cui l’autore, compositore e musicista a
tutto tondo, vuole affrontare il tema della contemporaneità musicale, con un occhio di riguardo alla
situazione italiana. L’autore avverte fin da subito che alcune sezioni del libro sono già apparse su
alcune riviste, e lo testimonia il tono quasi da elzeviro che si rincorre lungo tutti i sette capitoletti in
cui si sviluppa il testo.

Si comincia con un brevissimo Diario di bordo (con interpreti e antiche leggende), in cui viene
introdotto quello che è un po’ il protagonista del libro e cioè la musica d’oggi, intesa come “musica
contemporanea”.

Occorre forse precisare che, seguendo un uso tradizionale ma oggi sempre più contestato, con
“musica contemporanea” l’autore vuole indicare quel repertorio di brani composti a partire dalla
seconda metà del secolo scorso che vogliono ricondursi alla tradizione della “musica classica” in
modo più o meno progressista, così che questa viene sviluppata, ripensata, rinnovata, senza perdere
una certa continuità con il passato. Il punto di partenza del libro è proprio quel rifiuto verso il
repertorio “contemporaneo”, quando non si tratta di indifferenza vera e propria, che proviene non
solo dal grande pubblico, ma persino da musicisti e direttori artistici.
Il tema è indubbiamente scottante perché riguarda il valore contemporaneo di quelle forme
artistiche che, in quanto sviluppo di una sensibilità formata perlopiù in seno ai movimenti
modernisti, si scontrano invece con quelle maggiormente diffuse dai mezzi di comunicazione di
massa.

Analfabeti sonori è insomma essenzialmente dedicato ad affrontare da diverse angolature il tema
della presenza nella società di oggi della musica di tradizione “classica”, quindi anche e soprattutto
di quella “contemporanea”.

Si parte con Organizzatori e interpreti (non tutti per fortuna), una discussione sul ruolo mostrato dal
“sistema musica” nel promuovere o affossare la musica nuova, per proseguire con il “debunking”,
come si usa dire oggi, dei luoghi comuni sulla musica contemporanea in Leggende.

La scrittura musicale dopo Internet e Attenzione all’attenzione sono invece dedicati a sviluppare il
tema delle conseguenze su mercato e modalità d’ascolto della “rivoluzione Internet”, per poi
giungere a conclusione nell’ultimo capitoletto che già nel titolo in forma di domanda e risposta,
contiene il punto di arrivo delle disquisizioni dell’autore: Una musica per pochi? Assolutamente no.

Una breve divagazione da questi temi è costituita da La Contaminazione (con la “c” maiuscola!): una
discussione non tanto sull’utilizzo in ambito musicale e artistico, a mio parere tanto abituale quanto
discutibile, del concetto di contaminazione, ma piuttosto una sorta di vademecum con tanto di lista
dei “buoni” e dei “cattivi” sui principi di quello che, a detta dell’autore, sembra essere un paradigma
importante della musica “classica” nuova.

Vorrei però concentrarmi sull’argomento principale del testo e cioè sul rapporto tra “musica
contemporanea” e società di oggi.

Si parte dalla constatazione dello scarso interesse per la musica non appartenente alla sfera pop,
che viene esibito dalla stragrande maggioranza delle persone (3), ma anche dai media, i quali
sembrano perlopiù considerare irrilevante sia la musica classica, sia, ancora di più, quella
contemporanea (5-6).

Anche sovrintendenti teatrali e direttori artistici, che spesso esibiscono una allarmante ‘non
conoscenza’ in materia (8), sembrano scegliere di assecondare l’immediato quanto superficiale
apprezzamento del pubblico (15).

Infine gli interpreti stessi (direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti) (9) sono rei di cadere in
depressione all’idea di aver a che fare con la nuova musica di derivazione classica. A tutto ciò si deve
aggiungere la trasformazione delle pratiche produttive, distributive e di ascolto portate dall’avvento
di Internet.

Il vero bersaglio della critica è la generale
riduzione dell’attenzione all’ascolto nei suoi
esiti più commerciali
Non si tratta però soltanto di conquiste in negativo. Boccadoro fa un breve elenco delle nuove
possibilità fornite da Internet, come la facile disponibilità delle fonti musicali, ma provenienti
soprattutto della tecnologia elettronica ed informatica in genere. Qui l’autore manifesta una sua
competenza non particolarmente aggiornata sull’argomento e preferisce fornire una serie di esempi
ad ampio raggio senza discuterli, mentre a mio parere sarebbe stato importante, nel contesto
dell’argomento, svilupparne la portata.

In ogni caso, ci limitiamo a correggere l’affermazione dell’autore secondo il quale il brano
elettronico Cosmic pulses di K.Stockhausen sarebbe stato pensato per centinaia di “piccoli
amplificatori” (leggi altoparlanti) (46), quando invece è semplicemente richiesta la diffusione su soli
8 canali.

È però ovviamente agli aspetti negativi di Internet e della tecnologia digitale in genere che
Boccadoro è più interessato. In particolare l’autore individua due conseguenze compositive che
emergono dall’incapacità generale del pubblico di affrontare le novità e di riflettere su ciò che
ascolta (48). La prima è il facile ricorso a formule che permettano l’immediata identificazione
dell’autore rispetto ai suoi concorrenti (49); la seconda è la scelta, operata da molti artisti, di
affidarsi ai cliché del pop più scontato (51) nel tentativo di accondiscendere ai gusti di massa per
scopi puramente commerciali.

Ma il vero bersaglio della critica è la generale riduzione dell’attenzione all’ascolto, che l’autore
esemplifica, nei suoi esiti più commerciali, con le durate eccessivamente brevi dei pre-ascolti di
iTunes (60) e con le playlist pre-digerite di Spotify organizzate attraverso dubbie e facili
categorizzazioni (71-74). Eccoci quindi arrivati alla stigmatizzazione di quell’“analfabetismo sonoro”
che dà il titolo al libro, vale a dire “l’incapacità di seguire strutture musicali che richiedono un
tempo significativo per esistere” (69-70) dovuta alla “scarsa capacità di attenzione” e
all’”impossibilità di concentrarsi a lungo” (70). E il risultato è la proposizione da parte dei servizi di
streaming di una “marmellata uniforme” al servizio di un ascolto superficiale (73) che non fa altro
che promuovere questo analfabetismo.

Fin qui il quadro, decisamente a tinte fosche, che l’autore ci presenta nel descrivere la situazione
culturale, italiana ma non solo, nei confronti di musica classica e contemporanea. Si tratta però di
situazioni fin troppo risapute, almeno da chi opera nel settore, ed è quindi il momento di chiedersi se
esistano possibili soluzioni a questo dato di fatto.

Purtroppo Boccadoro sembra dibattersi, per tutto il testo, tra il desiderio di restituire a istituzioni,
interpreti e pubblico un senso di musica, che la riporti, per così dire, ai fasti di un tempo e lo
sconforto di fronte al frustrante rifiuto di aprirsi ad esso anche da parte di persone capaci sì di sforzi
cognitivi, ma che preferiscono riservare ad altre forme artistiche, come il cinema o la letteratura.

Il testo non presenta soluzioni al “problema“
della musica contemporanea
Ecco quindi il tentativo di correggere i luoghi comuni condivisi da cui siamo circondati: è colpa o no
dei compositori se la musica contemporanea non la vuole ascoltare nessuno? E allora è giusto non
finanziarla? Quello del compositore è un lavoro vero e proprio? Non basta che sia gratificato dalla
sola esecuzione della propria musica?

Alla fine però, il testo non presenta né soluzioni al “problema“ della musica contemporanea, che
vadano al di là di una auspicabile scelta avventurosa, da parte di istituzioni e musicisti, di
promuoverla, né la possibilità di capire le possibili origini di questa situazione. L’ultima pagina del
libro è affidata alla speranza in una “platea di persone non abbruttute intellettualmente” (96) che
possa ancora concedere la sua fiducia ai compositori della tradizione, ma anche e soprattutto ai
compositori di oggi.
Ho una certa difficoltà a discutere il contenuto di questo testo, perché da compositore sento molto
questo risentimento verso una società che sembra aver tradito in qualche modo le aspirazioni dei
musicisti della generazione, mia e di Carlo Boccadoro. Dall’altro lato però mi rendo conto che per
affrontare adeguatamente lo stato attuale, nonché futuro, della cultura musicale occorre cercare
chievi di lettura del presente che siano al di fuori del nostra “comfort zone” cognitiva e culturale, per
quanto faticoso ciò possa essere.

Da compositore sento molto questo
risentimento verso una società che sembra
aver tradito le aspirazioni dei musicisti della
generazione, mia e di Carlo Boccadoro
In primo luogo, l’autore presenta un gioco di contrapposizioni che non è sempre limpido. A volte
parla di “musica classica” e di “musica contemporanea” come se fossero due aspetti della stessa
tradizione separati da un confine cronologico, ma come vedremo più sotto la questione non è così
semplice.

Se poi l’elenco dei rappresentanti della musica di tradizione “classica” è ampiamente articolata,
quello degli autori che vi si contrappongono è relegata a un generico insieme di autori pop e rock
più o meno d’antan che non riesce a rendere neppure lontanamente giustizia alle varietà della scena
musicale d’oggi. Si parla di Spotify, di Apple Music e di playlist, ma non di musica, che viene troppo
semplicemente caratterizzata dal semplice calcolo della durata di brani legati al pop internazionale.

Insomma, l’autore sembra ignorare le diversità della musica che circola oggi al di fuori della musica
contemporanea e del pop più standardizzato.

Si pensi anche solo, ad esempio, alla vastità e varietà dei generi che sono in qualche modo legati al
mondo della dance elettronica o all’ambient. Si tratta di decine e decine di generi e stili anche molto
diversi tra loro, come l’IDM, la Vaporwave, la Drone ambient, per nominare i primi che mi vengono
in mente, che non solo richiedono una grande capacità distintiva da parte del pubblico degli
appassionati, ma che presentano in alcuni casi tratti stilistici estremamente diversi tra loro.

Non è certo l’esposizione a stili diversi o la
sensibilità che manca al pubblico di oggi
E se il riferimento dell’autore sulle durate della musica d’oggi sembra essere i 2 minuti e 8 secondi
dell’I love it di Kanye West e Lil Pump, si pensi allora a Somnium di Robert Rich, classico della
Drone ambient, che dura ben 7 ore. Insomma, non è certo l’esposizione a stili diversi o la sensibilità
che manca al pubblico di oggi, quanto una sua direzionalità verso quei tratti distintivi che
caratterizzavano invece l’ascolto acculturato europeo tipico dell’Ottocento e in parte del Novecento.
E qui veniamo finalmente al “dunque”, cioè al punto forse più rilevante di questa recensione.

Abbiamo già accennato a quanto il termine “musica contemporanea” necessiti oggi di una revisione
proprio per la pressoché inconciliabile diversità delle pratiche compositive che sembra
rappresentare.
Il problema è però ben più vasto ed è dovuto alla incapacità di molti musicisti di area “classica” di
superare un’idea di musica che abbiamo ereditato dall’Ottocento. Fino almeno al 1830 sembrava non
esserci stato alcun interesse a manterere in repertorio brani che erano più vecchi di 20/25 anni al
massimo, perchè erano scritti seguendo gusti estetici ormai superati. E i “classici” erano appunto
quei pochi brani che si avvicinavano a quella soglia temporale, che assomiglia un po’ a quella che
oggi regola i gusti e le mode del pubblico di massa.

In un processo di enorme trasformazione culturale che inizia intorno al 1830 e si completa vero il
1870 si forma l’idea che i brani musicali del passato, che ora iniziano a essere chiamati
collettivamente “musica classica”, siano migliori e più importanti di quelli del presente, anche solo
per il semplice fatto che sono del passato, e vadano di conseguenza eseguiti più spesso dei brani
“contemporanei”.

Vengono inoltre sviluppati nuovi concetti come quello di sistema tonale e di armonia come la
intendiamo oggi, nuove discipline come la musicologia, rivolta proprio ad affrontare i documenti del
passato, e persino l’idea che dai concerti sia possibile ricavare denaro, con il conseguente sviluppo
di strategie di marketing, di istituzioni come le società dei concerti, le stagioni musicali, e infine con
la nascita del pubblico come lo intendiamo ancora oggi.

Insomma, possiamo dire che tutto quello che oggi crediamo di conoscere sulla cosiddetta “musica
classica” e che diamo per scontato nell’idea di musica tout court nasca proprio nella metà
dell’Ottocento. Non è questo il luogo adatto a sviluppare ulteriormente l’argomento, che può essere
approfondito leggendo testi come il notevolissimo “The great transformation of musical taste” di
William Weber.

Quello che qui è importante notare è che si viene a stabilire in quell’epoca un divario tra musica del
passato e quella del presente, ben prima che si formino stili che diventeranno tipici prima della
modernità e poi di ciò che è stato etichettato come “musica contemporanea” o “musica nuova”.

Sì all’ascolto di “musica classica”, sì anche
all’ascolto di “musica contemporanea”, ma
non certo perché chi ascolta l’una sia portato
ad ascoltare anche l’altra
Questo divario ci aiuta a capire come il pubblico della “musica classica” possa essere sempre stato,
in gran parte, ostile alla musica del presente. Ecco allora le intemperanze tipiche degli anni
Sessanta e Settanta, pensiamo all’occupazione del palco da parte del pubblico per impedire
l’esecuzione di brani di “musica nuova”, e infine al raggiungimento di quella sovrana indiffereza che
dagli anni Ottanta giunge fino agli appassionati di “classica” di oggi.

Se pur i compositori di “musica contemporanea” hanno spesso, ma non sempre, sviluppato la propria
estetica e il proprio stile a partire dalla tradizione “classica”, dal punto di vista della ricezione
pubblica essi hanno costituito fin da subito un corpo estraneo a questa. Non è dunque lecito
considerare la “musica contemporanea” come una semplice continuazione della “musica classica”,
anzi la loro nascita in quanto categorie musicali si pone constitutivamente nel segno
dell’antagonismo.

Dunque sì all’ascolto di “musica classica”, sì anche all’ascolto di “musica contemporanea”, ma non
certo perché chi ascolta l’una sia portato ad ascoltare anche l’altra, così come ascoltare la “classica”
non implica certo che si debba essere automaticamente appassionati di “metal”. E a maggior ragione
non ha senso sostenere che chi non ascolta “musica classica” o “contemporanea” debba essere per
forza un “analfabeta sonoro”, sia perché, come abbiamo accennato più sopra e contrariamente da
quanto sostenuto da Boccadoro, il repertorio musicale a nostra disposizione è immenso ed
estremamente vario anche senza includere la “musica contemporanea”, sia perché proprio questa
varietà apre allo sviluppo di sensibilità d’ascolto, che tuttavia possono essere lontane da quelle più
inerenti agli stili della “musica contemporanea”.

Che posizione prendere dunque di fronte alla
cultura musicale d’oggi?
Che posizione prendere dunque di fronte alla cultura musicale d’oggi? È assolutamente importante
conoscere il percorso che ci ha portato al presente, ma abbiamo visto come l’attenzione per la
musica del passato non sia certo una costante nella nostra cultura, anzi, si tratta di una scoperta
piuttosto recente, se si pensa che i primi documenti che segnano l’avvio della nostra storia musicale
sono datati intorno all’800 DC, cioè ben 1200 anni fa.

Oggi forse, quello che potremmo chiamare “la bolla della musica classica” sembra essere giunta al
suo esaurimento. Sempre meno persone sono interessate alla musica del passato, a meno che non
sia inserita in un processo di marketing del revival. E sempre meno sono interessate a una corretta
filologia, com’è anche testimoniato da una dilagante chiusura delle cattedre di Musicologia nelle
università del mondo.

Se per buona parte degli ascoltatori Vivaldi, Nyman e Rondò Veneziano possono essere
placidamente definiti “musica classica”, come ho sentito personalmente dire, bisogna ammettere che
questa ormai, più che un repertorio contestualizzato storicamente, è diventata essenzialmente un
brand, come la musica “New Age” o anche la stessa “musica contemporanea”, adatto a organizzare
gli scaffali di un negozio di dischi, a identificare il marchio di una radio o un target di pubblico.

Come nel film Essi vivono siamo in balia dei
mass media e soggetti alle riproposizioni di
brani, stili e generi
Dunque se esiste un’idea di analfabetismo che esuli dall’imposizione di uno specifico corpus
musicale e di una specifica accademia, questo può essere proprio legato all’apertura dell’ascoltatore
verso possibilità di ascolto, che riescano a sottrarsi alla chiusura delle proprie abitudini. Si tratta
dunque di promuovere la flessibilità dei propri criteri d’ascolto, la curiosità e in definitiva la
possibilità di sviluppare sempre nuove sensibilità.

In questo senso, chiusi nel proprio mondo musicale, è possibile essere analfabeti sonori e allo stesso
tempo grandissimi esperti di “musica classica” o di qualsiasi altro genere/repertorio, nessuno
escluso. Ma se ciò che dobbiamo evitare è la tentazione di rinchiuderci nella gabbia dorata delle
nostre abitudini d’ascolto, allora le nostre possibilità di alfabetizzazione saranno, almeno
parzialmente, controllate da chi è in grado di formare queste abitudini e ha interessi a vincolarci ad
esse. Come nel film “Essi vivono” di John Carpenter siamo in balia dei mass media e soggetti alle
riproposizioni di brani, stili e generi.

Solo con uno sforzo continuo della volontà, la cui possibilità è purtroppo concessa a pochi, sarà
possibile smascherare le costruzioni e costrizioni dei media per rivolgerci alla nostra frontiera
d’ascolto, che è diversa per ognuno di noi e può quindi avere le sembianze della “musica
contemporanea” come della “Vaporwave”.

E in tutto questo che ne è del libro di Carlo Boccadoro? L’autore di “Analfabeti sonori. Musica e
presente” sembra arroccato su una posizione in cui la “musica classica” viene presa, per i motivi che
abbiamo elencato, come testimonial impossibile della “musica contemporanea”.

Boccadoro, nonostante la varietà delle sue
pratiche musicali, finisce con il prendere una
posizione accademica
In tutto il libro si assapora inoltre uno stile personalistico che ben si sposa con una certa apoditticità
con cui i “buoni” sono separati dai “cattvi”, tutto sempre sotto l’egida inconsapevole della “musica
classica”. E così Boccadoro, nonostante la varietà delle sue pratiche musicali, finisce con il prendere
una posizione accademica dal quale sfornare diktat bonari, che non giova alla discussione.

Ma proprio per come si pongono stile e contenuto nonché per gli esiti di una critica che si
accontenta di prendere la forma di un appello a istituzioni e musicisti è difficile togliersi dalla testa
che alla fine il libro appaia più una sorta di spot pubblicitario per l’autore, che l’impostazione di un
discorso critico.

Non è un caso che lo stesso titolo esibisca un epiteto negativo, quasi un insulto, che ben si adegua
alla moda emersa negli ultimi anni di usare nei titoli di libri divulgativi o di costume, termini come
“cretino”, “stupido” e adesso anche “analfabeta”, per irretire il lettore, che certamente non si ritiene
tale. Ma forse proprio l’epiteto al centro del testo poteva fornire l’occasione di contestare l’abitudine
di pubblico e istituzioni d’oggi di considerare la musica, tutta la musica, come forma di
intrattenimento, con tutti i problemi di valore che ne risultano.

Certo ci si può divertire con la musica, ci si passa il tempo e si può persino usarla come strumento
terapeutico. Ma la musica è prima di tutto pensiero, spesso inconsapevole, a volte invece preciso al
punto da diventare sgradevole e scomodo. Questa idea di musica e le pratiche compositivo-esecutive
che ne sono derivate, sono emerse alla consapevolezza solo negli ultimi cento anni.

Per questo motivo e cioè per la valenza critica, innovativa e visionaria della musica va sostenuta la
produzione di nuova musica, ma anche lo sviluppo di sensibilità d’ascolto, che non debbano essere
vincolati agli esiti del botteghino. Non per la maggiore o minore adesione a una tradizione.

Purtroppo però questa argomentazione si lega a una discussione più ampia sulla cultura e forse
noiosa per il pubblico generalista e non viene affrontata adeguatamente, per dire un eufemismo, nel
libro di Boccadoro. Il che è un peccato, perché come detto all’inizio si tratta di un argomento
scottante, ma che richiede uno sforzo argomentativo che non sembra essere nelle corde dell’autore.

Insomma, “Analfabeti sonori. Musica e presente” è alla fine un’occasione persa che mi auguro abbia
almeno la forza di stimolare una riflessione sulla contemporaneità musicale. E se non è detto che la
“musica contemporanea” ne uscirà vittoriosa, che almeno la sua dipartita sia foriera di nuova musica
e di nuove sensibilità.

Immagine di copertina da Unsplash: ph. Spencer Imbrock

Come cambia il mondo del clubbing nell’era
della digitalizzazione totale

Questo articolo fa parte di Club Futuro, il percorso supportato da cheFare sull’Economia della Notte
e la cultura del clubbing.

La sociologa Sarah Thornton definisce la club culture come “l’espressione colloquiale con cui si
indicano le culture giovanili, il cui cardine della vita sociale è rappresentato dai locali notturni”. Ma
nell’era della digitalizzazione e della liquidità Baumaniana ha ancora senso dare così importanza agli
spazi fisici in riferimento al clubbing?

Gli esordi: dalla musica dal vivo alla musica registrata su disco

Partiamo da un presupposto: la storia del clubbing affonda le sue radici nel cosiddetto passaggio
dalla musica dal vivo alla musica registrata su disco. Il progresso tecnologico è stata la linfa vitale di
questo movimento, un processo inevitabile e inarrestabile che ha reso la fruizione musicale ubiqua e
popolare. Una conquista a dir poco rivoluzionaria che negli anni Settanta trasformò i locali in punti
di riferimento, dove esercitare nel fine settimana la libera espressione di sé e il proprio rito di
passaggio verso l’età adulta attraverso quell’indipendenza tanto sognata sia dalle restrizioni di
orario sia dalle norme e dai divieti. I club avevano, infatti, saputo fare quello che nessun altro spazio
aveva ancora realizzato, ovvero aprire le porte della percezione, permettendo l’ingresso in un’altra
dimensione temporanea, emozionante e carica di energia, dove poter godere delle sensazioni date
dal ritmo e dalle luci e abbandonarsi ai piaceri del corpo e dell’anima.

I club avevano saputo fare quello che nessun
altro spazio aveva ancora realizzato: aprire le
porte della percezione in un’altra
dimensione, temporanea
Essere clubber assunse dunque un’accezione ben precisa, consistente nell’abbracciare uno stile di
vita alternativo, condividere interessi e passioni, sentirsi parte di un ambiente “sotterraneo”, dai
confini permeabili e assolutamente fluidi, in grado di trasmettere i valori di questo movimento, come
il progresso, la libertà e l’emancipazione, tipici di una mentalità molto aperta, tollerante e priva di
tabù. Ma non solo. Essere clubber significò, anche, vivere per il ballo sfrenato e il dancefloor,
frequentare assiduamente i club, non aspettare altro che fruire di queste valvole di sfogo per
evadere dalla quotidianità e divertirsi insieme ad altre persone, godendo senza vincolo alcuno del
momento contestuale alla festa, nel suo “qui ed ora”.
Qualcosa però nel tempo è cambiato.

Oggi: virtualizzazione e smaterializzazione nel clubbing

Oggi il modo di vivere il mondo della notte non è più lo stesso di un tempo e il progresso tecnologico
ha avuto di nuovo un ruolo determinante nel processo evolutivo del clubbing, spostando però questa
volta le interazioni dalla dimensione sociale verso quella virtuale e individualista, con non poche
conseguenze.

Innanzitutto è cambiato il rapporto con gli spazi. Se un tempo i club rappresentavano dei “nidi
protetti”, delle “seconde case” dove scaricarsi e incontrare altri clubber in una situazione familiare
ed intima, attualmente i locali (fatte rare eccezioni) sono sempre meno fonte di identificazione e
neppure così indispensabili per vivere in prima persona degli eventi musicali. La Boiler Room ne è
un esempio.

La Boiler Room: la dissoluzione dei tradizionali ostacoli alla partecipazione
L’esperimento di Boiler Room è una prova di questo ruolo sempre meno centrale del luogo fisico
nell’esperienza del clubbing: perché andare in un locale reale con tutti i suoi difetti e problemi,
quando si può partecipare ad un evento trasmesso online restando comodamente a casa?

Nato a Londra nel 2011, Boiler Room ha saputo restare al passo con i tempi e cogliere via via i
bisogni crescenti da parte dei giovani digitalizzati, dimostrando, infatti, con grande successo, che
fosse giunto il momento di creare una sinergia tra il clubbing e la tecnologia streaming, a costo di
rompere gli schemi anche più simbolici ormai consolidatisi nel quadro degli eventi musicali
underground. Nessuna “selezione all’ingresso”, nessun ostacolo alla partecipazione né “battaglia”
per essere in prima fila sotto la consolle. Nessuna interazione con altre persone, neppure tra dj e
clubber (che fanno più che altro da sfondo scenografico o sono online) pur di spostare l’attenzione
dalla performance in sé ad un format di fruizione del tutto nuovo e on screen.

Ed è proprio questo un altro punto focale della questione: la scena del clubbing ha dovuto imparare
a sfruttare a proprio vantaggio il rapporto con i media per continuare a curare e alimentare la sua
community di appassionati.

Club e nuovi media, cambiamenti e opportunità

Condannati e demonizzati da sempre, in quanto demolitori del DNA delle subculture underground, i
media mainstream nel corso degli anni hanno inevitabilmente assunto un ruolo differente per la club
culture, certamente per quanto riguarda la mera promozione degli eventi, ma soprattutto per il
mantenimento, se non ampliamento, di una collettività di persone autenticamente interessate alla
musica elettronica.

L’uso di live chat, like e tweet nel corso dei broadcast di Boiler Room sono solo un esempio di come
l’uso del web abbia permesso di abbattere i confini geografici e anche temporali invogliando la
costruzione di una community online di clubber.

Oppure si pensi al caso più eclatante di Vaporwave, il primo movimento musicale ed estetico nato
intorno al 2010 all’interno di alcune comunità online, e senza quindi alcun tipo di radice geografica.
Una subcultura retro-futuristica che deve la sua esistenza a social media quali Tumblr, 4chan o
Reddit e il cui capitale sottoculturale è definito non solo dalla distinzione dalla propria classe sociale
di appartenenza e dal resto della società mainstream, ma anche dall’uso che si è fatto di Internet per
accedere alla musica, a dei nuovi generi di nicchia, al di là di quelli popolari.

Va da sé allora che l’accesso al mondo digitale possa essere considerato senz’altro uno strumento
utile alla costruzione della propria identità personale e sociale in modo più autentico, collegando
quindi persone accomunate realmente da interessi affini, che non hanno bisogno di dimostrare nulla
a nessuno.

Semplicemente nel web non contano più gli stili estetici, i vestiti, gli atteggiamenti. Ognuno può
sentirsi libero di essere chi davvero vuole, con un suo nickname e una spontaneità unica in grado di
rinforzare realmente i propri interessi, non più spinti quindi dai legami sociali, ma dalla propria e
unica personale curiosità che a fronte di una fonte illimitata di informazioni può forgiare i propri
gusti musicali al di là di ogni tipo di condizionamento.

E poi esiste Spotify, che al momento conta più di 30 milioni di brani disponibili praticamente
gratuitamente. Come cambia quindi il ruolo della musica e del dj nei club contemporanei?

Il cambio di prospettiva sui dj

Se da una parte grazie alle più disparate app e piattaforme presenti sul mercato l’accesso alla
musica si è democratizzato nel tempo, dall’altra però il ruolo “educazionale” dei dj è stato messo a
dura prova.

I deejay, infatti, sin dalla loro nascita hanno svolto una funzione essenziale, declinata in più attività:
far ballare, creare un clima di festa, trasmettere energia al dancefloor e, non da ultimo, condurre la
pista in un viaggio, in una sorta di storia raccontata tramite le tracce. Un ruolo impegnato, dunque,
non solo nel proporre il disco giusto al momento giusto nel corso della serata, ma anche nel
ricercare e anticipare nuove tendenze, sonorità e generi, “creando gusti” attraverso un’accurata
selezione musicale.

Oggi il riconoscimento di questo compito pare si stia indebolendo rispetto ad una volta, come se per
i giovanissimi contasse non tanto la bravura e la capacità di far scoprire delle nuove linee di suono,
quanto il profilo artistico – e perché no il brand annesso, evento o locale famoso che sia – il cui
successo è decretato dal numero di follower e dal tipo di attività pubblicate su Instagram,
esattamente come dei veri e propri VIP da seguire e a cui ispirarsi.

Vivere il qui e ora, oppure postare sui social?

A tal proposito, c’è anche un altro aspetto da considerare. Sebbene i social media abbiano il merito
di aver aperto la possibilità di creare nuove connessioni interpersonali, tuttavia hanno anche causato
una progressiva riduzione della capacità di vivere gli eventi.
L’affermazione online della propria
personalità digitale ha oramai lo stesso peso
(se non maggiore) della propria realizzazione
Il rischio che corrono, infatti, i Millenials (ma non solo) è che per privilegiare la vetrinizzazione e
spettacolarizzazione di sé stessi attraverso le stories, i video e le foto, le loro esperienze vengano
offuscate dal tentativo di testimoniare la propria presenza, invece di godere realmente
dell’opportunità di interagire faccia a faccia con gli altri, stabilendo un contatto diretto all’interno di
una comunità più “vicina” e familiare.

L’affermazione online della propria personalità e status digitale ha oramai quindi uguale peso (se
non maggiore) della propria realizzazione offline e fisica. Insomma, probabilmente questo è uno dei
momenti più delicati della storia del clubbing.

Le organizzazioni di eventi musicali, così come i gestori degli spazi, devono cercare al più presto di
rispondere ai cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi anni, se vorranno riuscire a mantenere e
soprattutto a riavvicinare le persone ai dancefloor.

I club e la musica d’altronde hanno già giocato in passato un ruolo essenziale come veicoli di
socializzazione, lo hanno saputo fare senza distinzioni di razza, classe sociale o orientamento
sessuale. Oggi dunque il mondo del clubbing ha tutte le carte in regola per ricostruire una scena in
una modalità un po’ meno miope e forse maggiormente attenta ai bisogni e alle attitudini attuali di
una società in continua evoluzione, sempre più digitalizzata, ma allo stesso tempo anche più insicura
e individualista.

In fin dei conti, la questione di fondo è semplice. C’è bisogno di far riscoprire alle persone delle
emozioni, un senso di affiliazione e appartenenza, delle connessioni autentiche che tornino a farle
sentire protagoniste e, tutto sommato, meno sole.

Immagine da Unsplash

Sassiscritti. L’importanza di essere piccoli

Per il terzo anno consecutivo l’associazione culturale di Porretta Terme Sassiscritti organizza un
festival molto particolare: L’importanza di essere piccoli. Dal 4 al 9 agosto sei piccoli comuni
dell’Appenino Tosco-Emiliano ospiteranno incontri letterari e concerti.
Noi di doppiozero abbiamo avuto l’occasione di conoscere Sassiscritti lo scorso anno, quando furono
selezionati per la fase di votazione online del bando cheFare. Quello che ci colpì fu il loro
radicamento sul territorio e la loro capacità di produrre eventi culturali di alto profilo “dal basso”,
attraverso un’offerta tutt’altro che commerciale in grado di valorizzare, attraverso la qualità dei
singoli interventi, luoghi poco noti e comunità locali.

Se è vero che l’abbandono dei borghi rurali è un fenomeno diffuso e apparentemente inarrestabile, è
proprio attraverso esperienze come queste che è possibile andare a riscoprire realtà che si trovano
al confine geografico e culturale. Operare una resilienza capace di vincere le dinamiche socio-
demografiche centripete di questi luoghi attraverso azioni e pratiche inusuali è una sfida che si può
affrontare solo se si è provvisti di lungimiranza, dedizione, energia e risorse. Quello che fa la
differenza è spesso la presenza di vere comunità locali che agiscono secondo logiche di
partecipazione e condivisione. L’esperienza che Sassiscritti testimonia attraverso L’importanza di
essere piccoli è significativa proprio per la capacità di creare occasioni di incontro e conoscenza
reciproca tra visitatori e abitanti, grazie a concerti e reading dei protagonisti della scena musicale e
letteraria.

A pochi giorni dall’inizio del festival abbiamo intervistato le due organizzatrici, Azzurra D’Agostino e
Daria Balducelli, per farci raccontare qualcosa in più della loro attività.

Raccontateci come nasce la vostra associazione culturale, quali obiettivi avevate in mente quando
siete partite e da quali percorsi professionali arrivavate.

SassiScritti nasce nel 2006 – dall’idea di alcuni amici che già si occupavano di cultura o venivano da
esperienze associative precedenti (oltre a noi Luisella Meozzi, giornalista, e Andrea Biagioli,
musicista) – per cercare di realizzare delle iniziative che potessero essere create e sviluppate in
modo libero secondo un’ idea di cultura non generica ma pensata e condivisa e che potessero, con
un po’ di fortuna, anche diventare la base per un lavoro in questo campo. Il cuore della progettualità
si sviluppava a partire dai dati di fatto, dai fattori contingenti e vincolanti come il luogo in cui ci si
trovava a creare l’associazione, le passioni di chi l’animava (principalmente teatro, letteratura,
musica), i mezzi praticamente nulli. La voglia era innanzitutto quella di collaborare tra noi per
creare qualcosa di bello e poi vedere cosa succedeva.

In questi giorni avrà luogo la terza edizione del vostro festival L’importanza di essere piccoli – poesia
e musica nei borghi dell’appennino. Potete spiegarci quali sono le caratteristiche della vostra
rassegna? Come si svolge e quali sono gli appuntamenti in cartellone?

Il festival è la punta dell’iceberg di un lavoro annuale che ci vede impegnati in tante attività.
Quest’anno si terrà tra il 4 e il 9 agosto e toccherà sei località, ci piace considerare questa rassegna
come una “mappatura poetica” delle terre in cui siamo cresciute. Qui i luoghi hanno la stessa
importanza degli artisti, come del resto lo hanno gli abitanti che ci ospitano e il pubblico che arriva,
al quale cerchiamo di indicare i luoghi dove dormire, come spostarsi, dove trascorrere in maniera
serena questa piccola vacanza che magari le persone di “via” si concedono facendo coincidere le
loro ferie con i giorni della rassegna.
Perché crediamo che alla base di questo lavoro i rapporti umani sono fondamentali: non si può
parlare di poesia se non si tenta di essere disposti all’altro. Per questo abbiamo inserito anche
alcune piccole perle, collaborando con persone che creano delle cose fatte a mano, come le stampe
d’arte che la tipografia “Anonima Impressori” di Bologna ha realizzato apposta per il festival, o
invitando le amiche di “Sartoria Utopia” (che già vennero anno scorso coi loro libri di poesia cuciti a
mano), la ‘capanna editrice’ milanese.

Venendo al programma: il 4 agosto daremo spazio a voci esordienti (come il cantautore belga Bart
La Falaise o il giovane Federico Frascarelli) mentre i 4 poeti hanno tutti meno di 40 anni: Manuela
Dago, Franca Mancinelli, Francesca Matteoni, Marco Simonelli, e si troveranno in un piccolo Borgo,
Massovrana, vicino al bellissimo lago di Suviana.
Il 5 saremo sul greto del fiume Reno, nel parco pluviale di Molino del Pallone, con Colapesce e
Stefano Dal Bianco a intrecciarsi sul senso del nostro ‘meraviglioso declino’.
Il 6 ci spostiamo a quasi mille metri, a Suzzano, una frazione del comune di Vergato dove suonerà
Giangrande (tra l’altro al momento in tour come chitarrista con Daniele Silvestri) e Anna Maria
Carpi leggerà i suoi versi che sanno essere verticali e quotidiani al contempo.
Il 7 agosto il paesaggio è da fiaba: un bosco di querce secolari dal nome suggestivo, ‘Poranceto’
all’interno del Parco dei Laghi di Suviana e Brasimone, dove la ‘mitologia contemporanea’ della
poetessa ida Travi sarà contrappuntata dal canto originario della voce graffiante del cantautore
siciliano Cesare Basile.
L’8 si apre lo scrigno del borgo forse tra i più belli dell’intero Appennino, La Scola, nel comune di
Grizzana (quello tanto amato dal Morandi) dove sotto un cipresso plurisecolare che si dice sia stato
piantato da San Francesco. Qui si incontrano il premio Viareggio Repaci per la poesia dello scorso
anno, Antonella Anedda, e Pino Marino, un cantautore così legato alla poesia da aver vinto il Premio
Recanati.
L’ultima sera si chiude in un borghetto dove fin dalla prima edizione abbiamo collaborato volentieri
e fungendo anche da connettore tra due realtà diverse (in un mix molto emiliano) come una proloco
e un’associazione parrocchiale: siamo a Capugnano, frazione di Porretta Terme, quello che ne risulta
è una festa finale con centinaia di persone. Che quest’anno potranno ascoltare le parole abissali di
Milo De Angelis e il lavoro di Umberto Maria Giardini (già noto come Moltheni) il cui ultimo album
‘La dieta dell’imperatrice’ ci è sembrato in qualche modo in consonanza con certe atmosfere
dell’autore di ‘Tema dell’addio’.

Perché organizzare un festival così particolare sull’appenino bolognese, in località sconosciute e che
lottano contro l’abbandono, e a cosa allude il nome della rassegna?
Alessandro Borri, uno dei nostri soci, alcuni anni fa mi chiese di organizzare delle serate di poesia in
frazioni minuscole (4-5 famiglie) che sono vicino alle nostre case.

Da un paio di estati come SassiScritti realizzavamo nel locale di mio padre (La Prossima) laboratori
ed incontri, appuntamenti in cui si leggeva, si suonava, si parlava…, una sorta di palco aperto. Erano
serate in cui la partecipazione delle persone era molto buona e così le ripetemmo in queste frazioni;
beh fu sorprendente assistere all’entusiasmo che traspariva nell’aria: i piccoli borghi si vestirono a
festa, persone di tutte le età misero le seggiole fuori di casa, cucinarono per tutti e si raccolsero
intorno alla poesia. Partendo da questa spinta e coltivando anche la bella esperienza che Daria
portava dalla Toscana, dopo aver curato con Marco Menini le prime edizioni della rassegna di poesia
itinerante “_ai margini del bosco” voluta da Massimo Paganelli e che si svolgeva tra maggio e giugno
ad Armunia (Castiglioncello), abbiamo deciso di fare qualcosa insieme cercando di portare anche in
Appennino (che poi è la terra in cui siamo cresciute entrambe) quell’atmosfera bella e strana che si
era creata nelle colline prossime alla costa etrusca. Quando la Fondazione del Monte rispose
positivamente al progetto ‘l’importanza di essere piccoli’ – nome che scelsi per sottolineare come nel
piccolo ci sia la possibilità di incontrarsi veramente, di parlare, di andare a piedi e di chiamare tutto
per nome – decidemmo di lavorare insieme alla realizzazione di questo strano calendario che mette
insieme poeti e musicisti, spesso facendoli incontrare qui per la prima volta.

Il piccolo poi è una caratteristica imprescindibile delle montagne, l’uomo qui non può far altro che
accontentarsi delle conche, delle valli, delle insenature che i monti e i boschi porgono ai loro
abitanti: i borghi crescono facilmente in montagna dove davvero non potrai trovare metropoli, e a
noi i nostri piccoli paesini piacciono malgrado tutte le critiche che quotidianamente poniamo alla
diffidenza tipica delle donne e degli uomini di montagna. Ed è forse solo attraverso lo sguardo
trasfigurante dell’artista e del poeta che questa chiusura iniziale può trasformarsi in “apertura”, dal
piccolo, insomma, vorremmo che si aprissero orizzonti ampissimi. Per questo abbiamo deciso di
estendere la filosofia dei borghi di montagna anche alle valli.

A noi due, oltre Alessandro e Andrea, si sono aggiunte in questa avventura Lara Monterastelli e
Ambrogina Bertone e quello che più conta per noi è che “nel fare” siamo molto uniti.

Lo scorso anno avete partecipato alla prima edizione di cheFare e per poco non siete arrivati in
finale (per chi non lo sapesse, cheFare è articolato in tre fasi di selezione e la seconda avviene
attraverso il voto on-line) Oltre al comprensibile richiamo del premio in palio quali motivi vi hanno
spinto a partecipare?

Quando abbiamo visto il bando ci siamo dette che la cosa fondamentale era fare davvero quello che
ci interessa, non scrivere un progetto ‘ad hoc’ secondo canoni esterni ma portando avanti quello che
davvero ci preme. Certo avere un bacino economico da cui partire avrebbe permesso di strutturare
le esperienze in modo più a lungo termine e magari garantendo una continuità lavorativa e una
sicurezza economica alle persone che avrebbe potuto aprire nuovi scenari anche di introiti
economici. Quello che lamentiamo è infatti che sebbene noi ci si muova a livello professionale la
dignità del lavoro è assolutamente calpestata, se vogliamo ritenere che la dignità del lavoro venga
dal compenso economico. Quello che facciamo ci piace e crediamo di avere delle cose da portare
avanti e cerchiamo di difenderle con tutti i mezzi che possiamo, ma è pur vero che ad oggi la
sensazione è che le cose le si facciano finché ce lo si può permettere (e chi se lo può permettere).
cheFare ci è sembrato un modo per chiarirci le idee sui nostri percorsi articolando nero su bianco
una progettualità pluriennale, capendo le forze di cui disponiamo e anche cercando di individuare un
percorso nel futuro. Questo è un punto comunque utile. Resta inteso che 100mila euro possono
essere un buon incentivo a partecipare a qualcosa in cui presentare i propri progetti.

Avete presentato a cheFare un progetto, Custodi, che cercava di strutturare una programmazione
Puoi anche leggere