SEMIOTICA 2020-21 II MODULO 21-23 APRILE 2021 - PROF. ILARIA TANI

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SEMIOTICA 2020-21
II MODULO
21-23 APRILE 2021
PROF. ILARIA TANI
Le fasi dello sviluppo del linguaggio:
             dall’indicare al significare
Individuazione di «tre fasi successive in cui si compie lo sviluppo del
linguaggio verso la sua forma propria, verso questa sua autoliberazione
interna» (FFS, I: 163):

  • Espressione mimica
  • Espressione analogica
  • Espressione simbolica

Questo schema non è solo «un principio di classificazione per
determinati fenomeni linguistici» ma esprime una legge funzionale della
formazione del linguaggio (ibid.).
All’origine non troviamo parole compiute né suoni articolati. All’origine del linguaggio
(cioè del suono articolato) c’è il movimento gestuale e mimico (muto) di volto,
bocca, labbra, lingua, organi fonatori, dapprima involontario (espressione), poi
ricreato volontariamente (rappresentazione) e solo in seguito utilizzato come
segnale stabilito nel corso dell’agire intersoggettivo (Gurisatti, Dizionario
fisiognomico, Quodlibet, 2006: 311)
La primigenia reazione alle cose non è verbale, sonora, ma mimico-gestuale, muta
(cfr. Vico).
All’inizio l’essere umano si limita a indicare, imitare e riprodurre pantomimicamente
le cose tramite il gesto. Poi si afferma il gioco della mimica facciale.
«Già il linguaggio mimico offre lo spunto per una forma superiore di imitazione,
poiché nelle sue forme evolute presenta ovunque il passaggio dal gesto
semplicemente imitativo al gesto espressivo, che, secondo Wundt, è caratterizzato
dal fatto che in questo “l’immagine di un oggetto viene formata più liberamente,
come fa l’arte figurativa rispetto alla semplice tecnica dell’imitazione» (FFS, I: 311)
«Il suono caratteristico non ha necessariamente carattere onomatopeico […]. Al
contrario, in un primo tempo il suono […] è soltanto un fenomeno concomitante, il
sostegno acustico di un linguaggio gestuale ottico comprensibile in se stesso […]
questa gesticolazione […] aveva come organo la bocca e la gola» (Benjamin,
Problemi della sociologia del linguaggio, p. 248)
Il polo espressivo (soggettivo, spirituale, ideale, creativo) non può essere staccato
dal polo mimetico (oggettivo, sensuale, materiale, intuitivo). La lingua è come un
ritratto del mondo: ritrae il mondo così come viene visto dalla collettività che la parla
(Gurisatti 2006: 321-22)
Gesto fonico
• All’origine del linguaggio non c’è il verbo, la parola in sé e per sé, né l’azione
  linguistica tesa alla comunicazione, ma l’espressione, la lingua muta
  dell’espressione sia dell’uomo che delle cose. Lingua umana e lingua cosale
  fanno capo al medesimo principio e sono destinate a dialogare, a tradursi
  l’una nell’altra. Si può dire che le funzioni significativo-rappresentative,
  denotativo-comunicative della lingua sarebbero il risultato di un’azione
  regolativa dell’io operata solo in un secondo tempo su primigenie
  manifestazioni simbolico-espressive, mimetico-cognitive. Il fatto che una volta
  collettivamente fissata la parola venga usata come puro segno convenzionale
  non ne elimina la radice espressiva, benché con l’uso e l’andare del tempo
  quest’ultima possa consumarsi e diventare irriconoscibile.
• La lingua non è prioritariamente strumento e mezzo di informazione, ma
  innanzitutto medium dell’incontro, del dialogo, del faccia-a-faccia fra lingua
  espressiva delle cose ed espressione umana (mimica e sonora). Da questo
  incontro, che è interpretazione e traduzione, la parola acquista un carattere e
  un volto (Gurisatti 2006: 312).
La fase dell’espressione mimica
All’origine del linguaggio sta il movimento espressivo. Qui non si dà ancora
alcuna distinzione tra interno ed esterno:

  «Il contenuto dell’anima e la sua espressione sensibile formano un’unità tale che
  quello non esiste prima di questa come qualcosa di indipendente e di autosufficiente,
  ma solo in essa e con essa arriva a compiere se stesso» (FFS, I: 146-147).

Cassirer trova una conferma a questa impostazione nella psicologia del
linguaggio a lui contemporanea. In particolare Wundt (Die Sprache, 1904) ha
trattato il problema del linguaggio in relazione al problema dei «movimenti
espressivi» (cfr. anche Engel, Ideen zur Mimik, 1801): merito di questa
impostazione è stato quello di mettere in relazione la genesi del linguaggio con
il movimento, abbandonando l’idea di una relazione primaria tra linguaggio e
mezzi concettuali, adottata non solo dal razionalismo ma anche dal sensismo.
Centralità del movimento
Fare del movimento e del senso del movimento «un fattore
fondamentale nella struttura della coscienza» significa riconoscere il
primato dei processi e dei cambiamenti (dinamica) sulla fissazione in
stati (statica).

«Così anche il movimento mimico è un’unità immediata dell’”interno” e
dell’”esterno”, dello “spirituale” e del “corporeo”» perché nel suo modo
di essere significa direttamente ed esprime sensibilmente qualcosa
d’altro: «l’affetto e la sua esteriorizzazione, l’interna tensione e il suo
sfogarsi sono dati in un solo e medesimo atto che non può essere
distinto in momenti successivi. Ogni eccitazione dell’interno […] si
esprime originariamente in un movimento del corpo, e il corso
successivo dello sviluppo consiste soltanto nel sopravvenire di una
sempre più netta differenziazione di questo rapporto» (FFS, I: 148).
Dal riflesso ai moti espressivi
«certamente questa forma d’espressione non sembra inizialmente
andare oltre la semplice “riproduzione” all’esterno di ciò che è interno.
Un eccitamento esterno passa dal fatto sensitivo al fatto motorio, ma
quest’ultimo resta in tal caso, a quanto sembra, completamente
nell’ambito del semplice riflesso meccanico, senza che ancora si
annunci in esso una superiore “spontaneità” spirituale. Tuttavia già
questo riflesso è il primo segno di un’attività in cui comincia a costituirsi
una nuova forma della coscienza concreta dell’io e della coscienza
concreta dell’oggetto» (FFS, I: 148-149).

A questo proposito Cassirer rinvia alla teoria biologica dei moti
espressivi di Darwin (L’espressione delle emozioni, 1872), che aveva
spiegato il passaggio dalle primitive azioni concrete finalisticamente
orientate (un movimento aggressivo, un movimento di difesa, ecc.) ai
moti espressivi (la collera, la paura, ecc.):
  «l’espressione della collera, per esempio, sarebbe l’immagine attenuata e
  sbiadita di un originario movimento aggressivo, l’espressione della paura
  sarebbe l’immagine di un movimento di difesa, e così di seguito» (FFS, I:
  149).
Inibizione della immediatezza
«Ogni movimento espressivo elementare rappresenta realmente una
prima linea di demarcazione dello sviluppo spirituale in quanto si trova
ancora completamente nell’immediatezza della vita sensibile, mentre
da un altro lato la trascende. Esso implica il fatto che l’impulso
sensibile invece di tendere direttamente al suo oggetto, di appagarsi e
perdersi in questo, subisce una specie di inibizione e di ritorno, in cui
sorge una nuova consapevolezza di questo stesso impulso. In questo
senso, proprio la reazione che è contenuta nel movimento espressivo
prepara un grado superiore di attività spirituale. L’azione ritraendosi,
per così dire, dalla forma diretta dell’operare, procura a se stessa un
nuovo campo e una nuova libertà: essa si trova quindi già al punto di
passaggio dal semplice campo “prammatico” al campo “teoretico”, dal
fare fisico al fare ideale» (FFS, I: 149).
Linguaggio mimico

Cassirer rinvia alla teoria psicologica di Wundt, che distingueva nel
linguaggio mimico due tipi di gesti:

• Indicativi
• Imitativi

Le due funzioni non costituiscono attività semplici e omogenee della
coscienza, ma in esse si possono rintracciare elementi di diversa
origine e diverso significato spirituale.
Gesti indicativi
Wundt li ha considerati una derivazione del movimento dell’afferrare,
reso possibile dagli organi prensili (braccia e mani), il cui uso marca
una distinzione di grado (ma non di essenza) tra l’uomo e altri animali.
Il gesto dell’indicare è un movimento prensile “attenuato”:

  «”il bambino cerca di afferrare anche oggetti che non sono alla sua portata
  perché troppo lontani. In tal modo però il movimento dell’afferrare si converte
  direttamente in movimento indicativo. Solo dopo ripetuti tentativi di afferrare
  gli oggetti, il movimento indicativo si rende autonomo come tale” (Wundt,
  Völkerpsychologie, I: 129; in FFS, I: 150). E questo passo verso l’autonomia,
  in apparenza così semplice, rappresenta una delle tappe più importanti sulla
  via che conduce dall’evoluzione animale a quella propriamente umana. […]
  in questo afferrare a distanza si trova nascosto un tratto di tipico e universale
  significato spirituale. È questo uno dei primi passi con cui l’io che sente e
  che desidera allontana da sé il contenuto rappresentato facendone in tal
  modo per la prima volta un “oggetto”, un contenuto “oggettivo”» (FFS, I: 150)
Dall’afferrare al comprendere
Ad un primo livello, ancora tutto sensibile e affettivo, “cogliere” l’oggetto
equivale ad afferrarlo in modo concreto e sensibile, prenderne possesso.

  «Ogni progresso del concetto e della pura “teoria” consiste però proprio nel
  superare progressivamente questa prima immediatezza sensibile. L’oggetto della
  conoscenza si allontana sempre più […], però, solo in questo apparente
  allontanamento esso acquista la sua vera determinatezza ideale. [...]. Dal punto
  di vista genetico e obiettivo risulta quindi effettivamente che si compie un
  continuo passaggio che porta dall’”afferrare” (greifen) al “comprendere”
  (begreifen). L’afferrare fisico-sensibile diventa interpretazione sensibile, ma in
  quest’ultima vi è già il primo spunto per una superiore funzione significativa quale
  si manifesta nel linguaggio e nel pensiero. Per misurare tutta la portata di questa
  opposizione, si può dire che all’estremo sensibile del semplice “mostrare” si
  contrappone l’estremo logico del “dimostrare”. Dal semplice indicare con cui
  viene denominato un essere assolutamente singolo (un tode ti nel senso
  aristotelico) il cammino procede verso una sempre più spinta determinazione
  generale: la funzione inizialmente solltanto indicativa diventa funzione
  “apodittica”. Il linguaggio stesso sembra conservare ancora questo nesso in
  quanto collega le espressioni che significano parlare e dire con quelle che
  signficano indicare e mostrare» (dicere < deiknumi; phemi, phasko < phaino)
  (FFS, I: 151-152).
Gesti imitativi
L’imitazione sembrerebbe escludere ogni libera attività spirituale, per farsi
«riproduzione pantomimica di determinati oggetti sensibili» (FFS, I: 152-153).

Tuttavia anche la funzione “imitativa” come già quella “indicativa” non è
un’attività semplice ed omogenea della coscienza, ma contiene «elementi di
diversa origine e di diverso significato spirituale» (FFS, I: 153). Già per
Aristotele il carattere mimico della parola non è in contrasto con il suo carattere
simbolico, anzi l’imitazione non spiega soltanto l’origine del linguaggio ma
anche l’origine dell’attività artistica:

  «La mimesis, intesa in questo modo, appartiene essa stessa al campo della
  poiesis, cioè dell’attività creatrice e formatrice. Qui non si tratta più della
  semplice riproduzione di un oggetto esterno, ma di una libera produzione:
  l’apparente “imitazione” presuppone in realtà un’interiore “prefigurazione”»
  perché «non consiste mai nel rendere solo tratto per tratto un determinato
  contenuto reale, ma nel far risaltare in esso un elemento significativo e
  nell’ottenere in tal modo uno “schizzo” caratteristico della sua forma. In tal modo
  però la stessa imitazione si trova già sulla via dell’espressione, in cui gli oggetti
  non vengono semplicemente accolti nella loro forma compiuta, ma vengono
  costruiti dalla coscienza secondo i loro fondamentali caratteri costitutivi» (FFS, I:
  154).
L’imitazione come attività strutturale
  «In questo senso imitare un oggetto vuol dire non già comporlo mediante le sue
  singole caratteristiche sensibili, ma coglierlo nei suoi rapporti strutturali, che
  possono venir intesi realmente solo in quanto la coscienza li genera
  costruttivamente».

Tra il gesto imitativo e il gesto espressivo si dà perciò un passaggio graduale
che porta ad una sempre maggiore libertà nella formazione dell’immagine
dell’oggetto (FFS, I: 154).

Questo processo di liberazione è favorito dal ricorso al suono, che non va a
sostituire radicalmente il gesto, al contrario quest’ultimo permane a lungo
accanto al linguaggio parlato, e in molte lingue poco sviluppate «il gesto è
legato alla parola e le mani all’intelletto in modo tale da sembrare che ne
rappresentino davvero una parte integrante (cfr. Cushing, Manual Concepts, in
«The American Anthropologist», V). Anche nel linguaggio infantile solo a poco a
poco il suono si separa dal complesso dei movimenti mimici: anche ad un
grado relativamente elevato esso appare ancora completamente avvolto da
tutto questo linguaggio mimico» (FFS, I: 154-155)
L’importanza del suono

«Solo nel mezzo fisico del suono il linguaggio sviluppa la sua propria
spontaneità spirituale. I due fatti si condizionano a vicenda: l’articolarsi
dei suoni diventa un mezzo per l’articolarsi del pensiero, e questo si
crea nella elaborazione e nella formazione dei suoni un organo sempre
più differenziato e più sensibile. Rispetto a tutti gli altri mezzi mimici di
espressione il suono ha il vantaggio di essere in misura molto maggiore
suscettibile di “articolazione”. Proprio la sua fugacità, che lo distingue
dalla determinatezza intuitivo-sensibile del gesto, gli conferisce una
capacità formatrice del tutto nuova e lo rende atto ad esprimere non
solo rigide determinazioni del contenuto rappresentativo, ma anche le
più delicate sfumature e le più tenui oscillazioni del processo
rappresentativo. […] Ora dal lato oggettivo esso diventa capace di
esprimere non soltanto un contenuto qualitativo, ma anzitutto rapporti
di determinazioni formali di relazione; dal lato soggettivo si imprime in
esso la dinamica del sentimento e del pensiero» (FFS, I: 155-156).
Verso la produzione del suono articolato
Gradazione dei suoni, gradazione dinamica mediante l’accento, gradazione
ritmica (ad esempio nei primitivi canti di lavoro) sono le prime attività
articolatorie, prodotte dalla inibizione della immediatezza espressiva.

  «Qui il suono ha la sua radice ancora direttamente nella pura sfera sensibile; siccome
  però l’elemento da cui scaturisce e a cui serve di espressione non è una sensazione
  semplicemente passiva, ma un semplice agire sensibile, esso è d’altro lato già in
  procinto di superare questa sfera. La semplice interiezione, il suono di emozione e di
  eccitazione provocato da una soverchiante e momentanea impressione si converte
  ora in una serie continua e ordinata di suoni in cui si rispecchiano il nesso e l’ordine
  dell’azione» (FFS, I: 156)

Nella materia del linguaggio si imprime così una forma nuova: come ha
osservato Jacob Grimm, a proposito dell’origine del linguaggio, «“il dispiegarsi
ordinato dei suoni […] significa per noi dividere, articolare, e il linguaggio
umano si presenta come un linguaggio articolato”», secondo la definizione che
Omero ha dato degli uomini: “esseri che dividono e articolano la loro voce”.
(FFS, I: 156-157)
Dal riflesso alla riflessione

«Con l’inibizione dell’espressione diretta nel gesto e nel grido
inarticolato vengono raggiunti un’interna misura e un movimento
nell’ambito stesso del desiderio e della rappresentazione sensibili. Dal
semplice riflesso si passa in maniera sempre meglio determinata ai
diversi gradi della “riflessione”. Nel nascere del suono articolato, nel
processo per cui – secondo quanto dice Goethe – “il suono si
determina in voce”, ci si presenta un fenomeno generalissimo che
incontreremo nelle forme più diverse in tutti i campi dello spirito. Qui
mediante la particolarità della funzione linguistica si manifesta ancora
la funzione simbolica universale quale si svolge, secondo una legge
immanente, nell’arte, nella coscienza mitico-religiosa, nel linguaggio e
nella conoscenza» (FFS, I: 157).
Ritorno alla critica del rispecchiamento
«L’ultima illusione di una qualche diretta o indiretta identità tra realtà e
simbolo deve necessariamente essere eliminata; la discrepanza tra
questi due termini deve essere portata all’estremo, affinché in essa
possa diventar visibile la funzione peculiare dell’espressione simbolica
e il significato di ogni singola forma simbolica» (FFS, I: 161)

«il senso di ciascuna forma non può essere cercato in ciò che essa
esprime ma solo nella maniera e nella interna legge dell’espressione.
In questa legge dell’attività formatrice, e quindi non già nella vicinanza
al dato immediato, ma nel progressivo allontanamento da esso
risiedono il valore e la natura specifica del linguaggio come dell’attività
artistica. Questa distanza dall’esistenza immediata e dall’esperienza
immediata vissuta è la condizione della sua perspicuità e della sua
consapevolezza» (FFS, I: 161).
«Anche il linguaggio quindi comincia soltanto là dove cessa il rapporto
diretto con l’impressione sensibile e con l’effetto sensibile. Il suono non
è ancora parola fino a che si presenta semplicemente come ripetizione,
fino a che con la volontà di “significare” gli manca anche lo specifico
elemento significativo. Il fine della ripetizione consiste nella identità, il
fine della designazione linguistica consiste nella differenza. […].
Quanto più il suono somiglia a ciò che vuole esprimere, quanto più
esso stesso “è” ancora questo altro, tanto meno riesce a “significarlo”»
(FFS, I: 161).

La significazione non consiste nel riprodurre l’essere in quanto essere
(identità) ma nel sostituirlo con l’essere in quanto altro (differenza).

Ciò marca il confine anche tra gli umani e gli animali.
Linguaggio animale e linguaggio umano
Tra i suoni di richiamo degli animali e quelli indicativi e significativi del
linguaggio umano permane un «abisso» (FFS, I: 162).

A questo proposito Cassirer cita le ricerche sul linguaggio delle scimmie
antropomorfe di W. Köhler (Zur Psychologie des Schimpansen: Psychologische
Forschung, 1921) e le osservazioni di Aristotele:

  «il passo che conduce al linguaggio umano è stato compiuto per la prima volta
  quando il suono significativo ha acquistato il primato rispetto al suono emotivo: un
  primato che dal punto di vista della storia del linguaggio si esprime anche nel fatto che
  molte parole delle lingue più evolute, che a prima vista sembrano semplici interiezioni,
  si dimostrano ad un’analisi più attenta formazioni regressive derivate da strutture
  linguistiche più complesse, da parole o proposizioni aventi un determinato significato
  concettuale» (FFS, I: 162).

La differenza tra animali e umani «non consiste nella comparsa di nuove
caratteristiche e proprietà, ma nel peculiare mutamento di funzione che ogni
attributo subisce nel passaggio dal mondo dell’animale a quello dell’uomo»
(LSC, 1942/1979:22).
Dal significare concreto al significare generico
I primi stadi del linguaggio fonico restano nell’ambito dell’espressione mimica. Il
suono cerca di riprodurre nel modo più fedele possibile la vicinanza immediata
all’impressione sensibile:

  «Il linguaggio si appoggia qui ancora strettamente al singolo fatto concreto e alla sua
  immagine sensibile, tanto che cerca di darne per così dire un’immagine esauriente col
  suono e non si accontenta di una designazione generale, ma accompagna ogni
  particolare sfumatura del fatto con una particolare sfumatura di voce appropriata ad
  esso» (FFS, I: 163).

Cassirer considera esempi della lingua Ewe dove il verbo camminare si
frammenta in 35 diverse forme fonetiche, ciascuna delle quali esprime una
particolare maniera e qualità del camminare, come il camminare barcollando,
procedendo con lenta andatura, zoppicando, strascicando, ciondolando ecc.

Nella onomatopea la filosofia del linguaggio del XVI e XVII secolo vedeva la
chiave dell’origine del linguaggio e anche la ricerca linguistica di orientamento
empirico (Hermann Paul e Curtius tra gli altri) ha ampiamente accolto il
principio della onomatopea, riconosciuto già da Humboldt e da J. Grimm.
Fonosimbolismo
«Il fatto che determinate differenze e sfumature vocaliche vengano
usate per esprimere determinate gradazioni obbiettive, specialmente
per indicare la maggiore o minore distanza di un oggetto dalla persona
che parla, è un fenomeno che si ritrova in modo uniforme nei più diversi
campi linguistici. A questo riguardo, quasi sempre a, o, u indicano la
maggiore, ed i la minor lontananza. Anche la diversa lontananza nel
tempo viene in tal modo significata mediante la diversità delle vocali o
dell’altezza vocalica. Alla stessa maniera, certe consonanti e gruppi di
consonanti hanno la funzione di «naturali metafore fonetiche» le quali,
in quasi tutti i campi linguistici, hanno un significato uniforme o simile:
così per esempio, con sorprendente regolarità i suoni labiali di
risonanza indicano la direzione verso colui che parla, mentre i suoni
linguistici esplosivi indicano la direzione contraria; e di conseguenza, i
primi si presenteranno come “naturale” espressione dell’”io”, i secondi
come espressione naturale del “tu”» (FFS, I: 166-167).

(sull’iconismo linguistico o fonosimbolismo, cfr. Dogana, Le parole dell’incanto,
Franco Angeli, 1990)
Stadio dell’espressione analogica
  «Ma in questi ultimi fenomeni, per quanto essi rechino ancora per così dire il
  colore dell’immediata espressione sensibile, è già stato fondamentalmente
  superato il campo del mezzo linguistico semplicemente mimico e imitativo. Ora
  infatti non si tratta più di conservare in un suono imitativo un singolo oggetto
  sensibile o una singola impressione sensibile; è invece la gradazione qualitativa
  di tutta una serie di suoni che serve ad esprimere un puro rapporto. Fra la forma
  e la natura di questo rapporto e i suoni in cui esso si esprime non vi è più alcuna
  somiglianza diretta, giacché in generale la semplice materia del suono come tale
  non è capace di rendere pure determinazioni di rapporti. Il nesso invece vi è in
  quanto nel rapporto dei suoni, da una parte, e in quello dei contenuti espressi,
  dall’altra, viene colta un’analogia di forma, in virtù della quale si compie una
  determinata coordinazione di serie completamente diverse quanto al contenuto.
  In tal modo è stato raggiunto quel secondo stadio che, rispetto all’espressione
  semplicemente mimica possiamo indicare come lo stadio dell’espressione
  analogica. Il passaggio dall’uno all’altro si presenta forse nel modo più chiaro in
  quelle lingue che usano il tono musicale della sillaba per distinguere il significato
  dei termini o per esprimere determinazioni formali e grammaticali» (FFS, I: 168)

(esempi tratti dalle ricerche di Humboldt sulle lingue indocinesi e sudanesi, che
esprimono diverse sfumature di significato mediante varie sfumature tonali).
Il significato dell’analogia
Se dunque nella sua fase originaria, quella dell’espressione e della
designazione mimica, il linguaggio verbale appare ancora aderire
completamente al campo gestuale, caratterizzato da un’attenzione esclusiva
«al singolo fatto concreto e alla sua immagine sensibile» (FFS, I: 163), nel
secondo stadio, quello dell’espressione analogica, il linguaggio perde il
riferimento al singolo fatto concreto per passare ad esprimere «un puro
rapporto» attraverso «la gradazione qualitativa di tutta una serie di suoni»
(FFS, I: 167-168).

«la semiosi non è l’appaiamento di una forma e di una sostanza (che
implicherebbe una concezione ileomorfica), né il profilarsi di una forma su un
contenuto (come accade nella Gestalt e in diverse teorie cognitive sino a
Langacker), ma l’emergenza correlativa di due forme in grado di appaiarsi a
partire dai campi saturi dell’espressione e del contenuto.
Questa dualità costitutiva, che riguarda ciò che Saussure chiamava l’essenza
doppia del linguaggio, la distingue radicalmente dalle forme naturali (Rastier,
Introduzione a Cassirer, Lo strutturalismo nella linguistica moderna, 2017: 33-
34).
Altri fenomeni linguistici di tipo analogico
• Armonia vocalica (FFS, I: 169)

• Raddoppiamento per la formazione di vocaboli e forme rafforzative – che
 significano molteplicità (semplice, “collettiva”, “distributiva”), ripetizione,
 rapporti di spazio e di grandezza, modalità di un’azione o di un evento (FFS,
 I: 170-172) – oppure attenuative (forme aggettivali diminutive o forme verbali
 limitative).

• L’analisi delle diverse forme di raddoppiamento (reduplicazione) conferma
 che la sua funzione non è quella di rispecchiare un determinato contenuto
 rappresentativo ma di mostrare «una determinata direzione del modo di
 concepire e di considerare e, per così dire, un certo movimento della
 rappresentazione» (FFS, I: 172-173).
Dall’indicare al significare
Attribuendo a uno stesso suono una molteplicità di significati, il
linguaggio si emancipa dalla originaria funzione concreta dell’indicare e
dalla ricerca della somiglianza con ciò che vuole esprimere, propria
della espressione mimica e analogica, per entrare nello terzo stadio,
quello della espressione puramente simbolica:

  «proprio questa molteplicità di significati non permette che il simbolo
  rimanga semplice simbolo individuale; proprio essa costringe lo spirito a
  compiere il passo decisivo dalla concreta funzione dell’”indicare” alla
  generale e universalmente valida funzione del “significare”. In essa il
  linguaggio esce per così dire dall’involucro sensibile in cui prima si
  presentava: l’espressione mimica o analogica lascia il posto all’espressione
  puramente simbolica, la quale nella sua diversa natura e virtù di essa
  diventa portatrice di un nuovo e più profondo contenuto spirituale» (FFS, I:
  173).
3.
Il linguaggio nella fase dell’espressione
                 intuitiva
• Nella prima fase, quella dell’espressione sensibile, viene studiato il linguaggio
 nello stadio mimico e in quello analogico, fino al passaggio allo stadio
 simbolico.

• Lì il linguaggio si presenta in primo luogo come linguaggio muto (indicativo e
 imitativo), poi come linguaggio anche vocale (prima mimico, poi analogico).

• Lo   stadio simbolico appare compiutamente realizzato nella fase
 dell’espressione intuitiva. Senza perdere l’originario rapporto mimico e
 analogico con la sensibilità, il linguaggio diviene pienamente significativo solo
 nella fase simbolica e intuitiva.

• Il linguaggio viene seguito nel suo progressivo elevarsi da una condizione di
 massima vicinanza al sensibile, in cui l’immagine che si origina
 immediatamente dal fenomeno e il suono linguistico sono pressoché
 inseparabili, fino al suo maggiore grado di strutturazione formale e
 concettuale. Questo percorso coincide con la progressiva elaborazione del
 suono in forme che esplicitamente rappresentano le intuizioni, cioè la
 formazione di espressioni tali da indicare le relazioni intuitive di spazio,
 tempo, numero, soggetto e oggetto (cfr. Lancillotti, Funzione, simbolo,
 struttura, 1974: 165-166).
Critica della coscienza linguistica
La fenomenologia della forma linguistica è un’applicazione del metodo
trascendentale ai problemi del linguaggio.

Il rapporto conoscitivo soggetto-oggetto, tema centrale della prima critica
kantiana, viene tradotto in termini linguistici come rapporto tra contenuto ed
espressione.

La natura della forma linguistica consiste nel consentire un progressivo
allontanamento dal dato immediato, che viene così costituito in
rappresentazione linguistica.

La critica del linguaggio segna il definitivo superamento della teoria del
rispecchiamento: il senso di ciascuna forma va cercato non in ciò che esprime
ma nel come lo esprime.
Il linguaggio nella fase
                   dell’espressione intuitiva

Dal mondo sensibile, oggetto d’analisi della fase dell’espressione sensibile, si
passa al mondo della intuizione, cioè al costituirsi linguistico delle forme
dell’intuizione (spazio, tempo, numero), che consentono il passaggio dalle
impressioni alle rappresentazioni.

L’attività funzionale della significazione può attuarsi solo nello spazio e nel
tempo, che consentono anche il determinarsi della soggettività e della
oggettività
Il capitolo si apre con un nuovo richiamo alla necessità di superare il dualismo
sensibilità/intelletto:

  «La materia della sensazione non è mai data “in sé” e “anteriormente” ad
  ogni attività formatrice, ma fin dal primo atto onde è posta implica una
  relazione con la forma spazio-temporale» (FFS, I: 175).

  «il detto kantiano secondo cui i concetti senza intuizioni sono vuoti, vale per
  la determinazione linguistica non meno che per la determinazione logica dei
  concetti. Anche le forme più astratte del linguaggio mostrano pur sempre
  chiaramente il nesso con le primitive basi intuitive nelle quali hanno
  originariamente la loro radice. Anche qui la sfera del “senso”, anziché
  separarsi puramente e semplicemente da quella della “sensibilità”, rimane
  con essa intrecciata nella maniera più intima» (FFS, I: 175-176).

Come la critica trascendentale pone nel passaggio dal mondo sensibile al
mondo dell’intuizione il momento necessario della struttura del conoscere, così
l’analisi del linguaggio porta a identificare le forme dell’intuizione (spazio,
tempo, numero) come forme della trasformazione delle impressioni in
rappresentazioni.
Critica dello schematismo kantiano
Le determinazioni spaziali rendono possibili tutte le altre distinzioni:
temporali, modali, qualitative.

  «Kant postula, per rendere possibile l’applicazione dei concetti intellettuali
  alle intuizioni sensibili, un termine medio, nel quale entrambi, sebbene in sé
  completamente dissimili, debbano corrispondersi; e trova questa mediazione
  nello “schema trascendentale” che da una parte è intellettuale e dall’altra
  sensibile»

Lo schema resta distinto dalla semplice immagine. Mentre quest’ultima
è prodotta dalla facoltà empirica dell’immaginazione produttiva:

  «lo schema dei concetti sensibili (come delle figure nello spazio) è un
  prodotto e, per così dire, un monogramma dell’immaginazione pura a priori,
  per il quale e secondo il quale cominciano ad essere possibili le immagini, le
  quali, però, debbono essere legate al concetto solamente e sempre
  mediante lo schema che esse indicano, e in sé non coincidono esattamente
  con tale concetto» (CRP, I: 163, cit. in FFS, I. 178-179)
«Un tale “schema” al quale debbono essere riferite tutte le
rappresentazioni intellettuali affinché siano rese sensibilmente
afferrabili e rappresentabili, è posseduto dal linguaggio nelle
denominazioni che esso dà ai contenuti e alle relazioni spaziali. È
come se tutte le relazioni concettuali e ideali potessero esser colte
dalla coscienza linguistica solo in quanto il linguaggio le proietta nello
spazio e in esso analogamente le “raffigura”. Nelle relazioni di
coesistenza, di giustapposizione ed esclusione la coscienza acquisisce
per la prima volta il mezzo per la rappresentazione dei rapporti
qualitativamente diversissimi di connessione, di dipendenza e di
contrapposizione.
Questo nesso si potrà riconoscere già nella formazione dei vocaboli
spaziali più primitivi che il linguaggio conosce. Essi sono ancora
interamente radicati nella sfera dell’immediata impressione sensibile;
ma d’altra parte contengono il primo germe da cui si svilupperanno le
pure espressioni di rapporti. Risalgono quindi sia all’elemento sensibile
che all’“elemento intellettuale”» (FFS, I: 179).
Priorità dell’intuizione spaziale
Punto di partenza per il costituirsi della realtà oggettiva nel linguaggio è la
rappresentazione dello spazio, la distinzione delle posizioni e delle distanze
spaziali.

  «È anzitutto l’intuizione spaziale che mostra compiutamente questa
  compenetrazione dell’espressione sensibile e dell’espressione spirituale nel
  linguaggio» (FFS, I: 176)

«Anche nelle lingue più evolute si incontra questo modo di esprimere
“metaforicamente» determinazioni spirituali mediante determinazioni sensibili.
Come in tedesco questo nesso si dimostra evidente in parole quali vorstellen e
verstehen, begreifen, begründen, erörtern, ecc., così esso ricorre quasi alla
stessa maniera non solo nelle lingue affini del gruppo indoeuropeo, ma anche
in campi linguistici completamente indipendenti e assai remoti» (ibid.)
L’intuizione linguistica dello spazio
In tutte le lingue le espressioni più generali e astratte restano ancorate a
determinazioni locative sensibili, relative alle diverse posizioni del corpo
umano. Nello stadio primitivo i vocaboli spaziali tendono a moltiplicarsi
indefinitamente al fine di esprimere tutte le possibili distinzioni spaziali
qualitative. Questo andamento metaforico (dal concreto all’astratto) si riscontra
non solo nelle lingue indoeuropee ma anche in lingue distanti da quelle
occidentali (amerindiane, malesi-polinesiane, ecc.):

  «Così, ad esempio, le lingue indigene dell’America solo raramente posseggono
  indicazioni generali dell’andare, ma al loro posto posseggono espressioni specifiche
  per l’andare avanti e l’andare indietro, così come, per tutte le altre molteplici
  sfumature del movimento, e analogamente nello stato di quiete viene accuratamente
  distinto e separatamente indicato lo stare al di sotto o al di sopra, all’interno o
  all’esterno di un determinato limite, lo stare intorno a qualche cosa, lo stare nell’acqua,
  nel bosco e via dicendo» (FFS, I: 177)
  «Una proposizione come “l’uomo è ammalato” nelle diverse lingue americane può
  essere espressa solamente in modo che in essa sia contemporaneamente indicato se
  il soggetto al quale l’enunciazione si riferisce si trova a grande o piccola distanza da
  chi parla o da chi ascolta, e se per entrambi sia visibile o non visibile» (FFS, I: 177-
  178)
Metafore fonetiche (“tipi naturali di fonemi”)
Punto di partenza di questo processo di sviluppo sono «i vocaboli usati per
indicare il qui e il là, il vicino e il lontano» (FFS, I: 179), cioè le particelle e i
pronomi dimostrativi.

Gli elementi linguistici che servono a formare distinzioni locative primarie sono
spesso derivate da “metafore fonetiche”:

  «Come la voce nelle diverse forme del mostrare e dell’indicare serve solamente
  quale rafforzamento dei gesti, così qui, anche nel suo complessivo carattere, non
  esorbita dal campo del gesto vocalico. Si comprende quindi che quasi ovunque
  sono sempre gli stessi suoni che nelle lingue più diverse vengono usati per la
  designazione di certe determinazioni locali. […]. Fin dai primi balbettamenti del
  linguaggio si distinguono nettamente i gruppi fonetici aventi tendenza
  essenzialmente “centripeta” da quelli aventi tendenza “centrifuga”. L’m e l’n
  recano la tendenza verso l’interno così chiaramente come i suoni occlusivi, che
  esplodono verso l’esterno, il p e il b, il t e il d, indicano la tendenza opposta. […].
  Mentre nel primo caso il suono corrisponde ai gesti che denotano il voler
  afferrare, abbracciare, trarre a sé, nel secondo corrisponde ai gesti che si usano
  per indicare, allontanare, cacciar via» (FFS, I: 180).
«L’ulteriore sviluppo porta a delimitare l’uno rispetto all’altro i singoli
campi particolari all’interno di questo campo complessivo. Si
distinguono il questo e il quello, il qui e il là, il vicino e il lontano. Viene
così, con il più semplice mezzo linguistico pensabile, raggiunta una
organizzazione del mondo dell’intuizione, organizzazione di
inestimabile valore nelle sue conseguenze spirituali. È creata la prima
intelaiatura nella quale si inseriranno tutte le ulteriori distinzioni. Che
una tale opera possa toccare ad un semplice gruppo di “fonemi
naturali“, riesce veramente comprensibile solo se si tiene ben presente
che lo stesso atto del mostrare che in questi suoni viene mantenuto
oltre al suo aspetto sensibile, possiede anche un aspetto puramente
spirituale e che già in esso si esprime una nuova energia indipendente
dalla coscienza, la quale oltrepassa il campo della semplice
sensazione di cui anche l’animale è capace.
Si comprende allora come proprio la configurazione dei pronomi
dimostrativi appartenga a quelle originarie “idee elementari” della
formazione del linguaggio che ricorrono in modo uniforme nei più
diversi territori linguistici» (FFS, I: 181)
La questione della deissi
Cassirer assume i pronomi dimostrativi come una configurazione originaria e
ricorrente «in modo uniforme nei più diversi territori linguistici» (FFS, I: 181):

  «ovunque si ritrova l’uso di esprimere mediante semplice cambiamento del suono
  vocalico o consonantico determinate differenze di posizione o di lontananza
  dell’oggetto indicato».

A contrasti relazionali sul piano del contenuto (differenze di posizione e di
lontananza dell’oggetto indicato o tra parlante e destinatario) corrispondono
contrasti relazionali sul piano dell’espressione (opposizione tra consonanti
sonore e sorde).

Come per la critica generale della conoscenza «l’atto del collocare e separare
nello spazio è il presupposto necessario per l’atto di oggettivazione in
generale» (ivi: 182), così nella critica della coscienza linguistica la distinzione
delle posizioni e delle distanze va a costituire il punto di partenza per la
determinazione degli oggetti materiali da un lato, cioè per la costruzione della
realtà oggettiva, e per la differenziazione dell’io, del tu e del lui dall’altro.
L’origine degli elementi deittici
Le designazioni spaziali, quelle personali e gli elementi linguistici dimostrativi
appartengono ad un medesimo ed originario «strato del pensiero linguistico»
(FFS, I: 198).
Si tratta di elementi originari del discorso non in senso ontogenetico e storico-
cronologico, ché anzi la loro comparsa è segnata da evidenti difficoltà – già
evidenziate da Fichte (1795) e da Kant (1797) – ma in senso genetico-
concettuale.

Il riferimento esplicito è alle analisi di Brugmann sulle forme dell’indicare (FFS,
I: 180), ma la cornice della sua riflessione è ancora una volta costituita da
Humboldt e in particolare dalle riflessioni contenute in due saggi dedicati a
questi temi:

• Über den Dualis (1827)
• Über die Verwandschaft der Ortsadverbien mit dem Pronomen in einigen
 Sprachen (1829).
Humboldt sulla deissi
Il saggio del 1829 sottolineava la rilevanza dello studio dell’origine dei
pronomi personali per la storia dello sviluppo della mente umana e
avanzava l’ipotesi di una derivazione dei pronomi personali da
significati di origine spaziale. Pur essendo concetti relazionali
(Verhältnissbegriffe), in quanto non denotano singoli individui ma forme
astratte di relazione, che si delimitano reciprocamente, i pronomi
appartengono infatti all’ambito dell’espressione sensibile in quanto
collocano l’io e il tu in due punti spazialmente distinti, contrapponendoli
entrambi a un terzo. In virtù di questa loro duplice natura, al contempo
concettuale e sensibile, i pronomi vanno messi in relazione con le
forme della intuizione pura, spazio e tempo, un nesso evidente in molte
lingue che mostrano una derivazione dei pronomi dalle determinazioni
dello spazio relative alla posizione del parlante (Humboldt, Über die
Verwandschaft der Ortsadverbien mit dem Pronomen in einigen
Sprachen, in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. v. A. Leitzmann, Berlin
1903-1920, vol. VI, 1, p. 313).
Karl Brugmann (1849-1019)
Pur collocando i pronomi dimostrativi tra le parti più antiche delle lingue,
riteneva comunque empiricamente non dimostrabile l’idea humboldtiana di una
derivazione dei pronomi personali da quelli dimostrativi, come pure la tesi di
una relazione originaria tra gesti indicativi e pronomi dimostrativi avanzata da
Wundt (ipotesi cui invece Cassirer aderisce).
Brugmann aveva individuato quattro forme fondamentali della deissi nelle
lingue indoeuropee, suddivise in due gruppi:

  • una opposizione primaria tra Der-Deixis (sorta di «dimostrativo neutro», che indica
    qualcosa che sta di fronte al parlante, esterno al proprio corpo, cioè un non-io),
    senza ancora specificare se è vicino o lontano né distinguere tra destinatario e terza
    persona); e Ich-Deixis (relativa al parlante, che porta con sé immediatamente
    l’indicazione dello spazio in cui il parlante si trova, ma anche quella del tempo in cui
    parla);

  • e altri due modi minori d’indicazione: la Du-Deixis, relativa al destinatario, e derivata
    dalla Der-Deixis, e la Jener-Deixis, che in origine serviva ad indicare qualcosa che si
    trova ‘dall’altra parte’ (rispetto alla distinzione tra indicante e indicato) (Brugmann
    1904/2006: 155; Di Blas, in Raynaud, Tu, io, qui, ora. Quale semantica per gli
    indicali?, Guerini, 2006: 28-31).
«Comunque tale questione genetica possa alla fine essere risolta, in
ogni caso risulta che i pronomi personali e i pronomi dimostrativi, le
originarie designazioni personali e le originarie designazioni spaziali,
per la loro complessiva struttura, sono apparentate nella maniera più
intima e che per così dire appartengono allo stesso strato del pensiero
linguistico. È il medesimo atto a metà mimico e a metà linguistico
dell’indicare, sono le medesime forme fondamentali della deixis in
generale l’elemento da cui deriva l’opposizione del qui, del lì e del
costì, come l’opposizione dell’io, del tu e del lui. “Qui – rileva G. von
Gabelentz – è ovunque io sono, e ciò che è qui io lo chiamo questo, in
opposizione a ciò e a quello che è lì e costì. Così si spiega l’uso latino
di hic, iste, ille = meus, tuus, eius; così anche nel cinese la coincidenza
dei pronomi di seconda persona con le congiunzioni per la vicinanza
locale e temporale e per la somiglianza”» (FFS, I: 198)
Dai dimostrativi alle altre parti del discorso
A partire dalla embrionale strutturazione dello spazio consentita dalle
particelle e dai pronomi dimostrativi inizia dunque una evoluzione per
cui le espressioni utilizzate per indicare rapporti spaziali coincidono
dapprima con sostantivi e verbi concreti, soprattutto quelli che indicano
parti e movimenti del corpo umano, e successivamente con vocaboli
mediante i quali «l’idea di un oggetto spaziale concreto domina
l’espressione di relazioni spaziali» (FFS, I: 189).
Il corpo come originario piano di coordinate
«Se si cerca di seguire ulteriormente le vie che il linguaggio percorre per
giungere dalle prime nette distinzioni di luogo alle determinazioni e
designazioni spaziali generali, sembra confermato che la direzione di questo
processo va dall’interno verso l’esterno. La “distinzione delle regioni nello
spazio” ha origine da quel punto nel quale si trova colui che parla, e da qui
secondo circoli che si allargano in modo concentrico perviene alla struttura del
complesso oggettivo, del sistema e della totalità delle determinazioni di
posizione» (FFS, I: 187)

«Le distinzioni di luogo sono inizialmente legate nella maniera più stretta a
determinate distinzioni materiali e tra queste è specialmente la distinzione delle
membra del proprio corpo, che serve come punto di partenza di tutte le altre
determinazioni di luoghi. Una volta che lo ha sentito come un organismo in sé
chiuso ed in sé articolato, questo organismo gli serve, per così dire, di modello
per costruirsi il mondo nella sua totalità. Qui egli possiede un originario piano di
coordinate al quale nell’ulteriore progresso egli torna sempre a riferirsi e che
analogamente gli fornisce le denominazioni che serviranno a contrassegnare
linguisticamente questo processo» (FFS, I: 187-188).
Trasferimento metaforico
    dal corpo alle fondamentali articolazioni linguistiche dello spazio

«In verità è un fatto quasi ovunque osservabile quello per cui l’espressione di
relazioni spaziali è legata nel modo più stretto a determinati vocaboli che
indicano cose materiali, tra i quali a loro volta occupano il primo posto i
vocaboli che servono per la designazione delle singole parti del corpo umano,
l’interno e l’esterno, il davanti e il dietro, il sopra e il sotto ricevono le loro
denominazioni per il fatto di essere ciascuno legato a un determinato sostrato
sensibile del corpo umano nel suo complesso. Mentre le lingue più evolute
sono solite usare preposizioni o postposizioni per esprimere rapporti spaziali,
nelle lingue dei popoli primitivi si incontrano quasi ovunque, analogamente,
espressioni nominali che o sono esse stesse nomi di parti del corpo o
chiaramente a tali nomi risalgono» (FFS, I: 188).
Dal concreto all’astratto

«tutto lo sviluppo del linguaggio, come del pensiero in generale,
procede necessariamente dal concreto-vivente al concettuale»:

  «Ed anche laddove la lingua nell’espressione di rapporti puramente
  concettuali ha raggiunto grande libertà e astratta chiarezza, spesso traspare
  ancora chiaramente l’antico significato fondamentalmente spaziale e di
  conseguenza il significato fondamentalmente sensibile e materiale da cui
  originariamente la denominazione procede» (FFS, I: 189).

«La preminenza del significato spaziale rispetto al significato logico-
grammaticale è in realtà tanto più valida quanto più si prendono in
considerazione le lingue che nella formazione delle “forme dei casi”
hanno sviluppato la massima fecondità» (FFS, I: 192)
Una grammatica universale a base corporea
Nel percorso della coscienza linguistica, descritto come un progressivo
distanziarsi dalla immediatezza sensibile, prende forma «una sorta di
grammatica universale non dichiarata o almeno una descrizione delle
‘idee elementari’ della formazione del linguaggio che ricorrono in modo
uniforme nei più diversi territori linguistici» (Formigari 2001: 214).

Dalla distinzione delle posizioni e delle distanze derivano:
• L’articolo determinativo
  l’oggetto cui l’articolo si riferisce viene indicato «come l’‘esterno’ e il ‘colà’,
  separato dall’’io’ e dal ‘qui’ (FFS, I: 184-185)
• Gli avverbi di spazio (davanti, dietro, sopra, sotto, ecc.)
  legati al corpo umano e alle sue parti (FFS, I: 188)
• Le locuzioni di causa o scopo
  • dallo spaziale ‘donde’ si sviluppa il causale ‘per cui’;
  • dal ‘verso dove’ il concetto generale di finalità (FFS, I: 190).
«In questo questo settore singolo della formazione del linguaggio è
confermata dunque la legge generale di ogni forma spirituale secondo
la quale il contenuto e la funzione di essa non consistono nel semplice
rispecchiamento di un ente obbiettivamente esistente, ma nella
creazione di una nuova relazione, di una particolare correlazione tra
“io” e “realtà”, tra la sfera “soggettiva” e l’“oggettiva”. Anche nel
linguaggio in virtù di questa correlazione il “cammino verso l’esterno”
diventa ad un tempo “cammino verso l’interno”. Nella crescente
determinatezza che in essa assume l’intuizione esterna, anche l’interna
raggiunge per la prima volta il suo vero sviluppo: proprio la formazione
dei vocaboli indicanti spazio diviene per il linguaggio il mezzo per
indicare l’io e la sua delimitazione rispetto ad altri soggetti» (FFS, I:
197).
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