Primo Levi alla Rai TV: tra testimonianza e "finzione"

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Primo Levi alla Rai TV: tra testimonianza e “finzione”
                                                    di Frediano Sessi
      (Letto al convegno sulla recezione dell’opera di Primo Levi nel mondo, organizzato dalla
                        Fondation Auschwitz, Bruxelles 12-14 ottobre 2006)

1. Primo Levi alla televisione: prime apparizioni e interviste in Rai1.

         La prima edizione di Se questo è un uomo2, anche se consideriamo lo scarso numero di
lettori italiani che acquista libri in quegli anni, ebbe una tiratura “regionale” piemontese con una
circolazione limitata in copie vendute3. E sebbene non gli mancarono riconoscimenti critici di
rilievo (con scritti di Italo Calvino, Cesare Cases e Arrigo Caiumi)4, bisogna aspettare il 19585,
anno della pubblicazione della nuova edizione del libro nella collana “Saggi” della casa editrice
Einaudi (con l’aggiunta di una trentina di pagine e correzioni varie) perché anche la televisione di
Stato (Rai) si occupi di Primo Levi con un breve passaggio al Telegiornale della sera, in occasione
della consegna del Premio nazionale Riccione. Il libro viene recensito soprattutto su giornali e
settimanali appartenenti all’area della sinistra culturale e ne viene colto, in modo particolare, lo
slancio antifascista6. È il messaggio pedagogico messo in luce dalla critica che conta: i crimini
commessi dai nazifascisti possono ripetersi ancora e allora occorre vigilanza, magari con uno
sguardo all’Algeria dove l’esercito francese si sta macchiando di gravi colpe.7 Come accadrà per la
fortuna critica, ci vorranno altri cinque anni, perché si cominci a parlare di Primo Levi scrittore. È il
1963, l’anno de La tregua8, e in settembre, in occasione della vincita del Premio Campiello la Rai
TV annovera due apparizioni di Levi: il 4 settembre con notizia al Telegiornale e una breve
intervista sul significato del libro: «È il racconto del lungo viaggio che fece seguito alla nostra
liberazione dal campo di Auschwitz, per opera dell’Armata rossa e che ci portò lentissimamente
attraverso tutta l’Europa sconvolta dalla guerra, dal campo medesimo, attraverso la Polonia e la
Russia fino a Torino», dirà Levi, precisando che non si tratta di un diario, ma di «un seguito di
racconti, collegati dalla vicenda del viaggio»9; mentre il 27 settembre, in occasione di una nota e

1
  Tutte le citazioni tra virgolette non segnalate in nota provengono dai testi delle interviste televisive, allegate.
2
  Ed. De Silva, 1947.
3
  Lo stesso Primo Levi afferma che il libro «si incagliò al terzo migliaio di copie, insieme con la casa editrice e con le
mie tenui speranze di un avvenire letterario» in, Primo Levi, Se questo è un uomo, versione teatrale, Torino, Einaudi
1966, p. 6
4
  Cfr. Primo Levi: un’antologia critica, (a cura di Ernesto Ferrero) Torino, Einaudi 1997.
5
  Settembre 1958, registrazione senza data del giorno. Telegiornale con passaggio della notizia senza alcuna intervista a
Primo Levi.
6
  Sono questi gli anni in cui la ricerca storica sulla resistenza italiana adotta una sorta di equivalenza tra fascismo e
nazismo, con il termine nazifascista. I proposito, Cfr. E. Colloti. R. Sandri, F. Sessi, Dizionario della Resistenza, vol. I
e II, Torino, Einaudi 2000 e 2001.
7
  Primo Levi: un’antologia critica, cit.., p.VIII e pp. 303-13. In particolare, l’intervento di Mario Spinella, apparso in «Il
Contemporaneo» dell’ottobre 1960. Spinella vede un prolungamento delle atrocità descritte da Levi nella «non meno
feroce barbarie che copre il suolo di Algeria».
8
  Dopo la nuova edizione di Se questo è un uomo, da parte di Einaudi, Levi pubblicherà tutte le sue opere con la casa
editrice torinese, a esclusione della racconta di poesie Ad ora incerta che uscirà presso l’editore Garzanti nel 1984
(un’edizione più ridotta delle poesie era uscita su autorizzazione di Einaudi nel 1975, presso Scheiwiller, con il titolo
L’osteria di Brema), di una raccolta di testi pubblicati sul quotidiano La Stampa che verranno editi nel 1986 e poco altro
(Cfr., Cronologia, in Opere, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997)
9
  Presentato anche al Premio Strega, La tregua non vince ma viene comunque considerato da tutti una vera e propria
scoperta.

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importante emissione culturale “L’Approdo”10, alle 22,20, il sabato, va in onda un’intervista della
durata di circa cinque minuti con ambientazione esterna (prima il paese, poi la fabbrica di Settimo
Torinese dove lavora Primo Levi), subito sostituita, dopo una breve presentazione, da inquadrature
d’interni nello studio dello scrittore, a Torino in Corso Re Umberto 75. Primo Levi, spesso
sorridente, risponde alle domande soppesando le parole, con lentezza e molte pause. Dà
l’impressione di assumere su di sé, come per la scrittura, una sorta di impegno etico con lo
spettatore: dire, fin dove lo consente il mezzo e il momento, la verità. Ne emerge un contenuto
intenso e chiaro: «Ho scritto il primo libro [Se questo è un uomo] perché non potevo non scriverlo»,
mentre il secondo è nato «perché mi piace molto raccontare» e non solo agli amici, precisa Levi con
un sorriso, ma a «tutti quelli che mi capitano a tiro». Dal timore di non avere le parole per dire di
Auschwitz («non sapevo ancora di essere in grado di commettere questo atto dello scrivere»), dal
sogno incubo del ritorno che chiude La tregua11, alla gioia dell’affabulazione. Un successo
editoriale, come gli ricorda l’intervistatore, anche se Levi è convinto che il primo libro sia più
importante: «sarei più lieto che venisse letto di più», per le cose che contiene che sono ancora
«troppo poco conosciute». È importante rilevare qui una presa di posizione di Levi che si ripeterà
nel tempo: mentre l’intervistatore reagisce a questa sua ultima risposta, con l’osservazione che Se
questo è un uomo sia più importante proprio per il suo valore «quasi di messaggio», Levi replica:
«penso che sia importante per la documentazione che comporta». Nell’ottobre del 1986,
presentando la raccolta di racconti e saggi per l’edizione La Stampa, scriverà: «Prego il lettore di
non andare in cerca di messaggi. È un termine che detesto, perché mi mette in crisi, perché mi pone
indosso panni che non sono i miei, che anzi appartengono a un tipo umano di cui diffido: il profeta,
il vate, il veggente. Tale non sono; sono un uomo normale di buona memoria che è incappato in un
vortice, che ne è uscito più per fortuna che per virtù, e che da allora conserva una certa curiosità per
i vortici, grandi e piccoli, metaforici e materiali»12.
         L’intervista si chiude con una domanda che vorrebbe indiscrezioni sull’attività di Levi
scrittore. La risposta è prudente. E tuttavia vale la pena di soffermarcisi; sebbene, in un’intervista al
quotidiano “Il Giorno”, di qualche settimana prima13, Levi dica che lo scrivere «oggi mi diverte più
che fare il chimico», per raccontare al lettore il significato della ricerca scientifica «una
documentazione fantastica, ma non poi tanto, di ciò che avviene nel chiuso dei laboratori»; al
giornalista della Rai dice che lo scrivere per lui è, a quel tempo, «una intenzione molto vaga»
perché la sua esperienza più grossa «è messa bianco su nero e non avanza più nulla». Come
sappiamo, Levi pubblica su “Il Mondo” tra il 1960 e il 1962 alcuni racconti di genere
fantascientifico, ma ancor prima (1957) ha completato un «Atto unico teatrale», dal titolo Il sesto
giorno14, nel quale una serie di personaggi celesti (una sorta di Olimpo laico) discute dei rischi e dei
vantaggi della creazione del «cosiddetto Uomo» perché venga inserito «nell’equilibrio planetario

10
   La rubrica è un settimanale di lettere e arti, trasmessa in Rai a partire dal 2 febbraio 1963 il sabato in seconda serata
alle 22,20, sul canale nazionale ed è curata da Leone Piccioni. Tra i redattori Luigi Silori che cura la sezione libri. Il
programma si avvale tra l’altro di collaboratori come Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi. Roberto Longhi,
Giuseppe Ungaretti e altri. La struttura del programma prevede incontri con intellettuali di spicco, italiani e stranieri,
dibattiti e inchieste su temi culturali di attualità, presentazione di libri, approfondimenti teatrali e musicali. La
trasmissione che ha un intento pedagogico culturale cesserà il 28 dicembre 1972. Cfr., Aldo Grasso (a cura di)
Televisione, Milano, Garzanti 2002, pp. 35-6.
11
   Come sappiamo, la chiusa di La tregua, è l’inizio della vita libera dell’autore a casa, quindi, se si tiene conto di
questo spostamento temporale, si capisce la gioia del raccontare di Levi. L’incubo è presente, seppure con toni diversi
anche in Se questo è un uomo, nel capitolo dal titolo Le nostre notti, dove il «godimento intenso, fisico» di essere tra
persone amiche e poter raccontare, si infrange con l’indifferenza degli ascoltatori che «parlano d’altro fra di loro, come
se io non ci fossi».
12
   In, Primo Levi, Premessa a: Racconti e saggi, ed. La Stampa, Torino 1986, p. XIII,.
13
   In, Primo Levi, conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi 1997, pp. 101-5.
L’intervista viene pubblicata il 7 agosto del 1963.
14
   In Archivio di Stato di Torino, Fondo Einaudi editore, Primo Levi, Faldone 114, cart. 1711/1, fogli da 11 a 28.
Pubblicato con alcune variazioni in Storie naturali, Einaudi, Torino 1966. L’atto unico venne ideato assai prima, nel
1946-7. Si veda, Primo Levi Conversazioni e interviste, cit., p. 106.

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attuale». Tracce di una ripetuta attività di scrittura che emergono anche dalla lettera di Italo Calvino
del 22 novembre 1961, nel quale lo scrittore in qualità di editor di Einaudi gli scrive di avere letto
«finalmente» (significa che erano lì sul suo tavolo da tempo?) i suoi racconti «fantascientifici, o
meglio: fantabiologici»15. Calvino, pur apprezzando il «meccanismo» del racconto fantastico di
Levi, il suo umorismo e il suo «garbo» che lo salvano dal cadere in un livello di «sottoletteratura», e
«certe trovate» di prim’ordine, dice chiaramente a Levi che gli «manca ancora la sicurezza di mano
dello scrittore che ha una sua personalità stilistica compiuta». Proprio in questa stessa lettera,
sappiamo di racconti che riguardano il lager considerati da Calvino «frammenti di Se questo è un
uomo che, staccati da una narrazione più ampia, hanno i limiti del bozzetto»; e dalle ultime righe
emerge anche il progetto leviano di un’epica dell’alpinismo che per l’editor einaudiano «per ora
resta un’intenzione». Se potessimo consultare le carte di Primo Levi, queste scarne citazioni
frammiste a sue dichiarazioni pubbliche non rimarrebbero solo ipotesi; in ogni caso, sembra
abbastanza evidente che Primo Levi, per discrezione e prudenza, non voglia esporsi quanto al suo
«mestiere secondo» di scrittore, pur coltivandolo assiduamente anche sul versante del lager; e se
diamo credito alle sue dichiarazioni, dedicandosi alla scrittura solo «alla sera, dopo il lavoro in
azienda»16.
         Anche se questa prima intervista TV, strutturata e sceneggiata, all’interno di un programma
serale di tutto prestigio sul piano della divulgazione culturale, non dà ulteriore celebrità e peso come
scrittore a Primo Levi che ancora per molti anni, quando viene citato all’interno delle antologie
scolastiche, è considerato un «minore di orientamento documentario»17; essa ci consente di
comprendere alcuni tratti iniziali del suo “stare dentro” la scrittura e del suo rapporto con il
pubblico televisivo (vale a dire di lettori potenziali, oltre che di lettori). Innanzitutto, pur venendo
presentato al pubblico come uno scrittore affermato, Levi sa bene di non esserlo e vuole fare capire
che la sua realtà è quella di un uomo comune, semplice «un impiegato» come si definisce, che ha
scritto il primo libro perché non poteva «non scriverlo». Una posizione questa che ritroviamo, per
esempio in una nota biografica di pugno dell’autore, in data 1986: «Tornato in Italia, ho ripreso a
lavorare come chimico, ma spinto ad un tempo dal dovere di testimoniare e dal bisogno di liberarmi
dal peso della mia esperienza, ho subito scritto i miei ricordi di Lager sotto forma di memoriale»18.
Non meno importanti, in questa prima emissione TV, il ruolo della famiglia e dei figli (l’intervista
comincia con Primo Levi che sta cercando di «riparare un modellino» di automobile del figlio) e il
forte attaccamento ai fatti, che non abbisognano di messaggi a sostegno, perché se ben raccontati,
parlano da soli. Infine, la curiosità e la passione nel conoscere gli esseri umani per quello che sono e
per come si comportano e si manifestano nelle diverse situazioni. Ancora marginale ma non
irrilevante, il cauto avvicinamento alla scrittura, intesa non più come forma memoriale, ma come
espressione poetica (o fantascientifica) di una vita (nelle sue varie sfaccettature), di un uomo tra gli
uomini a cui, nonostante tutto, non manca il piacere di raccontare.
         Trascorreranno quasi tre anni prima che nell’aprile del 196619, in occasione della messa in
scena di tre atti unici, che anticipano l’uscita del volume di racconti Storie naturali20, Primo Levi
faccia di nuovo una breve comparsa in TV. In questa occasione lo scrittore rilascia una
15
   Italo Calvino, I libri degli altri, Torino, Einaudi 1991.
16
   Primo Levi, conversazioni e interviste 1963-198, cit. p. 102. In questo Levi è in buona compagnia. Sono molti gli
scrittori che per anni hanno esercitato altri lavori per vivere, dedicando alla scrittura un tempo “residuale”.
17
   Si veda per esempio il manuale di letteratura, considerato un classico delle scuole superiori, di Salvatore
Guglielmino, Guida al Novecento, Milano Principato editore 1971.
18
   Inedito, in Archivio di Stato di Torino, Fondo Einaudi editore, Primo Levi, Faldone 114, cart. 1711/1, foglio 500.
19
   In Anteprima teatro, il 26 aprile 1966.
20
   Cit. in nota 13. Come sappiamo il volume di racconti uscirà con lo pseudonimo Damiano Malabaila e solo nella
ristampa del 1979 con il nome di Primo Levi. Dagli archivi Einaudi apprendiamo che fu Roberto Cerati a suggerire a
Levi di firmare il libro con uno pseudonimo (lettera datata 1 agosto 1966 con una nota dattiloscritta in calce che chiede
di fermare la stampa della copertina, in attesa della decisione dell’autore). Al momento della sua comparsa in TV,
quindi Levi era ancora deciso a firmare con il suo nome il nuovo libro. I tre atti unici di cui si parla sono: La bella
addormentata nel frigo, Il versificatore (registrati dalla Rai già nel 1965) e Il sesto giorno, progettato nel 1946-47 e
realizzato nel 1957, con la regia di Massimo Scaglione, direttore del Teatro delle Dieci di Torino.

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dichiarazione nella quale segnala una certa continuità all’interno della sua scrittura: «non c’è
contraddizione e ritengo che le mostruosità, i mostri partoriti dal sonno della ragione […] che
entrano in campo nella fantascienza, non siano poi così diversi da quegli altri mostri, il maggiore
dei quali è Auschwitz».21
         Si compie la congiunzione già abbozzata all’inizio degli anni Sessanta22 tra i racconti del
lager e l’altro materiale narrativo cui Levi lavora e che ha sottoposto in lettura, tra gli altri a
Calvino; e questa congiunzione avviene in pubblico, quasi per rassicurare i suoi lettori.
         Due mesi dopo, il 4 giugno 1966, Levi viene interpellato dalla stessa trasmissione come
intellettuale e scrittore, a commentare non una sua opera, ma un fatto culturale che ha a che fare
con la «provincializzazione» del teatro italiano nei venti anni di fascismo e una sua conseguente
«separazione dal filone del teatro europeo». Prende a delinearsi in modo evidente quella che lui
stesso definisce essere la sua natura di uomo centauro. «Io sono diviso in due metà. Una è quella
della fabbrica […] un’altra invece è totalmente distaccata dalla prima ed è quella nella quale
scrivo».23 E sebbene, con decisione affermi:«quando sento di poter scrivere, il tempo si dilata:
dormo meno, butto giù di getto dove capita»24, nella stessa intervista si definisce ancora scrittore
d’occasione: «Io non mi mantengo col mestiere di scrittore; ho scritto le mie Storie per
divertimento». Insomma, la sua immagine pubblica comincia a delinearsi e a crescere, ma in lui
prevale ancora l’idea che il mondo della letteratura gli sia lontano. E questo, forse perché il suo
primo libro, come scriverà nella prefazione alla riduzione teatrale di Se questo è un uomo si è
incagliato25 e come vedremo, fino al 1974 nessun giornalista sentirà la necessità di approfondirne la
storia e le origini.
         Prima di quella data, Levi appare tre altre volte in TV: nel settembre 1967 in occasione della
premiazione della riduzione teatrale di Se questo è un uomo (Premio Saint Vincenne per il teatro); il
30 aprile 1971, quando esce il suo secondo libro di racconti Vizio di forma26 e l’8 marzo 1973, in
una notizia flash del Telegiornale a commento di una mostra fotografica.

2. Se questo è un uomo: il mestiere di raccontare.

        Il 20 maggio 1974, a ventisette anni dall’uscita della prima edizione di Se questo e un
uomo27, e a sedici dalla riedizione Einaudi, la Rai manda in onda uno speciale in tre puntate sul
primo libro di Levi, il suo «più importante» come lui stesso aveva avuto occasione di sottolineare in
pubblico, un capolavoro della letteratura concentrazionaria europea, mai premiato, a differenza dei
suoi libri successivi. Eppure, il suo pubblico di lettori, continuava a parlargli proprio di quel libro,
tanto che nel marzo 1986, in una delle sue ultime interviste disse, al giornalista Gianni Milani: «Con
Se questo è un uomo ho un rapporto quasi competitivo, perché è un libro che dopo molti anni regge

21
   Affermazione ripetuta più volte in alcune interviste, per esempio quella del 4 gennaio 1966, o quella di Famiglia
Cristiana del 27 novembre 1966. Si veda anche in Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia,
Milano 1992, pp. 15-41.
22
   E, probabilmente assai prima se si pensa al progetto dell’Atto unico Il sesto giorno.
23
   In Edoardo Ladini, Primo Levi si sente scrittore dimezzato, «L’Unità», 4 gennaio 1966.
24
   Il sonno della ragione genera mostri, «Famiglia Cristiana» n. 48, 27 novembre 1966.
25
   Primo Levi, Se questo è un uomo, versione drammatica di Pieralberto Marché e Primo Levi, Einaudi, Torino 1966,
p.6.
26
   La trasmissione è “Tuttolibri”, programma nazionale a cura di Giulio Nascimbeni che va in onda ogni lunedì alle
18,15 dal 16 ottobre del 1967.
27
   Trasmissione dal titolo «Il mestiere di raccontare» di Anna Amendola e Giorgio Belardelli, ideazione e regia di
Patrizio Barbaro, montaggio di Marco Mazzonna, collaborazione di Pietro Di Silvestro. Prima puntata, 20 maggio 1974;
II puntata 27 maggio 1974; III puntata 3 giugno 1974. La trasmissione riprende il programma speciale di Gianfranco
Albano in una sola puntata, dal titolo «Se questo è un uomo di Primo Levi», che si concludeva con una lunga intervista
sui lager nazisti allo storico Enzo Collotti.

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ancora. E questo, se per un verso mi fa piacere, è anche però una sfida. Mi chiedo spesso, infatti, se
mai riuscirò a scrivere ancora un libro come quello.»28
         Filo conduttore della trasmissione, il viaggio in treno, per incontrare Jean, nel libro Pikolo,
ma in realtà si tratta di un viaggio nell’universo concentrazionario di Auschwitz attraverso le parole
e i ricordi di Primo Levi, con citazioni di brani del libro, letti dallo stesso Levi con voce
fuoricampo, e continui movimenti tra la scena attuale (Levi in treno da Milano a Strasburgo) e i
filmati o fotografie del lager; tra gli esterni innevati del paesaggio visibile dai finestrini del vagone
passeggeri, le strade della città francese e la neve che imbianca le baracche di legno e i blocchi di
muratura di Birkenau ; la casa di Pikolo, dove Levi si sofferma a parlare con il vecchio amico e il
suo studio di Torino dove risponde alle domande dell’intervistatore. Un montaggio veloce e tutto
giocato tra presente e passato, come l’intervista che vuole ripercorrere l’intera vicenda del libro con
i suoi personaggi, i fatti salienti e le sue dense riflessioni, per giungere al termine dell’intervista e
trarre alcune conclusioni a partire dalla domanda: «Lei pensa che siano ancora possibili queste
atrocità?»
         Da segnalare, oltre alla risposta di Levi che ribadisce come i tempi e i contesti siano oggi
diversi, ma che in ogni caso quando c’è il fascismo (inteso qui genericamente come un regime
autoritario, militare e violento) «c’è il lager», tre questioni: la dichiarazione di Levi che per credere
ogni giorno alle cose che gli sono accadute sente il bisogno di «andare a cercare qualcun altro…
cercare altri testimoni per rinfrescare queste cose e per verificarle». Con la conclusione che la
verifica circa la realtà delle cose che racconta funziona sempre «sono cose veramente accadute»;
l’affermazione che Se questo è un uomo, è un «documento ripensato, a cose fatte», scritto «nel
modo più ingenuo possibile […] nel modo più naif. Per togliermi di dosso queste cose e per
accumulare una testimonianza: due intenti che non sono molto elaborati, sono molto grezzi». Sono
trascorsi gli anni, Levi si avvia alla carriera di scrittore ma il suo giudizio sul suo primo libro non
muta. Semmai muta la consapevolezza del registro e dello stile linguistico usati: la scelta deliberata
di un linguaggio «che non fosse troppo sonoro», perché i fatti contenevano in sé una forza
sufficiente «per sopportare uno stile medio, in modo che lo stile della scrittura, il suono delle parole
non sopraffacesse il contenuto». E questo anche perché il libro «non intende essere il racconto di
una singola vittima, ma la voce di un popolo, di milioni di vittime»29. In ogni caso, come dichiarerà
altrove30, «la scrittura serve a comunicare […] dunque massima chiarezza e, seconda regola,
minimo ingombro: cioè essere compatto, condensato. Anche il superfluo danneggia la
comunicazione perché stanca e annoia»; infine, la dimensione della messa in scena della
trasmissione, con una regia attenta e essenziale che in ogni caso (è probabile che non se ne sia
potuto fare a meno) trasforma il testimone in attore di se stesso, al modo in cui Claude Lanzmann
trasforma in attori i sopravvissuti che intervista, per rivivere insieme a loro e attraverso il loro
racconto, i fatti accaduti e vissuti.31 In questo caso, a differenza della scelta operata dal regista
francese che decide di «riabilitare la testimonianza orale» contro la «religione del documento
scritto»32 il regista italiano inserisce, a prova della verità dei fatti accaduti, documenti di repertorio,
immagini di Auschwitz e di deportati, senza troppo sottilizzare sulla loro origine e sulla loro
provenienza dal campo di sterminio nazista.
         È questa, in ogni caso la trasmissione della Rai che determina un salto di qualità decisivo
nella presentazione di Primo Levi e della sua opera al pubblico dei telespettatori: da un lato lo
canonizza come scrittore e intellettuale (più della metà della seconda puntata è un dialogo sulle
motivazioni morali e sociologiche, oltre che storiche, che hanno spinto i tedeschi ad agire in modo

28
   Al chimico va stretta la memoria del lager, in «Piemonte Vip», marzo 1986, p. 19.
29
   Intervista a Primo Levi di Guido Boursier, in «Gazzetta del Popolo», 17 novembre 1966.
30
   In G. Poli, G. Calcagno, Echi di una voce perduta, cit., p. 95. Tra il 1974 e il 1976 Se questo è un uomo toccherà le
trecentomila copie, con traduzioni in sette lingue tra cui il giapponese
31
   In Claude Lanzmann le parcours d’un intellectuel et la genèse d’un film-monstre: entretien, «Les Inrockuptibles», n.
136, 28 gennaio 1998, Paris.
32
   Ibid., p. 20.

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così barbaro); dall’altro ne afferma il suo ruolo di testimone principe dell’Olocausto. Da questo
momento Levi sarà la voce dei sommersi e dei salvati, il rappresentante per eccellenza della
deportazione italiana e non solo ebraica, colui che ha scelto con coraggio di rivivere con le parole e
con la scrittura quel terribile anno nell’inferno di Oswiencim, anche se il numero delle interviste
sulla carta stampata e alla Rai (radio e televisione) cresce negli anni tra il 1978-79 dopo la
pubblicazione di La chiave a stella (che vincerà il Premio Strega)33.
        Quanto agli elementi della rappresentazione scenica (il testimone attore), la voce fuori
campo che recita brani da Se questo è un uomo, il viaggio in treno con l’insistenza sui primi piani di
Levi e gli esterni innevati, e il sottofondo del rumore del convoglio sulle rotaie; il laboratorio della
fabbrica di vernici dove Levi lavora come specchio del laboratorio chimico della Buna (spesso poi
si passa da Settimo Torinese a scene di repertorio dietro il filo spinato con primi piani e campi
lunghi nei quali Levi viene ripreso a camminare, al lavoro o semplicemente in ascolto con i suoi
occhi che prendono tutto lo schermo) ne sono alcuni esempi che sollecitano comunque una
domanda: quanto è possibile distanziare la testimonianza dalla finzione (sia essa televisiva o
filmica, sia essa letteraria)? E ancora, è possibile una testimonianza senza messa in scena? Oppure
se guardiamo alla scrittura, è possibile scrivere un libro documento senza tener conto che in ogni
caso, le storie vere quando si fanno scrittura, non sono altro che trame di parole?

         Il 25 gennaio dell’anno successivo, il trentesimo della liberazione del campo di Auschwitz,
il testimone Primo Levi viene interpellato dal giornalista del Telegiornale della sera. La domanda
parte dalla constatazione di una sorta di oblio diffuso nella maggior parte della gente e in particolare
nei giovani e si avvicina come un macigno a Levi che viene inquadrato in primo piano: «Per lei è un
ricordo lontano?». Levi risponde con pacatezza: «Il fatto di averne scritto, mi rende continuamente
presente e vicino». La registrazione avviene negli studi della Rai di Milano, città dove lo scrittore è
andato per partecipare a un incontro con i bambini di una quarta elementare. A questo punto Levi
parla della sua attività di conferenziere con pubblici molto differenziati e del fatto che accetta
sempre molto volentieri questi inviti a parlare in pubblico; e insiste nel sottolineare le colpe e le
complicità italiane nella tragedia dei lager nazisti, sottolinea con forza la dimenticanza attiva del
nostro Paese circa le gravi responsabilità del regime fascista: «il nazismo in Germania è stato una
metastasi di un tumore che era in Italia; un tumore che ha condotto alla morte la Germania e
l’Europa, vicino alla morte, insomma, al disastro completo». Sebbene Levi, dimostri di non essere
aggiornato sulla ricerca storica relativa al campo di Auschwitz (sul numero delle vittime cita ancora
quello ipotizzato nell’immediato dopoguerra, vale a dire quattro milioni e mezzo di morti) la sua
parola è carismatica e rassicurante: la democrazia va tutelata con il massimo della vigilanza.
Pericoli immediati non ce ne sono, ma il fascismo è pur sempre vivo e opera in molti Paesi. «Io lo
so con precisione» conclude Levi, «e non mi stanco di girare le scuole dove mi chiamano e non solo
le scuole per raccontarlo: fate attenzione, alla fine del fascismo c’è il lager».
         Il 1975 segna ancora due passaggi di Primo Levi alla televisione: uno fugace in occasione
della breve notizia riguardante il Premio Prato, attribuito a Il Sistema periodico e uno più
importante in cui lo scrittore viene ripreso all’interno delle rovine dei fori romani, con due domande
sull’ebraismo, l’Olocausto e lo stato di Israele.34
         Ancora una volta, Levi è il testimone che sa, che può grazie al suo vissuto rivissuto nelle
pagine scritte, rassicurare. E questo ruolo gradualmente gli si impone così come viene proposto al
pubblico dei telespettatori in “punta di piedi” con discrezione. Altrove, dirà, citando Calamandrei
«per la nostra generazione non c’è congedo»35.

33
   In realtà, come attesta il lavoro di Marco Belpoliti (Primo Levi, conversazioni e interviste, cit.) la parte più corposa
delle apparizioni di Levi si colloca tra il 1981 e il 1986.
34
   In «Cronache Italiane» del 13 settembre e del 27 ottobre 1975, programma nazionale a cura di Giorgio Vecchietti;
una rubrica di informazione in onda dal gennaio 1965 alle 18,45. La trasmissione aveva una grande popolarità.
35
   In «Stampa Sera» del 13 maggio 1975, intervista di Giorgio De Rienzo ed Ernesto Gagliano, occasione dell’edizione
di Il sistema periodico.

                                                                                                                          6
Più lenta e difficile la sua affermazione indiscussa come scrittore attraverso le pagine della
critica militante che ritrova in lui (nel suo periodare e nei suoi contenuti) un po’ troppo pessimismo,
qualche incertezza e indecisione che spesso fa rimpiangere le prime due prove. In ogni caso questo
è l’anno in cui Levi decide di lasciare la direzione della Siva, di cui rimarrà consulente per altri due
anni36. Al punto in cui è il lavoro di responsabilità in fabbrica «è brutalmente incompatibile con lo
scrivere, che esige una certa pace dell’anima. In questo stesso anno, esce la sua prima raccolta di
poesie, L’osteria di Brema, presso l’editore Scheiwiller.
         Al Telegiornale della seconda rete Rai, il 10 dicembre 197837, viene trasmessa una breve
intervista, sul nuovo romanzo La chiave a stella, nella quale Levi oltre al contenuto del suo libro
mette in evidenza la caratteristica del suo lettore ideale: un lettore giovane, al quale «segnalare che
non tutto è perduto, anche se molto è perduto». Una vena di ottimismo e una di amarezza, che
traspaiono anche dai suoi occhi e dal suo pacato parlare. Levi per la Rai TV è lo scrittore Primo
Levi che viene intervistato tra i suoi libri nello studio di casa. Sul piano della carta stampata, La
chiave a stella avrà un buon numero di recensioni, particolarmente elogiative. E come ricorda
Giovanni Raboni, Levi non vive più di rendita: «ha smesso di interrogare la memoria, il dolore del
passato e si e messo a interrogare le cose», fondendo «il filone umanistico memorialistico con
quello scientifico-immaginario della sua ispirazione»38
         E tuttavia, la maggiore forza di Levi scrittore non fa dimenticare il suo ruolo principe di
testimone per eccellenza. Il 16 maggio del 1979, per TG2 Dossier39, nel suo studio di casa, senza
giacca e cravatta (allo scrittore è consentito un abbigliamento informale!), Primo Levi interviene
sulla questione della colpa e del perdono, affermando di essere contrario a un concetto come quello
di colpa collettiva; poi si sofferma sull’annosa questione di chi sapeva. Nella riflessione su questo
punto, più che lo studioso di storia, riemerge il testimone che sa per aver vissuto: «mentre tutti
sapevano che i lager esistevano, abbastanza pochi, in effetti, conoscevano la tecnica
dell’eliminazione di massa, o addirittura la misura dell’eliminazione di massa. Io stesso che si sono
stato, avevo visto morire intorno a me il 90 per cento… il 95 per cento dei miei compagni ma non
sapevo bene come» e la presenza delle camere a gas, pur a sette chilometri di distanza «era già una
notizia vaga». La Tv non cerca la verità storica su questi argomenti, ma vuole presentare, ancora
una volta la verità del testimone: una sorta di verità sacra più forte e meno discutibile del lavoro dei
ricercatori del Museo di Auschwitz o di chi tra gli storici sta cominciando a lavorare sul tema,
trascurato nei primi vent’anni del dopoguerra, circa il ruolo della pubblica opinione sotto il
nazismo40. E la sacertà del testimone ben si rafforza con il ruolo di scrittore vate che sembra
assumere per l’emittente televisiva nazionale Primo Levi.
         Due mesi dopo, in occasione della serata finale del Premio Strega41 a una domanda del
cronista che lo invita a parlare del libro, Levi accetta con molta umiltà il ruolo di scrittore e si
propone come attore di una «moderata polemica» nei confronti della letteratura fine a se stessa, «a
tutti i costi, una letteratura chiusa in se stessa che non si rispecchia nel mondo esterno».
         La lunga intervista sul terzo canale della Rai, trasmessa in Piemonte42 crea di nuovo la
saldatura tra scrittore e testimone. Sono trascorsi due anni dall’ultima apparizione di Levi sulla

36
   In Opere, cit., p. XC.
37
   Nella rubrica del TG2 «Click», in onda in prima serata.
38
   G. Raboni, Riesce a creare suspence con il montaggio di una gru, in «Tuttolibri» La Stampa, 25 dicembre 1978.
39
   Rubrica di approfondimento del telegiornale serale della seconda rete, a cura di P. Meucci e C. Balit, dal titolo
«Auschwitz la lunga ombra».
40
   Si vedano ad esempio le referenze bibliografiche in: Olga Wormser-Migot, Le système concentrationnaire nazi
(1933-1945), Paris 1968, Presses Universitaires de France; Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, (a cura
di Frediano Sessi), Torino 19992, Einaudi (la cui prima edizione in lingua inglese risale al 1961); per i lavori degli
storici del campo di Auschwitz, la bibliografia riportata in: Aleksander Lasik, Franzciszek Piper, Piotr Setkiewicz, Irena
Strzelecka (a cura di), Auschwitz 1940-1945 vol. I, II, III, IV, V Oswiencim 2000, Auschwitz-Birkenau State Museum
41
   4 luglio 1979, cronaca di Luciano Luisi.
42
   È il 21 maggio 1981 e la trasmissione è all’interno di una rubrica regionale VIP. Very Important Piemontesi a cura di
Bruno Gambacorta, con in studio Claudio Gorlier e Marinella Venegoni come intervistatori.

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emittente nazionale, e certo non si può dire che lo scrittore torinese venga scelto spesso dai canali
Tv della Rai e delle emittenti private; mentre la carta stampata si occupa periodicamente di lui con
testi critici e con interviste o conversazioni43.
         Primo Levi dichiara esplicitamente che ora la sua prima professione è quella di scrittore a
tempo pieno. E poi rispondendo a una domanda sul suo carattere, dice: «penso di essere una persona
onesta, di amare la vita, di amare i miei simili e di provare piacere nell’amare i miei simili» e
aggiunge: «mi piace parlare, anzi non posso farne a meno e scrivere è un surrogato del parlare».
La scena in cui avviene questo colloquio a tre è spoglia e essenziale e Levi viene spesso inquadrato
da solo su una poltrona, quasi come se fosse sottoposto a un pressante interrogatorio da due
interlocutori che vorrebbero entrare anche nel suo privato, nei tratti molto personali della sua vita e
della sua famiglia. Le due questioni più rilevanti riguardano così le risposte intorno all’opera di
Céline (di lui Levi dice: «non credo che sia un esemplare umano da approvarsi, anche se sa
scrivere») e sulla veridicità dei suoi personaggi. Su quest’ultimo passaggio che denota, come del
resto quello riferito a Céline e alla sua opera letteraria, un ingresso deciso di Primo Levi
nell’universo del fare letteratura, vale la pena di segnalare due prese di posizione: «nessun
personaggio stampato sulla pagina è immune da una manomissione, magari involontaria, qualche
volta volontaria, da parte dello scrittore»; la seconda: «nessun personaggio è totalmente inventato
perché è umanamente impossibile fabbricare dal nulla un personaggio. O si utilizzano dei
frammenti di altri personaggi, di altri libri, oppure, ed è meglio, si utilizzano frammenti di gente che
si è incontrata, proprio magari facendo un’operazione consapevole di spaccatura, di ricombinazione,
di mosaico anatomico». Riflessione che Levi riprende nel gennaio del 1987, quando in una
intervista di Roberto Di Caro44 alla domanda: «Ma quanto della persona dello scrittore si ritrova nei
suoi scritti?» «Io mi sono rappresentato volta a volta nei miei libri come coraggioso e codardo,
come preveggente e come sprovveduto, ma sempre credo, come uomo equilibrato», in realtà,
prosegue Levi «lo sono abbastanza poca. Attraverso lunghi periodi di squilibrio forse legati alla mia
esperienza in campo di concentramento. Faccio fronte abbastanza male alle difficoltà. E questo non
l’ho mai scritto». La pagina scritta, la letteratura come finzione, quanto meno parziale, travisamento
a fini artistici della realtà. E questo procedimento di cui Levi dimostra di essere consapevole (vale a
dire di difficile e diversa rappresentazione della realtà attraverso la scrittura) muove le riflessioni
dello scrittore, che si è appropriato del mestiere con anni di lavoro umile e silenzioso, anche quando
scrive le sue considerazioni sulla verità dei racconti memoriali (nel suo ultimo libro I sommersi e i
salvati). Eppure se scrivere è un po’ trasformare la realtà in una illusione, «giorno per giorno […]
scrivere è un modo per mettere ordine. Ed è il migliore che io conosca»45. Per questo chi mette
ordine nella vita attraverso la scrittura, come Céline, ipotizzando carneficine e massacri può essere
un «uomo pericoloso». «Io non lo leggo e preferirei che non fosse letto.»
         L’anno successivo annovera due apparizioni in Rai dello scrittore Primo Levi: il 14 gennaio
198246 in occasione della pubblicazione della raccolta di racconti Lilit e altri racconti, nel corso
della quale Levi dichiara che il filo conduttore che unisce il suo lavoro di scrittore è anche il suo
«profondo interesse per l’uomo e per il problema del bene e del male»; e il 4 settembre 1982, nel
corso della cronaca per l’assegnazione del Premio Campiello a Se non ora quando?47

3. Il ritorno ad Auschwitz.

43
   Cfr, Primo Levi conversazioni e interviste, cit.
44
   In, Primo Levi conversazioni e interviste, cit. p. 202.
45
   Ibid., p. 203.
46
   Nella rubrica «Tuttolibri» a cura di Giulio Nascimbeni, in onda il Lunedì alle ore 18,45, sul primo canale.
47
   Cronaca in seconda serata di Luciano Luisi.

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Primo Levi sta viaggiando in corriera, da Cracovia ad Oswiencin. È l’anno del suo secondo
ritorno ad Auschwitz48 in occasione della visita al campo di sterminio da parte di un gruppo di
studenti e docenti della provincia di Firenze, ai quali si sono uniti amministratori locali, ex deportati
e rappresentanti della comunità ebraica. La macchina da presa è fissa su di lui e alcune volte sugli
esterni. Levi ha chiesto di essere lasciato solo e di non venire intervistato all’interno del campo e
così, il regista, alterna i momenti colloquiali ai pochi fotogrammi in cui si può vedere Primo Levi
all’interno del campo base o a Birkenau, che cammina e entra nei blocchi abitativi senza essere
importunato da nessuno. L’intervista si muove in due direzioni: che cosa significa, che effetto
produce in Levi oggi questo ritorno; quali le sensazioni e i pensieri. L’altra serie di domande
sollecita il ricordo dei giorni e delle tragedie della deportazione. L’impostazione del programma è
didattica, informativa, e ancora una volta la voce del testimone prevale su quella dello scrittore.
L’effetto, pur nella sobrietà delle riprese e del montaggio, è quello di una «slogatura» come dice
Levi a proposito del parallelo tra l’albergo di lusso in cui ha alloggio oggi (l’HolidayJnn di
Cracovia) e le baracche di ieri; «una cosa impossibile» continua, «che invece avviene». Come a
dichiarare estrema difficoltà della memoria e delle parole a rappresentare i fatti accaduti. E
paradossalmente, più che il detto, si mostra in primo piano il non detto, ciò che Levi sembra provare
camminando solo tra i recinti del campo. «Ricordo benissimo. Ricordo molto». «Ricordo che era
inverno e che gelava il fiato sui bulloni del vagone e noi facevamo… andavamo a gara a raschiare la
brina gelata, piena di ruggine oltretutto […] per raschiarla via e avere qualche goccia d’acqua da
bagnarci la bocca». La sete assurda, l’acqua che tornerà ne I Sommersi e i salvati a delimitare «un
senso di colpa» che «io mi sono portato dietro abbastanza a lungo»49. Ed è forse questo il limite di
questo lungo servizio: accumulare parole, ricordi, sensazioni senza soffermarsi mai ad approfondire,
a collegare quel che si dice con tutto ciò che Primo Levi ha rielaborato e scritto in questi molti anni,
quasi a ricacciarlo per necessità di audience nel limbo del testimone a negargli la forza dello
scrittore che ha rischiato tutto pur di raccontare agli altri, trasformando la sua vita, il suo modo di
sentire, lasciando nel profondo del suo animo quella ferita aperta che ha nome Auschwitz.
         Non è un caso se l’intervista si chiude con una richiesta di «previsioni memoriali», una sorta
di «che tempo farà della memoria!»; e nonostante il rifiuto di Levi di lanciare messaggi, la risposta
non può che essere di una banale ovvietà «Chi nega Auschwitz è quello stesso che sarebbe pronto a
rifarlo». Lo sottolineiamo qui per riflettere sullo stile del mezzo televisivo di quegli anni:
rassicurare i telespettatori, inseguire il più possibile quel che emerge dalla pubblica opinione, uscire
dal profondo a vantaggio di parole slogan. E nonostante la assoluta precisione di Levi nel riferire
fatti e sensazioni, nelle battute finali il mezzo prende il sopravvento e stampa sullo schermo un’idea
di testimone collettivamente condivisa, che aderisce alle aspettative del pubblico: il testimone vate.

        Se escludiamo un rapido passaggio al TG3 della Lombardia, a commento di un libro di
racconti di Elie Wiesel50 trascorreranno due anni prima che Levi torni a essere ripescato dalla Rai e
da Canale 5 di Mediaset, con ben cinque conversazioni o testimonianze.
        Mentre la carta stampata si occupa dello scrittore Primo Levi a tutto tondo (poeta, traduttore,
scrittore di scienza, fantascienza, storia e memoria, consulente editoriale51 e intellettuale) la Rai

48
   La prima volta avvenne nel 1965 in occasione di una cerimonia commemorativa polacca «il ritorno fu meno
drammatico di quanto possa sembrare» dirà in proposito in una intervista, cit. in Opere, cit. vol. I p. LXXXIX. In questa
occasione le riprese e l’intervista furono fatte per conto della rubrica di cultura ebraica «Sorgente di Vita» che andò in
onda il 7 gennaio 1983, come sempre in seconda serata, vale a dire dopo le 22,30, su Raidue.
49
   In, Le parole, il ricordo, la speranza, intervista di Mario Vigevano, «Bollettino della Comunità Israelitica di Milano»
XL, 5 maggio 1984.
50
   30 agosto 1983, giornalista in studio, Michele Cocuzza. Il libro di Wiesel è Celebrazione hassidica, Milano Spirali
edizioni.
51
   Nell’archivio della Casa editrice Einaudi si possono leggere molte schede di lettura firmate da Primo Levi tra le quali
vanno segnalate quella riferita al racconto di Filip Müller, Tre anni nelle camere a gas di Auschwitz (in data 13 maggio
1985) con un giudizio positivo: «L’autore non ha pretese letterarie – scrive Levi in conclusione – ma è un osservatore
intelligente ed onesto; non posa a vittima né ad eroe. Mi pare questo suo libro si presti bene a cancellare quel velo ormai

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sembra averlo confinato nel ruolo di testimone della tragedia della deportazione. Le prime tre
interviste del 198552 non fanno che ripercorrere la sua odissea di deportato e la rilettura della sua
esperienza di Auschwitz dei due primi libri, Se questo è un uomo e La tregua, concedendo molto
alla messa in scena e alla funzione attoriale che il testimone sembra assumere, quasi che quelle
storie su cui Levi torna siano persino esterne al suo vissuto. Testimone diretto sì, ma senza pena. Da
evidenziare due risposte più generali che saldano il passato con il presente che Levi vede incombere
minaccioso: «l’umanità è minacciata nel suo complesso» e per questo ciascun essere umano «deve
lottare personalmente per mantenersi uomo»; per farlo deve attingere dal passato, «la memoria è un
dovere» e lo è soprattutto per chi ha avuto la sventura di vivere le sue esperienza.
        Il 19 settembre 198553, in seguito alla morte prematura di Italo Calvino, in una breve
intervista, Levi ricorda tra l’altro l’occasione della loro conoscenza e amicizia, vale a dire la
recensione critica di Arrigo Cacumi a Se questo è un uomo e insieme a Il sentiero dei nidi di ragno,
che concludeva le sue riflessioni elogiative sulle due prove iniziali di quei giovani scrittori usciti
dalla guerra: «Il tenue chiarore dell’alba si profila al termine del libro di Calvino: tutto nero e
desolato quello di Levi. Non dimenticheremo tanto presto le loro immagini»54.
        Più lunga e articolata la conversazione tra Levi e Giorgio Bocca, in onda su Canale 555.
Bocca è interessato al Levi scrittore, alle sue scelte stilistiche, alle ragioni del suo linguaggio
tecnico e spesso asciutto, senza sentimenti. «La letteratura mondiale è satura di sentimento. Perché
non provare a battere altri sentieri?». Ne traccia un quadro stimolante e sobrio a partire non tanto
dalla sua vita passata ma dalle opere edite, e da quanto Levi ha pubblicato sulla carta stampata.
L’obiettivo è andare alla scoperta delle radici profonde della scrittura di Levi, solo in parte
dichiarate. Le sue posizioni sulla scrittura, Levi le ripeterà qualche tempo dopo a Roberto Di Caro
quando gli confessa che scrivere «è per me un lavoro molto preciso. Mi sembra che l’elemento
decisivo del processo narrativo debba essere un accorto bilancio fra il necessario e il superfluo […]
I miei libri, credo di potermene vantare, non contengono niente di superfluo. Mi viene spontaneo e
naturale astenermi dall’adornamento, dall’aggiunta messa lì solo affinché la pagina sia bella»56

4. E questo è un uomo.

       Delle tre apparizioni in Rai, nell’anno 198657 la più importante è quella che va in onda poco
prima di Natale, il 22 dicembre. Come era già accaduto per lo speciale dedicato al libro Se questo è
un uomo, nel 1974, il regista predispone la scena della conversazione, cominciando da una via di
Torino dove Levi viene colto mentre passeggia, per rientrare a casa. Nel frattempo, una voce fuori
campo di donna legge un brano di una poesia: Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, Voi
che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo / che

semileggendario che tende a sfumare i contorni della stage di Auschwitz». Il libro non venne pubblicato come del resto
accadde per il racconto di Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Hitler e di Stalin che Levi segnalò per la
pubblicazione il 16 novembre 1982.
52
   Più esattamente: il 23 aprile 1985, per TG2 Dossier intorno al tema della Liberazione a quarant’anni dal 25 aprile; il 5
maggio 1985 sempre a TG2 Dossier sulla pace dopo la seconda guerra mondiale, la più lunga intervista tra le tre a cura
di F. Rinaldini e G. Monterisi.
53
   Intervista al Tg1, nello studio di casa sua, in onda in prima serata.
54
   In La Stampa, 26 novembre 1947; anche in E. Ferrero, Primo Levi un antologia della critica, cit., p. 305.
55
   In onda il 13 giugno 1985 nella rubrica «Prima pagina». Non disponibile in formato video. Il testo della
conversazione è in gran parte riprodotto in: G. Poli, G. Calcagno, Echi di una voce perduta, cit., p. 216-50.
56
   In, «Piemonte Vivo», n. 1, 1987, p. 53 e seg.
57
   Una il 5 maggio nel corso di uno Speciale TG1 condotto da Alberto La Volte sul tema «Energia quale futuro?» a
proposito del disastro nucleare di Chernobil, che fa riferimento a un suo intervento su «La Stampa» a proposito della
responsabilità dello scienziato «Non nasconderti dietro l’ipocrisia della scienza neutrale – scriveva – sei abbastanza
dotto da saper valutare se dall’uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra»; la seconda apparizione, il 22
novembre 1986, nel corso del TG2 che dà la notizia del congresso nazionale dell’Aned. Levi ritorna sul dovere della
memoria «sarebbe una sciagura se queste cose venissero dimenticate o ignorate»; l’ultima il 22 dicembre 1986, per TG2
Focus di Ennio Mastrostefano con il titolo «E questo è un uomo».

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lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un
no.
         L’anno sta per finire come dice il cronista e «ci si ritrova a tirare qualche somma, il conto
degli attivi e dei passivi della nostra vita». Primo Levi ha pubblicato in Aprile I sommersi e i
salvati58, non solo per tornare sulle sue riflessioni intorno all’esperienza del lager, ma per alzare la
voce contro ogni tentativo di «falsificare la storia e organizzare l’oblio»59. Levi non cerca il
consenso alle sue tesi, ma, scrive Raboni, è sua intenzione «irritarci», produrre una reazione «in noi
lettori che non abbiamo commesso, ma nemmeno subito, violenze e soprusi come quelli che lui ha
subiti, e che troppe volte abbiamo rinunciato a sapere di più, a capire, a rivoltarci»60. Levi, scrive
ancora Raboni, «un reduce che non vuole condannare ma nemmeno essere assolto, continua a
interrogarsi, e non accetta spiegazioni brillanti, ma cerca (anche se sa che il più delle volte non
esistono) spiegazioni chiare, semplici alla portata di tutti compreso chi, come egli scrive con
ingenua ironia, non si intende di inconscio e di profondo»61 Al coro di voci della critica, per lo più
elogiativo dello sforzo rigoroso e prudente (dirà Pier Vincenzo Mengaldo62), si aggiunge la
pubblicazione della conversazione con Philip Roth63, e la pubblicazione da parte del quotidiano
torinese «La Stampa» di racconti e saggi scritti per il giornale dal 1977 al 1986.
         La ribalta è per «il testimone lucido del nostro tempo, non solo come scrittore e poeta, ma
per la sua tormentata esperienza di vita, la ricostruzione di un’esistenza, dalla ferita di
Auschwitz»64. La voce di Primo Levi, resa autorevole nel corso degli anni, dai riconoscimenti della
critica, non solo italiana e dalla stampa internazionale, ci viene riproposta come parola forte, capace
di indicare le strade da percorrere per far fronte alle novità e ai mutamenti «così rivoluzionari» della
nostra epoca. Non sappiamo, perché non ci viene detto, quanto gli fosse gradito questo ruolo, ma
nel corso della trasmissione, Levi accetta di buon grado di stare al gioco delle domande e
dell’immagine che si trasmette al pubblico dei telespettatori. Conferma l’analisi con cui ha preso
inizio la conversazioni che le sfide nuove cui è chiamata l’umanità ci trovano quantomeno senza
«l’esperienza e l’accumulo del da farsi davanti all’imprevisto». E prosegue «Il quale imprevisto,
non lo si può definire come positivo o negativo, è ambiguo, è ancipite, ha due segni: è composto da
evidenti vantaggi per almeno una parte dell’umanità e di pericoli mai visti né previsti prima». Temi
della trasmissione sono: il pericolo nucleare, le nuove conquiste della genetica tra cui la clonazione,
la violenza che si scatena tra i popoli, per la quale l’Europa gioca un ruolo di spettatore indifferente
(Levi si riferisce al genocidio cambogiano).
         In questo quadro di inquietudine diffusa, Levi si propone di accendere luci nel buio,
segnalando quelli che gli sembrano gli anticorpi già presenti all’interno dell’umanità e soprattutto
nelle giovani generazioni. Le vecchie ideologie si «stanno rapidamente scolorando» e se a fronte dei
nuovi problemi del genere umano si assiste a una permanenza di quelli che hanno sempre assillato
l’uomo (la miseria di molti popoli della terra, il razzismo ecc.), è in ogni caso possibile che da tutto
questo caos nasca un’idea nuova. Levi se lo augura e addirittura lo pensa con fiducia («e oso dire
che lo credo perfino»).
         Ma il cronista ha deciso di aggiungere catastrofe a catastrofe e ripropone all’attenzione dello
scrittore torinese la piaga dell’Aids.
         Levi insiste nel suo ruolo di testimone attento e fiducioso nel futuro e lancia due proposte:
da un lato invitare «i futuri scienziati a rifiutare di impegnarsi in attività che siano certamente

58
   Ed. Einaudi
59
   Dalla recensione critica al libro di Giovanni Raboni, Quando è scomodo il buon senso, in «l’Unità», 3 settembre
1986.
60
   Ibid.
61
   In questa citazione le parole di Raboni sono riprese dalla sintesi che ne fa Ernesto Ferrero, in, Primo Levi: un
antologia della critica, cit., p. 380.
62
   In «La Nuova Venezia», il 12 giugno 1986, Ricordando con lucidità gli orrori del Lager.
63
   Pubblicata in traduzione su «La Stampa» in due puntate, il 26 e il 27 novembre 1986, L’uomo salvato dal suo
mestiere. Anche in, Primo Levi conversazioni e interviste, cit., pp. 84 - 94
64
   Così la voce fuori campo del TG2 Focus.

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nocive e ad accettare soltanto quelle che siano buone», «io non sono affatto d’accordo che uno
scienziato sia libero di studiare un gas nervino»; dall’altro lato rilancia la sua fiducia nella
democrazia in quanto tecnica di governo migliorabile e più vicina all’ideale di una giustizia sociale
per l’umanità: «la mia opinione è che alcune ideologie siano esangui, mentre invece, se si può
chiamare ideologia la democrazia [pausa] in questa io continuo a credere, perché non riesco a
rappresentarmi a raffigurarmi nessun sistema che sia migliore di questo».
       La conversazione si chiude con una domanda molto forte:
       «Senta, lei crede ancora, crede sempre nell’uomo? O che valga almeno scommettere su di
lui?» «Sì – risponde Primo Levi - io penso di sì, penso che valga la pena di scommettere sull’uomo
e penso di averlo detto esplicitamente o implicitamente in tutto quello che ho detto prima, se non ci
fosse questa fiducia nell’uomo, che significa fiducia nei giovani in sostanza, non varrebbe la pena di
conservarsi.»

                                                                            Mantova, 29 agosto 2006

                                                                                                   12
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