Party Government e strategie sindacali. Un approccio storico del caso italiano

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XXVII Convegno SISP, Università di Firenze, 12-14 settembre 2013
                                        Sezione 1: “Democrazie e democratizzazioni”
                Panel 1.4: “Italian unions’ relational politics yesterday, today and tomorrow: the union-party link”

                           Party Government e strategie sindacali.
                            Un approccio storico del caso italiano
                                                    VALERIO LASTRICO
                                                   valerio.lastrico@virgilio.it

      1. Introduzione ed obiettivi
      Il paper utilizza un approccio storico per ricostruire i vari passaggi nel rapporto fra sindacati confederali e
partiti di riferimento, nel caso italiano. L’ipotesi è che lo stretto “collateralismo” fra partiti e sindacati, che la
letteratura considera caratteristica peculiare del periodo che va dall’immediato dopoguerra sino alla crisi della
Prima Repubblica, non sia di fatto mai stato rimesso in discussione nemmeno nei periodi successivi, pur
passando attraverso mutazioni che non paiono comunque inficiare tale relazione di fondo.
      Vale a dire che, sia a sinistra con l’asse fra CGIL e i vari partiti che si sono avvicendati nella trasformazione
dal PCI al PD, sia, per quanto in misura diversa, al centro, specie con i legami fra CISL e i vari partiti figli della
DC, PD compreso, fino ad arrivare all’appoggio a Monti (senza dimenticare i rapporti, specie più recenti, fra
centro-destra ed UGL, e quelli fra sinistra radicale e sindacati di base), ci si troverebbe di fronte ad una
sostanziale e perdurante egemonia nella direzione che va dai partiti ai sindacati. Le influenze inverse, questa
un’altra ipotesi del lavoro, cioè quelle che vanno dai sindacati ai partiti, sarebbero invece addirittura diminuite
rispetto al periodo in cui le lotte operaie e il ruolo di rappresentanza del sindacato avevano un effetto non
trascurabile sulle scelte politiche dei partiti, non solo del PCI. Tutti i recenti e svariati movimenti interni al
sindacato, sia nell’ottica di trasformazione dall’interno dei partiti di riferimento, sia in quella di creazione di
nuove formazioni elettorali, sia ancora in quella di disaffiliazione e avvicinamento di protesta a partiti-movimento
quali la Lega Nord prima, e il Movimento 5 Stelle poi, sembrano infatti, periodicamente, dopo un breve tratto e
dopo aver prodotto effetti spesso trascurabili, rientrare nei ranghi delle più o meno consolidate affiliazioni
partitiche, con solo qualche aggiustamento e rimescolamento dovuto alle mutazioni del sistema partitico italiano.
      Sotto quest’ultimo aspetto, si tenta di rispondere alla questione se emergano differenze nel rapporto fra
partiti e sindacati nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, e in quello dalla Seconda Repubblica alla
recente situazione, da alcuni (troppo?) presto ribattezzata Terza Repubblica, nella quale il quadro politico appare
nuovamente cambiato. L’ipotesi è che i sindacati, pur mantenendo sostanzialmente inalterata l’affiliazione e la
contiguità rispetto a determinati partiti di riferimento, e anzi proprio per tale motivo, risentano tuttavia, nelle loro
strategie di azione collettiva, del posizionamento reciproco e delle alleanze anche contingenti fra questi partiti. In
particolare si guarda all’influenza del posizionamento dei partiti di riferimento all’interno o all’esterno della
maggioranza parlamentare, per verificare il relativo posizionamento dei sindacati rispetto alle strutture della
concertazione.
      Si ripercorrono così: le difficoltà per l’unità sindacale nel periodo della conventio ad excludendum del PCI, in cui
i partiti di riferimento delle sigle confederali si trovavano su versanti apposti di maggioranza e opposizione (fatto
salvo il periodo particolare del “compromesso storico”, non a caso contrassegnato dalla prima vera stagione di
patti triangolari); passando poi alla situazione della Seconda Repubblica, caratterizzata da un’alternanza tra le fasi
che sono state definite “periodo d’oro della concertazione all’italiana”, quando al governo stava il nuovo centro-
sinistra in cui trovavano casa i partiti cui si rifacevano tutti e tre i sindacati confederali, e le fasi di politica
economica per decreto e conflitto di lavoro, quando al governo stava il centro-destra e i partiti di riferimento dei
sindacati confederali si trovavano tutti all’opposizione; arrivando infine alla situazione attuale di maggioranze
allargate, con la sorta di nuovo compromesso storico che la caratterizza e l’assenza di significativo conflitto di
lavoro (se non da parte delle sigle di base e di coordinamenti che si auto-definiscono autonomi sia rispetto ai
partiti sia rispetto ai sindacati) pur in presenza di nuove scelte politiche anti-labour attuate per decreto.

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2. Una “narrazione densa”
      L’Italia è stata a lungo portata ad esempio come eccezione di rilievo a quello che era il trend concertativo
degli anni ‘70 [Regini 1984], per quanto anch’essa non fu affatto esente da tentativi, rivelatisi in gran parte
infruttuosi, di regolazione tripartita. Sempre l’Italia, poi, rovesciando quella che sembrava dover essere la propria
tradizione consolidata, si è posta come caso paradigmatico della ripresa neocorporativa degli anni ‘90. Il modello,
neocorporativo [Schmitter 1974; Lehmbruch 1977], lungi dall’avere radici deterministicamente stabilite dalle
tradizioni politiche peculiari di ogni paese, dovrebbe la sua più o meno parziale o completa applicazione concreta
ad una serie di concause [Panitch 1979].
      Una delle questioni più rilevanti, a proposito dei rapporti intercorrenti fra sistema politico e concertazione,
consiste indubbiamente nel grado di ‘collateralismo’ esistente fra partiti politici e sindacati. I primi sarebbero
l’espressione più compiuta della rappresentanza politica, e i protagonisti principali di un modello democratico-
parlamentare pluralista, i secondi un riferimento cardine della rappresentanza funzionale, e attori essenziali di un
assetto neocorporativo. Eppure, tra i due sistemi di aggregazione esisterebbero molteplici e vicendevoli rapporti
di influenza, a significare anche il carattere parziale delle strutture corporative [ibidem]. Queste andrebbero infatti
a sovrapporsi alle strutture partitiche esistenti, senza per questo sostituirle, come già aveva notato Lehmbruch
[1977]. L’influenza sarebbe reciproca, ma, in particolar modo in Italia, prevalentemente diretta dai partiti nei
confronti delle loro confederazioni di riferimento. Di qui l’interesse che il tema dell’autonomia sindacale ha
attirato su di sé da parte degli studiosi; autonomia che sarebbe da considerare, secondo Pizzorno [1980], nei
confronti dei vari apparati nei quali lo Stato, latamente inteso, si articola. Nonostante ciò, nota Leonardi [2003],
nella storia italiana l’autonomia sindacale sarebbe stata sempre declinata solo nei confronti dei partiti politici.
Questo sarebbe conseguenza della forte dipendenza del lavoro organizzato nei confronti di questi ultimi, sin dalla
ricostruzione della CGIL nel Patto di Roma del 1944.
      L’obiettivo qui è dunque di approfondire quella che è ritenuta una delle più importanti fra le potenziali
variabili intervenenti nella spiegazione dell’offerta di concertazione, ovvero i condizionamenti del sistema politico
sulle strutture della concertazione. Per fare ciò si è deciso di prendere in considerazione proprio il particolare
caso dell’Italia, ed analizzare in prospettiva diacronica l’evoluzione delle pratiche neocorporative in esso
riscontrabili, e insieme l’evoluzione di quelli che sono i singoli attori coinvolti nel processo, oltre ai rapporti di
forza e ai condizionamenti vicendevoli intercorrenti tra loro. Si è così riscontrata una possibile periodizzazione
che ricalchi proprio le presunte fra Prima e Seconda Repubblica e la situazione delineatasi a partire dal 2011,
trovando poi che all’interno di tali intervalli esisterebbero ulteriori sotto-cesure, riconducibili in larga parte
proprio ai condizionamenti provenienti dal sistema politico, e in particolare alla politicizzazione delle parti sociali.
A partire da tale andamento storico, si cercherà quindi di trarre quelli che sembreranno i punti salienti di contatto
ed influenza con il sistema politico, nei tre periodi e in generale, che avrebbero determinato in larga parte
l’evoluzione peculiare della “concertazione all’italiana” [Salvati 2000].

     3. La Prima Repubblica

      1945 – 48: Governo di unità nazionale e debolezza degli attori
      Nel 1944, ancor prima che i sindacati fascisti fossero ufficialmente soppressi, i maggiori partiti del CLN
(PCI, PSIUP e DC) firmarono il c.d. Patto di Roma, attraverso il quale fu fondata la CGIL. La nuova
organizzazione «nasceva dunque dall’alto e dal centro tramite negoziati tra partiti politici» [Maraffi 1994].
L’impronta partitica risultava fortissima: la CGIL si configurava come l’associazione di massa che, in campo
sindacale, doveva portare avanti la politica dei partiti di massa, vale a dire la ricostruzione economica. La
confederazione divenne per tale via assai dipendente dai partiti e, per altro verso, fortemente centralizzata, in un
periodo in cui tutte le forze politiche si trovavano sullo stesso versante antifascista.
      In questo contesto poteva, forse, sembrare semplice la dichiarazione d’intenti di Giuseppe Di Vittorio nel
1947, che descriveva la confederazione come «una unità di carattere sociale che sovrasta le stesse differenze di
opinione», «una base essenziale di principio che sostiene l’unità dei lavoratori di ogni categoria», i quali «possono
essere divisi da ideologie, da questioni di opinione politica, e di appartenenza a differenti partiti politici», ma al di
là di ciò si trovano uniti nell’identità della condizione sociale [cit. in Terzi 2003a].
      Non appena il sistema partitico sarà sconvolto dalla contrapposizione DC/sinistre, tuttavia, ciò andrà a
minare anche l’unità sindacale. Tale dichiarazione di unità di interessi dei lavoratori si dimostrerà nel corso dello
stesso 1947, con il ritorno di De Gasperi dagli USA e la cacciata delle sinistre dal governo di unità nazionale,
semplicemente un libro dei sogni, e vedrà il sindacato dividersi proprio come riflesso della fine dell’unità di
interessi dei partiti [Golden 1988].
      Qualcosa di simile, peraltro, accadde anche sul versante datoriale con la fine del monopolio della
rappresentanza goduto da Confindustria durante il regime autoritario [Maraffi 1994]. Alla caduta di quest’ultimo

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infatti, la reintroduzione della libertà d’associazione portò alla frammentazione delle rappresentanze
imprenditoriali, e tutti gli interessi non prettamente industriali lasciarono Confindustria, cui erano stati obbligati
ad aderire, per creare proprie federazioni. Queste, per di più, non monopolizzavano i loro specifici interessi, ma
vennero invece a crearsi formazioni duali nell’ambito dello stesso settore, seguendo i cleavages partitici.

      1948 - 60: Centrismo e debolezza delle organizzazioni degli interessi
      La situazione si rivoluzionò con l’estromissione delle sinistre dal governo nel 1947, da parte di De Gasperi.
Nello stesso anno, si confermò la perdita di consensi del PSI a seguito della scissione operata da Saragat, che
andò a formare il Partito Socialdemocratico e strinse alleanza con la DC. L’inversione di tendenza fu confermata
dalle elezioni politiche del 1948, nelle quali si fece sentire il nuovo clima della Guerra Fredda. In quell’anno iniziò
dunque l’incontrastato dominio del centrismo e la conventio ad excludendum del PCI, con tutte le ripercussioni che
ciò comporterà anche dal punto di vista delle relazioni industriali [Lange 1979].
      Nell’immediato, l’esito fu una forte contrapposizione sociale, con il paese praticamente spaccato a metà
dalle fratture ideologiche. Questo, di per sé, fa venir meno uno dei requisiti essenziali delle pratiche concertative,
ossia la volontà a collaborare [Panitch 1979]. Tali fratture si fecero sentire già dallo stesso 1948, anno in cui, a
seguito di un attentato rivolto a Togliatti, milioni di lavoratori scesero in sciopero in tutta Italia. Conseguenza
immediata di questa vicenda fu la scissione della CGIL, da cui si staccò la componente cattolica. Questa, che
contestava la legittimità dello sciopero politico indetto dalla corrente “rossa”, andò a formare quella che di lì a
poco diventerà la CISL, fortemente dipendente dalla DC. Negli stessi anni si staccò anche la UIL, espressione
delle correnti socialdemocratica e repubblicana. Il fronte sindacale quindi, già di per sé debole ed impotente, si
frazionò in tre distinte confederazioni fortemente dipendenti dai partiti, e di conseguenza, per loro stessa natura,
profondamente divise sul piano operativo [Forbice 1990].
      L’organizzazione egemonica rimaneva la CGIL, la quale però derivava la propria forza non dalla presenza
organizzativa in fabbrica, quanto piuttosto dalla sua posizione simbolica fortemente politicizzata e dal sostegno
del PCI. Tale sostegno, se da un lato sopperiva alla inconsistenza logistica del sindacato, dall’altro lo trascinava
con sé nell’emarginazione. Come nota Lange [1981], la CGIL era debole e incapace di ottenere benefici dallo
Stato (il quale veniva ad essere sempre più compenetrato dalle strutture della DC) in parte perché PCI e PSI
erano anch’essi esclusi. Si venne a creare quindi una situazione in cui la CGIL era emarginata perché subordinata
ad un partito emarginato (il PCI), e la CISL scarsamente autonoma perché subordinata al partito-Stato (la DC)
[LaPalombara 1957; per una visione alternativa, cfr. Manoukian 1968]. Contrariamente al mondo del lavoro,
invece, le organizzazioni degli imprenditori avevano accesso privilegiato e continuo a tale party-government, e
grande facoltà di influenzarne le scelte [LaPalombara 1964].
      Alla metà degli anni ‘50, tuttavia, venne meno la convergenza tra la Confindustria e la DC, inaugurata
all’indomani delle elezioni del ‘48. Nel partito dominante infatti, si affermò un nuovo ceto politico, vicino al neo-
segretario Fanfani, orientato a rendersi indipendente dagli industriali e a rafforzare il ruolo dello Stato in
economia. Il fine ultimo era quello di sostenersi autonomamente dal punto di vista organizzativo e trovare fonti
di finanziamento meno vincolanti, riducendo così la pressione dei tradizionali gruppi di potere sulle linee del
partito [Lanzalaco 1998]. La strategia mirava sostanzialmente a spezzare la coesione degli imprenditori come
attore collettivo organizzato e, di conseguenza, a ridurre il loro potenziale di influenza sul partito. Ciò avvenne
innanzitutto con il distacco, fortemente promosso da DC e CISL, delle imprese a partecipazione statale dalla
Confindustria e la successiva creazione dell’Intersind. Il fatto fu un duro colpo per l’organizzazione, in quanto
comportò una riduzione della capacità di parlare a nome di tutta l’industria italiana [Maraffi 1994].
      Esiste tuttavia un secondo fattore che minò la forza collettiva della maggiore confederazione industriale, e
questo è la cattura delle microimprese operata dai due maggiori partiti, nel quadro della loro strategia di conquista
politica del ceto medio indipendente. Tale strategia ebbe il suo apice nell’approvazione della legge sull’artigianato
(1956), che istituzionalizzava la differenziazione delle imprese in base alla dimensione piuttosto che al settore: le
aziende fino a 10 dipendenti potevano richiedere lo status di imprese artigiane, il che comportava tutta una serie
di vantaggi. Si può capire come tale provvedimento costituì uno stimolo attraente a rientrare in questa categoria,
il che implicò la nascita di associazioni di rappresentanza artigiana e agricola collegate ai due maggiori partiti, a
scapito della Confindustria1 [ibidem]. La quale dal quel momento si trovò, è vero, ad avere anch’essa un rapporto
che Mattina [1991] definisce simbiotico con un partito politico, il PLI, il quale però ha sempre avuto nella storia
repubblicana un peso abbastanza trascurabile, o comunque non comparabile con l’influenza diretta sulla DC su
cui Confindustria poteva contare alle prime battute della vita democratica italiana.

1 Situazione ricomposta in gran parte solo nel 2010, con la nascita della Rete Imprese Italia che riunisce le piccole e medie imprese

al di fuori di Confindustria, sancendo la fine del collateralismo ai partiti almeno per il versante datoriale del lavoro [Lanzalaco
2010].

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1960 – 67: Dominio del governo e assenza di concertazione
      Negli anni ‘60 questa situazione si andò modificando, con l’entrata del PSI nei governi DC e la nascita, nel
1962, del “centrosinistra”. Si rafforzò così nelle forze riformiste governative la convinzione che fosse tempo di
abbandonare la strategia di esclusione per una di maggiore inclusione dei sindacati nel processo politico [Regalia
e Regini 1998; Bordogna e Cella 2000]. Anche i sindacati, da parte loro, adottarono un atteggiamento più
possibilista rispetto al dialogo con il governo. La stessa CGIL si pronunciò in maniera molto più articolata
rispetto al PCI, lasciando intravedere maggiori disponibilità [Bordogna e Provasi 1998].
      E questo nonostante tali timidi tentativi, pur compiuti da entrambe le parti, fallirono miseramente: il
centrosinistra diede vita, è vero, ad una pratica di consultazione sindacale, ma questa fu sporadica e priva di
effetti sul policy making, soprattutto perché la spinta riformista del centrosinistra si infranse contro l’opposizione
del PLI e dei settori più conservatori della DC. Per la prima di una lunga serie di occasioni, quindi, la maggiore
disponibilità sindacale sarebbe da ascrivere ad una maggiore vicinanza politica con i partiti che formano la
maggioranza di governo, in questo caso con l’entrata del PSI e la formazione del centrosinistra, che non a
considerazioni strettamente legate all’azione sindacale.
      Pure il versante datoriale non era esente da carenza di legittimazione e inclusione. La nazionalizzazione del
settore elettrico, voluta dai socialisti come dimostrazione di apertura nei loro confronti, era solo l’ultimo dei colpi
che la Confindustria aveva subito negli anni recenti, a partire dalla strategia di autonomia della DC negli anni ‘50.
Questa comportò l’allontanamento dalla confederazione di quella che era la coalizione degli imprenditori elettrici,
che l’aveva controllata sin dalla sua rifondazione. La Confindustria vide dunque riconfermato il suo declino
organizzativo, rispondente in larga parte a processi politici interni ai partiti, e tentò di reagire al declino della sua
influenza sui centri pubblici di decisione addirittura attraverso l’azione politica diretta. Promosse infatti, insieme
ad associazioni minori, la nascita della Confintesa, allo scopo di indirizzare il voto verso il Partito Liberale.
Questo nelle intenzioni avrebbe dovuto rendere visibile alla DC che gli industriali avevano ritirato l’ampia delega
che le avevano concesso sin dal ‘48. L’azione fallì perché priva di quella base di massa che avrebbe potuto essere
garantita dalle microimprese, la cui rappresentanza era però stata sottratta dalle organizzazioni facenti capo alla
DC e al PCI [Maraffi 1994].

      1968 – 74: Supremazia dei sindacati sui partiti e prevalenza del conflitto
      La duplice condizione di sottopotere, nei confronti sia della base che del sistema politico, indusse la
leadership sindacale ad una strategia di movimento [Alberoni 1979; Gentile 2011] che scaturì, nel 1969, dalla
decisione di appoggiare le spinte rivendicative maturate nel ‘68. È vero che tutti i paesi occidentali conobbero in
quel periodo una ripresa della conflittualità, ma la forza e l’intensità del conflitto industriale nel nostro paese ha
reso quello italiano un caso del tutto specifico [Bordogna e Provasi 1998]. Le lotte operaie, mentre si fermavano
in molti paesi ad un risvolto minoritario di quella che era la conflittualità sociale del ‘68, di stampo soprattutto
studentesco, affermarono in Italia tutta la propria imponenza [Crouch e Pizzorno 1977; Tarrow 1989]. È quello
che accadde a partire dall’Autunno Caldo, autunno che, in verità, si dispiegò per alcuni anni con forme di lotta
radicali e proliferazione della conflittualità aziendale, spesso sottratta al controllo del sindacalismo confederale
[Regalia, Regini e Reyneri 1977]. Si venne così a creare un modello organizzativo e contrattuale fortemente
decentrato, di conflittualità spinta verso l’arena del mercato e il sistema delle imprese da una parte, e verso quella
di relazioni con i pubblici poteri impostate in termini nettamente contestativo-vertenziali dall’altra [Pizzorno,
Reyneri e Regini 1978], con effetti che si esercitarono ben al di là delle relazioni industriali in senso stretto
[Bordogna 1985].
      Sebbene secondo Cella [1985, 82] sia piuttosto parziale imputare tale peculiarità semplicemente alle
particolarità ideologiche del sindacalismo italiano, è anche vero che quello delle relazioni industriali in Italia a
quel tempo continuava a configurarsi come un sistema «nato e concepito in un periodo di debolezza sindacale e
di controllo politico esterno più o meno esplicitamente repressivo». Non vanno dimenticate le caratteristiche di
un sistema politico che, privo di alternanza, non ha offerto periodi di tregua tra sindacati e governo, o
spostamenti di obiettivi tipici delle relazioni industriali all’interno della sfera politica. In questi anni è avvenuto
piuttosto il contrario: «una parte considerevole della azione di sciopero è stata dedicata a sostenere obiettivi tipici
del mercato politico trasferiti entro la sfera delle relazioni industriali, con la speranza di un loro più accelerato,
adeguato, democratico soddisfacimento» [Bordogna 1985].
      Anche il sindacato, infatti, si situa in quella tendenza all’organizzazione di movimento propria della fase
storica [Alberoni 1979]. Molte forze sociali si mostrarono sempre più riluttanti a delegare ai partiti la
rappresentanza dei propri interessi, a causa del cattivo funzionamento del sistema partitico e parlamentare, e delle
mancate riforme promesse dal centrosinistra. Fu così che gruppi della società civile tentarono sempre più di
svolgere ruoli esplicitamente politici, di fare pressione e trattare direttamente col governo, tagliando fuori partiti e

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parlamento. Da tale trend non poteva esimersi lo stesso sindacato, soprattutto nei confronti del protettore di
sempre, il PCI. Questo, sebbene fosse all’opposizione, non fu immune a tale critica, e si ritrovò in difficoltà
quindi non solo dal lato della legittimazione, ma anche quale rappresentante di interessi. Ciò, come fa notare
Lange [1979], era particolarmente vero per i sindacati, che in forza del loro accresciuto potere contrattuale
poterono permettersi di allentare per la prima volta i legami tradizionali coi partiti.
      Questa politicizzazione del lavoro organizzato dovuta alla accresciuta forza, però, invece di condurre a
forme di concertazione come pian piano avvenne in vari paesi dove il sindacato già in precedenza aveva un certo
potere, portò in Italia piuttosto ad una sorta di pansindacalismo conflittuale, che le organizzazioni cavalcarono
per crearsi un maggior potere contrattuale ed uscire finalmente dalla loro condizione di debolezza rispetto ai
partiti. Da parte governativa nacque per la prima volta una seria domanda di concertazione, in quanto l’esecutivo
dovette riconoscere che il sindacato che aveva ora di fronte era assai più forte di quanto fosse mai stato, e che
una strategia di pura repressione non era più attuabile. Mancò totalmente, tuttavia, l’offerta di concertazione della
parte sindacale, frustrata dalla mancata inclusione perpetuata anche sotto il centrosinistra. Come ha notato Salvati
[2000, 452], «innescata dal movimento degli studenti, in modi largamente imprevisti dagli stessi leader sindacali si
stava sviluppando una fase di rivendicazioni e di lotte di intensità straordinaria: era il momento tanto atteso per la
costruzione di una organizzazione sindacale degna di questo nome, radicata nelle fabbriche e capace di
contrattare». Sfruttare questa inattesa opportunità, però, significava rinfocolare la lotta, mettendosi alla testa del
movimento piuttosto che frenarlo con obiettivi di moderazione salariale. Impossibile impegnarsi in una politica
dei redditi, come contemporaneamente faceva un sindacato forte e pienamente riconosciuto come quello dei
paesi scandinavi, rappresentativo e ben organizzato. Tale rappresentatività ed organizzazione il sindacato italiano
doveva però crearsela, invece, sfruttando proprio questa occasione. Assecondando, cioè, la radicalità della
potenziale base: accettare il dialogo, in quel momento, sarebbe verosimilmente equivalso ad alienarsela
definitivamente.
      In tale clima quindi, il binomio forza/antagonismo del lavoro organizzato diede vita a numerosi ed
importanti provvedimenti in materia lavoristica, ma questi furono concessi “gratis” dai governi. Non si verificò
in sostanza alcun do ut des tipico dello scambio neocorporativo, dato il rovesciamento dei rapporti di forza del
periodo precedente. Era adesso un sindacato forte a dettare legge a governi deboli, in quello che, per usare le
parole di Salvati [ivi, 454], può essere definito come «policy-making imposto». Ciò che si venne a creare in quegli
anni in Italia è, secondo Lange [1981], l’emblema di come il ricorso allo Stato da parte del sindacato possa anche
assumere forme pansindacaliste piuttosto che neocorporative. Esso ottenne infatti le riforme mediante la
mobilitazione di massa (o la minaccia della stessa) per ottenere la posta più alta possibile nella contrattazione
diretta con il governo, e rifiutando esplicitamente di partecipare a qualsiasi accordo che avesse coinvolto anche la
controparte industriale. Un tale atteggiamento, peraltro, era fortemente osteggiato dal PCI, il quale vedeva, nel
fronteggiarsi diretto sindacato/governo, una procedura che avrebbe scavalcato i poteri deliberativi di quel
Parlamento che offriva al partito, escluso dal governo, l’unica possibilità di interferenza nel policy-making. Questo
avrebbe privato il PCI di quello che era in pratica l’unico riconoscimento concessogli: il ruolo di controllo nei
confronti di un sindacato che aveva rappresentato, fino a quel momento, la sua “cinghia di trasmissione”.
      Il sindacato, che tra l’altro conobbe un riavvicinamento fra le confederazioni, divenne l’attore politico più
importante, con le cui decisioni gli esecutivi dovettero scendere a patti. Si può ricordare ad esempio la caduta,
nel 1970, del terzo governo Rumor in seguito ad uno sciopero generale, l’impossibilità di varare il c.d.
“decretone” ad opera del governo Andreotti, l’ascesa al governo di una nuova coalizione di centrosinistra il cui
programma politico fu in ampia parte determinato dalle scelte sindacali. Una vera forza politica che venne a
supplire a quella partitica, oggetto in quegli stessi frangenti di una critica dissacrante dal movimentismo. Il
sindacato invece, in quanto movimento, venne ad assumere una imponente forza anche dal punto di vista
simbolico agli occhi di tutta la sinistra, compresa quella extraparlamentare che tante critiche rivolgeva invece al
PCI [Alberoni 1979]. Tanto che i partiti del nuovo centrosinistra finirono per ricevere la loro investitura
sostanziale più dai sindacati che dal Parlamento.
      Su tali basi, Alberoni [ibidem] definì la rinascita del centrosinistra come «periodo laburista». Secondo lui,
infatti, avvenne qualcosa di analogo al caso inglese [Quinn 2002], dove il sindacato «in quanto tale ha espresso il
proprio partito, il partito laburista; e una volta espresso il proprio partito, poi ha chiesto all’elettorato un mandato
parlamentare e governativo». In Italia non sarebbe stato possibile spingersi a tanto, in quanto già esistevano dei
partiti che si ponevano come rappresentanza politica dei lavoratori, e anche dei sindacati. Si pervenne comunque
a qualcosa simile nel momento in cui il PSI finì per accettare di porsi quale rappresentante del movimento
sindacale [Forbice e Favero 1968]. Così facendo però, esso incorporò in sé non soltanto la forza del movimento,
ma anche la sua intrinseca instabilità, tanto che il Partito Socialista «si è trovato nelle condizione di dover
dichiarare di non poter prendere alcuna decisione in contrasto con le decisioni dei sindacati. Ne derivava
un’inevitabile conseguenza: che era impossibile una sua ulteriore permanenza al governo», da cui infatti uscì nel

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1972. «Infatti, il fatto di trasmettere al governo senza mediazione le istanze che provenivano dal movimento
sindacale significava ogni volta mandare il governo in convulsioni» [Alberoni 1979, 262].
      Ben diversa era la posizione del PCI, ponendosi esso quale rappresentanza diretta dei lavoratori e non del
sindacato considerato qualcosa di inferiore al partito, sua cinghia di trasmissione. Ancora differente la situazione
della DC, che in virtù della sua base interclassista si ritrovò lacerata. Da una parte la sua sinistra, che agiva in
modo analogo al PSI, e la CISL, che mirava a dividere il partito riuscendo ad influire sulle sue scelte. Dall’altra la
sua maggioranza, che si contrapponeva frontalmente al sindacato tentando di dividerlo. In base all’analisi di
Alberoni, lo scontro partiti/sindacati può considerarsi concluso con il 1974, anno in cui il PCI riprese il controllo
della CGIL e la DC quello della CISL.

      1975 – 83: Compromesso storico e affermazione della concertazione
      Verso la metà del decennio, nell’ottica di contenimento e razionalizzazione dell’attività conflittuale, l’azione
istituzionale venne perpetuata dai governi ancora attraverso interventi specifici di carattere legislativo, miranti a
limitare direttamente l’esercizio del diritto di sciopero [Bordogna e Cella 2000]. Il vero punto di svolta risiede
però nel fatto che una simile strategia, tipica dell’intervento statale nelle relazioni industriali in Italia, era destinata
a lasciare il campo. Le politiche di repressione della conflittualità operarono infatti prevalentemente in via
indiretta e politica, favorendo «una riduzione di autonomia delle relazioni industriali, una loro tendenziale
subordinazione al sistema politico e per questa via una politicizzazione della conflittualità» [Bordogna 1985, 179].
Il risultato di questo passaggio fu un declino evidente della conflittualità, con scioperi di scopo prevalentemente
politico-dimostrativo e tra i meno aspri di tutto il dopoguerra [Bordogna e Provasi 1998].
      Lo spartiacque si ebbe probabilmente con l’intesa sul punto unico di contingenza, generalmente noto come
“scala mobile”, del 1975 [Lanzalaco 1998]. Le premesse per un efficace esercizio concertativo sarebbero dipese,
ancora una volta, anzitutto dal punto di vista partitico e di influenza sulle scelte della maggioranza da parte dei
partiti di riferimento dei sindacati. Su questo versante, infatti, sembrava essere giunto agli sgoccioli quel sistema si
conventio ad excludendum del PCI dall’esercizio del potere, che tante ripercussioni aveva avuto sulle relazioni
industriali. In un clima dominato dalla “strategia della tensione” e dagli strascichi terroristici dell’Autunno Caldo,
il colpo di stato in Cile del 1973 aveva offerto al segretario del PCI, Berlinguer, l’ultimo spunto per l’elaborazione
del “compromesso storico”, strategia che puntava ad un accordo di governo tra le forze democratiche del paese.
Tale apertura mirava a creare un terreno d’intesa per garantire, in quel delicato momento, stabilità di governo e
coesione nazionale. Sul piano concreto, l’intesa si tradusse in un accordo parlamentare tra maggioranza e
opposizione per la formazione di due governi a guida democristiana, definiti di solidarietà nazionale, che si
ressero il primo, nel 1976, sull’astensione dei comunisti e dei socialisti, il secondo, nel 1978, sull’appoggio esterno
del PCI. La consapevolezza della crisi era ormai maturata, infatti, anche in settori della DC che facevano capo al
presidente Moro, spingendoli ad un accordo con il maggior partito d’opposizione. Entrato nell’area di governo, il
PCI abbandonò la sua tradizionale posizione anti-concertativa, premendo anzi per la realizzazione di accordi
triangolari [Hellman 1988; Blackmer e Tarrow 1975].
      La domanda di concertazione assunse allora forma stabile ed intensa: l’inflazione era un problema reale, e
tutte le forze politiche che sostenevano il governo (e non solo i comunisti) escludevano che si potesse porvi
rimedio in via unilaterale. L’unica strada politicamente disponibile era dunque quella dell’accordo con le parti
sociali. Ma soprattutto, come fa notare Salvati [2000], cominciò a delinearsi il requisito che sempre era mancato
nella storia italiana: l’offerta di concertazione da parte del sindacato. Le condizioni di collateralismo sembravano
particolarmente favorevoli. Durante i governi di solidarietà nazionale, infatti, il PCI spinse fortemente per una
strategia consensuale, allo scopo di trovare un terreno di intesa su cui scambiare il depotenziamento della scala
mobile con vantaggi politici ed istituzionali [Regalia e Regini 1998]. Tale strategia mise letteralmente in allarme
PSI e CISL, ma i comunisti erano le componente di gran lunga più rappresentativa della CGIL, e il loro
atteggiamento risultò determinante.
      L’apice di tale mutamento di prospettiva si ebbe però, nel 1978, con la “Svolta dell’Eur”, espressione più
esplicita di un processo di riflessione interna al sindacato che si mosse in sintonia con quella che era l’evoluzione
generale. Questa prevedeva, in sostanza, l’abbandono della simultaneità dell’azione sindacale nei due obiettivi
chiave: salario sul mercato economico e riforme su quello politico. Cioè a dire: subordinazione dell’iniziativa
contrattuale a quella politica, con conseguente spostamento di potere verso il livello confederale, cui venne
riconosciuto un ruolo di coordinamento e controllo. Si può notare come tutto ciò fosse in linea con gli intenti del
PCI in ordine alla riduzione della conflittualità, ma si può anche constatare come questo avvenisse proprio nel
momento in cui l’esperimento di solidarietà nazionale si avviava nella sua fase di declino, dopo l’assassinio Moro.
Tale sfasatura di tempi tra vicende delle relazioni industriali ed eventi del sistema politico rappresenterebbe,
secondo Bordogna [1985], una delle anomalie ricorrenti dell’esperienza concertativa italiana, ma starebbe
comunque ancora una volta a dimostrare non solo la correlazione fra le due, ma anche la direzione causale di tale

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correlazione: cronologicamente prima avvengono i mutamenti nel campo partitico, e solo successivamente le
strutture della concertazione prendono atto e reagiscono di conseguenza.
      Ancora una volta, inoltre, la disponibilità sindacale pare essere legata più alla collateralità ai partiti di
riferimento, e alla loro collocazione a sostegno della maggioranza o all’opposizione, che non nei risultati
realmente ottenuti da tale maggioranza. Cioè nel suo volere, o potere, attuare realmente policies in linea con gli
obiettivi del sindacato. Tutto questo fiorire di accordi triangolari, infatti, avrebbe in realtà condotto a ben miseri
risultati, principalmente a causa dell’intrinseca debolezza degli esecutivi, nel loro essere formati da maggioranze
instabili ed eterogenee [Salvati 2000]. Molti altri accordi, dopo essere stati siglati dall’esecutivo con le parti sociali,
incontrarono perciò in sede parlamentare ostacoli tali da non riuscire ad essere tradotti in legge, perdendo così di
ogni efficacia [Regalia e Regini 1998]. Nonostante la domanda di concertazione di governi deboli si infrangesse
spesso contro la loro impossibilità di controllare la propria maggioranza parlamentare frammentata, tuttavia, per
tutto il periodo in cui il PCI rimase vicino all’area di governo i sindacati, CGIL in primis, non rimisero mai in
discussione la propria offerta di concertazione.
      Questo non significa che, anche in questo periodo e a causa dei mutati rapporti di forza del periodo
precedente, una parte del fallimento non fosse addebitabile anche ad influenze di tipo inverso, dai sindacati ai
partiti. I governi non erano abbastanza autorevoli da imporre al sindacato soluzioni che questo trovasse
inaccettabili; essi erano, nelle parole di Salvati [2000, 456], «deboli nell’assetto istituzionale previsto dalla
costituzione, composti da maggioranze instabili e impopolari nel paese, formati da partiti prevalentemente
orientati a sinistra –e una sinistra in cui il processo di revisione ideologica che si mise in moto negli anni
successivi era ancora ai suoi inizi-, con legami fortissimi con il sindacato». Non stupisce quindi che essi
tendessero ad assecondare quel tanto di offerta di concertazione cui il sindacato era disponibile.
      Concludendo, si ebbero nel periodo considerato i primi tentativi di dare vita ad un assetto di concertazione
simile a quelli nord-europei. Secondo Salvati, la seconda metà degli anni ‘70 rappresenterebbe una tappa
importante sulla strada che condusse alla c.d. “concertazione all’italiana”. Le conquiste acquisite in questa fase
non sarebbero state più troncate, infatti, in parte forse a causa del sistema politico peculiare.
La continua debolezza dei governi e la permeabilità istituzionale dello stato italiano, la mancanza di una netta distinzione tra
compiti delle istituzioni e compiti del sindacato e, più in generale, tra pubblico e privato, la presenza in parlamento di forze
politiche che assecondano il processo di compenetrazione tra sindacato e istituzioni, metteranno a frutto la grande “rendita”
guadagnata col rafforzamento organizzativo degli anni ‘70 in modi impensabili in altri assetti istituzionali caratterizzati da una più
nitida distinzione di ruoli. Nella buona sostanza, il sindacato diventa un elemento portante della “costituzione materiale”
dell’amministrazione pubblica del nostro paese e la concertazione uno dei pezzi dell’”ideologia italiana” [ivi, 457].
Affinché questi diventassero stabili però, sarebbero occorsi i presupposti messi in luce da Regalia e Regini [1998,
477]: «che tutti gli attori fossero capaci di mantenere nel tempo una logica di scambio generalizzato; che si
creasse una base di consenso durevole e diffuso delle parti sociali all’azione del governo; e che questo fosse
capace di attuare una selezione degli interessi, di razionalizzare e rendere coerenti i suoi interventi, e di garantire
l’attuazione delle proprie decisioni. Queste condizioni non si verificarono […], e si entrò così in una fase di
scambio “bloccato”».
      Non appena il PCI di Berlinguer dichiarò nel 1980 esaurita la fase della solidarietà nazionale, l’unità
sindacale toccò il punto più basso dalla sua nascita. Se pure il sindacato rimase fedele ancora per qualche tempo
agli impegni presi negli anni precedenti (almeno sino al Lodo Scotti del 1983), e le condizioni favorevoli alla
concertazione tutto sommato non vennero meno, ciò sarebbe tuttavia addebitabile alla tipica sfasatura nei tempi
fra mutamenti politici e reazioni sindacali posta all’attenzione da Bordogna [1985], essendo la svolta dell’Eur
sopravvissuta a quello che ne era uno degli obiettivi fondamentali: la piena assunzione di responsabilità di
governo da parte del PCI. Ma, ancora una volta, è impossibile non registrare come, una volta venuta meno la
solidarietà nazionale, i sindacati ritirarono presto gran parte della propria offerta di concertazione. Pur non
volendo sminuire, per questo, altre possibili spiegazioni al crollo della concertazione in quel periodo, prima fra
tutte lo spostamento dei rapporti di forza fra gli attori intervenuto a partire dalla contemporanea (alla fine del
compromesso storico) marcia dei quarantamila, svoltasi nell’ottobre del 1980 a Torino da parte dei quadri Fiat
contro le posizioni sindacali.

     1984 – 87: Ripresa della conventio ad excludendum e ripresa del conflitto
     In realtà, secondo Carrieri [1997], sarebbero già stati presenti nel 1983 i germi di quello che
rappresenterebbe il sostanziale fallimento della concertazione, incapace di riprodursi al di là dei buoni risultati di
fine anni ‘70 durante il periodo del compromesso storico, ossia al di là delle favorevoli condizioni partitiche. A
suo giudizio le parti arrivarono all’accordo del 1983 “riottose”, anche all’interno dello stampo campo dei
sindacati tornati a spaccarsi lungo fratture partitiche. Date queste basi, Regalia e Regini [1998] definiscono quella
del 1983 come intesa ad hoc, che non vincolava i comportamenti futuri delle parti e non ricercava una particolare

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coerenza. Con tali presupposti non si poterono sviluppare efficaci e coordinate strutture triangolari, e la
concertazione tentata dal 1984 produsse la drammatica rottura dell’unità sindacale, oltre a «non accordi» [Carrieri
1997, 9] continuamente tentati. Sarebbe dunque questo un altro caso in cui, seguendo Schmitter e Grote [1997,
186], proprietà associative e caratteristiche del decision-making non co-variano. I tentativi di concertazione infatti
continuarono, nonostante la CGIL avesse vistosamente modificato la propria disponibilità a parteciparvi, e
nonostante questo fosse avvenuto, ancora una volta, a seguito di mutamenti nei rapporti fra i partiti intervenuti
poco prima [Bordogna 1985].
      Le elezioni politiche del 1983 segnarono una netta sconfitta per l’egemonia della DC, che perse la guida del
governo che deteneva senza soluzione di continuità dal 1945, mentre il PCI aveva visto logorarsi la propria
immagine e funzione di cambiamento negli anni della solidarietà nazionale. Il PSI, viceversa, sotto la guida del
nuovo segretario Craxi, aveva dato vita ad un profondo processo di revisione ideologica che lo aveva portato a
schierarsi su posizioni più moderate e liberiste, e aveva visto incrementati i propri voti alle politiche del 1983. In
questa occasione nacque il primo governo a guida socialista, e si entrò in una fase di esecutivi più forti, basati
sulla formula politica del pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI). Come fa notare Salvati [2000], dunque, era
presente sia la domanda di concertazione, che proveniva da esecutivi più forti e attivi, sia l’offerta, questa volta
trainata soprattutto da CISL e UIL (oltre che dalla componente socialista della CGIL), cioè da quei settori del
sindacato, guarda caso, più vicini ai partiti di governo.
      Nel 1984 il governo Craxi propose un nuovo patto triangolare contro l’inflazione. Questa volta, tuttavia, le
tre confederazioni si divisero. Dato che la CGIL si rifiutava di firmare, il governo (che poteva contare sul
consenso delle altre due sigle e di Confindustria) decise di rendere obbligatorio per tutti il taglio di tre punti della
scala mobile per decreto (detto di S. Valentino). Il fallimento del metodo concertativo sarebbe da ricondurre, a
detta di Salvati [2000, 458], ancora una volta nel collateralismo partitico. Fallita la solidarietà nazionale infatti, il
PCI si lanciò in una strategia di dura opposizione al nascente pentapartito, il che, traslato sul piano delle relazioni
industriali, comportò una svolta nel suo atteggiamento nei confronti della concertazione. Questa inversione, dalla
ricerca di compromesso a totale irrigidimento, creò seri problemi alla CGIL, «stretta nella tenaglia tra
l’atteggiamento del partito (che assecondava pulsioni radicali assai estese all’interno stesso del sindacato) e
l’esigenza di perseguire l’unità d’azione colle altre confederazioni» [ibidem, p. 459]. Il dilemma non venne risolto in
tempo utile, e nel febbraio 1984 saltarono sia l’unità sindacale, sia il potere di veto sino ad allora goduto dal PCI
in materia lavoristica.
      Le confederazioni erano a loro volta sotto il tiro di alcuni gruppi interni, che dettero vita al c.d. “movimento
degli auto-convocati”. Questi domandavano maggiore democrazia interna, sostenendo che «la politica di
contenimento salariale adottata dai sindacati confederali non rappresentava veramente le preferenze dei
lavoratori e rifletteva semplicemente i fini privati dei burocrati confederali interessati ad aumentare la propria
influenza e visibilità a livello nazionale» [Baccaro 2000, 486]. Il PCI, specie fino alla morte di Berlinguer (il leader
già fautore del “compromesso storico”, ed ora, invece, della linea dura), perseverò nella sua opposizione radicale
al decreto di S. Valentino, appoggiando gli autoconvocati e promovendo manifestazioni di piazza, un’aspra
battaglia parlamentare e, nel 1985, un referendum abrogativo. La CGIL, come di consueto, inasprì a sua volta la
propria conflittualità adeguandosi alla linea del PCI, trovandosi però ad inseguire la conflittualità degli auto-
convocati sostenuti dal PCI e perdendo in questo modo potere negoziale [Bordogna e Provasi 1998]. Le
organizzazioni dei lavoratori si trovarono in difficoltà, quindi, a causa della rinascita dell’interferenza partitica e di
una forte crisi di rappresentanza, legata però anch’essa all’insoddisfazione della base per la precedente stagione
della moderazione sostenuta dai partiti.

     1988 – 92: Crisi della “Prima Repubblica” e ripresa obbligata della concertazione
     La situazione mutò ancora sul finire della Prima Repubblica. Non c’era solo la pressione dei mercati
finanziari e dei parametri europei allora in fase di definizione, a spingere verso la ripresa della concertazione, ma
anche i cambiamenti a quel tempo in corso all’interno del sistema partitico. La condizione più problematica si
riscontrava nel PCI, nel quale già da tempo era in discussione, dopo la morte di Berlinguer, la strategia di
opposizione intransigente che egli aveva praticato a seguito del fallimento della solidarietà nazionale. In questo
scontro interno, già difficile di per sé, si profilò la caduta del muro di Berlino, costringendo il PCI ad un
ripensamento profondo e ad una ristrutturazione organizzativa ed ideologica che lo condusse nel corso del suo
ultimo congresso, nel 1991, alla nascita del Partito democratico della sinistra (PDS). La nuova formazione nacque
con il progetto di proporsi come una forza politica riformista di governo, a prezzo della scissione dell’ala
intransigente che diede vita ad un nuovo partito, chiamato Rifondazione Comunista. Quest’ultimo si sarebbe
proposto, come il vecchio PCI, quale rappresentanza diretta dei lavoratori in sede parlamentare, al di sopra del
sindacato. In tale convulsa successione di laceranti eventi interni, la CGIL venne in pratica lasciata sola al suo
destino, e l’influenza del partito sul sindacato allentata.

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I governi tecnici, a partire da quello Amato I del 1992, portarono avanti una forte domanda di
concertazione tentando di sopperire con le parti sociali alla debolezza dei partiti. Con DC e PSI travolti da
Tangentopoli, e il PCI in piena trasformazione, i governi tecnici privi di legittimazione elettorale tentarono la via
della legittimazione sociale attraverso la domanda di concertazione. La crisi dei partiti di riferimento comportò
tuttavia anche un allentamento del controllo dei partiti sui sindacati, il che in questo caso comportò la nascita di
una seria offerta di concertazione da parte di questi ultimi.
      Tale offerta proveniva principalmente da CISL e UIL, le quali erano da tempo disponibili ad una
ridefinizione radicale degli accordi del ‘75, ma erano state impossibilitate ad agire dall’opposizione della
confederazione maggiormente rappresentativa, la CGIL, adesso invece isolata dai rivolgimenti interni al suo
partito di riferimento. Questa, lasciata libera di agire dal “disinteresse” del PCI/PDS, si riavvicinò agli altri
sindacati in ottica concertativa, ma per essa non fu comunque un passaggio agevole quello che portò alla disdetta
della scala mobile nel 1992: «anche se il partito non soffia[va] più sul fuoco, le componenti radicali interne
[erano] assai ostili a quella che [veniva] vista come una resa senza condizioni, ad un vero e proprio diktat di
Giuliano Amato che, come capo del governo, conduce[va] le trattative» [Salvati 2000, 462]. L’accordo però passò,
e, all’interno della CGIL, i residui dell’antagonismo sociale degli anni ‘70, galvanizzati poi dalla politica
berlingueriana degli anni ‘80, vennero sostanzialmente isolati in una pur robusta sinistra interna [ibidem].
      Con l’accordo del 1992, si sarebbe comunque ad un punto di svolta nella storia della concertazione in Italia.
Questo, infatti, giunse alla fine di un decennio di pressoché totale mancanza di intese triangolari, seguito
all’«accordo monco» del 1984 [Regalia e Regini 1998], e segnò quindi una sorta di introduzione [Regini e Regalia
1996] a quella “concertazione all’italiana” [Salvati 2000; Baccaro 1999], caso più tipico del «Sisifo corporatista»
descritto da Schmitter e Grote [1997], del “revival del neocorporativismo” [Crouch 1998, cfr. Leonardi 2013].

      4. I condizionamenti del sistema politico sulla concertazione nella Prima Repubblica
      Accornero [1975] proponeva già negli anni ‘70 di individuare quattro fasi nei rapporti fra sindacati e partiti.
Nel primo periodo (1944-53) il rapporto di dipendenza avrebbe accomunato tutte e tre le confederazioni, dopo
le scissioni dalla CGIL del 1948-49 avvenute anch’esse su linee politico-ideologiche. Nel clima della Guerra
Fredda, quando alle scelte politiche veniva attribuito un valore di “scelte di civiltà”, sembrava quasi naturale che i
partiti si vedessero riconosciuto un primato sull’azione sindacale. Oltre che differenziarsi per gli obiettivi e le
linee d’azione, CGIL e CISL erano differenti in quanto si richiamavano a diverse tradizioni ideologiche, di cui
erano depositari i partiti: è infatti in seno al sindacato marxista che avrebbe conquistato piena legittimità teorica la
nota tesi leninista sul sindacato quale ‘cinghia di trasmissione’ della linea politica di classe definita dal partito,
mentre la tradizione cui si rifaceva la CISL non contemplava invece una tale subordinazione. La sua natura di
sindacato anticomunista, però, la vincolava strettamente al ruolo svolto dalla DC nel sistema politico italiano
[Regalia e Regini 1998]. Il tema dell’autonomia sindacale, allora, sarebbe stato a lungo invocato dai sindacati c.d.
‘democratici’ (CISL e UIL), col solo scopo di screditare strumentalmente, dietro l’ambiguo velo della propria
presunta apoliticità, l’azione organizzata della CGIL. Questo mentre ormai, esplicitamente, si parlava di
‘collateralismo’ per descrivere i rapporti che anche tali confederazioni intrattenevano con, rispettivamente, DC e
PSDI/PRI [Leonardi 2003].
      Una simile dipendenza, comunque, non sarebbe stata semplicemente sintomo della collocazione ideologica
delle associazioni, bensì pure della loro debolezza organizzativa. A tale debolezza, per quanto riguarda la CGIL,
si sommava l’isolamento politico; appariva perciò conveniente, per mantenere lo scarso potere di cui godeva,
privilegiare l’unica risorsa che aveva a disposizione, cioè il sostegno del PCI. Questo si pose dunque il compito di
concorrere alla costruzione dell’organizzazione sindacale, giungendo a surrogare transitoriamente una presenza in
fabbrica che il sindacato non era ancora in condizione di esercitare. Per tali motivazioni, la CGIL accettò di far
prevalere obiettivi politici su obiettivi strettamente sindacali, anche se questa scelta non faceva che riprodurre,
secondo Regalia e Regini [1998], le condizioni che la rendevano debole, perché aumentava le divisioni tra le
confederazioni. Ma se il collateralismo partitico della CGIL poteva garantire ai suoi iscritti solo ‘incentivi di
identità’ basati sull’appartenenza ideologica, la CISL
traeva dal suo rapporto con il partito di governo una serie di ‘incentivi selettivi’ all’iscrizione (…), quali possibilità di impiego o di
carriera nelle aziende pubbliche o nell’amministrazione statale. Il legame con la DC, inoltre, consentiva alla CISL di esercitare una
certa influenza sulle scelte governative e parlamentari sui problemi del lavoro o della politica economica, e ancora maggiore
influenza sulle strutture burocratiche di diversi ministeri (ibidem).

     Nel periodo successivo (1954-61), che Accornero [1975] definisce “anni dell’immedesimazione”, i caratteri
di manifesta dipendenza avrebbero poi teso ad attestarsi su un livello di, appunto, immedesimazione, non scevro
di qualche primo segnale di parziale emancipazione dalle forze politiche di riferimento. Si tentò un
avvicinamento fra CISL e UIL, e, per quanto riguarda i rapporti fra queste due centrali e la CGIL, la CISL
avrebbe suggerito allora la formula: “marciare separati, colpire uniti”.

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Gli anni compresi fra la nascita dei primi governi di centro-sinistra e l’esplosione dell’Autunno Caldo (1962-
68), invece, segnerebbero una fase di «incubazione» per quella successiva, la più alta del sindacalismo italiano. La
fine del periodo più duro della Guerra Fredda, l’apertura a sinistra e la maggiore forza operaia, infatti,
consentivano una certa unità d’azione fra le confederazioni, e conseguentemente un’attenuazione dei legami
politici. Nella CISL, il collateralismo sarebbe stato contraddetto dalla sua iniziativa sindacale di tipo trade-
unionista, che confliggeva con la prassi interclassista dei governi della DC. La CISL scelse dunque la via del
political unionism, lottando dall’interno della DC per creare una corrente pro-labour che potesse trasformare il partito
[Gentile 2011]. In questo senso la CISL nel periodo d’oro dei sindacati riuscì non solo nel percorso
dell’autonomia dalla DC, ma addirittura in un’influenza inversa, dal sindacato al partito [Manoukian 1968;
Baglioni 1975]. Deve ricordarsi però del particolare momento storico, quando la prevalenza del sociale sul
politico permetteva persino a movimenti del tutto lontani dal sentire della DC, quale quello femminista, di
riuscire ad influenzarne le posizioni [Piccio 2013]. A maggior ragione la CISL, di fatto organo del partito, aveva
tali possibilità in una congiuntura storico-culturale tanto peculiare.
       Quanto alla CGIL, il primo segnale di relativa autonomia venne con la presa di posizione nei confronti dei
tentativi di programmazione promossi dal centrosinistra: mentre il PCI votò contro, i suoi parlamentari della
CGIL si astennero [Regalia e Regini 1998]. Una parziale indipendenza, dunque, che tuttavia sembrava ad
Accornero [1975] dover regredire verso forme più arretrate di riconfigurazione del pluralismo sindacale. Come in
occasione dell’unificazione fra PSI e PSDI (1966-68), cui si sarebbe voluto dar seguito con la nascita di un
“sindacato socialista”, frutto dell’unificazione fra UIL e componente socialista della CGIL. Si sarebbe trattato
insomma della riedizione di un tentativo risalente all’”accordo laico” del 1962 fra PSI, PSDI e PRI, volto ad
accelerare lo sganciamento politico dei sindacalisti socialisti della CGIL dalla corrente comunista. Un’ipotesi che,
oltre ad essere bocciata dai segretari socialisti della CGIL, sarebbe stata un tentativo di ripristinare dinamiche di
controllo partitico in una fase in cui andava invece maturando un orientamento in direzione opposta [Leonardi
2003].
       Gli anni 1969-79 rappresenterebbero poi gli “anni della dialettica” tra partiti e sindacati [ibidem], in cui le
confederazioni si presero, durante l’Autunno Caldo, la loro più ampia autonomia, per poi ricadere, pur in forma
più attenuata, sotto il controllo politico. In tale periodo il sindacato, in quanto movimento, assunse un ruolo
direttamente politico, che andava a scavalcare gli stessi partiti [Lange 1979; Alberoni 1979]. Conseguenza di ciò
sarebbe stata, nel 1969, la decisione di incompatibilità tra cariche sindacali e cariche politiche, e la prima reale
discussione a proposito dell’unità sindacale: su questi nuovi presupposti strategici prese il via, fra il 1970 e il 1972,
il processo che avrebbe portato ad un passo dall’obiettivo unitario. Fu tuttavia nella UIL, attraverso l’alleanza di
repubblicani e socialdemocratici, che l’ostruzionismo contro tale ipotesi si sarebbe rivelato esplicito e decisivo.
Nel 1972 i tre consigli generali unitari ratificarono quindi la nascita non del sindacato unitario, bensì di ciò che
era stato concepito come la second best solution: la Federazione CGIL-CISL-UIL; ma in ogni caso si sarebbe
trattato, come nota Baglioni [1998], di una «unità sindacale di fatto».
       Inizialmente i partiti avrebbero sostenuto la lotta “pan sindacalista”; anzitutto il PSI, che vi avrebbe trovato
una continuità con la politica di riforme da esso inutilmente perseguita negli anni ‘60 [Alberoni 1979]. A partire
dal 1973, tuttavia, si sarebbe assistito ad una ripresa di controllo da parte dei partiti. Nel momento in cui gli
effetti politici dell’azione sindacale divennero rilevanti, e il mantenimento di un forte potere contrattuale
incompatibile con gli equilibri macroeconomici, avrebbero acquisito progressivamente peso, a giudizio di Cella
[1979], i richiami ai ranghi da parte dei partiti di riferimento. Il PCI prese ad avanzare critiche ad una “lotta per le
riforme” che non diventasse una “politica delle riforme” condotta dai partiti, ed anche la DC, timorosa di perdite
elettorali verso sinistra e di conseguenti sconvolgimenti interni, si mosse in questa direzione. Inoltre, una volta
che gli accordi stipulati con l’esecutivo venivano trasformati in disegni di legge, il potere dei partiti tornava a farsi
sentire: in questa fase gli interessi colpiti dalle intese sarebbero riusciti ad esercitare la loro attività di lobbying sui
partiti stessi, affinché questi ponessero emendamenti e veti in sede di dibattito parlamentare. Da ultimo, la
mobilitazione sindacale non si sarebbe tradotta direttamente in mutamenti sul piano elettorale, come
mostrerebbero le elezioni del 1972. Ciò avrebbe tolto alle organizzazioni del lavoro una potente arma di
pressione nei confronti dei partiti, che avrebbero riacquisito in questo modo il loro primato di agenti di
mobilitazione [Regalia e Regini 1998].
       Tuttavia fu soprattutto l’avvicinamento del PCI all’area di governo, specialmente nel periodo della
“solidarietà nazionale” (1976-78), a togliere spazio all’autonomia sindacale. Questo avrebbe infatti costretto i
sindacati a ridurre il “globalismo rivendicativo”, ad evitare scioperi politici puramente dimostrativi, ad astenersi
dal mettere in discussione la politica economica di governi di cui “fanno parte” i partiti pro-labour. Il mercato
politico tornò a prevalere su quello contrattuale: per la CISL l’obiettivo sarebbe stato quello di non far precipitare
irrimediabilmente il potere democristiano, per la CGIL quello di favorire la partecipazione di un partito pro-labour
come il PCI ai governi delle larghe intese e del compromesso storico [Cella 1979]. Su tale sentiero si porrebbe la

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