RACCONTI IN CLASSE Concorso di scrittura narrativa - XV edizione 2023 - Liceo Leopardi-Majorana

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RACCONTI IN CLASSE
Concorso di scrittura narrativa

          XV edizione             2023
          Tre n t a ra cco n t i s ce l t i
PRESENTAZIONE

Il concorso Racconti in classe, giunto alla quindicesima
edizione, rappresenta un appuntamento atteso, una
iniziativa che ha il merito di promuovere nel tempo
un’efficace collaborazione tra tante scuole del nostro
territorio, in una prospettiva autentica di orientamento e
continuità.
E anche quest’anno sono numerosissimi i ragazzi, del
nostro Liceo e delle Scuole medie del territorio, che hanno
voluto misurarsi in questo esercizio di scrittura creativa,
nella non facile impresa del racconto breve, nel confronto
con la sintesi.
Prosegue, per la nostra scuola, la ricerca e la realizzazione
di iniziative legate a nuovi strumenti di espressione dei
nostri giovani e la collaborazione con pordenonelegge.it
attribuisce al concorso valore e significatività.
Da parte mia e da parte del Liceo Leopardi-Majorana un
ringraziamento particolare a quanti hanno contribuito, nei
diversi ruoli, al successo di questa sfida.
Il presente libretto raccoglie i trenta racconti finalisti che, a
giudizio della qualificata giuria, hanno superato la selezione:
quindici racconti di studenti del Liceo Leopardi-Majorana e
quindici racconti di studenti delle scuole medie.
Il mio augurio a tutte le ragazze e a tutti i ragazzi che
hanno partecipato è di avere sempre moltissimi sogni e di
conquistare gli strumenti per realizzarli.

Il Dirigente Scolastico
Rossana Viola
INTRODUZIONE

Venerdì 16 dicembre 2022 si è tenuta la prova del concorso “Racconti
in classe”, giunto alla quindicesima edizione. Il concorso è nato come
iniziativa volta a promuovere la pratica attiva della scrittura narrativa nei
giovani.
Dopo due anni, nei quali il concorso si è svolto online, in classroom,
finalmente i ragazzi sono tornati a comporre i loro testi in presenza.
Il giorno del concorso, dalle 15.00 alle 17.30, i ragazzi delle classi seconde
del “Leopardi-Majorana” e delle classi terze delle scuole medie della
Provincia di Pordenone e oltre, che hanno scelto di partecipare, hanno preso
posto nelle aule della sede centrale del nostro Liceo, in piazza Maestri del
Lavoro. Anche quest’anno la partecipazione degli studenti è stata davvero
significativa ed entusiastica.
Il concorso trova la sua motivazione nel desiderio di verificare e di
confrontare le competenze di scrittura e di espressione raggiunte dagli
studenti in due momenti significativi, ma fra loro non lontani, del ciclo
scolastico: l’anno conclusivo della scuola media e la fine del biennio della
scuola superiore.
Questa volta, diversamente dalle passate edizioni, gli studenti potevano
scegliere a piacere una delle tre frasi fornite, da collocare liberamente nel
testo e attorno a questa costruire il racconto. I tre versi sono stati tratti
dall’antologia di poesie Giulia, l’Evaso e la Verfallenheit (ed. Samuele, La
Gialla, 2022) di Letizia Gava, Andrea Cozzarini e Alessandro Stoppa, tutti e
tre ex allievi del nostro Liceo Classico.
Non saprei dire dove da ultimo / l’ho visto, se era ieri o anni fa, di Letizia
Gava, da Musica sospesa.
Oggi non sta fermo un secondo, il vento di Andrea Cozzarini da Giulia e altre
poesie.
Venivano correndo da est, il vicolo cieco sotto lo studio di Alessandro Stoppa,
da Verfallenheit.
I racconti sono stati poi sottoposti a una selezione articolata in più fasi.
Dapprima un gruppo di insegnanti ha scelto quindici racconti per le scuole
superiori e quindici per le medie. Fra questi la Commissione Giudicatrice,
composta da membri indicati da Pordenonelegge e presieduta da Teresa
Tassan Viol, ha scelto i vincitori, tre per le scuole superiori e tre per le medie,
che saranno premiati nel corso di un’apposita cerimonia, il 7 febbraio al
Convento S. Francesco di Pordenone.
Come nell’edizione precedente, tutti i racconti giunti al vaglio finale della
giuria sono stati ritenuti meritevoli comunque di un riconoscimento, che
giunge nella forma della pubblicazione in questo volume, la cui stampa
è a cura del Liceo “Leopardi-Majorana”. Le foto sono state realizzate da
Edoardo Magrini di 5CC.

Gli insegnanti referenti del progetto
Patrizio Brunetta e Angela Piazza
Foto di Edoardo Magrini, 5Cc
                                       Liceo Leopardi Majorana

“Non saprei dire dove da ultimo/ l’ho visto,
           se era ieri o anni fa”
                    Letizia Gava, da   Musica sospesa
Quindici racconti
del Liceo Leopardi-Majorana
Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

E’       una sera di autunno, quando Sara esce dal suo appartamento minuscolo per
dirigersi verso il bar in cui lavora.
Sara ha ventuno anni, va all’Università e la sua vera aspirazione è quella di fare la
detective e non quella di lavorare in uno squallido pub.
Ha perso i suoi genitori quando aveva quindici anni, perciò deve mantenersi da sola.
Arrivata al bar in cui lavora, incontra la sua migliore amica Marina, che le è sempre
stata vicina anche nei momenti di difficoltà.
Il tempo passa molto lentamente quel giorno, tanto che, quando finisce finalmente il
suo turno, scappa a casa.
La mattina successiva, appena si sveglia, nota che il suo telefono è pieno di chiamate
perse e messaggi di Marina.
Prova a telefonarle, ma lei non risponde, proprio per questo inizia a preoccuparsi e
prova a chiamare i genitori e il fratello dell’amica ma niente, nessuno dei parenti sa
cosa le è successo.
Prova a restare calma, ma sente per tutta la giornata un senso di inquietudine che la
tormenta.
Arriva la sera e Sara spera di vedere Marina al lavoro, ma lei non si presenta, prova a
controllare il cellulare, ma non ci sono messaggi dell’amica e così chiama la polizia
per avvertire della sua scomparsa.
Quando ritorna nel suo appartamento, ancora furente di rabbia per il fatto che
i poliziotti non le hanno creduto, decide di provare ad indagare lei stessa sulla
scomparsa dell’amica.
Inizia la mattina successiva, va in tutti i “rifugi” dell’amica, nei suoi posti preferiti ma
non trova niente, neanche un indizio, fino a quando non vede una persona familiare
e pensa: NON SAPREI DIRE DOVE DA ULTIMO|L’HO VISTO, SE ERA IERI O ANNI FA.
Proprio con questo pensiero in testa, si avvicina all’uomo.
Dapprima non lo riconosce, ma appena lo guarda meglio capisce subito chi è.
Si tratta dell’ex fidanzato della sua amica, Luca, che guarda caso si era presentato al
bar proprio il giorno della scomparsa di Marina, per cercare di riconquistarla.
Marina e Luca non hanno mai avuto una bella relazione: litigavano frequentemente,
molte volte si lasciavano per poi tornare insieme, provocando molto dolore a Marina.
Quando si sono lasciati definitivamente è stato come un sospiro di sollievo per Sara,
perché non le piaceva vedere l’amica soffrire.
Non ha mai provato una grande stima per Luca e trovarlo in uno dei luoghi preferiti

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

di Marina le sembra molto strano, proprio per questo decide di seguirlo, per vedere
dove va.
Lo segue fino ad una fabbrica abbandonata, lo vede scendere dalla macchina,
guardarsi intorno in cerca di qualcuno e poi scappare all’interno della struttura.
Già di per sé questo atteggiamento è molto inquietante, ma la cosa spaventosa è
quella che Sara vede successivamente.
Cerca una finestra da cui guardare dentro e vede Marina legata ad una sedia, mentre
Luca cerca degli oggetti dentro una borsa.
Marina ha varie botte su tutto il corpo e la faccia non è messa meglio.
Come prima cosa Sara chiama la polizia, li informa di quello che sta succedendo con
una voce tremolante e li prega di fare in fretta.
Sara ha come un’amnesia di quello che è successo tra la telefonata e l’arrivo dei
poliziotti, si ricorda solo che appena sono arrivati gli agenti, si trovava dentro al
capanno cercando di proteggere Marina dai colpi di Luca.
La polizia lo arrestò e Sara e Marina furono portate in ospedale per medicare i lividi.
Da quel giorno in poi non videro più Luca.

Martina Benedetti, 2GU
Liceo Leopardi-Majorana

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

                                 AGOSTO 1995

C      orreva l’anno 1995, era il mese di Agosto e Eleonora Diamante era nella sua
stanza, come ogni sera. Era domenica 17 Agosto. Un giorno come gli altri. Decise
di uscire a fumare prima di andare a dormire. Eleonora aveva sedici anni, era alta e
gracile, con lunghi capelli ramati. Aveva gli occhi azzurri che ricordavano il colore del
cielo. Il viso era costellato di lentiggini, che lei odiava. L’orologio segnava le venti e
quaranta quando lei era in strada. Camminava lentamente, senza curarsi di cosa stava
accadendo vicino a lei. Appena fuori dalla via della sua casa, tirò fuori una sigaretta,
che aveva rubato la sera prima di nascosto a suo padre. La accese e iniziò a fumare
tranquillamente.
“Sei un po’ piccola per fumare, ragazzina” disse una voce maschile alle sue spalle.
Si girò con un movimento fulmineo e subito rispose: “Tu sei un po’ troppo ficcanaso
per farti gli affari tuoi”. “Liam” si presentò il ragazzo, tendendo la mano a Eleonora.
Notando che lei non imitava il gesto, riprese a parlare: “Hai coraggio ragazzina, vedo
che non hai paura di rispondere. Quanti anni hai: tredici o dodici?” “Sedici.” rispose
lei seccata “Mi chiamo Eleonora, comunque.”
Liam, interessato, la squadrò da testa a piedi, e lo stesso fece Eleonora. Era vestito in
modo semplice: una felpa arancione e un paio di jeans sbiaditi.
“Abiti qui vicino?” chiese lui. “Non so ancora nulla di te, e vuoi già venire a casa mia?”
replicò lei.
“Liam Lively, diciassette anni, via delle Primule 12, Verona. Sono nato il 27 Agosto. Il
mio colore preferito è il giallo, odio il golf, amo disegnare e dare fastidio. È abbastanza,
ragazzina?” disse in modo sarcastico. “Sì, e smettila di chiamarmi ragazzina.” Dopo
una breve pausa continuò: “Via Garibaldi 7, Verona.”.
I due non abitavano distanti. Eleonora stava per andarsene, poiché la sua sigaretta
era ormai finita, quando, prontamente, Liam la bloccò: “È stato un piacere, Eleonora.”.
Lasciandola andare Liam continuò la sua strada e Eleonora scelse di tornare a casa,
turbata.
Arrivò a casa, e distesa sul suo letto, iniziò a pensare al ragazzo. Eleonora era disturbata
da una riflessione: “Non saprei dire dove da ultimo/ l’ho visto, se era ieri o tanti anni
fa”. Aveva gli occhi persi che continuavano a fissare il vuoto, cercando di ricostruire
la scena. Andò a dormire con questo pensiero, e l’unica cosa che la svegliò da questo

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stato di quasi incoscienza fu la sveglia. Con svogliatezza la spense.
Era il 17 Agosto 1995, una domenica per essere precisi. La sua giornata si svolse
in maniera estremamente normale, fino alla sera. Eleonora incontrò un ragazzo di
nome Liam, mentre stava fumando. Aveva una felpa arancione e dei jeans sbiaditi. A
Eleonora sembrava di avere già incontrato quel ragazzo. Andò a dormire con questo
pensiero fisso e l’unica cosa che la svegliò fu il suono della sveglia.
Era il 17 Agosto 1995, e Eleonora si era appena svegliata. Era una giornata come le
altre, se non fosse che Eleonora Diamante aveva già vissuto quel giorno.

Gloria Ventoruzzo, 2CU
Liceo Leopardi-Majorana

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

È      una tiepida giornata di primavera, il sole sembra giocare a nascondino in mezzo
alle nuvole e il mare è calmo sotto la chiglia della barca.
Ci sono solo io, tra l’immensità del mare, ma questo non mi preoccupa. Al contrario di
molti le onde non mi spaventano, e anzi, fra di loro mi sento libera di essere me stessa,
come se tutte le preoccupazioni venissero portate via dalla corrente. Guardo il faro
allontanarsi sempre più; le onde lo colpiscono con violenza, ma non lo scalfiscono
minimamente. Lui rimane lì, sullo scoglio più alto del promontorio, fiero di vegliare
sulla vastità delle acque che lo circondano. Quanto piacerebbe anche a me essere
come quel faro imperturbabile, penso, non poter essere ferita da nessuno… Il verso
di un gabbiano mi riporta alla realtà.
Sposto lo sguardo verso il cielo; gli uccelli planano spinti dalle correnti e sembrano
quasi fare a gara per chi vola più veloce. Scommetto sulla vittoria di quello più
piccolino, con una macchia bianca sul petto, e faccio il tifo per lui fino a quando lo
stormo si allontana troppo e non diventa nient’altro che un piccolo puntino scuro
nell’immensità del cielo azzurro.
Oggi non sta fermo un secondo, il vento. Gli schizzi delle onde raggiungono il mio viso,
ma non mi asciugo. I capelli annodati mi coprono gli occhi, ma non li sposto. Mi piace.
Le vele gonfie ed insaziabili desiderano sempre più vento, mentre la barca prende
velocità. Grido. Mi accorgo di essere finita in mezzo ad una raffica forte di vento; le
onde sbattono contro lo scafo della barca e nel cielo, al posto del timido sole, si
sono fatti spazio numerosi nuvoloni cupi e minacciosi. Nonostante tutto non perdo la
calma; sono stata abituata fin da bambina a sapermela cavare anche da sola e più che
mai, quando mi trovo in mezzo al mare, mi impongo di rimanere calma e di trovare
una soluzione il prima possibile.
Lotto contro la forza della natura, sapendo di non poterla né controllare né tantomeno
sovrastare o dominare. Proprio quando mi sembra di non farcela più vedo una luce
che si fa spazio fra il cielo grigio. Finalmente! Stanno per finire tutte le fatiche e il
cielo può ricominciare a splendere.
Uscita dalla burrasca decido di tornare al porto, contenta di essere riuscita ancora
una volta a sopravvivere in una situazione di pericolo. Prendo la strada più breve e
inizio già a vedere le prime bandiere che si innalzano dalla costa frastagliata. Durante
il tragitto penso a come tutti dovrebbero gestire la propria vita proprio come quando
si va in barca. Se ci si presenta davanti un imprevisto o una situazione difficile non

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bisogna lasciarsi prendere dallo sconforto ma bisogna rimboccarsi le maniche e
lottare perché ci sarà sempre una luce in fondo alla via, per quanto ripida e tortuosa
essa sia, bisogna trovare la forza per andare avanti.
Oggi il vento non sta fermo un secondo. Domani ci sarà il sole.

Emma Massarut, 2DC
Liceo Leopardi-Majorana

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                               LA TESTIMONE

O       ggi non sta fermo un secondo, il vento. La città è sferzata dalla pioggia che
inonda le strade trafficate di New York.
Questo pomeriggio ero sola nel mio appartamento; le luci del teatro inondavano le
stanze, in lontananza sentivo rumori attutiti di clacson e sirene. Stavo affacciata alla
grande finestra: è proprio bella la vista da quassù, l’altezza mi faceva paura, ma con
il tempo ci ho fatto l’abitudine. Osservavo le gocce d’acqua che scorrevano veloci sul
vetro, mi chiedevo che fretta avessero di andare chissà dove, così come i passanti che,
qualche piano più in basso, marciavano a passo svelto sotto i loro grandi ombrelli,
schivando le piccole montagne d’acqua alzate dalle auto. Mi domandavo perché si
affaccendassero in un giorno così uggioso: stavo così bene io, all’asciutto nel mio
appartamento, avvolta dal tepore che permeava l’ambiente. Io adoro la pioggia, ma
proprio non sopporto i tuoni: quelli più forti a volte fanno persino scricchiolare le
assi del pavimento; in quei momenti sento il bisogno della presenza di Rose. Abito
con lei da quando avevo pochi mesi, non ricordo quando sono arrivata e non ricordo
nemmeno la mia vera mamma, ma Rose dice che le somiglio molto ed io ne vado
molto fiera.
Mentre guardavo dalla finestra, all’improvviso, la quiete fu spezzata dal fragore di un
tuono. Mi spaventai e cercai riparo nel comodo divano, accoccolandomi sui morbidi
cuscini. Poco più tardi, degli strani rumori, una voce attutita, un suono metallico,
provenienti da una finestra che dava su uno stretto vicolo e che Rose lasciava
sempre semiaperta per arieggiare, attirarono la mia attenzione. Mi avvicinai con fare
guardingo alla finestra e cominciai a guardare fuori con circospezione: due figure si
muovevano come ballassero… capii fin da subito che c’era qualcosa di sbagliato in
quella scena. D’un tratto uno dei due cadde, con un urlo, l’altro gli stava addosso,
minaccioso. Gridai e iniziai a sbattere violentemente sul vetro. Non sapevo bene cosa
aspettarmi, capivo il pericolo e volevo farmi sentire… improvvisamente, l’uomo che
più mi intimoriva si girò di scatto a guardare nella mia direzione. Mi immobilizzai;
l’uomo scappò via, lasciando l’altro sdraiato sull’asfalto gelido e bagnato: chissà che
freddo doveva avere. Mi sentii fiera, ma al contempo spossata dalla paura, priva di
forze. Sentivo che avevo bisogno di riposo e così mi stesi sulla calda poltrona; udivo
delle sirene avvicinarsi, ma i rumori subito si affievolirono, la vista si annebbiò. Mi

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

addormentai.
Non so per quanto tempo avessi dormito quando sentii qualcosa provenire da
fuori la porta; spalancai gli occhi e le mie orecchie si drizzarono; riuscii a percepire
ogni movimento all’esterno: l’ombrello che si chiudeva, gli stivali che strisciavano
rapidamente sul tappeto, la chiave che entrava nella toppa e girava una, due, tre,
quattro volte… Eccola di nuovo a casa. Era Rose, la mia umana preferita!
“Che bello vederti dopo questa lunga giornata, Mandy!”.
Le mie zampette si muovevano dappertutto, la mia coda roteava all’infinito, la mia
linguetta dimostrava a Rose tutta la mia gioia e l’affetto che ho per lei.
Ripose gli stivali vicino alla porta, tornai sul divano e lei mi seguì, le lasciai lo spazio
che usò per lasciarsi cadere all’indietro stanca, la testa abbandonata sui cuscini e lo
sguardo fisso sul soffitto. Le andai vicino, scodinzolando, ma quando mi guardò per
accarezzarmi dal suo sguardo trasparì un velo di tristezza. Inclinai il musetto, fissandola
con occhi dolci, in cerca di risposte. Cominciò a raccontare: “Oggi pomeriggio un uomo
è stato aggredito proprio qui sotto, una tentata rapina; non si può stare tranquilli di
questi tempi, pieni di violenza e ingiustizia. Fortunatamente, però, il rapinatore è stato
spaventato da qualcosa ed è scappato ancora prima di metter mano al portafogli del
pover’uomo”.
Nessuno sa che quel “qualcosa” ero io, mai nessuno lo saprà, ma lì, guardando Rose,
ero felice e orgogliosa perché ero stata importante nella vita di quel malcapitato. In
quel momento, però, non potevo sprecare il tempo a compiacermi di quanto fossi stata
coraggiosa, dovevo solo consolare Rose. Lei era buona e altruista e queste continue
notizie di violenza le stavano facendo perdere fiducia nelle persone, provocandole
tanta delusione. Mi accoccolai vicino a lei, sfiorando la sua pelle ancora bagnata dalla
pioggia con il mio pelo bianco e caldo. Lei pose delicatamente la sua mano sulla mia
testa, accarezzandomi. Chiusi gli occhi. Li riapro ora, Rose si è addormentata, ma non
mi sposterò di un centimetro: ho bisogno di lei e del suo sorriso; domani, mi prometto,
sarà di nuovo stampato sul suo volto.

Nicole Modolo, 2AC
Liceo Leopardi-Majorana

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

                        IL CORAGGIO DI RESTARE
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                      anche se ora sei lontano, rimarrai sempre nei miei ricordi più felici.

E     ra tardo pomeriggio quando Lidia si lasciò la propria casa alle spalle.
Posizionando un piede dinanzi all’altro, cercava di mantenere la schiena dritta, le
spalle alte e ferme. Le mani, infilate nelle tasche, erano sudate e tremavano, unico
segno del controllo che l’aveva ormai abbandonata.
Aveva bisogno di tempo per pensare, per riordinare le idee e dare spazio a quei
pensieri che le risuonavano in testa, che la pregavano di dare loro importanza, e non
respingerli e metterli a tacere.
Si fermò a metà strada, il sole all’orizzonte, solo una piccola sfera di luce calda che
si poggiava sulla superficie dell’acqua. Intravedeva in lontananza le vele spiegate e
udiva confusamente grida gioiose provenienti dalla spiaggia.
Chiuse gli occhi, inspirando l’aria di mare, quella brezza che a volte sapeva di sale,
altre di libertà sfuggente. Il tremolio si affievolì pian piano, come Lidia riaprì gli occhi.
Le gambe volevano cederle, ma lei non glielo avrebbe permesso. La loro era una
protesta, un grido disperato ogni volta che le immagini del padre si presentavano con
arroganza, come se una risacca lasciasse l’odore della paura sulle sponde della sua
mente.
Iniziò a camminare concentrandosi solo sull’aumentare la distanza da quella casa.
Nel giro di pochi minuti lo scricchiolio delle assi di legno del pontile annunciò il suo
arrivo. Le barche ormeggiate erano cullate dalle dolci onde del mare.
Stare in piedi diveniva sempre più arduo per Lidia, man mano che passava il tempo,
ma avrebbe resistito. Si sarebbe preoccupata solo poi di come era ridotta la gamba
sinistra o di quanto fossero grandi i lividi sulle braccia, sulla schiena, sull’addome.
Scacciò via quei pensieri, li lasciò volare via, trascinati da quel vento tanto forte da
farle asciugare il sudore e da darle aria da respirare.
Per la prima volta dopo tanto tempo, sentì che non le mancava affatto.
“Oggi non sta fermo un secondo, il vento”. La voce roca di qualcuno alla sua destra
la fece sobbalzare. Si voltò piano, tentando di non mostrare quanto il suo corpo le
gridasse di correre. Ma, appena incrociato lo sguardo di Nevio, i muscoli si rilassarono
lievemente.
La stava guardando con un mezzo sorriso, accovacciato accanto ai pesci pescati. Nevio

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era il guardiano del porto, un uomo sulla sessantina, l’unico di cui forse Lidia avesse
mai realmente apprezzato la presenza.
“Sì, oggi non è male. È una bella giornata per uscire in barca”, riuscì a replicare.
“Vieni con me, Lidia”, disse lui con voce flebile.
Quel tono. Le metteva sempre una certa soggezione: non era di rimprovero e neanche
rabbioso, bensì… di sincera preoccupazione.
Lo seguì in silenzio finché non raggiunsero la sua barca a vela, che da sempre
era segretamente la sua preferita. Sembrava la più possente di tutte e, in qualche
modo, anche la più elegante. Quando solcava le onde, e Lidia l’aveva osservata farlo
innumerevoli volte, tagliava l’acqua per farsi spazio, lasciando il segno dove passava.
Nevio le fece segno con il capo di sedersi e con un lamento soffocato si adagiò sulla
prua con le gambe penzoloni. Lidia lo imitò e avvolse le braccia attorno alla ringhiera.
“Cosa ti è successo, ragazza?”. Sentiva il suo sguardo sulla pelle, ma continuò a
guardare l’acqua sotto di loro.
“Voglio solo andarmene di qui”. Non poteva guardarlo negli occhi perché sapeva cosa
vi avrebbe trovato: quello sguardo carico di affetto e compassione che non le era mai
stato rivolto da nessun altro.
“Dove vorresti andare?” , le domandò.
“Una volta hai detto di voler lasciare quest’isola. Ecco, ovunque te ne andresti, credo”.
Le sorrise dolcemente, incrociando le braccia al petto.
“Nella vita la risposta non è sempre fuggire. A volte è restare”.
“Anche se fa male?”. Nevio picchiettò l’indice sul gomito e si grattò la nuca.
“Ti conosco, Lidia, da quando eri piccola. E conoscevo tua madre. Ho sempre pensato
che foste uguali, due mari in burrasca, tempeste implacabili. E lo penso ancora”. Nevio
posò una mano calda sulla sua spalla, osservando la determinazione in quegli occhi,
di cui era tanto fiero.
«Lotta per te stessa, Lidia. Lotta per quello che sei e per quello che potresti essere”.

Nicole Fort, 2AC
Liceo Leopardi-Majorana

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

I   l ticchettio della pioggia sui vetri e il suono di qualche tuono per ora ancora lontano
mi cullano in questa fredda giornata d’inverno.
Un colpo di vento più forte degli altri spalanca la finestra del mio piccolo salotto
riportandomi alla realtà; nella stanza entra una folata di vento gelido accompagnato
dalle piccole ma fitte goccioline d’acqua che, anche se in poco tempo, riescono a
mettere in subbuglio la scrivania gremita di fogli, che si trova proprio al di sotto della
finestra ormai del tutto aperta.
Mi affretto a chiuderla e comincio a raccogliere tutti i fogli che nel frattempo si
sono sparsi sul pavimento come a formare una grande tappeto; si tratta di bollette,
ricevute di vecchi acquisti, fotocopie di lavoro e cartoline dai lontani parenti, tutte
alla rinfusa. Ad attirare la mia attenzione però è una busta in particolare, ingiallita dal
tempo e leggermente spiegazzata a causa di tutto ciò che l’aveva sormontata fino a
questo momento; nonostante gli evidenti segni del tempo passato la riconoscerei
ovunque: la calligrafia ordinata ed elegante, il colore della penna rigorosamente blu,
ma soprattutto quel timbro.
Rimango incantata per quelli che mi sembrano momenti interminabili con la busta in
mano, ad osservarla ancora seduta sul pavimento, finché non decido di aprirla.
Contiene ricordi di avventure passate, di un’amicizia, di immense gioie e anche di
momenti più tristi, ma in particolare contiene il ricordo di lui.
Anni addietro decidemmo di scriverci una lettera che avremmo poi conservato per
il resto della nostra vita, non importava cosa sarebbe accaduto, se la vita avrebbe
deciso di separarci e farci poi rincontrare o meno, avremmo sempre avuto quella
lettera a memoria l’uno dell’altra.
Ci conoscemmo alle scuole elementari, io ero già allora una bambina che preferiva
restarsene da sola, non tanto per volontà ma più per le circostanze, con il suo libro in
mano, gli occhiali leggermente calati sul naso e decisamente troppo grandi per una
bambina di appena sette anni; poco prima dell’inizio delle vacanze di Natale arrivò
nella nostra classe un nuovo bambino, anch’egli impacciato e timido, ricordo di non
averci fatto molto caso immersa com’ero nella mia lettura, ma ancora oggi lo posso
considerare il dono più grande mai ricevuto.
Con il passare del tempo facemmo amicizia, eravamo due emarginati che potevano
contare l’uno sull’altra, e devo ammettere che tale amicizia è nata principalmente
grazie a lui. Crescemmo insieme, dove andava lui andavo io e viceversa, ormai eravamo
diventati inseparabili, o almeno così credevamo.
Come in tutte le amicizie degne di questo nome anche noi litigavamo ogni tanto, ma

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non durava molto: il giorno stesso ci incontravamo inconsapevolmente a metà strada
tra casa mia e casa sua, io andavo da lui a scusarmi e lui faceva lo stesso venendo da
me, era così ogni volta, dalla prima litigata all’ultima. Quando c’era qualcosa che non
andava potevo sempre contare sulla sua presenza, lui era lì, saldo come un muro di
mattoni e sempre pronto a consolarmi, non ho memoria di un solo istante in cui non
ci sia stato.
Una volta raggiunto il terzo anno di liceo però le cose sono cambiate; era una giornata
fredda e nuvolosa che prometteva pioggia, non molto diversa da quella di oggi a
pensarci bene, nonostante il tempo poco favorevole ci trovavamo seduti sotto ad un
albero con ciascuno un libro, in silenzio e con solo la presenza dell’altro ad assicurarci
di non essere soli. Ad un tratto poggiò il libro a terra, mi guardò dritto negli occhi e
cominciò a parlare. Ricordo che come finì quello che aveva da dire cominciò a piovere
come non mai e tale manifestazione atmosferica rispecchiava a pieno quanto stava
accadendo dentro di me nello stesso momento.
Si sarebbe trasferito da lì a non molto e allora ero sicura che non ci saremmo più
rivisti; mi fece promettere che saremmo sempre rimasti in contatto, e in un primo
momento così fu, ma con il passare del tempo e l’imponente distanza che ci separava
risultò sempre più difficile e così piano piano smettemmo di scriverci.
Il giorno della sua partenza fu il più difficile; quella mattina mi svegliai presto e andai
sotto al “nostro” albero, una grande quercia che scegliemmo per puro caso e facemmo
nostra nel tempo, incidendo nel suo tronco la sagoma di due fiori nati tra le erbacce,
simbolo della nostra amicizia nata per caso ma voluta dal destino. Quando arrivai non
mi aspettavo di certo di trovarlo lì seduto, ma non me ne meravigliai neanche. Senza
dire una parola mi sedetti accanto a lui e osservai il paesaggio: il cielo era limpido,
senza neanche una nuvola a rovinarne la sua bellezza e il sole stava salendo sempre
più in alto; lo presi come un segno che le cose sarebbero andate bene.
Ora so quanto possa essere ingannatrice una bella giornata.
Fu in quel momento che scrisse la lettera che ora tengo in mano; aveva portato con
sé due buste, due fogli bianchi, una penna nera per me e una blu per lui.
Non le leggemmo subito, quello che facemmo fu invece metterle all’interno delle
buste e sigillarle con il nostro simbolo come timbro.
Non mi sbagliavo quando credevo che non lo avrei più rivisto, così è stato, ma non
mi sono mai dimenticata di lui e dei momenti passati insieme, delle emozioni vissute
e di tutte le avventure affrontate, il suo ricordo è sempre rimasto vivido in me. Non
saprei dire dove da ultimo l’ho visto, se era ieri o anni fa.
Dopo aver riletto la mia gioventù, sorridendo, pongo la lettera in un cassetto e torno
a sistemare i fogli a terra.

Vittoria Carretta, 2AS
Liceo Leopardi-Majorana

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                              SOLO UNA FOGLIA

O        ggi non sta fermo un secondo, il vento. Me lo sento che lei oggi si lascerà andare,
senza rimorsi, perché è questo il volo della vita. Lei lo sa e io lo so.
La guardavo da tempo. Ho scelto lei perché è la più gialla tra tutte, ma anche la più
piccola. È luminosissima ma nascosta perché le altre la sovrastano, scalpitando. Lei è
la mia foglia.
Il suo ramo sussulta: poco sopra poggia un cocciuto picchio, che da giorni tenta, a
quanto vedo invano, di aprire un varco. Come Luigi, che morta la moglie Livia non
riusciva a riprendersi; ha tanto lottato, per trovare quello spiraglio, quella fessura che
trasmette la forza di continuare a battere, continuare a vivere.
Un tremolio prepotente la fa cedere, senza sforzo. Lei, serena, si lascia trasportare
dagli agitati sospiri dell’aria. La sfiora una farfalla candida, da sembrare estranea a ciò
che la circonda. Mi fa ricordare quando Luigi portò la figlia in Val Cellina, per la prima
volta dopo la scomparsa di Livia. Erano soli: lui, lei, i sassi e il torrente. La guardava,
infagottata in cappottino e sciarpa e persa con innocenza in un mondo troppo grande.
Quella era la fessura di Luigi. Il suo spiraglio per continuare a battere. La sua piccina.
La mia foglia nel frattempo ci sta prendendo gusto nello scivolare tra le spinte del
vento. È libera per la prima volta. Volteggia, come danzando. Un ostacolo si pone
tra lei e il suolo. Uno scoiattolo in bilico sulla punta di un ramo secco, ma che
sorprendentemente regge, osserva il mondo, individuando i punti di riferimento che
da lì si offrono.
Luigi faceva lo stesso quando si sentiva smarrito, una volta dal suo ufficio, una dalla
sua camera da letto, una dalla cucina. Cercava qualunque cosa, che gli ricordasse la
sua bambina e quando la trovava, quella diventava la chiave per mettere a fuoco
tutto il resto. Era una sua necessità, quando la bimba non era con lui. Lei era la sua
luce e per Luigi era difficile restare al buio.
La mia foglia schiva, per un refolo, la testolina del piccolo mammifero, evitando,
quindi, l’ostacolo. Caduta libera ancora per poco, perché il terriccio del sentiero non
è così distante. Lei scende consapevole di ciò, è comunque quieta. Procede nella sua
ascesa al contrario, mantenendosi in equilibrio. Dall’alto, come lei, scende operosa
un’ape. Rapidamente uscita dal suo alveare e immersa in prospettive nuove, talmente
numerose, da stordire.
Anche la figlia di Luigi crescendo (perché crebbe, anche se il padre non se ne accorse)

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

scoprì nuove prospettive: la voglia di amare, di studiare, di conoscere e di viaggiare.
Infatti fu dura accettare la sua partenza per Luigi. Restò nudo con sé stesso, e se
prima i suoi vuoti li colmava lei, adesso era necessario trovare un altro modo.
La foglia è a terra, stesa sulla terra battuta del sentierino sotto la mia finestra. Guarda il
cielo, sorpresa dal lungo viaggio fatto. Le si poggia accanto uno scarpone di camoscio.
Lo scarpone di Luigi. Un uomo che sentendo il vuoto logorarlo iniziò a camminare.
Perché una foglia che cade non è solo una foglia che cade.

Ada Santarossa, 2CS
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2      4 novembre 2005
Ciao, sono Giacomo, ho quindici anni e frequento il liceo scientifico. Sono al terzo
anno e vado abbastanza bene a scuola. Ho degli amici che mi vogliono bene e una
famiglia bellissima.
Sto scrivendo su di te, mio nuovo amico diario, perché lo psicologo ha detto che mi
può aiutare a liberarmi dei pensieri negativi. Ma io non ho pensieri negativi! Sono
così felice. È proprio un bel momento: ho appena preso un nuovo gattino e manca
solo un mese a Natale.
Ti lascio amico mio, ci vedremo presto.
                                                                           Giacomo

20 dicembre 2005
Caro diario, oggi sono triste. La giornata non è andata per niente bene e all’interrogazione
di matematica ho preso cinque: uno schifo. Ero bloccato e non mi ritornava in mente
nulla. I miei pensieri scorrevano troppo velocemente e io non riuscivo a fermarli. Mi
sento male e ho paura, percepisco qualcosa che mi logora dentro ma non so cosa sia.
Ci vediamo
                                                                                    Giacomo

12 gennaio 2006
Caro diario, oggi è stata proprio una bella giornata (tralasciando il fatto che ho freddo
alla testa). Ho seguito le lezioni dall’ospedale e i miei compagni hanno realizzato un
cartellone colorato per me che mi hanno detto mi daranno quando ritornerò.
Oggi i miei genitori, quando sono venuti a trovarmi, mi hanno fatto vedere una foto
della mia gattina Alaska. È proprio diventata grande e non vedo l’ora di rivederla.
Ciao
                                                                                 Giacomo

13 febbraio 2006
Oggi non sta fermo un secondo, il vento. Soffia con prepotenza tra i rami scheletrici
degli alberi vestiti d’inverno. Ho paura e non so cosa mi aspetta. Davanti a quel mostro
le gambe mi cedono e cado esanime a terra. Mi sento perso, stanco e con il cuore a

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pezzi.
Ecco una sua cosa positiva: mi fa pensare, il mostro. Penso a quanto fossi felice e
fortunato prima.
Il mostro ormai ha mangiato gran parte del mio cervello. La testa mi fa male. Sono
magro al punto che la felpa che mi ha regalato la nonna due mesi fa e che mi era
piccola perché aveva sbagliato taglia, ora mi sta grande.
I medici dicono che non sanno quanto vivrò.
Ho paura ma speriamo tutti in un miracolo.
                                                                         Giacomo

24 agosto 2006
Caro diario, credo mi restino pochi giorni prima che mi addormenti. Grazie per essere
stato con me per quasi un anno. Sei il primo a cui racconto ciò che provo.
Spero in quel miracolo che non è ancora avvenuto ma sento che lo farà.
Ne uscirò vincente, anche da questa battaglia. Ci credo.
                                                                           Giacomo

27 agosto 2006
È da diversi giorni che non riesco più a camminare. Sono stanco e voglio solo soffrire
il meno possibile.
Sento che il filo si sta per spezzare ma non ci voglio credere.
Per favore, che mi risvegli o no, questo è il mio ultimo desiderio: che i miei genitori, i
nonni e Alaska stiano bene, per sempre.
Ciao diario, è stato un bel viaggio. Grazie.
                                                                            Giacomo

24 ottobre 2006
Caro diario, sono Giacomo e oggi sono felice.
Il miracolo è avvenuto. Il mostro se n’è andato.
L’ho sconfitto.

Virginia Chiappori, 2CC
Liceo Leopardi-Majorana

                                      RACCONTI IN CLASSE 2023                         23
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                                          MANI

N      on saprei dove da ultimo l’ho visto, se era ieri o anni fa.
So solo che quando chiudo gli occhi lo vedo, non va mai via, è sempre con me.
Le sue mani mi toccano ancora oggi, quando faccio la doccia, quando mi metto la
crema, o quando semplicemente mi abbracciano o mi fanno una carezza. Si, proprio
quelle cazzo di mani, quelle che mi hanno rubato tutto il mio essere, fino all’ultima
goccia.
Dicono che il tempo guarisce, non credeteci, perché le mie ferite sono ancora aperte;
dicono che la notte porta consiglio, ma a me porta solo incubi; dicono che le donne
non si toccano, ma sono stata pongo nelle sue mani.
Prima, qualche ora fa, mi sono messa davanti allo specchio, mi sono spogliata e mi
sono toccata; per prima le parti che mi teneva strette, braccia e gambe, e poi le zone
che gli piacevano di più, allora mi sono sfiorata il seno e sono scesa fino al calore delle
mie intimità. Non so cosa stavo facendo, forse cercavo una risposta alla domanda:
“Perché proprio io?”, o speravo di cancellare ogni cosa. Mi ricordo solamente che in
quel momento il dolore si è fatto sentire, come quando mi penetrò, così iniziai ad
ansimare, mi mancava l’aria, il respiro aumentava di frequenza e cominciai a vedere
sfocato, a quel punto chiusi gli occhi e iniziai a contare con una mano appoggiata sul
cuore, forse l’unica parte ancora viva del mio corpo.
Non avrei mai creduto che potesse succedermi una cosa del genere, perché mi
ritenevo non abbastanza bella di viso o abbastanza magra per piacere fisicamente
a qualcuno, ma ben presto mi resi conto che alla gente come lui non gliene fotte
proprio niente di ciò, perché sono come gli animali, anzi, sono animali, ti annusano
da lontano per capire se gli piace il tuo odore, ti seguono con gli occhi e aspettano il
momento giusto per saltarti addosso.
Vorrei tornare indietro per risparmiarmi tutto questo dolore, ma non è possibile, quindi
riguardo un’ultima volta la mia vita davanti a uno specchio, mi abbraccio, perché non
è colpa mia e mi rivesto.
Siamo come fiori, belli da vedere e con un buon profumo, così la gente ci stacca per
portarci con sè e intanto noi moriamo.
Mettetevi davanti a uno specchio e leggete il vostro corpo, perché è il libro più bello
che avrete mai.

Martina Mondini, 2DU
Liceo Leopardi-Majorana

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I  nspira, espira. Inspira, espira. Me lo ripeto in continuazione mentre il cuore batte
forte, come impazzito. Sembra che voglia uscirmi dal petto mentre le gambe tremano
e il respiro accelera. La mente in subbuglio, incapace di formulare una frase di senso
compiuto, e la gola che si secca a ogni secondo che passa. Le emozioni mi stanno
sopraffacendo, mi mangiano da dentro corrodendomi mentre i ricordi mi fanno salire
le lacrime agli occhi. Voglio scomparire, nascondermi per poi cancellare quegli anni,
caratterizzati da persone che mi avevano fatto toccare il cielo con un dito, per poi
gettarmi e spingermi negli anfratti più oscuri della terra. Fuori diluvia, il vento tira
forte e anche il tempo sembra capirmi.
Lui è qui, davanti a me, a fissarmi con quel suo ghigno sprezzante e divertito dipinto
in volto. I capelli castani scompigliati, gli occhi tanto scuri da sembrare due buchi
neri e la pelle abbronzata. Non saprei dire dove da ultimo l’ho visto, se era ieri o anni fa.
Una cosa però la so: ragazzi come lui non possono cambiare e io non ho intenzione
di cadere nuovamente in giri da cui non riesco a uscire senza nuove ferite addosso.
Intanto che la mia mente vaga, lui mi ordina un caffè e va a sedersi a un tavolo, con
quelli che probabilmente sono i suoi nuovi amici. Mi ha trovata; nonostante tutti gli
sforzi che avevo fatto per eliminare lui e i miei vecchi amici dalla mia vita, ora è
davanti a me. Il mio incubo e il mio più grande amore sono tornati a farmi visita.
Conobbi Andrea (perché è questo il suo nome) in terza superiore: studiava nella
classe accanto alla mia ed era impossibile non notarlo, con quel suo fare sicuro e la
sua bellezza mozzafiato. Avevamo qualche amico in comune ma non avevo mai osato
avvicinarmi: lui era troppo per me, una ragazza piena di problemi a casa, a scuola e
con se stessa, una ragazza che preferiva la solitudine alla compagnia. Ma forse fu
proprio questo che lo attirò di me, e che attirò anche i suoi amici: ero fragile, semplice
da rompere e diversa.
Successe tutto velocemente: una mattina, a scuola, mi si avvicinò sorridendo, mi disse
che avevo scoperto che ero brava in chimica e che gli serviva un aiuto. Non ci pensai
un secondo e accettai; forse, se avessi deciso il contrario, ora sarebbe tutto diverso.
Iniziammo a vederci per poi iniziare a frequentarci. Imparai a conoscere i suoi pregi e
i suoi difetti e scoprii come era facile innamorarsi di un ragazzo così bello e simpatico.
Dopo neanche un mese mi chiese di essere ufficialmente la sua ragazza e io, presa
dalla gioia, non riuscii a dirgli di no: come potevo pensare che io gli potessi piacere?
Ero proprio cieca. Mi presentò i suoi amici e io iniziai a integrarmi nel loro gruppo e a
frequentarli. Enorme sbaglio ma, del resto, ero solo l’ennesima di una lunga serie. Mi

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sentivo, per la prima volta nella mia vita, nel posto giusto al momento giusto. Illusa,
era tutto programmato.
Dopo qualche tempo scoprii chi erano veramente. Iniziai a frequentare con loro
brutti giri: corse clandestine, droghe, alcool erano ormai entrati a far parte della mia
normalità. Ma il brutto, e io non lo sapevo, doveva ancora arrivare: quelle stesse
persone che avevo amato con tutta me stessa iniziarono a diffondere false voci
su quello che ero, dissero che spacciavo, che facevo parte di giri di prostituzione
senza un motivo apparente. E mentre la mia reputazione veniva distrutta, Andrea mi
incitava a vergognarmi di essere stata così sciocca da credere di essere veramente
abbastanza per lui. Quando lo lasciai la situazione peggiorò esponenzialmente: io,
una poco di buono, mi ero permessa di lasciarlo dopo che aveva provato in tutti i
modi ad aiutarmi. I tagli sul mio corpo si moltiplicarono, a volte pensavo al suicidio
ma ero troppo codarda per farlo.
Fu così che dopo qualche mese dall’inizio di quella terribile esperienza decisi di
cambiare: mi trasferii, cambiai classe, città, Stato, desiderosa di dimenticarmi di tutto.
Andai in terapia, mi feci aiutare e il cuore, seppur ancora rotto, iniziò a fare meno
male.
Credevo di essere guarita, di essere diventata più forte. Avevo ragione, in parte: amo
ancora Andrea e ho paura di quello che succederà. Una cosa però la so: era lui a non
meritarmi e io farò di tutto per evitare che prenda nuovamente il controllo della mia
vita.
Con questa sicurezza gli porto il caffè, lo squadro dall’alto in basso e me ne vado.
Andrea è sconvolto: non sono più la stessa ed è ora che lo scopra anche lui.

Aurora Mazzetti, 2AS
Liceo Leopardi-Majorana

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N       on saprei dire dove da ultimo l’ho visto, se era ieri o anni fa. Ricordo la figura
snella, scarna, che spiccava in mezzo alle persone. Gli occhi con uno sguardo vitreo,
reso ancora più intenso dal colore di quelli. Erano di un blu che ricorda il cielo, nel
momento prima che si macchi di stelle. Un blu che richiamava il bordo del cappello
grigio, che giornalmente portava, appoggiato sui capelli unti, di un rossiccio, simile
al colore delle labbra. Labbra di un rosso più acceso: un rosso del colore del sangue.
Colore che, d’altronde, richiamava le mille ferite che decoravano il suo essere. Esistono
vari tipi di ferite: quelle superficiali, col tempo spariscono, esistono anche però
quelle che seppelliamo, che sono deposte nei meandri del nostro essere: le ferite
dell’anima. Aveva sperato, lui, che qualcuno un giorno sarebbe arrivato a dipingere
fiori su quelle, aveva sperato, e forse nel suo piccolo continuava a farlo. Sedeva su
quella sediolina marrone del bar all’angolo. Sedeva in silenzio. Le mani dirigevano
un’orchestra muta, come la sua voce. Non parlava mai, la mattina giungeva al bar;
apriva la porta e la campanella suonava, per segnalare l’entrata di un nuovo cliente,
solo a quel suono sembrava reagire; schiudeva leggermente le labbra, sgranava gli
occhi e si allontanava dalla porta d’ingresso con passo tremante, per poi dirigersi
verso il solito tavolino, in fondo alla sala, vicino alla finestra. Osservava in silenzio
il via vai dei passanti, cercando fra loro il volto di lei.”Aspettami” erano state le sue
ultime parole; e lui da quel momento aveva atteso, giorni, mesi e anni. L’attesa: vana.
Se n’era andata, l’aveva lasciato col cuore a metà, la ferita tuttora sanguinante. Tutti
almeno una volta avevano tentato di parlargli ma niente. “Non apre bocca signorina,
lasci perdere“, “Quello non parla mai“, “Ma senta, è tutto strano, non si avvicini“, mi
ripeteva la gente. Ma lo sapevo, sapevo come dar voce alla sua anima. Mi avvicinavo
silenziosamente, sedevo e domandavo “Quando arriva?”. Lui si girava lentamente,
lo sguardo sempre vuoto, fisso sulla finestra. “Tra poco, l’aspetto“, rispondeva lui.
E l’aspettava dall’orario d’apertura fino alla chiusura del locale. La sua vita da quel
giorno si era fermata, il suo animo rumoroso si era zittito, i suoi occhi vivaci si erano
svuotati. La sua voce: sparita come l’appetito. Non mangiava mai, eppure di cibo
gliene portavano o per pena o per gentilezza, i piatti bianchi in contrasto con il rosso
della tovaglia venivano poggiati innanzi a lui dalla gente. Non ringraziava.
Non parlava, non mangiava.
Così morì.

Valeria Regini, 2BC
Liceo Leopardi-Majorana

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N       on saprei dire dove da ultimo
l’ho visto, se era ieri o anni fa.
Era strano lui,
uomo cupo col mantello.
Non lo si può dimenticare,
anche se sembra invisibile in
quei tristi giorni d’inverno, così
bui e cupi, così diversi dalla città,
tutta illuminata.
Dell’uomo neppure gli occhi si
distinguevano.
Non ha nome lui,
ma tutti lo riconoscono:
mantello scuro, come la notte,
lungo fino ai piedi,
come a volersi nascondere.
L’uomo senza nome,
invisibile ma visibile
dal suo ombrello rosso, rosso
come il sangue di un cerbiatto
divenuto cena del re della foresta.
L’uomo, non saprei dire dove da ultimo
l’ho visto, se era ieri o anni fa,
ma una cosa è certa:
non lo dimenticherò mai…
Mai neppure dimenticherò la bambina
che spesso era con lui,
lui l’opposto di lei,
lei come un arcobaleno dopo il diluvio.
Lei, con una lunga coda di cavallo,
bionda, più luccicante dell’oro,
vestiti colorati.
E quegli occhi,
che le luci della città,

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

in confronto,
non saranno mai brillanti come
i suoi occhi,
così azzurri,
più del cielo e più del mare!
Lui non parlava mai,
la bambina sempre che cantava;
lui silenzioso e nervoso, come
infastidito, lei allegra e spensierata.
Non so chi fosse lui per lei,
né lei per lui,
certo è
che loro, così diversi l’uno dall’altra,
ma così uniti e inseparabili,
ancora adesso nei miei ricordi,
sono una coppia formidabile!

Eleonora Mazzega Fabbro,
Liceo Leopardi-Majorana 2AS

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                          A TE CHE SEI NEL BLU

O       ggi non sta fermo un secondo, il vento. Le previsioni del tempo dicono che pure
il mare è mosso.
Ieri era tutto calmo, in giardino c’era odore di erba fresca, mentre oggi c’è un odore
salato, che mi porta malinconia. È un odore simile a quel profumo che mettevi tempo
fa, che ti aveva regalato un tuo ragazzo e pure lui portava malinconia. A te quel
profumo non ti piaceva, perché eri solare e fresca. Da troppo ormai non sento quella
presenza fresca. Oggi avresti compiuto diciotto anni, ti avrei regalato un viaggio a
Londra. Penso che oggi il vento sia te. Cosa mi stai cercando di dire? Lo so che stai
muovendo tu l’aria, il mare e portando questo odore malinconico. Ti ricordi che bello
che era quando eravamo piccole? Andavamo da zia Giorgia tutte le domeniche e
mangiavamo i suoi biscotti alla vaniglia che dopo qualche secondo si scioglievano in
bocca, lasciando sul palato un sapore dolce e piacevole. Dopo la merenda salivamo
sul tetto e guardavamo la città dall’alto, sentendoci le regine del mondo. Quel tetto
doveva essere un bel ricordo per me, ma in qualche secondo sei riuscita a farmelo
odiare. Chissà da quanto stavi pensando di finirla, di lasciarmi. Chissà da quanto stavi
nascondendo i biscotti di zia Gio, per non mangiarli. Chissà da quando stavi scrivendo
quella breve lettera d’addio, rinchiusa in una bustina gialla, successivamente posta
sul comodino marrone di papà. Da quanto stavi soffrendo così tanto? Perché non
mi hai mai detto nulla? Esattamente un anno fa compivi quel brutto gesto e ora sei
ritornata. Sì, sono certa che sei tu, sento la tua presenza ma non ti vedo. Non sono
mai riuscita a capire il motivo di quell’azione, soprattutto di quel dolore che provavi.
È da quando avevi compiuto quindici anni che eri diventata un’altra persona con
un altro corpo e un’altra anima. Sempre più chiusa e silenziosa in un corpo fragile e
pietoso. All’inizio pensavo fossero gli ormoni della crescita ma capii troppo tardi che
due anni di silenzio e una fine tragica non erano per gli ormoni. Per caso sei ritornata
a festeggiare il tuo diciottesimo? Perché se fosse così mi hai colta impreparata. Non
mi aspettavo un tuo ritorno così in fretta, non sai proprio stare senza di me! Sai che
neanche io riesco a stare senza di te. Da quando sei diventata un angelo ho cominciato
ad assumere dei comportamenti simili ai tuoi, chissà se pure la mia fine sarà come la
tua. Sai cosa, non mi serve sapere la motivazione del tuo ritorno, voglio solamente
renderti felice un’ultima volta, perché le occasioni non sono da perdere. Facciamo

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Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

che ti canto una bella canzone come regalo, ad esempio quella che ascoltavamo alla
radio prima di andare a dormire da piccoline!
“...Volare ooo
Cantare ooo
Nel blu, dipinto di blu
Felice di stare lassù...”
Spero che tu sia veramente felice lassù, sorellina mia. Tanti auguri Adele, ti voglio
tanto bene.

Farah Khandakar, 2AU
Liceo Leopardi-Majorana

                                    RACCONTI IN CLASSE 2023                      31
Liceo “Leopardi-Majorana” Pordenone

                    LA ROUTINE DELLA CORRIERA

O        ggi non sta fermo un secondo, il vento.
Guardo l’orologio mentre esco dalla porta e tiro un sospiro di sollievo con un pizzico
di stupore: stranamente, sono in perfetto orario. Abbandono alle mie spalle la mia
calda casa insieme a tutte le certezze che dentro mi lasciano un vuoto. Ormai lo so
riconoscere, quel vuoto, è familiare come un viso amico, ma un amico falso di quelli
che, non appena inciampi, ti lasciano a terra.
Proseguo per il vialetto e osservo la brina brillare come tela di finissimi diamanti
alla luce dei lampioncini che illuminano il giardino: finalmente è arrivato l’inverno,
la mia stagione preferita. Non è un caso se ho sempre amato il freddo, quel freddo
che congela gli animi in subbuglio e con il quale devi lottare per muoverti: la vita non
aspetta, va avanti nonostante tutto.
Mentre chiudo il cancelletto, che fa opposizione per questo incessante vento, mi
accerto che quella pazza pallina di pelo del mio cane non mi segua. Guardo a destra,
a sinistra e poi di nuovo a destra per attraversare: lo faccio solo per abitudine, in
queste strade non c’è ancora altra anima viva. Sono sola, non che sia una novità.
Alzo il cappuccio del giubbotto, cerco di tenere il caldo e le ultime speranze che il
mondo non mi ha ancora strappato il più vicino possibile: ho paura che qualcuno me
li rubi, mi riscopro creatura egoista come altre miliardi in questo pianeta.
La strada fino alla fermata dell’autobus è breve ma la mattina, si sa, le gambe sono
pesanti come piombo e non sempre rispondono ai comandi. Cerco di affrettarmi e
l’umidità che caratterizza la mia terra non aiuta: ti perfora le ossa e te le rende molli,
un po’ come il carattere della gente di qui. Chissà che non sia proprio per questo che
siamo così.
Tuttavia, la mia routine della corriera ha inizio solo al terzo incrocio: eccola, con la
sua borsetta e i suoi passetti in stile Mary Poppins, l’inimitabile Melania Hartz. Il suo
sorriso è la prima cosa che si vede non appena alza il volto per salutarmi, ed è come
se il sole fosse già sorto in questa giornata che è la più buia dell’anno. Gli ultimi metri
li percorriamo insieme, il mio fiato caldo crea insieme al suo tanti piccoli fumetti che
subito si disperdono per il vento: è lui il più impetuoso, oggi; certamente, uno che sa
prendersi la scena senza indugio.
Appena dopo la curva, lungo tutta la ciclabile che costeggia la fermata, facce chiare
e facce scure. Le analizzo, le saluto o le ignoro: tutte hanno qualcosa capace di

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farmi rievocare quei momenti che non torneranno più. In ogni caso, per alcune di
queste (quelle che ignoro) è un bene, dato che portano solo brutti ricordi in grado di
trasformare quel vuoto che già ho dentro in un buco nero. E i buchi neri, ho imparato,
sono bravi a risucchiarsi tutti i raggi di felicità che prima o poi tornano sempre a
illuminare il cammino.
Il mezzo si ferma, saliamo di fretta (non ho mai capito se per paura di restare a piedi
o perché effettivamente si ha fretta e basta) e ci accaparriamo i posti. Per mia solita
sfortuna non c’è nemmeno più una fila vuota, così mi siedo accanto a Melania che non
appena mi rivede, come se fossi una scossa, si appiccica tutta contenta al finestrino
facendomi spazio. Il libro di storia non lo estraggo nemmeno dallo zaino: so già che
ripassare sarà inutile accanto a lei. Infatti, inizia subito la sua solita chiacchierata
omincia a parlare di un argomento, mi chiede se sono d’accordo con lei e faccio solo
in tempo a fare un cenno col capo che è già partita a parlare di altro ancora. Sembra
una radio, a volte, ma la sua canzone non è mai la stessa e ascoltarla non mi dispiace
affatto. Inoltre, non c’è nulla di più bello dell’ascoltare qualcuno: a te restano nuove
idee, all’altro un sorriso.
Dopo aver finito di discutere con me passa all’autista che mi fa sempre pena: il bollino
adesivo con scritto “Vietato parlare al conducente” non so nemmeno se Melania lo
abbia mai notato. L’argomento di oggi è la guerra in Ucraina.
La guerra, ecco un’altra cosa che non sopporto: per me è solo uno spreco, eppure se
ne sente parlare sempre e ovunque, è l’argomento inevitabile. Delle cose belle non
si parla mai e così ce le si dimentica sempre.
Allora, riapro il flusso libero dei miei pensieri che tornano a correre leggeri e pesanti,
sembrano il pianoforte il cui pianista apprezza tutte le note dalla più alta alla più
bassa, il turbine spazza via tutto e sono come una di queste foglie sul ciglio della
strada: oggi non sta fermo un secondo, il vento. Della quiete, come il mondo, non ne
vuole proprio sapere.

Sara Romanin, 2AU
Liceo Leopardi-Majorana

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