Solo un riconoscimento istituzionale può salvare la musica dalla crisi
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Solo un riconoscimento istituzionale può salvare la musica dalla crisi Ormai è chiaro: fase uno, fase due o fase tre, la musica dal vivo sarà in ogni caso l’ultima a ripartire. A livello globale, qualche settimana fa, in una conversazione sul New York Times l’esperto di bioetica Zeke Emanuel, già al fianco di Obama nell’ObamaCare, ha immaginato come data valida l’autunno del 2021 – un anno e mezzo giù dal palco, quindi. Se possibile, l’Istituto Superiore di Sanità per l’Italia ha rilasciato delle stime ancor più nere: per loro, finché non si trova un vaccino sarà impossibile solo ipotizzare assembramenti simili. Tradotto: zero concerti ancora per molto – perlomeno per come li conosciamo. Di fronte alla pressoché totale certezza di uno stop del genere, a due mesi dall’inizio lockdown è già partito l’effetto domino su tutto il settore della musica, dall’industria discografica ai tecnici. Gli aiuti economici? Sono inadeguati, o rischiano comunque di perdersi: vuoi perché molti enti del settore non hanno riconoscimento giuridico specifico (e quindi vengono associati a figure simili, e trattati come tali; ma con differenze in questo momento ancor più evidenti), vuoi perché trascurati culturalmente, in un ambiente considerato alla stregua di un hobby – come denunciato dalle associazioni di categoria, e testimoniato dal polverone che si alza a ogni appello degli artisti, considerati dei miliardari che dovrebbero suonare e basta. Nel dubbio, andiamo per gradi. L’industria discografica è a rischio? Partiamo dall’alto. Un po’ di numeri: secondo la Fimi, dopo la chiusura dei negozi – complice anche il fatto che molte delle uscite sono state posticipate a data da destinarsi – la vendita di cd e vinili è crollata di oltre il 60%, arrivando al 70% se si considerano anche i diritti connessi. Una volta in casa, saremmo dovuti passare allo streaming – che nel virtuoso mercato Americano vale il 90% del fatturato del settore. Non è successo, per motivi ancora ignoti (certo è che si è preferita la tv, a Spotify), e per il 2020 Siae ha messo in conto un danno da 200 milioni di euro per gli autori. Non va meglio per la grande musica dal vivo, per la quale Assomusica parla – a fine estate – di un rosso da oltre un miliardo, in gran parte per l’indotto. Per questo un appello come quello che Tiziano Ferro aveva sollevato a Che tempo che fa era più che adeguato, e le critiche fuoriluogo: bisogna sapere cosa fare, potersi organizzare; non tanto per gli artisti stessi, quanto per le 60mila persone che vivono dietro le quinte, perché alle spalle di ogni grande evento (di ogni, diciamo, San Siro) ci sono 200-300 fra tecnici, musicisti, promoter. E – se i grandi organizzatori di concerti adotteranno dei voucher nei confronti dei clienti che chiederanno rimborsi, sia per i live cancellati che per quelli posticipati – gli altri operatori, per adesso, non godono delle stesse tutele. Non tutti cadono in piedi, insomma. Gli intermittenti
I più esposti alla crisi (e dimenticati dalle istituzioni) sono i lavoratori intermittenti, che nel sistema dello spettacolo italiano sono 200mila. Precari e in gran parte lavoratori dei concerti, la loro presenza massiccia nel settore è dovuta alle dinamiche stesse del mondo della musica, e per la maggior parte sono raggruppati in cooperative – sia per avere più opportunità, sia per snellire gli iter burocratici. Sono tecnici e maestranze varie: vivono di incarico in incarico, di mese in mese, e se già la situazione non è granché per gli autonomi – che godono del bonus dei 600 euro ma che, ovviamente, ripartiranno molto più tardi delle altre partite Iva – per loro, che sono “dipendenti”, è anche peggio. Di fatto, sono stati i primi a fermarsi, ma finora non hanno avuto pressoché alcun aiuto. Ed è un paradosso che nasce da lontano: chi crea cultura come loro, in Italia, è invisibile, non riconosciuto, escluso da ogni contratto di lavoro. Nel caso di questi tecnici ‘a chiamata’, per dire, stavano per ricevere la cassa integrazione in deroga, ma poi l’Inps ha stabilito che l’indennità spettasse solo per le giornate in cui era già stata effettuata una chiamata prima della chiusura totale: pochissime, se si considera che a referto ci sono solo gennaio e febbraio. Ma non pensiamo solo a loro: fra le categorie più colpite dal lockdown ci sono tanto i musicisti più piccoli, quanto gli artisti stessi. Al di là dei cantanti che riempiono gli stadi, infatti, nel gruppo dei precari sono in tanti (compreso chi fa pianobar) a mantenersi con le proprie esibizioni dal vivo. Tutte queste categorie devono essere riconosciute autonomamente, sapere quando tornare a lavoro e, in ogni caso, avere accesso ad ammortizzatori sociali come il reddito di emergenza, da cui tutt’ora sono esclusi. Perché il rischio è che, di fronte alle difficoltà, decidano di cambiare mestiere: un guaio non da poco, se si considera che si tratta di personale più qualificato della media, nonché altamente specializzato. Per questo, quando tutto questo sarà finito ci si potrebbe trovare a organizzare di nuovo concerti, sì… ma senza fonici, operai, tecnici. Gli spazi che rischiano di sparire Ma la crisi non risparmia neanche i live club italiani, che rischiano di sparire creando un problema d’impoverimento di spazi – da sommare a quello relativo al personale. Parliamo dei piccoli locali di musica dal vivo, dove le band propongono il loro repertorio originale, e che da noi non hanno un inquadramento giuridico specifico: alcuni sono associati alle discoteche, altri ai pub; ma con costi tecnici maggiori di quelli di entrambi, oltre che con necessità di programmare con largo anticipo le serate. Adesso, quelli riconosciuti come imprese hanno ottenuto i primi fondi, mentre gli inseriti nel terziario niente. Ma, con la prospettiva di essere comunque gli ultimi a ripartire, il rischio per entrambi è di non riaprire affatto. Così, però, andrebbero perse venue essenziali per la nostra musica, che oltre a rappresentare degli incubatori di cultura garantiscono spazio agli artisti che non possono permettersi location più grandi, sopperendo anche all’assenza di strutture adeguate in determinate zone del Paese. La soluzione (come suggerisce l’associazione di categoria KeepOn Live) è applicare su quelle “mura” un modello in stile cinema d’essai – ovvero: sgravi fiscali e tutele, stabilendo criteri oggettivi di inclusione. Ritenerli, insomma, dei “centri di cultura”. Senza un intervento di questo tipo, il pericolo è che per sopravvivere diventino altro – ristoranti, pub, discoteche. E sarebbe la conseguenza naturale del mancato riconoscimento esclusivo: non inquadrati autonomamente pur essendolo di fatto, per resistere si snaturano e finiscono col somigliare proprio a ciò a cui la legge tende a equipararli. Rinunciando, così, alla loro peculiarità. E non sono neanche le sole oasi che rischiamo di perdere: anche l’ecosistema dei Festival è a rischio. Svanita la programmazione di quest’anno, bisognerà rivedere la prossima estate con quale voglia (e quali fondi) si potrà ripartire. E sempre se, si potrà ripartire. Ha senso pensare a delle alternative?
Ora: al di là della riapertura dei piccoli negozi, non è comunque chiaro se l’industria discografica saprà far fronte alla crisi della liquidità. Le nuove uscite, infatti, potrebbero essere rimandate a lungo, perché legate a doppia mandata ad un’attività promozionale “dal vivo”, che sia l’instore o il concerto. In questo senso, tutte le richieste (comprese le dieci, trasversali, delle principali associazioni di categoria) vanno verso la conservazione della situazione attuale – il reddito d’emergenza, gli sgravi fiscali. Al netto, ovviamente, di un riconoscimento giuridico degli enti coinvolti. Ma è possibile pensare a delle alternative nel frattempo? Esiste un surrogato sostenibile dei live o degli instore? Per gli incontri col pubblico, anche in Italia è già stata provata (da Ghemon per l’uscita del suo ultimo album, lo scorso 24 aprile) la soluzione “digitale”, con una sorta di video-call a due che potrebbe sostituire l’abbraccio fra artista e fan. Certo: manca il contatto fisico, ma sarebbe una modalità “nuova”, per certi versi paradossalmente più intima della rapida stretta di mano in negozio. Semmai, quindi, resta da capire piuttosto quanti musicisti saranno disposti a pubblicare i loro lavori senza la possibilità di suonarli dal vivo – visto che è qui la gran parte del problema, oltre alla più alta concentrazione di precari da salvare. Da una parte, i piccoli locali: che potrebbero riaprire a capienza ridotta, coi posti a sedere distanziati, ma col dubbio che non sia un modello sostenibile a livello di ricavi e di costi di sanificazione, e che gli artisti stessi non siano disposti a esibirsi a queste condizioni. Al netto anche del fatto che, tra l’altro, il pubblico dovrebbe essere convinto a partecipare, a fronte del rischio contagio. Dall’altro lato, è assurdo pensare che prima di un anno si possa tornare a suonare davanti a più di (diciamo) mille paganti – ed è qui che la faccenda propone più soluzioni. Negli Stati Uniti, per esempio, un set di Erykah Badu è disponibile in pay per view. In Italia, questo, è un modello che per quanto riguarda i contenuti originali finora è stato adottato nella stand-up comedy da Luca Ravenna, ma resta da stabilire se e quanto sia esportabile nella musica. Certo è che questo report di Rockit racconta che il 75% degli intervistati non ama i live online, senza contare che gran parte dei lavoratori ne rimarrebbero comunque esclusi. Gli ostacoli, insomma, non mancano in nessuna delle due dimensioni – quella grande o quella più intima dei live club. E il dubbio è che sia una questione di immaginario: concerti “fisici” ma con stringenti limitazioni, privi di “assembramenti” e senza “contatto”, non sono facili da digerire per nessuno, come rimarca anche lo scetticismo generale degli addetti ai lavori. Per questo, anche quella della musica drive-in sembra un’idea poco percorribile – oltre che economicamente insostenibile. La parola d’ordine, allora, diventa “resistere”, con un eventuale ripensamento di alcune dinamiche della musica dal vivo da valutare solo poi. Per ora, conta salvare gli operatori del mondo della musica, e per farlo serviranno fondi e ammortizzatori sociali mirati. Quelli che non possono che arrivare dopo un riconoscimento istituzionale specifico, che non proceda più per “assimilazione”. E che parta dal presupposto che si tratta di agenti culturali. Analfabeti sonori, cosa manca al pubblico (e
alla critica) di oggi? Analfabeti sonori. Musica e presente è l’ultimo libro di Carlo Boccadoro, uscito da pochi mesi per l’Einaudi. Si tratta di un breve testo, di fatto un pamphlet, in cui l’autore, compositore e musicista a tutto tondo, vuole affrontare il tema della contemporaneità musicale, con un occhio di riguardo alla situazione italiana. L’autore avverte fin da subito che alcune sezioni del libro sono già apparse su alcune riviste, e lo testimonia il tono quasi da elzeviro che si rincorre lungo tutti i sette capitoletti in cui si sviluppa il testo. Si comincia con un brevissimo Diario di bordo (con interpreti e antiche leggende), in cui viene introdotto quello che è un po’ il protagonista del libro e cioè la musica d’oggi, intesa come “musica contemporanea”. Occorre forse precisare che, seguendo un uso tradizionale ma oggi sempre più contestato, con “musica contemporanea” l’autore vuole indicare quel repertorio di brani composti a partire dalla seconda metà del secolo scorso che vogliono ricondursi alla tradizione della “musica classica” in modo più o meno progressista, così che questa viene sviluppata, ripensata, rinnovata, senza perdere una certa continuità con il passato. Il punto di partenza del libro è proprio quel rifiuto verso il repertorio “contemporaneo”, quando non si tratta di indifferenza vera e propria, che proviene non solo dal grande pubblico, ma persino da musicisti e direttori artistici.
Il tema è indubbiamente scottante perché riguarda il valore contemporaneo di quelle forme artistiche che, in quanto sviluppo di una sensibilità formata perlopiù in seno ai movimenti modernisti, si scontrano invece con quelle maggiormente diffuse dai mezzi di comunicazione di massa. Analfabeti sonori è insomma essenzialmente dedicato ad affrontare da diverse angolature il tema della presenza nella società di oggi della musica di tradizione “classica”, quindi anche e soprattutto di quella “contemporanea”. Si parte con Organizzatori e interpreti (non tutti per fortuna), una discussione sul ruolo mostrato dal “sistema musica” nel promuovere o affossare la musica nuova, per proseguire con il “debunking”, come si usa dire oggi, dei luoghi comuni sulla musica contemporanea in Leggende. La scrittura musicale dopo Internet e Attenzione all’attenzione sono invece dedicati a sviluppare il tema delle conseguenze su mercato e modalità d’ascolto della “rivoluzione Internet”, per poi giungere a conclusione nell’ultimo capitoletto che già nel titolo in forma di domanda e risposta, contiene il punto di arrivo delle disquisizioni dell’autore: Una musica per pochi? Assolutamente no. Una breve divagazione da questi temi è costituita da La Contaminazione (con la “c” maiuscola!): una discussione non tanto sull’utilizzo in ambito musicale e artistico, a mio parere tanto abituale quanto discutibile, del concetto di contaminazione, ma piuttosto una sorta di vademecum con tanto di lista dei “buoni” e dei “cattivi” sui principi di quello che, a detta dell’autore, sembra essere un paradigma importante della musica “classica” nuova. Vorrei però concentrarmi sull’argomento principale del testo e cioè sul rapporto tra “musica contemporanea” e società di oggi. Si parte dalla constatazione dello scarso interesse per la musica non appartenente alla sfera pop, che viene esibito dalla stragrande maggioranza delle persone (3), ma anche dai media, i quali sembrano perlopiù considerare irrilevante sia la musica classica, sia, ancora di più, quella contemporanea (5-6). Anche sovrintendenti teatrali e direttori artistici, che spesso esibiscono una allarmante ‘non conoscenza’ in materia (8), sembrano scegliere di assecondare l’immediato quanto superficiale apprezzamento del pubblico (15). Infine gli interpreti stessi (direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti) (9) sono rei di cadere in depressione all’idea di aver a che fare con la nuova musica di derivazione classica. A tutto ciò si deve aggiungere la trasformazione delle pratiche produttive, distributive e di ascolto portate dall’avvento di Internet. Il vero bersaglio della critica è la generale riduzione dell’attenzione all’ascolto nei suoi esiti più commerciali Non si tratta però soltanto di conquiste in negativo. Boccadoro fa un breve elenco delle nuove possibilità fornite da Internet, come la facile disponibilità delle fonti musicali, ma provenienti soprattutto della tecnologia elettronica ed informatica in genere. Qui l’autore manifesta una sua competenza non particolarmente aggiornata sull’argomento e preferisce fornire una serie di esempi
ad ampio raggio senza discuterli, mentre a mio parere sarebbe stato importante, nel contesto dell’argomento, svilupparne la portata. In ogni caso, ci limitiamo a correggere l’affermazione dell’autore secondo il quale il brano elettronico Cosmic pulses di K.Stockhausen sarebbe stato pensato per centinaia di “piccoli amplificatori” (leggi altoparlanti) (46), quando invece è semplicemente richiesta la diffusione su soli 8 canali. È però ovviamente agli aspetti negativi di Internet e della tecnologia digitale in genere che Boccadoro è più interessato. In particolare l’autore individua due conseguenze compositive che emergono dall’incapacità generale del pubblico di affrontare le novità e di riflettere su ciò che ascolta (48). La prima è il facile ricorso a formule che permettano l’immediata identificazione dell’autore rispetto ai suoi concorrenti (49); la seconda è la scelta, operata da molti artisti, di affidarsi ai cliché del pop più scontato (51) nel tentativo di accondiscendere ai gusti di massa per scopi puramente commerciali. Ma il vero bersaglio della critica è la generale riduzione dell’attenzione all’ascolto, che l’autore esemplifica, nei suoi esiti più commerciali, con le durate eccessivamente brevi dei pre-ascolti di iTunes (60) e con le playlist pre-digerite di Spotify organizzate attraverso dubbie e facili categorizzazioni (71-74). Eccoci quindi arrivati alla stigmatizzazione di quell’“analfabetismo sonoro” che dà il titolo al libro, vale a dire “l’incapacità di seguire strutture musicali che richiedono un tempo significativo per esistere” (69-70) dovuta alla “scarsa capacità di attenzione” e all’”impossibilità di concentrarsi a lungo” (70). E il risultato è la proposizione da parte dei servizi di streaming di una “marmellata uniforme” al servizio di un ascolto superficiale (73) che non fa altro che promuovere questo analfabetismo. Fin qui il quadro, decisamente a tinte fosche, che l’autore ci presenta nel descrivere la situazione culturale, italiana ma non solo, nei confronti di musica classica e contemporanea. Si tratta però di situazioni fin troppo risapute, almeno da chi opera nel settore, ed è quindi il momento di chiedersi se esistano possibili soluzioni a questo dato di fatto. Purtroppo Boccadoro sembra dibattersi, per tutto il testo, tra il desiderio di restituire a istituzioni, interpreti e pubblico un senso di musica, che la riporti, per così dire, ai fasti di un tempo e lo sconforto di fronte al frustrante rifiuto di aprirsi ad esso anche da parte di persone capaci sì di sforzi cognitivi, ma che preferiscono riservare ad altre forme artistiche, come il cinema o la letteratura. Il testo non presenta soluzioni al “problema“ della musica contemporanea Ecco quindi il tentativo di correggere i luoghi comuni condivisi da cui siamo circondati: è colpa o no dei compositori se la musica contemporanea non la vuole ascoltare nessuno? E allora è giusto non finanziarla? Quello del compositore è un lavoro vero e proprio? Non basta che sia gratificato dalla sola esecuzione della propria musica? Alla fine però, il testo non presenta né soluzioni al “problema“ della musica contemporanea, che vadano al di là di una auspicabile scelta avventurosa, da parte di istituzioni e musicisti, di promuoverla, né la possibilità di capire le possibili origini di questa situazione. L’ultima pagina del libro è affidata alla speranza in una “platea di persone non abbruttute intellettualmente” (96) che possa ancora concedere la sua fiducia ai compositori della tradizione, ma anche e soprattutto ai compositori di oggi.
Ho una certa difficoltà a discutere il contenuto di questo testo, perché da compositore sento molto questo risentimento verso una società che sembra aver tradito in qualche modo le aspirazioni dei musicisti della generazione, mia e di Carlo Boccadoro. Dall’altro lato però mi rendo conto che per affrontare adeguatamente lo stato attuale, nonché futuro, della cultura musicale occorre cercare chievi di lettura del presente che siano al di fuori del nostra “comfort zone” cognitiva e culturale, per quanto faticoso ciò possa essere. Da compositore sento molto questo risentimento verso una società che sembra aver tradito le aspirazioni dei musicisti della generazione, mia e di Carlo Boccadoro In primo luogo, l’autore presenta un gioco di contrapposizioni che non è sempre limpido. A volte parla di “musica classica” e di “musica contemporanea” come se fossero due aspetti della stessa tradizione separati da un confine cronologico, ma come vedremo più sotto la questione non è così semplice. Se poi l’elenco dei rappresentanti della musica di tradizione “classica” è ampiamente articolata, quello degli autori che vi si contrappongono è relegata a un generico insieme di autori pop e rock più o meno d’antan che non riesce a rendere neppure lontanamente giustizia alle varietà della scena musicale d’oggi. Si parla di Spotify, di Apple Music e di playlist, ma non di musica, che viene troppo semplicemente caratterizzata dal semplice calcolo della durata di brani legati al pop internazionale. Insomma, l’autore sembra ignorare le diversità della musica che circola oggi al di fuori della musica contemporanea e del pop più standardizzato. Si pensi anche solo, ad esempio, alla vastità e varietà dei generi che sono in qualche modo legati al mondo della dance elettronica o all’ambient. Si tratta di decine e decine di generi e stili anche molto diversi tra loro, come l’IDM, la Vaporwave, la Drone ambient, per nominare i primi che mi vengono in mente, che non solo richiedono una grande capacità distintiva da parte del pubblico degli appassionati, ma che presentano in alcuni casi tratti stilistici estremamente diversi tra loro. Non è certo l’esposizione a stili diversi o la sensibilità che manca al pubblico di oggi E se il riferimento dell’autore sulle durate della musica d’oggi sembra essere i 2 minuti e 8 secondi dell’I love it di Kanye West e Lil Pump, si pensi allora a Somnium di Robert Rich, classico della Drone ambient, che dura ben 7 ore. Insomma, non è certo l’esposizione a stili diversi o la sensibilità che manca al pubblico di oggi, quanto una sua direzionalità verso quei tratti distintivi che caratterizzavano invece l’ascolto acculturato europeo tipico dell’Ottocento e in parte del Novecento. E qui veniamo finalmente al “dunque”, cioè al punto forse più rilevante di questa recensione. Abbiamo già accennato a quanto il termine “musica contemporanea” necessiti oggi di una revisione proprio per la pressoché inconciliabile diversità delle pratiche compositive che sembra rappresentare.
Il problema è però ben più vasto ed è dovuto alla incapacità di molti musicisti di area “classica” di superare un’idea di musica che abbiamo ereditato dall’Ottocento. Fino almeno al 1830 sembrava non esserci stato alcun interesse a manterere in repertorio brani che erano più vecchi di 20/25 anni al massimo, perchè erano scritti seguendo gusti estetici ormai superati. E i “classici” erano appunto quei pochi brani che si avvicinavano a quella soglia temporale, che assomiglia un po’ a quella che oggi regola i gusti e le mode del pubblico di massa. In un processo di enorme trasformazione culturale che inizia intorno al 1830 e si completa vero il 1870 si forma l’idea che i brani musicali del passato, che ora iniziano a essere chiamati collettivamente “musica classica”, siano migliori e più importanti di quelli del presente, anche solo per il semplice fatto che sono del passato, e vadano di conseguenza eseguiti più spesso dei brani “contemporanei”. Vengono inoltre sviluppati nuovi concetti come quello di sistema tonale e di armonia come la intendiamo oggi, nuove discipline come la musicologia, rivolta proprio ad affrontare i documenti del passato, e persino l’idea che dai concerti sia possibile ricavare denaro, con il conseguente sviluppo di strategie di marketing, di istituzioni come le società dei concerti, le stagioni musicali, e infine con la nascita del pubblico come lo intendiamo ancora oggi. Insomma, possiamo dire che tutto quello che oggi crediamo di conoscere sulla cosiddetta “musica classica” e che diamo per scontato nell’idea di musica tout court nasca proprio nella metà dell’Ottocento. Non è questo il luogo adatto a sviluppare ulteriormente l’argomento, che può essere approfondito leggendo testi come il notevolissimo “The great transformation of musical taste” di William Weber. Quello che qui è importante notare è che si viene a stabilire in quell’epoca un divario tra musica del passato e quella del presente, ben prima che si formino stili che diventeranno tipici prima della modernità e poi di ciò che è stato etichettato come “musica contemporanea” o “musica nuova”. Sì all’ascolto di “musica classica”, sì anche all’ascolto di “musica contemporanea”, ma non certo perché chi ascolta l’una sia portato ad ascoltare anche l’altra Questo divario ci aiuta a capire come il pubblico della “musica classica” possa essere sempre stato, in gran parte, ostile alla musica del presente. Ecco allora le intemperanze tipiche degli anni Sessanta e Settanta, pensiamo all’occupazione del palco da parte del pubblico per impedire l’esecuzione di brani di “musica nuova”, e infine al raggiungimento di quella sovrana indiffereza che dagli anni Ottanta giunge fino agli appassionati di “classica” di oggi. Se pur i compositori di “musica contemporanea” hanno spesso, ma non sempre, sviluppato la propria estetica e il proprio stile a partire dalla tradizione “classica”, dal punto di vista della ricezione pubblica essi hanno costituito fin da subito un corpo estraneo a questa. Non è dunque lecito considerare la “musica contemporanea” come una semplice continuazione della “musica classica”, anzi la loro nascita in quanto categorie musicali si pone constitutivamente nel segno dell’antagonismo. Dunque sì all’ascolto di “musica classica”, sì anche all’ascolto di “musica contemporanea”, ma non
certo perché chi ascolta l’una sia portato ad ascoltare anche l’altra, così come ascoltare la “classica” non implica certo che si debba essere automaticamente appassionati di “metal”. E a maggior ragione non ha senso sostenere che chi non ascolta “musica classica” o “contemporanea” debba essere per forza un “analfabeta sonoro”, sia perché, come abbiamo accennato più sopra e contrariamente da quanto sostenuto da Boccadoro, il repertorio musicale a nostra disposizione è immenso ed estremamente vario anche senza includere la “musica contemporanea”, sia perché proprio questa varietà apre allo sviluppo di sensibilità d’ascolto, che tuttavia possono essere lontane da quelle più inerenti agli stili della “musica contemporanea”. Che posizione prendere dunque di fronte alla cultura musicale d’oggi? Che posizione prendere dunque di fronte alla cultura musicale d’oggi? È assolutamente importante conoscere il percorso che ci ha portato al presente, ma abbiamo visto come l’attenzione per la musica del passato non sia certo una costante nella nostra cultura, anzi, si tratta di una scoperta piuttosto recente, se si pensa che i primi documenti che segnano l’avvio della nostra storia musicale sono datati intorno all’800 DC, cioè ben 1200 anni fa. Oggi forse, quello che potremmo chiamare “la bolla della musica classica” sembra essere giunta al suo esaurimento. Sempre meno persone sono interessate alla musica del passato, a meno che non sia inserita in un processo di marketing del revival. E sempre meno sono interessate a una corretta filologia, com’è anche testimoniato da una dilagante chiusura delle cattedre di Musicologia nelle università del mondo. Se per buona parte degli ascoltatori Vivaldi, Nyman e Rondò Veneziano possono essere placidamente definiti “musica classica”, come ho sentito personalmente dire, bisogna ammettere che questa ormai, più che un repertorio contestualizzato storicamente, è diventata essenzialmente un brand, come la musica “New Age” o anche la stessa “musica contemporanea”, adatto a organizzare gli scaffali di un negozio di dischi, a identificare il marchio di una radio o un target di pubblico. Come nel film Essi vivono siamo in balia dei mass media e soggetti alle riproposizioni di brani, stili e generi Dunque se esiste un’idea di analfabetismo che esuli dall’imposizione di uno specifico corpus musicale e di una specifica accademia, questo può essere proprio legato all’apertura dell’ascoltatore verso possibilità di ascolto, che riescano a sottrarsi alla chiusura delle proprie abitudini. Si tratta dunque di promuovere la flessibilità dei propri criteri d’ascolto, la curiosità e in definitiva la possibilità di sviluppare sempre nuove sensibilità. In questo senso, chiusi nel proprio mondo musicale, è possibile essere analfabeti sonori e allo stesso tempo grandissimi esperti di “musica classica” o di qualsiasi altro genere/repertorio, nessuno escluso. Ma se ciò che dobbiamo evitare è la tentazione di rinchiuderci nella gabbia dorata delle nostre abitudini d’ascolto, allora le nostre possibilità di alfabetizzazione saranno, almeno parzialmente, controllate da chi è in grado di formare queste abitudini e ha interessi a vincolarci ad esse. Come nel film “Essi vivono” di John Carpenter siamo in balia dei mass media e soggetti alle
riproposizioni di brani, stili e generi. Solo con uno sforzo continuo della volontà, la cui possibilità è purtroppo concessa a pochi, sarà possibile smascherare le costruzioni e costrizioni dei media per rivolgerci alla nostra frontiera d’ascolto, che è diversa per ognuno di noi e può quindi avere le sembianze della “musica contemporanea” come della “Vaporwave”. E in tutto questo che ne è del libro di Carlo Boccadoro? L’autore di “Analfabeti sonori. Musica e presente” sembra arroccato su una posizione in cui la “musica classica” viene presa, per i motivi che abbiamo elencato, come testimonial impossibile della “musica contemporanea”. Boccadoro, nonostante la varietà delle sue pratiche musicali, finisce con il prendere una posizione accademica In tutto il libro si assapora inoltre uno stile personalistico che ben si sposa con una certa apoditticità con cui i “buoni” sono separati dai “cattvi”, tutto sempre sotto l’egida inconsapevole della “musica classica”. E così Boccadoro, nonostante la varietà delle sue pratiche musicali, finisce con il prendere una posizione accademica dal quale sfornare diktat bonari, che non giova alla discussione. Ma proprio per come si pongono stile e contenuto nonché per gli esiti di una critica che si accontenta di prendere la forma di un appello a istituzioni e musicisti è difficile togliersi dalla testa che alla fine il libro appaia più una sorta di spot pubblicitario per l’autore, che l’impostazione di un discorso critico. Non è un caso che lo stesso titolo esibisca un epiteto negativo, quasi un insulto, che ben si adegua alla moda emersa negli ultimi anni di usare nei titoli di libri divulgativi o di costume, termini come “cretino”, “stupido” e adesso anche “analfabeta”, per irretire il lettore, che certamente non si ritiene tale. Ma forse proprio l’epiteto al centro del testo poteva fornire l’occasione di contestare l’abitudine di pubblico e istituzioni d’oggi di considerare la musica, tutta la musica, come forma di intrattenimento, con tutti i problemi di valore che ne risultano. Certo ci si può divertire con la musica, ci si passa il tempo e si può persino usarla come strumento terapeutico. Ma la musica è prima di tutto pensiero, spesso inconsapevole, a volte invece preciso al punto da diventare sgradevole e scomodo. Questa idea di musica e le pratiche compositivo-esecutive che ne sono derivate, sono emerse alla consapevolezza solo negli ultimi cento anni. Per questo motivo e cioè per la valenza critica, innovativa e visionaria della musica va sostenuta la produzione di nuova musica, ma anche lo sviluppo di sensibilità d’ascolto, che non debbano essere vincolati agli esiti del botteghino. Non per la maggiore o minore adesione a una tradizione. Purtroppo però questa argomentazione si lega a una discussione più ampia sulla cultura e forse noiosa per il pubblico generalista e non viene affrontata adeguatamente, per dire un eufemismo, nel libro di Boccadoro. Il che è un peccato, perché come detto all’inizio si tratta di un argomento scottante, ma che richiede uno sforzo argomentativo che non sembra essere nelle corde dell’autore. Insomma, “Analfabeti sonori. Musica e presente” è alla fine un’occasione persa che mi auguro abbia almeno la forza di stimolare una riflessione sulla contemporaneità musicale. E se non è detto che la “musica contemporanea” ne uscirà vittoriosa, che almeno la sua dipartita sia foriera di nuova musica
e di nuove sensibilità. Immagine di copertina da Unsplash: ph. Spencer Imbrock Come cambia il mondo del clubbing nell’era della digitalizzazione totale Questo articolo fa parte di Club Futuro, il percorso supportato da cheFare sull’Economia della Notte e la cultura del clubbing. La sociologa Sarah Thornton definisce la club culture come “l’espressione colloquiale con cui si indicano le culture giovanili, il cui cardine della vita sociale è rappresentato dai locali notturni”. Ma nell’era della digitalizzazione e della liquidità Baumaniana ha ancora senso dare così importanza agli spazi fisici in riferimento al clubbing? Gli esordi: dalla musica dal vivo alla musica registrata su disco Partiamo da un presupposto: la storia del clubbing affonda le sue radici nel cosiddetto passaggio dalla musica dal vivo alla musica registrata su disco. Il progresso tecnologico è stata la linfa vitale di questo movimento, un processo inevitabile e inarrestabile che ha reso la fruizione musicale ubiqua e popolare. Una conquista a dir poco rivoluzionaria che negli anni Settanta trasformò i locali in punti di riferimento, dove esercitare nel fine settimana la libera espressione di sé e il proprio rito di passaggio verso l’età adulta attraverso quell’indipendenza tanto sognata sia dalle restrizioni di orario sia dalle norme e dai divieti. I club avevano, infatti, saputo fare quello che nessun altro spazio aveva ancora realizzato, ovvero aprire le porte della percezione, permettendo l’ingresso in un’altra dimensione temporanea, emozionante e carica di energia, dove poter godere delle sensazioni date dal ritmo e dalle luci e abbandonarsi ai piaceri del corpo e dell’anima. I club avevano saputo fare quello che nessun altro spazio aveva ancora realizzato: aprire le
porte della percezione in un’altra dimensione, temporanea Essere clubber assunse dunque un’accezione ben precisa, consistente nell’abbracciare uno stile di vita alternativo, condividere interessi e passioni, sentirsi parte di un ambiente “sotterraneo”, dai confini permeabili e assolutamente fluidi, in grado di trasmettere i valori di questo movimento, come il progresso, la libertà e l’emancipazione, tipici di una mentalità molto aperta, tollerante e priva di tabù. Ma non solo. Essere clubber significò, anche, vivere per il ballo sfrenato e il dancefloor, frequentare assiduamente i club, non aspettare altro che fruire di queste valvole di sfogo per evadere dalla quotidianità e divertirsi insieme ad altre persone, godendo senza vincolo alcuno del momento contestuale alla festa, nel suo “qui ed ora”. Qualcosa però nel tempo è cambiato. Oggi: virtualizzazione e smaterializzazione nel clubbing Oggi il modo di vivere il mondo della notte non è più lo stesso di un tempo e il progresso tecnologico ha avuto di nuovo un ruolo determinante nel processo evolutivo del clubbing, spostando però questa volta le interazioni dalla dimensione sociale verso quella virtuale e individualista, con non poche conseguenze. Innanzitutto è cambiato il rapporto con gli spazi. Se un tempo i club rappresentavano dei “nidi protetti”, delle “seconde case” dove scaricarsi e incontrare altri clubber in una situazione familiare ed intima, attualmente i locali (fatte rare eccezioni) sono sempre meno fonte di identificazione e neppure così indispensabili per vivere in prima persona degli eventi musicali. La Boiler Room ne è un esempio. La Boiler Room: la dissoluzione dei tradizionali ostacoli alla partecipazione L’esperimento di Boiler Room è una prova di questo ruolo sempre meno centrale del luogo fisico nell’esperienza del clubbing: perché andare in un locale reale con tutti i suoi difetti e problemi, quando si può partecipare ad un evento trasmesso online restando comodamente a casa? Nato a Londra nel 2011, Boiler Room ha saputo restare al passo con i tempi e cogliere via via i bisogni crescenti da parte dei giovani digitalizzati, dimostrando, infatti, con grande successo, che fosse giunto il momento di creare una sinergia tra il clubbing e la tecnologia streaming, a costo di rompere gli schemi anche più simbolici ormai consolidatisi nel quadro degli eventi musicali underground. Nessuna “selezione all’ingresso”, nessun ostacolo alla partecipazione né “battaglia” per essere in prima fila sotto la consolle. Nessuna interazione con altre persone, neppure tra dj e clubber (che fanno più che altro da sfondo scenografico o sono online) pur di spostare l’attenzione dalla performance in sé ad un format di fruizione del tutto nuovo e on screen. Ed è proprio questo un altro punto focale della questione: la scena del clubbing ha dovuto imparare a sfruttare a proprio vantaggio il rapporto con i media per continuare a curare e alimentare la sua community di appassionati. Club e nuovi media, cambiamenti e opportunità Condannati e demonizzati da sempre, in quanto demolitori del DNA delle subculture underground, i media mainstream nel corso degli anni hanno inevitabilmente assunto un ruolo differente per la club culture, certamente per quanto riguarda la mera promozione degli eventi, ma soprattutto per il mantenimento, se non ampliamento, di una collettività di persone autenticamente interessate alla
musica elettronica. L’uso di live chat, like e tweet nel corso dei broadcast di Boiler Room sono solo un esempio di come l’uso del web abbia permesso di abbattere i confini geografici e anche temporali invogliando la costruzione di una community online di clubber. Oppure si pensi al caso più eclatante di Vaporwave, il primo movimento musicale ed estetico nato intorno al 2010 all’interno di alcune comunità online, e senza quindi alcun tipo di radice geografica. Una subcultura retro-futuristica che deve la sua esistenza a social media quali Tumblr, 4chan o Reddit e il cui capitale sottoculturale è definito non solo dalla distinzione dalla propria classe sociale di appartenenza e dal resto della società mainstream, ma anche dall’uso che si è fatto di Internet per accedere alla musica, a dei nuovi generi di nicchia, al di là di quelli popolari. Va da sé allora che l’accesso al mondo digitale possa essere considerato senz’altro uno strumento utile alla costruzione della propria identità personale e sociale in modo più autentico, collegando quindi persone accomunate realmente da interessi affini, che non hanno bisogno di dimostrare nulla a nessuno. Semplicemente nel web non contano più gli stili estetici, i vestiti, gli atteggiamenti. Ognuno può sentirsi libero di essere chi davvero vuole, con un suo nickname e una spontaneità unica in grado di rinforzare realmente i propri interessi, non più spinti quindi dai legami sociali, ma dalla propria e unica personale curiosità che a fronte di una fonte illimitata di informazioni può forgiare i propri gusti musicali al di là di ogni tipo di condizionamento. E poi esiste Spotify, che al momento conta più di 30 milioni di brani disponibili praticamente gratuitamente. Come cambia quindi il ruolo della musica e del dj nei club contemporanei? Il cambio di prospettiva sui dj Se da una parte grazie alle più disparate app e piattaforme presenti sul mercato l’accesso alla musica si è democratizzato nel tempo, dall’altra però il ruolo “educazionale” dei dj è stato messo a dura prova. I deejay, infatti, sin dalla loro nascita hanno svolto una funzione essenziale, declinata in più attività: far ballare, creare un clima di festa, trasmettere energia al dancefloor e, non da ultimo, condurre la pista in un viaggio, in una sorta di storia raccontata tramite le tracce. Un ruolo impegnato, dunque, non solo nel proporre il disco giusto al momento giusto nel corso della serata, ma anche nel ricercare e anticipare nuove tendenze, sonorità e generi, “creando gusti” attraverso un’accurata selezione musicale. Oggi il riconoscimento di questo compito pare si stia indebolendo rispetto ad una volta, come se per i giovanissimi contasse non tanto la bravura e la capacità di far scoprire delle nuove linee di suono, quanto il profilo artistico – e perché no il brand annesso, evento o locale famoso che sia – il cui successo è decretato dal numero di follower e dal tipo di attività pubblicate su Instagram, esattamente come dei veri e propri VIP da seguire e a cui ispirarsi. Vivere il qui e ora, oppure postare sui social? A tal proposito, c’è anche un altro aspetto da considerare. Sebbene i social media abbiano il merito di aver aperto la possibilità di creare nuove connessioni interpersonali, tuttavia hanno anche causato una progressiva riduzione della capacità di vivere gli eventi.
L’affermazione online della propria personalità digitale ha oramai lo stesso peso (se non maggiore) della propria realizzazione Il rischio che corrono, infatti, i Millenials (ma non solo) è che per privilegiare la vetrinizzazione e spettacolarizzazione di sé stessi attraverso le stories, i video e le foto, le loro esperienze vengano offuscate dal tentativo di testimoniare la propria presenza, invece di godere realmente dell’opportunità di interagire faccia a faccia con gli altri, stabilendo un contatto diretto all’interno di una comunità più “vicina” e familiare. L’affermazione online della propria personalità e status digitale ha oramai quindi uguale peso (se non maggiore) della propria realizzazione offline e fisica. Insomma, probabilmente questo è uno dei momenti più delicati della storia del clubbing. Le organizzazioni di eventi musicali, così come i gestori degli spazi, devono cercare al più presto di rispondere ai cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi anni, se vorranno riuscire a mantenere e soprattutto a riavvicinare le persone ai dancefloor. I club e la musica d’altronde hanno già giocato in passato un ruolo essenziale come veicoli di socializzazione, lo hanno saputo fare senza distinzioni di razza, classe sociale o orientamento sessuale. Oggi dunque il mondo del clubbing ha tutte le carte in regola per ricostruire una scena in una modalità un po’ meno miope e forse maggiormente attenta ai bisogni e alle attitudini attuali di una società in continua evoluzione, sempre più digitalizzata, ma allo stesso tempo anche più insicura e individualista. In fin dei conti, la questione di fondo è semplice. C’è bisogno di far riscoprire alle persone delle emozioni, un senso di affiliazione e appartenenza, delle connessioni autentiche che tornino a farle sentire protagoniste e, tutto sommato, meno sole. Immagine da Unsplash Sassiscritti. L’importanza di essere piccoli Per il terzo anno consecutivo l’associazione culturale di Porretta Terme Sassiscritti organizza un
festival molto particolare: L’importanza di essere piccoli. Dal 4 al 9 agosto sei piccoli comuni dell’Appenino Tosco-Emiliano ospiteranno incontri letterari e concerti. Noi di doppiozero abbiamo avuto l’occasione di conoscere Sassiscritti lo scorso anno, quando furono selezionati per la fase di votazione online del bando cheFare. Quello che ci colpì fu il loro radicamento sul territorio e la loro capacità di produrre eventi culturali di alto profilo “dal basso”, attraverso un’offerta tutt’altro che commerciale in grado di valorizzare, attraverso la qualità dei singoli interventi, luoghi poco noti e comunità locali. Se è vero che l’abbandono dei borghi rurali è un fenomeno diffuso e apparentemente inarrestabile, è proprio attraverso esperienze come queste che è possibile andare a riscoprire realtà che si trovano al confine geografico e culturale. Operare una resilienza capace di vincere le dinamiche socio- demografiche centripete di questi luoghi attraverso azioni e pratiche inusuali è una sfida che si può affrontare solo se si è provvisti di lungimiranza, dedizione, energia e risorse. Quello che fa la differenza è spesso la presenza di vere comunità locali che agiscono secondo logiche di partecipazione e condivisione. L’esperienza che Sassiscritti testimonia attraverso L’importanza di essere piccoli è significativa proprio per la capacità di creare occasioni di incontro e conoscenza reciproca tra visitatori e abitanti, grazie a concerti e reading dei protagonisti della scena musicale e letteraria. A pochi giorni dall’inizio del festival abbiamo intervistato le due organizzatrici, Azzurra D’Agostino e Daria Balducelli, per farci raccontare qualcosa in più della loro attività. Raccontateci come nasce la vostra associazione culturale, quali obiettivi avevate in mente quando siete partite e da quali percorsi professionali arrivavate. SassiScritti nasce nel 2006 – dall’idea di alcuni amici che già si occupavano di cultura o venivano da esperienze associative precedenti (oltre a noi Luisella Meozzi, giornalista, e Andrea Biagioli, musicista) – per cercare di realizzare delle iniziative che potessero essere create e sviluppate in modo libero secondo un’ idea di cultura non generica ma pensata e condivisa e che potessero, con un po’ di fortuna, anche diventare la base per un lavoro in questo campo. Il cuore della progettualità si sviluppava a partire dai dati di fatto, dai fattori contingenti e vincolanti come il luogo in cui ci si trovava a creare l’associazione, le passioni di chi l’animava (principalmente teatro, letteratura, musica), i mezzi praticamente nulli. La voglia era innanzitutto quella di collaborare tra noi per creare qualcosa di bello e poi vedere cosa succedeva. In questi giorni avrà luogo la terza edizione del vostro festival L’importanza di essere piccoli – poesia e musica nei borghi dell’appennino. Potete spiegarci quali sono le caratteristiche della vostra rassegna? Come si svolge e quali sono gli appuntamenti in cartellone? Il festival è la punta dell’iceberg di un lavoro annuale che ci vede impegnati in tante attività. Quest’anno si terrà tra il 4 e il 9 agosto e toccherà sei località, ci piace considerare questa rassegna come una “mappatura poetica” delle terre in cui siamo cresciute. Qui i luoghi hanno la stessa importanza degli artisti, come del resto lo hanno gli abitanti che ci ospitano e il pubblico che arriva,
al quale cerchiamo di indicare i luoghi dove dormire, come spostarsi, dove trascorrere in maniera serena questa piccola vacanza che magari le persone di “via” si concedono facendo coincidere le loro ferie con i giorni della rassegna. Perché crediamo che alla base di questo lavoro i rapporti umani sono fondamentali: non si può parlare di poesia se non si tenta di essere disposti all’altro. Per questo abbiamo inserito anche alcune piccole perle, collaborando con persone che creano delle cose fatte a mano, come le stampe d’arte che la tipografia “Anonima Impressori” di Bologna ha realizzato apposta per il festival, o invitando le amiche di “Sartoria Utopia” (che già vennero anno scorso coi loro libri di poesia cuciti a mano), la ‘capanna editrice’ milanese. Venendo al programma: il 4 agosto daremo spazio a voci esordienti (come il cantautore belga Bart La Falaise o il giovane Federico Frascarelli) mentre i 4 poeti hanno tutti meno di 40 anni: Manuela Dago, Franca Mancinelli, Francesca Matteoni, Marco Simonelli, e si troveranno in un piccolo Borgo, Massovrana, vicino al bellissimo lago di Suviana. Il 5 saremo sul greto del fiume Reno, nel parco pluviale di Molino del Pallone, con Colapesce e Stefano Dal Bianco a intrecciarsi sul senso del nostro ‘meraviglioso declino’. Il 6 ci spostiamo a quasi mille metri, a Suzzano, una frazione del comune di Vergato dove suonerà Giangrande (tra l’altro al momento in tour come chitarrista con Daniele Silvestri) e Anna Maria Carpi leggerà i suoi versi che sanno essere verticali e quotidiani al contempo. Il 7 agosto il paesaggio è da fiaba: un bosco di querce secolari dal nome suggestivo, ‘Poranceto’ all’interno del Parco dei Laghi di Suviana e Brasimone, dove la ‘mitologia contemporanea’ della poetessa ida Travi sarà contrappuntata dal canto originario della voce graffiante del cantautore siciliano Cesare Basile. L’8 si apre lo scrigno del borgo forse tra i più belli dell’intero Appennino, La Scola, nel comune di Grizzana (quello tanto amato dal Morandi) dove sotto un cipresso plurisecolare che si dice sia stato piantato da San Francesco. Qui si incontrano il premio Viareggio Repaci per la poesia dello scorso anno, Antonella Anedda, e Pino Marino, un cantautore così legato alla poesia da aver vinto il Premio Recanati. L’ultima sera si chiude in un borghetto dove fin dalla prima edizione abbiamo collaborato volentieri e fungendo anche da connettore tra due realtà diverse (in un mix molto emiliano) come una proloco e un’associazione parrocchiale: siamo a Capugnano, frazione di Porretta Terme, quello che ne risulta è una festa finale con centinaia di persone. Che quest’anno potranno ascoltare le parole abissali di Milo De Angelis e il lavoro di Umberto Maria Giardini (già noto come Moltheni) il cui ultimo album ‘La dieta dell’imperatrice’ ci è sembrato in qualche modo in consonanza con certe atmosfere dell’autore di ‘Tema dell’addio’. Perché organizzare un festival così particolare sull’appenino bolognese, in località sconosciute e che lottano contro l’abbandono, e a cosa allude il nome della rassegna?
Alessandro Borri, uno dei nostri soci, alcuni anni fa mi chiese di organizzare delle serate di poesia in frazioni minuscole (4-5 famiglie) che sono vicino alle nostre case. Da un paio di estati come SassiScritti realizzavamo nel locale di mio padre (La Prossima) laboratori ed incontri, appuntamenti in cui si leggeva, si suonava, si parlava…, una sorta di palco aperto. Erano serate in cui la partecipazione delle persone era molto buona e così le ripetemmo in queste frazioni; beh fu sorprendente assistere all’entusiasmo che traspariva nell’aria: i piccoli borghi si vestirono a festa, persone di tutte le età misero le seggiole fuori di casa, cucinarono per tutti e si raccolsero intorno alla poesia. Partendo da questa spinta e coltivando anche la bella esperienza che Daria portava dalla Toscana, dopo aver curato con Marco Menini le prime edizioni della rassegna di poesia itinerante “_ai margini del bosco” voluta da Massimo Paganelli e che si svolgeva tra maggio e giugno ad Armunia (Castiglioncello), abbiamo deciso di fare qualcosa insieme cercando di portare anche in Appennino (che poi è la terra in cui siamo cresciute entrambe) quell’atmosfera bella e strana che si era creata nelle colline prossime alla costa etrusca. Quando la Fondazione del Monte rispose positivamente al progetto ‘l’importanza di essere piccoli’ – nome che scelsi per sottolineare come nel piccolo ci sia la possibilità di incontrarsi veramente, di parlare, di andare a piedi e di chiamare tutto per nome – decidemmo di lavorare insieme alla realizzazione di questo strano calendario che mette insieme poeti e musicisti, spesso facendoli incontrare qui per la prima volta. Il piccolo poi è una caratteristica imprescindibile delle montagne, l’uomo qui non può far altro che accontentarsi delle conche, delle valli, delle insenature che i monti e i boschi porgono ai loro abitanti: i borghi crescono facilmente in montagna dove davvero non potrai trovare metropoli, e a noi i nostri piccoli paesini piacciono malgrado tutte le critiche che quotidianamente poniamo alla diffidenza tipica delle donne e degli uomini di montagna. Ed è forse solo attraverso lo sguardo trasfigurante dell’artista e del poeta che questa chiusura iniziale può trasformarsi in “apertura”, dal piccolo, insomma, vorremmo che si aprissero orizzonti ampissimi. Per questo abbiamo deciso di estendere la filosofia dei borghi di montagna anche alle valli. A noi due, oltre Alessandro e Andrea, si sono aggiunte in questa avventura Lara Monterastelli e Ambrogina Bertone e quello che più conta per noi è che “nel fare” siamo molto uniti. Lo scorso anno avete partecipato alla prima edizione di cheFare e per poco non siete arrivati in finale (per chi non lo sapesse, cheFare è articolato in tre fasi di selezione e la seconda avviene attraverso il voto on-line) Oltre al comprensibile richiamo del premio in palio quali motivi vi hanno spinto a partecipare? Quando abbiamo visto il bando ci siamo dette che la cosa fondamentale era fare davvero quello che ci interessa, non scrivere un progetto ‘ad hoc’ secondo canoni esterni ma portando avanti quello che davvero ci preme. Certo avere un bacino economico da cui partire avrebbe permesso di strutturare le esperienze in modo più a lungo termine e magari garantendo una continuità lavorativa e una sicurezza economica alle persone che avrebbe potuto aprire nuovi scenari anche di introiti economici. Quello che lamentiamo è infatti che sebbene noi ci si muova a livello professionale la dignità del lavoro è assolutamente calpestata, se vogliamo ritenere che la dignità del lavoro venga dal compenso economico. Quello che facciamo ci piace e crediamo di avere delle cose da portare avanti e cerchiamo di difenderle con tutti i mezzi che possiamo, ma è pur vero che ad oggi la sensazione è che le cose le si facciano finché ce lo si può permettere (e chi se lo può permettere). cheFare ci è sembrato un modo per chiarirci le idee sui nostri percorsi articolando nero su bianco una progettualità pluriennale, capendo le forze di cui disponiamo e anche cercando di individuare un percorso nel futuro. Questo è un punto comunque utile. Resta inteso che 100mila euro possono essere un buon incentivo a partecipare a qualcosa in cui presentare i propri progetti. Avete presentato a cheFare un progetto, Custodi, che cercava di strutturare una programmazione
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