Primitiva, architettura - Definizione - Amazon S3

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Primitiva, architettura

Definizione
Con il termine “primitiva” applicato all’architettura si
definiscono quelle espressioni delle funzioni abitative che si
sviluppano, in condizioni di sostanziale autonomia, al di
fuori delle grandi organizzazioni statuali, espressioni
basate, quindi, sulla trasmissione diretta, di generazione in
generazione, all’interno di uno stesso gruppo sociale di tipi,
come di metodi e tecniche esecutive, che generalmente
costituiscono uno dei connotati identitari del gruppo stesso.
Se nei pioneristici studi che si sono variamente sviluppati
dall’Ottocento fino agli anni Cinquanta dello scorso secolo
l’architettura primitiva è stata osservata prevalentemente
come espressione ingenua e diretta, strettamente aderente alla
logica della funzione, in molti degli studi successivi è stata
interpretata, invece, come espressione di culture altre e
molteplici, spesso ricche di relazioni reciproche, quindi,
stando a una definizione di Enrico Guidoni, come “istituzione
politico-sociale riferita all’insieme delle attività spaziali
e della loro interpretazione interna alla società in esame, in
rapporto con le altre attività”.

Derivazione – Processo formativo
Per approfondire l’argomento, si rende preliminarmente
necessaria una prima distinzione fra società nomadi e
sedentarie. Le società nomadi sono generalmente interessate
soprattutto all’organizzazione del territorio più che alla
costruzione dell’abitazione. Fondate sulla ricchezza
mobiliare, vedono la casa come la più importante delle
suppellettili, la cui posizione nell’accampamento – spesso
basato su un impianto circolare con ampio spiazzo privo di
capanne nella parte centrale – può legarsi con maggiore o
minore evidenza alla rappresentazione dello status della
famiglia e dei rapporti di associazione o di parentela con gli
altri componenti della tribù. Si veda, ad esempio, il caso dei
pigmei mbuti (Repubblica Democratica del Congo), suddivisi in
“bande di caccia e raccolta” non gerarchizzate, o quello dei
semang (penisola di Malacca) che, invece, sono organizzati per
capifamiglia, o quello, più strutturato, dei boscimani –
antichissimo popolo originario dell’Africa australe, ora
ridotto a pochi gruppi vicini all’estinzione, stanziati nel
deserto del Kalahari – i cui ricoveri, aperti verso est,
riflettono, nell’ubicazione e nella reciproca distanza delle
abitazioni, le regole di convivenza e la posizione sociale dei
diversi membri della “banda di caccia”.
Nell’organizzazione del territorio le società nomadi esprimono
esigenze profonde e stratificate che si traducono in forme
collettive di semantizzazione degli elementi paesistici,
basate frequentemente sul presupposto che l’attività
costruttiva debba essere ricondotta a un modello divino da
riprodurre fedelmente in terra.
In genere, queste concezioni si trasferiscono alle società
agricole, costituendone il substrato culturale. Ma in molti
casi il passaggio tra nomadismo e stanzialità si esprime in
forme intermedie. È il caso, ad esempio, di alcune tribù che
vivono nel Brasile occidentale, come i nambikwara, che durante
i mesi di siccità si spostano in cerca dell’acqua e vivono di
caccia, mentre in inverno, durante le grandi piogge, si
dedicano all’agricoltura e conducono una vita stanziale in
accampamenti disposti in circolo attorno a uno spiazzo
rotondeggiante. In questo contesto, il viaggio che determina
l’inizio del nomadismo è accolto con gioia, sia come
liberazione dalla monotonia della vita nel villaggio, sia come
ritorno a una condizione più antica che sta alla base
dell’identità e della cultura del gruppo. Guardando ad altre
aree geografiche, meritano particolare attenzione alcune
popolazioni a base essenzialmente pastorale (quindi più vicine
al nomadismo che alla stanzialità) dell’Africa centro-
orientale e meridionale, i cui insediamenti di forma
circolare, detti kraal, si dispongono anch’essi attorno a
un’area libera che funge da recinto per gli animali o anche da
spazio per cerimonie e parate. Particolarmente significativi i
kraal degli tsonga (Mozambico), dei maasai (Kenya-Tanzania) e,
soprattutto, quelli degli zulu (Sudafrica). In quest’ultimo
caso, l’accampamento raggiunge spesso dimensioni molto
considerevoli, tanto da poter contenere migliaia di abitanti e
assumere caratteristiche simili a quelle di un villaggio
permanente.
Le abitudini dei cacciatori-raccoglitori permangono in qualche
misura anche nei casi in cui le trasformazioni dei sistemi
sociali e insediativi collegate alla pratica dell’allevamento
e dell’agricoltura si siano rese definitive. Al riguardo è
stata efficacemente posta in rilievo l’importanza che presso i
popoli dediti alla caccia aveva la spartizione della preda in
ragione della posizione occupata dai singoli componenti della
banda nella gerarchia sociale; presso le popolazioni agricole
queste abitudini, unitamente alle relative componenti mitico-
religiose, si localizzano, trasferendosi in varia misura nelle
diverse componenti dello stanziamento (dai rituali di
fondazione, all’assetto del territorio e del villaggio, alla
casa).
Spostando l’attenzione sulle espressioni dell’architettura
primitiva legate alla stanzialità, un rilievo particolare va
dato alla casa collettiva, tipo diffuso in molti ambiti
geografico-culturali con caratteristiche diverse (dalle
soluzioni più semplici ed elementari, fino a quelle più
complesse in cui la decorazione pittorica e scultorea assume
un rilievo tale da evidenziare anche funzioni legate alla
dimensione    pubblico-celebrativa      e   mitico-religiosa
dell’abitare). Nei tipi più strettamente legati alla funzione
abitativa, la casa collettiva si segnala attraverso due
caratteristiche essenziali, la sua grande dimensione e
l’assenza di decorazioni, caratteristiche legate, da un lato,
alla vita collettiva e all’assenza di specializzazioni
all’interno del clan (tutti sono in grado di partecipare alla
realizzazione dell’opera), dall’altro, alla scarsa incidenza o
assenza di stratificazioni sociali. Particolarmente
interessante è il caso della casa collettiva (maloca) della
tribù amazzonica dei desana: concepita come una sorta di utero
che consenta la riproduzione della specie, è inserita
all’interno di uno spazio circolare, dissodato e recintato con
bastoncini, che rappresenta una sorta di confine cosmico;
all’esterno di esso si diramano i sentieri che conducono ai
luoghi sacri o, comunque, significativi del territorio, come
alle altre maloca e ai campi coltivati. Se il campo era, per i
cacciatori,     il    centro    mobile    del    territorio,
la maloca stabilisce invece, per gli agricoltori desana, un
sacrale e indissolubile legame con il preciso luogo in cui è
situata.
La casa collettiva nella maggior parte dei casi non può
contenere tutti i rappresentanti di un clan, per cui è
frequente il caso che essa, nel far parte di insiemi più ampi
e complessi, assuma caratteristiche monumentali atte a
rappresentare i valori unanimemente condivisi dalla
collettività.
In simili contesti si assiste non solo alla definizione di
tecniche costruttive più impegnative nella realizzazione delle
capanne, ma anche alla diffusione di pratiche artistiche
alquanto sofisticate, quali la decorazione pittorica e la
scultura. Particolarmente significativo è il caso delle tribù
degli abelam (Nuova Guinea) i cui villaggi, basati su un lungo
percorso rettilineo, offrono particolare risalto alla casa
cerimoniale o di culto, costruzione emergente con tetto a
sella che, nell’accogliere e custodire le effigi lignee degli
antenati, si pone come deposito della memoria storica
collettiva, assumendo connotati monumentali.
Se fin qui si sono prese in esame espressioni culturali
sostanzialmente avulse e indipendenti dalle grandi
organizzazioni statuali, si rende ora necessario concludere
osservando casi che, invece, conservano tali caratteri in
forme ridotte e contaminate, sia per aver sviluppato al loro
interno forme organizzative particolarmente complesse,
difficilmente ascrivibili all’interno di una logica
esclusivamente tribale, sia per aver stabilito significativi
contatti con l’esterno con regolare frequenza. Sotto questo
aspetto presentano carattere emblematico diversi gruppi
etnici: da quelli stanziati tra Arizona e New Mexico, che
proprio a seguito dell’impatto con i coloni avrebbero dato
luogo alla costruzione dei pueblo, a quelli del nord-ovest
americano, fino a quelli che compongono l’universo
polinesiano. Se in ognuno di questi ambienti si riscontra
un’articolazione culturale molto ricca e stratificata, che
attinge al mito e alla cosmologia, negli ultimi due si rende
particolarmente evidente la complessità del corpo sociale e
l’assimilazione dall’esterno di vari usi e costumi.
Nell’universo polinesiano queste caratteristiche si declinano
territorialmente in una sorta di gerarchia fra le isole
maggiori e gli atolli, che ha origini nella pratica della
navigazione e della colonizzazione delle isole minori come
nella mitistoria polinesiana (che affida a Tahiti un ruolo
propulsore e genetico, cui avrebbe fatto seguito la nascita
delle isole maggiori e, in definitiva, dell’intero
arcipelago). Partendo da simili presupposti, il mito si
collega, legittima e storicizza l’assetto della società
polinesiana che vede lo sviluppo della chefferie nelle isole
maggiori, non negli atolli. Questa organizzazione gerarchica
consente interventi molto rilevanti, diretti dal re e/o
dall’aristocrazia, che possono avvalersi di manodopera
specializzata per sistemare i principali luoghi insediativi e
realizzare opere di particolare rilevanza, come santuari
lapidei e sculture monumentali (fra cui si ricordano le enormi
statue antropomorfe dell’isola di Pasqua – colonizzata dai
polinesiani – erette su ampi terrazzamenti in prossimità del
mare).
Per quanto riguarda lo sviluppo delle potenzialità artistiche
legate alla casa, gli indiani del nord-ovest americano hanno
sviluppato analoghe tendenze e capacità, tanto da indurre
alcuni studiosi a ipotizzare intensi scambi culturali fra le
due etnie lungo le rotte transoceaniche. Anche presso
quest’ultima popolazione la disponibilità di un consistente
surplus    alimentare     si   lega   alla   formazione     di
un’organizzazione gerarchizzata della società e, in
definitiva, alla promozione di forme espressive, come quelle
artistiche, non direttamente legate alla sopravvivenza.
Conseguentemente ognuna di queste popolazioni sedentarie ha
sviluppato un proprio stile, ma con caratteristiche
reciprocamente correlate. Molto significativo il caso delle
cerimonie del Potlatch, praticate da varie tribù che basano
l’istituto della festa sull’offerta, anche (o principalmente)
agli avversari, di beni che spesso sono destinati a essere
distrutti. Pratica anomala ma certamente significativa,
essendo basata, come i grandi apparati decorativi che
caratterizzano sia le singole architetture che gli spazi
aperti dei villaggi, sull’esibizione dei prodotti del surplus
come attestato di autorevolezza e potenza. Lo straordinario
sviluppo che in questi stessi ambiti assumono i grandi pali
totemici, e, in generale, la scultura in legno, si collega
certamente a una simile logica tribale dell’esibizione e dello
“spreco”, ma la sua caratterizzazione attuale è da collegare
anche alla moderna diffusione di monete e di utensili
metallici.
Se nel caso polinesiano il superamento dell’originario
isolamento è dovuto alla pratica della navigazione e della
colonizzazione, in quest’ultimo esempio dipende dal contatto
diretto con i bianchi (che pure, con leggi emanate alla fine
dell’Ottocento dai governi canadese e americano, hanno vietato
– inefficacemente – la celebrazione del Potlatch).
Tale considerazione induce ad attenuare la nettezza
dell’iniziale definizione del lemma, aiutandoci a comprendere
come si renda sempre più difficile, in materia di cultura,
arte e architettura primitiva, stabilire precise delimitazioni
fra componenti autonome e sviluppo indotto da fattori esterni,
soprattutto in questi ultimi anni in cui alla continua e
invasiva espansione dei sistemi statuali fa da contrappunto la
progressiva riduzione e il confinamento (a causa di pratiche
distruttive, come l’urbanizzazione e la deforestazione, o per
altri versi benefiche, come lo sviluppo turistico e
l’evangelizzazione) dei residui esempi di architettura
primitiva entro piccole enclave sempre più ridotte per numero
e dimensioni, ambiti fragili, prevedibilmente destinati a una
prossima estinzione, i cui effetti saranno traumatici per la
cultura, non solo “primitiva”, della nostra specie.

Bibliografia
Carchia G., Salizzoni R. (a cura), Estetica e antropologia –
Arte e comunicazione dei primitivi, Torino, 1980; Daryll Forde
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to Ethnology, London-New York, 1953; Forge A., Primitive Art
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Architettura e Urbanistica, vol. III, Roma, 1968, pp. 286-302;
Guidoni E., Architettura primitiva, Milano, 1975; Lanternari
V., Acanfora M.O., Grottanelli V.L., L’abitazione,
in Ethnologica, vol. II, Milano, 1965, pp. 225-371; Lévi-
Strauss C., Anthropologie structurale, Paris, 1958; Lister F.
C., Lister R. H., Those Who Came Before – Southwestern
Archeology in the National Park System, Tucson, 1983.
Photogallery

Riparo provvisorio in rami e foglie di pandano - Rennel
Island, Solomon Islands (da Guidoni E., Architettura
primitiva, Milano, 1975).

Chiudi

Kraal degli Tsonga - Mozambico (da Guidoni E., Architettura
primitiva, Milano, 1975).

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Casa collettiva ("degli uomini") con tetto a sella e doppia
cuspide - Medio Sepik, Nuova Guinea (da Guidoni
E., Architettura primitiva, Milano, 1975).

Chiudi

Montezuma Castle, Arizona, USA (da Lister F.C., Lister R. H.,
Those Who Came Before. Southwestern Archeology in the National
Park System, Tucson, 1983).

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