SEMIOTICA 2020-21 II MODULO 31 MARZO 2021 - PROF. ILARIA TANI - Facoltà di Lettere e Filosofia
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SEMIOTICA 2020-21 II MODULO 31 MARZO 2021 PROF. ILARIA TANI
Leibniz (1646-1716) • Il problema del linguaggio viene posto in relazione alla logica generale, intesa come presupposto di ogni conoscenza teoretica. • Ritorna anche il problema della lingua universale, posto in una nuova prospettiva, più profonda (Dissertatio de arte combinatoria, 1666). • Ogni “caratteristica”, per essere davvero universale, deve partire da un’analisi logica dei contenuti del pensiero, fondata sull’arte combinatoria e sull’analisi matematica: una scomposizione del pensiero in idee primitive (“alfabeto del pensiero”) (FFS, I: 80) • «Il progresso dell’analisi e il progresso della caratteristica si implicano e si condizionano a vicenda […] l’analisi delle idee e la creazione di simboli si compiono l’una accanto all’altra, l’una con l’altra» (FFS, I: 81)
Nella prospettiva razionalistica di Leibniz il linguaggio è ricondotto a mezzo di conoscenza e strumento dell’analisi logica (FFS, I: 81). Ma la correlazione da lui affermata tra pensiero e linguaggio considera in modo nuovo anche il rapporto tra il pensiero e la sensibilità: «Ancorché la sensibilità abbisogni della progressiva risoluzione delle idee distinte dell’intelletto, tuttavia vige pur sempre, per il punto di vista nel quale si trova lo spirito finito, il legame inverso. Anche le nostre idee “più astratte“ contengono pur sempre un’aggiunta data dall’immaginazione che per noi è certo ulteriormente componibile, mentre in essa l’analisi non può e non deve mai toccare il suo ultimo limite, ma procedere verso l’infinito» (FFS, I: 82).
La concezione logico-simbolica di Leibniz è strettamente correlata alla sua metafisica: «solo l’essere supremo, divino, accede a una conoscenza puramente intuitiva, la conoscenza umana è esclusivamente “cieca” o simbolica» «Chi per esempio pensa un chiliagono regolare non sempre ha consapevolezza della natura del lato, dell’eguaglianza e del numero mille, ma usa queste parole, il cui senso gli è presente solo in maniera oscura e imperfetta, al posto delle idee stesse, poiché si ricorda di conoscere il significato loro, ma non giudica necessaria una più precisa spiegazione in quel momento» (FFS, I: 82-83) «ogni simbolo sensibile è portatore di un significato puramente spirituale, che naturalmente in esso è dato solo in modo “virtuale” e implicito. L’autentico ideale dell’ “illuminismo” consiste non nello strappare d’un colpo questi velami sensibili, non nel disfarsi di questi simboli, ma nell’intenderli sempre più per quel che sono e così dominarli e penetrarli spiritualmente» (FFS, I: 83). La caratteristica universale di Leibniz è «un puro concetto ideale, al quale la nostra conoscenza deve progressivamente avvicinarsi, per raggiungere la meta dell’oggettività e della universale validità», solo allora il linguaggio sarà in grado di rivelare l’unità della ragione, assunta come presupposto della comprensione di ogni particolare essere umano (FFS, I: 84).
Lingua universale come ideale «Se lo scopo della caratteristica universale fosse raggiunto, se ogni singola idea semplice fosse espressa mediante un semplice simbolo sensibile ed ogni rappresentazione complessa fosse espressa mediante una corrispondente combinazione di tali simboli, ogni particolarità e accidentalità delle singole lingue si dissolverebbe a sua volta in un’unica e generale lingua fondamentale. Leibniz non trasferisce questa lingua fondamentale, questa lingua Adamica, come egli la chiama con un’antica espressione dei mistici e di Jacob Boehme, in un passato paradisiaco dell’umanità, ma la intende come un puro concetto ideale, al quale la nostra conoscenza deve progressivamente avvicinarsi, per raggiungere la meta della oggettività e della universale validità. Solo in questa sua forma suprema ed ultima, nella sua forma definitiva, il linguaggio secondo lui si rivela come ciò che esso è in essenza: qui la parola non sarà più un mero involucro del significato, ma un testimonio autentico dell’unità della ragione che, come postulato necessario, sta alla base di ogni comprensione filosofica di un particolare essere spirituale» (FFS, I: 84).
John Locke (1632-1704) An Essay Concerning Human Understanding, 1690 L’empirismo procede in una diversa direzione, cercando di «comprendere il fatto del linguaggio nella sua semplice e nuda effettualità, nella sua origine empirica e nel suo empirico fine, anziché riferirlo ad un ideale logico. Il linguaggio dovrà essere riconosciuto semplicemente nella sua realtà psicologica e valutato nei suoi risultati psicologici, e non essere ridotto ad una qualsiasi utopia, sia essa logica o metafisica» (FFS, I: 84-5). Il piano lockiano di una critica dell’intelletto arriva solo gradualmente ad includere una critica del linguaggio: «solo a poco a poco gli risultò chiaro che la questione del significato e dell’origine dei concetti non può essere disgiunta da quella relativa all’origine delle denominazioni. Ma una volta che questa connessione è stata riconosciuta, per lui il linguaggio diviene uno dei testimoni più importanti della verità della visione empiristica fondamentale» (FFS, I: 85).
Parole e idee • L’empirismo condivide però con il razionalismo l’attenzione per il linguaggio come mezzo della conoscenza. • Anche nell’empirismo l’analisi del linguaggio «non è fine a se stessa, ma deve solo servire come mezzo e come preparazione per lo specifico problema principale che è l’analisi delle idee. Infatti tutte le denominazioni del linguaggio non servono mai direttamente all’espressione delle cose stesse, ma si riferiscono unicamente alle idee dello spirito, alle specifiche rappresentazioni di colui che parla» (FFS, I: 86: • Affinità tra Hobbes e Locke: • Per Hobbes «i nomi sono segni dei concetti e non segni degli oggetti stessi». • Per Locke nell’unità della parola «non si esprime mai la natura degli oggetti stessi, ma sempre e soltanto la maniera soggettiva in cui procede lo spirito umano nella combinazione delle sue idee semplici date ai sensi. In questa combinazione lo spirito non è mai vincolato da nessuna reale essenzialità delle cose. Esso può a suo arbitrio mettere in rilievo ora l’uno ora l’altro contenuto rappresentativo, riunire in complessi ora gli uni ora gli altri gruppi di elementi semplici» (FFS, I: 86-87).
• Le parole nascono come contrassegni di idee sensibili. Anche quelle che esprimono azioni o nozioni distanti dai sensi sono nate da idee sensibili e poi sono state trasferite a significati più astratti (ad esempio “spirito” significava in origine “alito”, “angelo” significava “messaggero”); in ogni lingua i nomi per oggetti non sensibili hanno origine da idee sensibili (genesi metaforica). La genesi del nome ripete il processo conoscitivo, dai dati sensibili verso una sempre maggiore generalizzazione (Formigari, Il linguaggio. Teoria e storia delle teorie, Laterza 2001: 154-155). • L’intervento dell’astrazione è minimo nelle idee semplici, che si riferiscono immediatamente all’esperienza sensibile. La libertà d’astrazione è massima invece nel caso di idee complesse, soprattutto quelle che non hanno un referente oggettivo (come nel caso dei termini morali o giuridici) (ivi: 155). • Per questo non tutte le parole di una lingua hanno un corrispettivo in altre lingue, perché si riferiscono a idee complesse, collezioni di idee che non hanno corso in altre culture. Le lingue naturali ci inducono a classificare le cose in certi modi anziché in altri. • Gli usi correnti delle parole, le necessità pratiche della comunicazione rendono pertinenti certi aspetti delle cose e non altri (essenze nominali). Questo spiega il potere del linguaggio sul pensiero, che non si darebbe se le parole fossero la semplice traduzione di significati stabili e garantiti da essenze reali (ivi: 157).
Il significato secondo l’empirismo • I significati linguistici sono «sempre soltanto un riflesso di questo stesso procedimento di connessione e di separazione, ma non della oggettiva composizione dell’essere e della sua struttura secondo generi e specie reali, secondo genera e species logico-metafisici». • Ogni definizione è solo «una parafrasi del nome della cosa, non una rappresentazione della sua realtà ontologica e della sua ontologica costituzione»: «cade la contrapposizione di definizione nominale e definizione reale, di spiegazione delle parole e spiegazione delle cose» (FFS, I: 87) • Il concetto stesso di “natura” di una cosa «non ha un valore assoluto, ma solamente relativo; esso racchiude in sé una relazione con noi stessi, con la nostra organizzazione spirituale e le nostre facoltà conoscitive. Determinare la natura di una cosa non altro significa per noi che sviluppare le idee semplici che in essa sono contenute e che rientrano come elementi nella sua rappresentazione complessiva» (ibid.).
• Se le costellazioni di idee raccolte in un significato, in un nome, variano da una lingua all’altra e addirittura da un interlocutore all’altro, come si garantisce allora la comunicazione? • Secondo Locke, si parla come se le essenze nominali fossero stabili e identiche nella mente dei diversi parlanti. • Resta aperto però il rischio di abusi linguistici, causati dalla eccessiva complessità delle idee cui le parole si riferiscono, dalla incertezza del riferimento, dal ricorso a parole vuote, dalla perdita inavvertita del referente originario. • Possibili rimedi: ricorso a un uso critico del linguaggio, a esempi e citazioni, richiamo alla costanza nell’uso linguistico. Tuttavia «Esigere che gli uomini usino le loro parole costantemente nel medesimo senso, e non per altre idee che non siano determinate e uniformi, significherebbe pensare che tutti gli uomini dovessero avere le stesse nozioni, e non dovessero parlare mai d’altro se non di ciò di cui abbiamo idee chiare e distinte» (Saggio sull’intelletto umano, 1690, III/xi, 2).
Idea Il passaggio dal modello razionalistico leibniziano a quello empiristico lockiano è marcato da una trasformazione del concetto di “idea” da un significato logico-oggettivo (platonico) a un significato soggettivo- psicologico (sensistico): «Nel primo caso, la dissoluzione di ogni contenuto della conoscenza nelle sue idee semplici e nella loro caratterizzazione significa risalire ai principi ultimi e universalmente validi del sapere; nel secondo caso essa indica la deduzione di tutti i complessi prodotti spirituali dai dati immediati del senso interno e del senso esterno, dagli elementi della “sensazione” e della “riflessione”» (FFS, I: 88).
Leibniz vs Locke • Per Locke le rappresentazioni empiricamente condizionate sono i soli contenuti mentali di cui disponiamo. • Per Leibniz invece al di là delle rappresentazioni empiriche ci sono idee che guidano i processi umani di categorizzazione e ne costituiscono le condizioni di possibilità (Formigari 2001: 160-161). • Nei Nouveaux Essais sur l’entendement humain (1703-1705, pubblicato postumo nel 1765) Leibniz attacca Locke dal punto di vista teoretico, discutendone le premesse metafisiche, e dal punto di vista empirico, richiamando materiale linguistico a sostegno della sua prospettiva.
Empirismo vs razionalismo sul rapporto ideale-reale «Per Leibniz e per tutto il razionalismo l’essere ideale dei concetti e l’essere reale delle cose sono legati da una correlazione indissolubile; ed infatti “verità” e “realtà” sono una sola cosa nel loro fondo e nella loro radice. […] Questa relazione reciproca, questa “armonia prestabilita” tra l’ideale e il reale, tra il dominio delle verità universalmente valide e necessarie e l’essere particolare e di fatto è superata dall’empirismo. Quanto più rigorosamente esso intende il linguaggio non come espressione delle cose, ma come espressione dei concetti, con tanta maggiore determinatezza e imperiosità dovrà porsi per esso la questione se il nuovo medio spirituale che qui viene accettato non falsi, invece di determinare, gli ultimi elementi “reali” dell’essere» (FFS, I: 88)
Trasformazioni del sensismo • Locke, pur fondando la conoscenza sui dati particolari della percezione (esterna e interna), mantiene un riferimento alla universalità: «La parola astratta diviene espressione dell’“idea generale astratta”, che qui viene ancora riconosciuta, accanto alle sensazioni singole, come una realtà psichica di un genere particolare e avente un significato proprio» (FFS, I: 89). • Questo riferimento all’universalità della conoscenza si perde con Berkeley: «Ogni realtà, la realtà psichica come quella fisica, è per sua essenza una realtà concreta e individualmente determinata: per raggiungere l’intuizione di essa noi ci dobbiamo quindi liberare anzitutto dalla falsa e ingannatrice generalità, dalla “astratta” generalità della parola. […] Ogni riforma della filosofia deve in prima linea essere fondata su di una critica del linguaggio, deve prima di ogni cosa eliminare le illusioni nelle quali da tempo immemorabile lo spirito umano è rimasto irretito» (FFS, I: 89). • Si compie così un rovesciamento dell’ideale sensistico della conoscenza.
Berkeley (1685-1753) vs Hobbes (1588-1679) Mentre Berkeley «vede nel linguaggio la causa di tutti gli errori e di tutte le illusioni dello spirito umano», Hobbes vedeva nel linguaggio la sola fonte della verità: veritas in dicto, non in re consistit (concezione nominalistica), verità e falsità non riguardano le cose, ma il discorso, l’assenza della capacità discorsiva implica l’incapacità di distinguere il vero e il falso. «né la cosa singola, né la sensazione singola possono mai costituire il vero oggetto del sapere: infatti ogni sapere degno di questo nome vuol essere, anziché conoscenza meramente storica del particolare, conoscenza filosofica, ossia necessaria, dell’universale» (FFS, I: 91). • Mentre sensibilità e ricordo restano limitate al fatto, la scienza riguarda relazioni e deduzioni generali, che può elaborare solo per mezzo della parola: • «Infatti il nostro spirito può acquisire la conoscenza deduttiva solamente di quei contenuti che non gli sono dati dall’esterno, come le cose o le percezioni sensibili, ma che esso stesso crea e liberamente produce traendoli da sé. Ma una tale libertà non gli appartiene nei confronti degli oggetti reali della natura, ma solamente nei confronti dei loro rappresentanti ideali, nei confronti dei segni e delle denominazioni» (ibid.)
Berkeley: ritorno al simbolo • Nella sua ultima opera, Siris, Berkeley «scioglie l’“idea” dai suoi sviluppi psicologico-sensistici e la riconduce al suo fondamentale significato platonico. E in quest’ultima fase del suo sistema anche il linguaggio riacquista una posizione dominante, una posizione veramente centrale» (FFS, I: 92). • Ora «ogni realtà, sia essa spirituale o sensibile, si trasforma invece in linguaggio. Ora infatti la visione sensibile del mondo si trasforma sempre più in una visione puramente simbolica. Ciò che noi indichiamo come realtà delle percezioni e come realtà dei corpi, altro non è, una volta che sia più profondamente concepita ed intesa, che il linguaggio sensibile e simbolico nel quale uno spirito onnicomprensivo ed infinito si manifesta al nostro spirito finito. Nella lotta tra metafisica e linguaggio è rimasto alla fine vincitore il linguaggio» (FFS, I: 93). • L’ultima fase del sistema di Berkeley rimane un episodio isolato nella storia dell’empirismo.
Empirismo come nuovo paradigma del linguaggio e della mente • Il percorso principale dell’empirismo consiste nella sostituzione della prospettiva logico-metafisica, al cui interno era stato considerato il rapporto parola-pensiero, con una prospettiva psicologica (FFS, I: 93). • Conseguenza di questa impostazione è la valorizzazione dell’individualità e dunque anche della specificità delle singole lingue rispetto alla forma generale del linguaggio, enfatizzata dalla ricerca logica sulla lingua universale (grammatica philosophica).
Simbolo e rappresentazione Per l’empirismo i simboli non rappresentano gli oggetti ma le nostre rappresentazioni delle cose: «Se i concetti del linguaggio non sono semplicemente simboli di oggetti e fenomeni oggettivi, ma simboli delle rappresentazioni che di essi ci formiamo, necessariamente si dovrà rispecchiare in essi non tanto la natura delle cose quanto la maniera e l’orientamento individuale del concepire le cose» (FFS, I: 94) Ciò si mostra con particolare evidenza non nel caso delle “idee semplici” (quando si tratta di fissare nel suono semplici impressioni sensibili, ricevute passivamente) ma in quello delle “idee complesse” (o “modi misti, secondo Locke), prodotte dalla mente umana «senza alcun legame diretto con le cose effettivamente esistenti» (FFS, I: 95).
Diversità delle lingue Nell’empirismo si riconosce dunque un ruolo alla spontaneità della mente, anche se si tratta di una spontaneità «condizionata e indiretta», che incrina la concezione gnoseologica del rispecchiamento e influisce sulla teoria del linguaggio, valorizzando la diversità delle lingue (tema che troverà la sua maggiore teorizzazione nella riflessione linguistica di Humboldt, ma che trova già in Locke la sua articolazione): «Se il linguaggio nei suoi complessi termini concettuali non è tanto un rispecchiamento dell’esistenza sensibile quanto un rispecchiamento di operazioni spirituali, questo rispecchiamento si potrà e dovrà compiere in maniera infinitamente varia e diversa. Se il contenuto e l’espressione del concetto non dipendono dalla materia delle singole rappresentazioni sensibili, ma dalla forma della loro connessione, ogni nuovo concetto del linguaggio rappresenta in definitiva una nuova creazione spirituale. Nessun concetto di una lingua è quindi senz’altro “trasferibile” in un’altra lingua» (FFS, I: 95)
Orientamento comune alle teorie empiristiche e razionalistiche del linguaggio «esse considerano il linguaggio essenzialmente secondo il suo contenuto teoretico: secondo la sua posizione nel complesso della conoscenza e secondo i risultati che esso fornisce per la costruzione della conoscenza» (FFS, I: 104) Le parole sono comunque “segni delle idee”, sia che queste ultime vengano intese come contenuti oggettivi e necessari (razionalismo), sia che vengano concepite come rappresentazioni soggettive (empirismo). Una diversa corrente naturalistica, che attraversa la riflessione occidentale, mette in rilievo la funzione degli elementi fantastico- passionali nella genesi del linguaggio.
La questione dell’origine del linguaggio • Nella ricostruzione del problema del linguaggio nella storia della filosofia, un passaggio decisivo è individuato da Cassirer nella riflessione di Herder sull’origine del linguaggio, che prepara la svolta impressa da Humboldt (par. IV, pp. 104-113). • Qui emerge la nuova concezione della soggettività sviluppata dalla filosofia moderna: nel concetto di spontaneità, oltre alla dimensione conoscitiva, viene inclusa anche quella del sentimento e della volontà. • Ciò porta a considerare già nella origine del linguaggio una funzione non solo rappresentativa ma anche affettiva e sensibile. • Questa prospettiva marca una differenza rispetto al razionalismo e all’empirismo.
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