Qualcosa da dire al bambino autistico - Bruno de Halleux (a cura di), Borla, Roma, 2011.

Pagina creata da Stefano Mura
 
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In un momento in cui l’approccio psicoanalitico lacaniano all’autismo è
sottoposto a una feroce critica, un libro come questo è davvero tempestivo. Se ne
dovrebbe consigliare la lettura a tutti coloro, giornalisti e accademici, che si
accingono a divulgare opinioni, nozioni e teoremi in merito all’argomento. È un
testo illuminante per capire la problematica dell’autismo in genere e per capire in
particolare la psicoanalisi lacaniana nelle sue declinazioni e applicazioni.
Il bambino autistico è il centro di questo magnifico libro scritto a più mani, à
plusieurs come la pratica inventata da Antonio Di Ciaccia nel 1974 e da cui sono
nate diverse istituzioni per l’accoglienza e il trattamento di bambini autistici e
psicotici.
La tesi centrale del libro è che, nonostante spesso questi bambini siano chiusi
all’Altro, incapsulati, sordi alla parola e alla presenza dell’altro, ebbene c’è
sempre qualcosa da dir loro. C’è sempre un modo per potergli e farsi “parlare”.
Non si tratta però di “psicoanalizzarli”, di metterli sul lettino e aspettare che
parlino e ci intendano, ma di creare le condizioni preliminari a un incontro
possibile, rispettoso della loro particolare soggettività. Compito delle istituzioni
come l’Antenna 110 è proprio quello di creare tali condizioni, o meglio tale
“atmosfera desiderante”. Non si tratta di applicare un metodo precostituito, ma di
inventare un dispositivo specifico per quei soggetti. L’Antenna non è un modello,
uno standard o una tecnica da generalizzare, è un’istituzione al servizio del
desiderio. Tutto è fatto per suscitare nel bambino un desiderio (di avvicinarsi, di
conoscere, di comunicare). Ciò non si può insegnare, ma al contrario si può essere
lì attenti, in ascolto per imparare da ciascuno e trovare delle vie percorribili.
Gli educatori non sono lì semplicemente con il loro sapere e il loro ruolo
professionale, sono lì in quanto “desideranti” di sostenere e inventare il
dispositivo che permetta il fiorire del soggetto. Il sapere di educatore come quello
di psicologo o di psicoanalista è sospeso, il ruolo è stato trasformato in una
funzione non identificata in una persona e una professione, ma in un luogo e un
tempo dove ognuno si mette in gioco costruendo un sapere con i bambini non sui
bambini. Non si interpreta mai, ad esempio. Si procede con interventi costruiti ad
hoc che si appoggiano sulle strategie che il bambino mette in atto per tenersi alla
larga, temperare, arginare l’invasione dell’Altro; interventi che assecondano un
disordine ma orientato al desiderio di ogni soggetto. Per farlo bisogna presentarsi
davanti a lui vuoti di un sapere prefabbricato, bisogna saper non sapere, essere il
guardiano di un vuoto centrale.
È un funzionamento che disorienta i tirocinanti e le persone che arrivano la prima
volta, che si chiedono: ma allora qual è la funzione degli operatori? Sono lì per
educare, riabilitare, addestrare, accompagnare, assistere passivi?
È la domanda fondamentale sulla funzione degli educatori alla quale Virginio
Baio risponde. Si accetta la dizione di educatore come partner del bambino. È il
nome-insegna che più di tutte permette l’interscambiabilità delle diverse funzioni:
                                                                                                                                                                 	
  
                             	
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logopedista, psicomotricista, psicologo, psicoanalista, operatore. Ma “educare” è
l’ultima delle preoccupazioni, il bambino autistico cerca un partner che non è in
una posizione di potere e di sapere. Bisogna alleggerirsi di ogni sapere e ogni
intenzione pedagogica, terapeutica, riabilitativa per poter incontrare questi
bambini, il non-sapere è la prima condizione preliminare all’incontro.
L’educazione è semmai un effetto che si produce dalla costituzione del soggetto,
dal riconoscimento delle sue costruzioni: stereotipie, ritiri, oggetti; solo partendo
da questo abbozzo di soggetto il bambino può consentire a dire sì, a fare legame
sociale, a tenere conto dell’Altro. L’apertura agli altri, l’apprendimento, la
socializzazione accadono solo come conseguenza di questo tempo preliminare. A
questo punto la funzione dell’educatore può entrare in gioco: attento, in ascolto
può cogliere gli elementi anche minimi da stimolare, articolare, soprattutto grazie
agli atelier creati ad hoc. Ora i suoi interventi possono prendere anche la via
pedagogica per favorire acquisizioni scolastiche, sociali, relazionali. In ogni caso
non ci sono programmi per tutti o una riduzione educativa che tende
all’autonomia delle competenze.
Ma procediamo con ordine. È un testo prezioso da più punti di vista. Per gli
esempi clinici che gli autori riportano, per l’illustrazione del funzionamento delle
istituzioni, per la logica esplicitata che spesso rimane velata sotto interventi
apparentemente semplici, per il rigore teorico e le puntualizzazioni
epistemologiche che in diversi momenti chiarisce lo statuto stesso della
psicoanalisi rispetto ai metodi educativi e alle terapeutiche, per l’attenzione che si
dà ad altri approcci senza nascondere similarità e differenze, collocando semmai
l’appropriatezza di alcuni metodi rispetto a specifiche dimensioni e aspetti
dell’autismo; per la ricchezza di riferimenti ai testi che autistici detti “ad alto
funzionamento” hanno scritto sulla loro esperienza, dando una prospettiva
dall’interno della condizione e di come vengono percepiti i diversi metodi; infine,
per il posto dato ai genitori dei bambini.
A livello del funzionamento dell’istituzione. Il tempo della giornata è suddiviso
in atelier in cui ciascuno mette del suo, creati in base agli interessi degli educatori
e ai desideri o alle necessità di alcuni bambini. L’orientamento psicoanalitico è
qui importante per far funzionare l’istituzione in accordo con la struttura
dell’inconscio.
Di Ciaccia esplicita il funzionamento dell’Antenna attraverso quattro assi: a) la
partnership, ovvero il funzionamento à plusieurs, l’interscambiabilità di ogni
operatore; b) la riunione clinica, luogo in cui si parla del bambino e insieme si
elabora un sapere in fieri senza nessuna distinzione di ruoli; c) il responsabile
terapeutico: accettare lo stile di ciascuno cercando di coordinarlo in un quadro di
insieme, è questa la funzione della direzione terapeutica, che non dirige ma lascia
che nessuno stile diventi legge, nessun discorso padrone. Il responsabile è il
guardiano del posto vuoto, del non-tutto; d) il riferimento teorico-clinico, in cui
l’orientamento lacaniano funziona non come un sapere supposto ma esposto,
messo all’opera e verificato caso per caso.
À plusieurs vuol dire che ogni operatore è responsabile della sua parola e del suo
atto, non diluibili nel collettivo o nella logica dei ruoli propria del funzionamento
del modello équipe. Quando si verifica un buon incontro è necessario che si
moltiplichi, si riproduca, si sposti, si concateni. E affinché ciò avvenga non
bisogna permettere che un buon incontro si fissi, si congeli in una relazione duale.
                                                                                                                                                                 	
  
                             	
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Così come nella psicoterapia istituzionale, si stimola un transfert plurimo, ma non
è il gruppo o le funzioni gerarchiche a metterlo in forma, è il luogo stesso e
l’orientamento a cui tutti si riferiscono. È un gioco di squadra in cui è importante
la flessibilità, l’umiltà, la mobilità orientata. In questo il funzionamento à
plusieurs, dove l’interscambiabilità dei partner del bambino è essenziale, si
differenzia da una équipe dove la specificità e il ruolo di ciascuno sono rimarcati e
il supposto sapere è identificato in qualcuno.
I laboratori hanno una funzione molto importante in tutto questo, sono l’offerta di
un luogo dove il bambino può elaborare un suo interesse, sviluppare e
concatenare una sua “pratica”, un luogo dove costruire con lui una sorta di
bricolage che diventi un punto d’ancoraggio che gli permetta di evitare l’invasione
di un godimento insopportabile, un bricolage che funzioni per consentire delle
modalità di incontro con l’Altro; diventano quindi un luogo di socializzazione
dove cercare, modulare e sviluppare dinamiche relazionali all’interno di piccoli
gruppi, lavoro individualizzato ma in gruppo; sono anche un luogo di
apprendimento per creare le condizioni per una reintegrazione scolastica.
A livello degli esempi clinici. Pippo, il bambino che batte tutto il giorno con il
bicchiere contro il muro. Un battito incessante per proteggersi dall’Altro, un
rituale che a un certo punto diviene un codice grazie all’invenzione di un
educatore. Tenendo conto che sono bambini che si proteggono dalla parola,
sentendosene minacciati, avvertendo ogni domanda come invasione, riuscire a
creare una minima articolazione significante rappresenta un importante passo
verso l’Altro.
Hubert, il suo interesse per un bastone ha orientato l’intervento a spostare questa
fissità verso il batacchio delle campane che scandivano le ore, da qui alle lancette
dell’orologio e alla curiosità verso i numeri del quadrante, al desiderio di
imparare a contare: dapprima da 1 a 12, poi fino a 24 (le ore del giorno), poi fino a
60 (min di un’ora) e così via.
Elias, un bambino di 5 anni, mostra in tutti i suoi comportamenti un uso
sorprendente dell’immaginario: imita le azioni degli educatori (pur non
cogliendone il senso), dipinge ma incollando il foglio allo specchio e guardando
solamente se stesso mentre dipinge (una identificazione speculare ridotta
all’istante di vedere il proprio riflesso).
Il bambino che agita gli oggetti è un altro esempio che mostra il progressivo
passaggio a una posizione soggettiva in cui può enunciare qualcosa di sé.
Nell’atelier può mettere in funzione i suoi oggetti che diventano altro da puri
strumenti di scuotimento, acquistano una identità che il bambino può assumere
temporaneamente, così dal mero agitare può passare a una identificazione e a una
definizione significante.
Rémi, un bambino che non sta mai fermo, al termine di un litigio con un altro
bambino, invitato a stare due minuti seduto, risponde: “non muoversi è come
quando si è morti”.
Romain, un bimbo autistico mutacico, ci fa capire l’orrore per la voce dell’Altro,
il rifiuto inconscio di cedere, di perdere parlando il godimento vocale. Romain si
difende dalla voce facendosi sordo e facendo come se l’altro non esistesse, oppure
creandosi dei doppi immaginari che temperano il godimento canalizzandolo sia
pur precariamente. Altro modo di sostenersi e condensare quel godimento è

                             	
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l’oggetto, in questo caso delle bacchette che batte ovunque, prelevate
dall’immagine-doppio di un batterista.
A livello della teoria e della logica esplicitata. La pratica à plusieurs fa capire
come ogni clinica derivante dalla psicoanalisi è anche un’etica. Non si tratta del
bene né dell’amore per i bambini ma di come far nascere desideri, al di là di ogni
normalizzazione psicologica o comportamentale (Brousse). Il desiderio
dell’analista, deve essere qui più che mai «un desiderio di ottenere la differenza
assoluta» (Lacan, Sem XI, p. 271). I contributi sia di Miller che di Laurent
insistono sul fatto che i diversi comportamenti sintomatici del bambino autistico -
l’ipercinesi, le ripetizioni, l’uso dell’oggetto, l’automutilazione – sono tentativi di
eliminare una cosa che lo ingombra, modi di fare un buco nella presenza-tutta-
piena del godimento, tentativi di introdurre un meno, una mancanza nel reale del
corpo. Laurent propone di considerare il godimento dell’autistico come un
“bordo” in risposta agli effetti di incapsulamento.
Estremamente articolata è la proposta di Maleval che, partendo dalle
testimonianze scritte di autistici adulti, propone una teoria del funzionamento
autistico e del percorso clinico possibile. Fondamentale è il rifiuto della voce, la
ritenzione della voce in quanto oggetto pulsionale, il non voler cedere godimento
attraverso la voce e alienarsi nel significante. L’Altro presentifica l’orrore della
voce, poiché ogni sua domanda e ogni forma di linguaggio passa nella voce. Non
può esserci quindi incorporazione di linguaggio, l’Altro è forcluso e l’esclusione
dal legame sociale è radicale. In un secondo momento il bambino cerca di
localizzare parte del godimento folle attraverso l’elaborazione, la costruzione di
un bordo protettivo: strumento di difesa e supplenza. In particolare, Maleval
propone tre forme che incarnano questo bordo supplenza/difesa: il doppio,
l’oggetto autistico, le isole di competenza. «Un oggetto autistico semplice procura
anzitutto un godimento autosensuale che fa barriera al mondo esterno, ma è anche
un doppio “vivente”, portatore di un ritorno di godimento sul bordo: se si articola
all’Altro di sintesi, se partecipa a un’isoletta di competenza, diventa un oggetto
autistico complesso le cui ramificazioni a volte pervengono a estendersi fino al
campo sociale. L’oggetto autistico semplice resta unito al soggetto, è al servizio di
un’autosensualità che lo isola; viceversa l’oggetto autistico complesso scarta il
godimento del corpo del soggetto, per localizzarlo su un bordo che non fa più
semplicemente da barriera al’Altro, ma anche da connessione con la realtà
sociale» (p. 165). Proprio accompagnando il bambino in questa sua elaborazione,
assecondando e prendendo sul serio le sue costruzioni è possibile ottenere effetti
terapeutici, cioè un terzo tempo in cui si mobilitano e si complessificano gli usi e
le invenzioni di bordo fino a sviluppare degli “pseudopodi” che si protendono
verso l’Altro, al punto che possono giungere a creare un “Altro di sintesi”.
Per facilitare questo percorso bisogna non interpretare ma cercare la logica,
sviluppare una clinica dell’oggetto, inventare un codice possibile per parlargli,
senza mai dimenticare che per questi bambini la parola è la cosa, è in presa diretta
con il godimento reale del corpo e quindi senza dimenticare che la nostra parola,
la nostra voce può giungergli come insopportabile. Loro ci insegnano che le
stereotipie, gli oggetti, le fissità, le ripetizioni servono a proteggerli da un Altro
caotico e angosciante che tentano così di regolare. Il terapeuta/educatore deve
diventare una sorta di “doppio svuotato”.

                             	
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Le puntualizzazioni epistemologiche. Le troviamo in particolare quando Di
Ciaccia parla del bambino e l’istituzione, quando sottolinea la necessità di
rimettere in questione tutte le strutture sociali legate al progresso della scienza che
evitano di tener conto della struttura dell’inconscio e producono segregazione
spingendo sempre più sull’universale del significante. Privilegiando lo standard,
la norma, il calcolabile, l’evidence based medicine, inevitabilmente sono indotti a
esiliare l’inconscio, la singolarità, il linguaggio, il soggetto stesso. La psicoanalisi
viene facilmente accusata di essere non scientifica, obsoleta, inefficace. Proprio
perché talking cure non si eleva alla dignità dei metodi scientifici basati sulla
sperimentazione e sugli interventi diretti sul corpo con effetti osservabili. Ma è
proprio l’autismo a mostrarci il limite epistemologico di tale concezione, è il
bambino autistico a fargli obiezione. Se un bambino diventa propriamente umano
grazie al linguaggio e se proprio attraverso il linguaggio si costruisce il fantasma,
indispensabile al rapporto con la realtà, ebbene si capisce perché la psicoanalisi
non può non operare sul fantasma, che inquadra la realtà; non può farlo se non con
la parola stessa del soggetto. Il bambino autistico è nel linguaggio, sia pure in
modo del tutto particolare. Senza questo riferimento ogni operazione si riduce a
essere un addestramento, una pedagogia, l’arte di inserire il bambino nelle
istituzioni umane in nome e per conto di ideali, a volte ideali già morti e sepolti
(p. 63). Se è grazie al simbolico che il soggetto si umanizza e se le difficoltà del
bambino autistico si mostrano sul piano simbolico, non ha senso tacciare di
ascientificità un’operazione che in vari modi tenta innesti di linguaggio,
concatenazioni significanti. L’Antenna 110 mostra come un’istituzione può
rispondere in modo appropriato alla struttura dell’inconscio (strutturato come un
linguaggio). Privilegiando il particolare contro l’utopia dell’universale, mostra la
possibilità di smarcarsi da un sapere supposto totale e di permettere una
circolazione dei quattro discorsi, senza cristallizzarsi sul discorso del padrone.
Come sottolinea Laurent: «l’atteggiamento è nominalista, nel senso che sono gli
esempi ad essere delle tesi, piuttosto che il contrario» (p. 75).
Gli altri approcci. Seppure le differenze con gli altri metodi, soprattutto
TEACCH e ABA, sono più volte rimarcate, non mancano confronti che
assegnano a quei metodi meriti ed efficacia; soprattutto al primo sono riconosciuti
una attenzione alla individualità del bambino autistico che spesso vanno nella
stessa direzione della pratica à plusieurs. C’è da dire però che qui il centro
d’interesse di ciascun bambino, il suo oggetto, le sue stereotipie, le ripetizioni, i
rituali non sono considerati gesti inutili o tic, da eliminare, correggere, educare,
sono riconosciuti come “soluzioni” per creare uno schermo, una barriera
all’intrusione della voce, dello sguardo, del corpo dell’Altro. A partire da questo
punto di partenza la fase educativa, su cui tanto insiste il metodo TEACCH, può
essere meglio compresa. Prima di insegnargli a mangiare, a rispettare gli altri, a
comunicare, bisogna che siano pronti a farlo, all’inizio è meglio proteggerli al
massimo, assecondarli, solo dopo si potrà lavorare all’integrazione.
Il posto dato ai genitori. Generalmente, nei diversi approcci teorici prevalgono
due opposte posizioni: o i genitori dei bambini autistici sono considerati
incompetenti e responsabili dei problemi dei figli, oppure si fa credere loro che
sono co-terapeuti. Ambedue conducono in un vicolo cieco, fa notare Baio. Nella
clinica à plusieurs si accoglie la sofferenza dei genitori senza colpevolizzarli ma,
anzi, facendo appello al loro sapere di genitori e rendendoli partner in un percorso
                                                                                                                                                                 	
  
                             	
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dove il sapere sul bambino non è dalla parte di nessuno ma tocca costruirlo con
l’aiuto del bambino stesso, degli educatori e dei genitori, senza creare confusioni:
c’è un tempo e un luogo per ciascuno. Non a caso il sapere che in questo libro si
articola deve molto ai testi di autistici come Birger Sellin, Donna Williams,
Temple Grandin.
                                                                                     	
  
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  CAVALLO	
  
               	
  
                             	
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