Prima lezione di letteratura araba - CITAZIONI BIBLIOTECA MESTRE 27 OTTOBRE 2010 prof. Elisabetta Bartuli

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Prima lezione di letteratura araba

      CITAZIONI BIBLIOTECA MESTRE 27 OTTOBRE 2010 prof. Elisabetta Bartuli

     "La narrativa dice la verità in un'epoca in cui le persone cui è demandato di dirla inventano
     storie. I politici, coloro che creano le opinioni inventano storie. Allora è dovere dello
     scrittore di finzioni cominciare a dire la verità." - Salman Rushdie

Nora Amin, Bizzarrie, in Rose del Cairo, e/o, Roma 2001
Oggi mi sono infilata i pantaloni al contrario e sono andata in ansia. Nonostante sia convinta che
non c’è differenza sostanziale tra il davanti e il dietro e nonostante certa gente consideri questo
fatto di buon auspicio. Comunque mi sono davvero molto agitata per quello che mi è capitato, e
l’agitazione andava ben oltre: non ero agitata perché me li ero infilati al contrario, ma perché sono
andata in ansia per averlo fatto.
…. Infine, ho preso in considerazione il vicino di casa del quale, prima di allora, non ero mai
riuscita ad attirare l’attenzione. Sembra molto emancipato e riesce sempre a rimettere in sesto la
condotta fognaria principale, quando si ottura e la situazione precipita perché i mariti del palazzo
di questi tempi non si fidano degli idraulici. Con un procedimento infernale ci siamo ritrovati a
letto, e io mi sono impegnata in una serie di movimenti ginnici che mi ero allenata a fare all’epoca
del campionato di taekwendo del 1987.
Comunque, nonostante gli attacchi di risate durante l’allenamento, non mi ricordo di aver sudato
nella pratica sportiva quanto ho sudato questa volta, cosa che viene considerata il vero segnale di
una corretta combustione dei carboidrati.

Salwa Bakr, Zaynat al funerale del Presidente, in Rose del Cairo, e/o, Roma 2001
…se le cinque ghinee le si fossero materializzate in mano, ogni primo del mese, sarebbero senza
dubbio state un’enormità e avrebbero cambiato la sua vita, anzi, forse avrebbero contribuito alla
realizzazione del suo sogno di sempre, quello che non l’abbandonava mai, sposarsi e diventare
madre. È vero che, in realtà, era un sogno ben lontano perché erano passati gli anni e l’età da
marito se n’era andata (e quanto a questo persino quando era in età da marito, da vedova, non un
solo tipo di essere vivente l’aveva mai guardata perché lei – ohimè – era senza sostanze e senza
bellezza, senza un bel niente), ma le cinque ghinee, forse, avrebbero spinto qualcuno a prenderla in
considerazione; e per la verità Zynat aveva messo gli occhi su un vecchio spazzino che a volte
vedeva spazzare la strada principale, vicino a dove lei si sedeva a vendere le sue cose, da lui aveva
saputo che se ne era andato di casa lasciandosi dietro moglie e figli, tanti anni addietro, per
scendere al Cairo e, a tutt’oggi, non dare più notizie di sé; con poche, competenti occhiate, Zynat
era riuscita a postulare che dai lombi di quell’uomo avrebbe potuto saltar fuori un figlio. Pensò
che le cinque ghinee lo avrebbero sollecitato laddove la natura, dandole forma e lineamenti, aveva
fallito.

May Telmissany, Dunyazad, ev editore, Macerata 2010
Eravamo seduti ai lati estremi della tavola da pranzo. Lui a nord. Io a sud. Lui disegna. Io scrivo.
Ad un tratto, alza gli occhi verso di me. Uno sguardo timido. Un sorriso furbetto. Una vocina
titubante rivela: - Mamma, oggi ho visto una bella bambina.
Shihab? Un bimbetto di quattro anni? Lascio cadere la penna e, nei miei occhi, scintillano soli di
pura gioia: - Come si chiama?
Silenzio. Torno alle mie carte con la mente scombussolata. Lui torna ai suoi pastelli. Si disegna: un
grande cerchio con al centro cerchietti più piccoli per la bocca e gli occhi, poi con uno ancora più
grande traccia un corpo ciccione, da cui pendono due gambe anch’esse rotonde.
- Si chiama Salma – dopo un po’.
Sorrido, e lui mi ricambia. Di un sorriso tenero come il ricordo del viso di Salma che si disegna
nello spazio sospeso tra i nostri sguardi.
- Salma? - (ho un’amica che si chiama così).
- Ah, adesso mi ricordo - (e forse non se ne dimenticherà più).
- Ci hai parlato?
- No – chiaramente irritato.
Ora sta disegnando una lucertolona preistorica e un dinosauro.
Stronco sul nascere la voglia di interrogarlo, aspetto che riveli di più. Lei è della sua stessa classe?
Quando l’ha vista per la prima volta? Cosa indossava? Ha i capelli neri come i miei? Perché non
le ha parlato? È una bambina buona o cattiva?
- Quando mi sono svegliato dopo la nanna l’ho vista davanti a me. (L’ha vista nell’ora del
riposino).
Amore a prima vista. Sicuramente l’ha sognata oppure ha immaginato che il suo viso fosse un
sogno. Shihab ad-din ama Salma senza saperlo.
- Mamma, io amo Salma.
Ecco, lo sa. Con un salto da un capo all’altro della tavola lo abbraccio e decido di tenergli il gioco
fino in fondo. Il suo povero cuoricino è agitato. Deve aspettare altri due giorni prima di vederla di
nuovo.
Cerca di divincolarsi dalla stretta delle mie braccia. In un’ultima smania di possesso lo stringo al
petto. Alla fine, con i suoi quattro anni e il cuoricino colmo dell’immagine di Salma, ce la fa.
Alla fine si divincola e si stupisce delle mie risate e della mia gioia. Crede che mi prenda gioco di
lui. Ma è anche imbarazzato: - Io sposerò te, mamma.
Soluzione niente male per disperdere i precoci sensi di colpa. Per il momento non mi lascerà per
un’altra donna.
- Io sono sposata con papà, amore mio.
Una sensazione di sollievo inonda i tratti del suo visino e l’aria profuma del sereno che segue alle
piogge torrenziali del monsone.
Ho deciso: domenica prossima lo accompagnerò a scuola. Gli chiederò di indicarmi Salma. Come
se mi avesse letto nel pensiero dice:
- Ci sono due Salma in classe.
- Ce ne sono due?
- Salma bella e Salma brutta!
- A te quale piace?
- La Salma bella.
- Allora, devi parlarci.
- Non so! – imbarazzato.
Questo bambino è tutto suo padre. Mi sono ricordata di aver aspettato sei mesi prima che
confessasse di amarmi. Poi altri sei mesi prima che si decidesse a venire dai miei. Ricordo, inoltre,
che il suo primo regalo è stato un pupazzetto, come gesto romantico tipico degli innamorati degli
anni Novanta, appassionati di cartoni animati!

Dunya Mikhail, Poesia “La guerra lavora duro”
Com’è zelante la guerra
                e attiva
                e capace!
Fin dalle prime ore del mattino
sveglia le sirene
manda le ambulanze
nei luoghi più svariati
fa volare cadaveri nell’aria
fa scivolare barelle verso i feriti
fa piovere dagli occhi delle madri
scava nella terra
       traendo molte cose
                da sotto le macerie
alcune rigide scintillanti
altre sbiadite ancora pulsanti
accresce le domande
nella mente dei bambini
diverte gli dei con lanci di razzi
e fuochi d’artificio nel cielo
semina le mine nei campi
miete fori e bolle
spinge famiglie ad emigrare
si ferma con i religiosi
che maledicono il diavolo
(il poverino ha la mano che gli fa male,
a forza di tenerla nel fuoco)
la guerra lavora dalla mattina alla sera
ispira lunghi discorsi ai tiranni
dà onorificenze ai generali
e materia ai poeti
è azionista nella fabbricazione delle protesi
raccoglie viveri per le mosche
aggiunge pagine al libro di storia
realizza l’uguaglianza tra ucciso e uccisore
insegna agli innamorati a scrivere lettere
abitua le ragazze all’attesa
riempie i giornali di argomenti e immagini
costruisce nuove case per gli orfani
dà lavoro ai fabbricanti di bare
e pacche sulle spalle dei becchini
disegna un sorriso sul volto del comandante
lavora duro come nessuno
e mai che ci sia per lei una parola di lode.

Elias Khuri, Facce bianche, Einaudi 2007
Quando parlava della guerra, Mahmùd non riusciva a dimenticare. Il biondino salta, corre a
zigzag al centro della strada e a un certo punto si mette a saltare. Poi è un’esplosione di sangue. Il
biondino sussulta, sussulta come un galletto, sussulta e il sangue gocciola sull’asfalto, gocciola
sulla sua faccia. Il biondino sussulta e china la testa, poi gli cede la spalla destra. Il fucile gli
scivola lungo il braccio e cade a terra. Sussulta, la testa si china ancor di più, pare quasi che stia
cercando una monetina perduta. Sussulta, il biondino. Mahmùd corre verso di lui, vuole
attraversare la strada per andare a prenderlo. Ma gli giungono delle voci.
- No! No! Un cecchino! Nessuno si avvicini! Non adesso! Nessuno. Un cecchino. Un cecchino.
E danza, il biondino, danza. Ecco, adesso la testa è arrivata fino al suolo. I capelli si rapprendono,
si appiccicano tra loro, diventano del colore della polvere. Eppure danza. I piedi, incollati
all’asfalto, sussultano. E il biondino dorme, è solo, dorme, dorme da solo. Nessuno gli si avvicina,
dorme tranquillo. Il corpo diventa più piccolo, diventano più piccoli i pantaloni kaki, gli scarponi
sembrano entrargli dentro le gambe. Le braccia sono protese, come se stessero facendo segno alla
lontananza. Il fucile giace sull’asfalto, solitario. E Mahmùd piange. Si siede dietro un sacco di
sabbia, ha attorno tre miliziani. Piange a dirotto.
- Era mio amico, dice, perché non lo salvate?

Elias Khuri, La porta del sole, Einaudi 2004
Mi ha chiesto: - Tu di dove sei? -.
- Di Kuwaykàt, questa è casa mia, questa è la mia brocca, questo è il mio letto. E l'olivo, il fico
d'India, la terra, la fontana e tutto quanto il resto.
- No, no. Adesso, dove vivi?
- A Shatìla.
- E dov'è Shatìla?
- Al campo profughi.
- Dov'è il campo?
- In Libano.
- In Libano, dove?
- A Beirut, vicino alla cittadella sportiva.
Quando l'ebrea ha sentito nominare Beirut, ha avuto un sussulto e tutto è cambiato.
- Di Beirut?! -, ha gridato. Le parole hanno cominciato a schizzarle fuori dalle labbra, le lacrime
dagli occhi.
- Ascoltami, sorella, - ha detto l'ebrea, - sono anch'io di Beirut, di Wàdi Abu Jmìl. Conosci Wàdi
Abu Jmìl? Il quartiere ebraico, in centro. Mi hanno portata qui che avevo dodici anni. Ho lasciato
Beirut e mi sono ritrovata in quest'orribile landa desolata. Conosci la scuola dell'Alliance? Alla
sua destra c'è un edificio di tre piani, era di un ebreo di origine polacca, si chiamava Elie Brown. È
da lì che vengo -.
- Sei di Beirut? - si è stupita Umm Hasan.
- Sì, di Beirut.
- Com'è possibile?
- Possibile cosa? Sono io che non capisco. Tu abiti a Beirut e vieni qui a piangere. Sono io che
potrei mettermi a piangere. Va', sorella, va' via. Ridammi Beirut e prenditi tutta questa terra
amputata.

Sinan Antoon, Rapsodia irachena, Feltrinelli 2010
La maggior parte dei posti erano occupati, ma trovammo due sedili in una posizione strategica che
dava sul centrocampo. Col passare del tempo gli spalti cominciarono a
riempirsi a eccezione di un angolino a destra dello stadio dietro a una delle due porte. Le bandiere
delle squadre ospiti, la bandiera della Fifa e quella della Lega asiatica di calcio,
sventolavano già sulle aste. Un genio aveva deciso di rivolgere verso il campo una gigantografia
del Leader (forse perché anche Lui potesse seguire la partita), ostruendo la visuale a chiunque si
fosse seduto alle spalle del pannello. Guardavo sempre quell’isola di posti vuoti nel mare dei
quarantacinquemila spettatori e mi chiedevo se qualcuno avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere
di togliere la foto per permettere a più gente di godersi la partita. Ma erano posti che, per tornare
di proprietà degli spettatori, avrebbero dovuto
aspettare un golpe o una rivoluzione. O magari, più semplicemente, che la foto venisse sostituita.
Il Rashid era primo in classifica,

Abdellatif Zrikem, in Sole Nero. Gli Anni di piombo del Marocco, Mesogea 2004
Nel corso della nostra intima relazione con i pidocchi, imparammo a riconoscerne le varie specie
dal grado di dolore che ci provocavano i loro morsi. A ogni tipo, la sua particolare intensità di
dolore e la sua velocità di movimento. Ogni specie aveva il suo modo di andare all'attacco, la sua
maniera di mimetizzare le orde che, lentamente, si muovevano tutte insieme. Nei capelli,
pascolavano senza remissione. Quelli neri e grassi, procedevano in file ordinate come colonne di
carri armati. Sotto i peli del pube stavano acquattate delle unità isolate, grigiastre e massicce,
come artiglieria pesante. Una divisione particolarmente mobile, leggera e veloce, si dava alla
guerriglia e non faceva che muoversi negli spazi aperti: petto, pancia, schiena, braccia. Erano
bianchi, lunghi e snelli, traslucidi finché il sangue succhiato non traspariva dall'interno dei loro
ventri. Questa specie era quella che faceva più male; si muovevano veloci e instancabili, ci davano
fastidio e ci disgustavano. Non riuscivamo a dormire, a meno che non si addormentassero loro. E
poi non morivano. Nemmeno se li si schiacciava o li si bolliva quando erano rintanati nelle nostre
camicie cachi. Gli si distruggeva tutto il corpo, ma non il capo. E tu non facevi in tempo ad
indossare una camicia "pulita", che loro riprendevano energia e riproducevano corpo e zampe.
Una refrattarietà alla distruzione. Quanto gliela invidiavo! Avrei soltanto voluto poter tenere gli
stessi vestiti per tutto il periodo che avrei passato là, ma non avevo modo di farlo. Così mi
accontentai di dare la caccia a questa specie soltanto. Questo era il nemico principale, gli altri
erano nemici secondari!

Nelle parole di Ibrahim Samuel:
“... sono uno scrittore e non un politologo e neanche un giornalista che scrive senza mediazione su
una certa realtà. Racconto i fatti attraverso i sentimenti, anche se a volte l’arte può essere veicolo
di verità che in altro modo non si possono dire. Penso, infatti, che la letteratura possa essere un
valido strumento, più esplicito di un articolo politico. Certo lo scrittore è testimone dell’epoca in
cui vive, ma io non mi pongo come obiettivo la denuncia politica, anche se poi finisco per parlare
dei dolori e dei sogni della gente che mi vive attorno. Il prigioniero sente il desiderio della libertà,
ma non è in grado di sostituirla con le parole, io lo posso fare, mi sento il portavoce di tanta gente”
(“Tra un’onda e l’altra”, incontro con Isabella Camera d’Afflitto, in Linea d’ombra, n.92, aprile
1994).

  Najwa Barakat, L’inquilina, Epochè 2009
(...) Ah, davvero? Trovate che me la cavo bene in francese? Ho appena finito di dirle che sono dieci
anni che sono qui e che l’avevo già imparato a scuola. Sì, è caffè turco. Ma no, non so leggere nei
fondi, mi spiace. Io... D’accordo! E pensate di passarci le vacanze? Ma è meraviglioso! Vuole
qualche indirizzo? Nessun problema. Così andrà a salutate la mia mamma. No, io parto quando mi
viene voglia. E poi da noi non si conosce molto questa nozione di vacanza. Certamente, adoro
Parigi. È una città cosmopolita, ci si trova di tutto. I miei amici? Per la maggior parte sono... come
dire... Adora gli stranieri? Anch’io li adoro. Voglio dire... No, non l’ho visto. Dove? Su Le Monde?
A proposito del velo? Il liceo ha vietato l’uso del velo a quattro ragazze? Ancora? Che coincidenza,
perché ho saputo anche che ci sono quattro liceali ebrei che hanno rifiutato di seguire le lezioni il
giorno di Shabbat. Il sabato, sì. No, non l’ho letto sul giornale. Nemmeno alla televisione. L’ho
saputo da un’amica il cui figlio è nello stesso liceo. Sì, una francese. Certo che le credo, perché
dovrebbe mentire? Davvero? Trovate che il chador è sexi? No, non l’ho mai portato. Certo che si
può essere cristiani e arabi. Ah, lei crede che gli arabi siano tutti musulmani? Assolutamente no!
Ce ne sono anche di ebrei. Non è la stessa cosa, lei adesso sta parlando dei sionisti. Si, l’accordo di
pace. Certo!
Scrivo in arabo, sì. Non ho mai provato, lo farò un giorno forse quando avrò qualcosa da dire ai...
che sia in rapporto con il mio soggiorno in Francia... no, non conto di ritornare presto. Ah
davvero, conosce molti libanesi? Nel XVI° arrondissement? No, non è che una chiacchiera, voglio
dire: non tutti i libanesi sono forzatamente molto ricchi. Siamo diversi dagli altri arabi? Anche voi
siete diversi dagli altri europei. Certo che mi sento libanese e araba, e anche musulmana in un
certo senso, e donna, e incazzata, e sull’orlo di una crisi di nervi, e in preda a una terribile voglia
di vomitare o di mettermi lì, davanti a lei, sul tavolo, e gridare: “Pietà!”.
Credete che mi alzi al mattino con in testa la battuta: “Buongiorno, oggi mi sento araba”, o ancora
“Salve, la mia olivastra pelle scura mi prude”? Sono stufa di giustificare la mia differenza. E mi
succede anche di prendere in giro gli arabi. Sì, talvolta li prendo in giro, tanto quanto i portieri
portoghesi, gli spazzini africani, i cuochi italiani, i libanesi ricchi o i giovani quadri francesi. E
allora? In fin dei conti siamo tutti uguali, no? Basta così? D’accordo, adesso le offro il fianco, e
esagero, giusto per provarle quanto sono imparziale. Dài, comincio: Gli arabi sono la peggiore
razza che ci sia al mondo. Sono pappamolle, idioti, intolleranti, pigri, sciattoni, bestie, vigliacchi,
mediocri. Adoro questa parola. Continuiamo: chiacchieroni, altezzosi, traditori, razzisti, arroganti,
violenti, sciovinisti, aggressivi, bugiardi, intrattabili, fanatici, arrivisti, delinquenti, coglioni,
dittatori, poveri, ricchi, sporchi. Puzzano da petrolio oppure puzzano e basta, come ha detto uno
dei vostri grandi capi. Si moltiplicano come topi e sono ignoranti, squilibrati, madidi, puzzolenti...
Aspetti! Attaccaticci, collosi, bavosi, piscioni, maschilisti, scervellati, ignobili, scoraggianti,
fiacchi, scostumati, vuoti, umiliati, perdenti, deboli, tragici, comici, risibili.... Va bene? Soddisfatto
adesso? O preferisce che mi butti nella Senna?
Non sono poi così male gli arabi? C’est vrai? Really? Crede davvero? Ma allora sono desolata.
Veramente! Ma bisognava dirmelo prima, no? D’altra parte, neanche voi siete poi così male, glielo
assicuro.
Bene. Molto bene. Tutto dimenticato. Capitolo chiuso. Voi mi amate e io vi amo. Ci si ama. Ma
quanto ci amiamo! Buon rientro. Baci baci. Bye!

Samir Kassir, L’infelicità araba, Einaudi 2006

Ghassan Kanafani, Ritorno a Haifa, edizioni lavoro
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