Parole di Convenzione e di convinzione sulla disabilità infantile - Diritto.it

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Parole di Convenzione e di convinzione sulla disabilità
infantile
Autore: Marzario Margherita
In: Diritto civile e commerciale

Abstract: L’Autrice ci porta per mano nella comprensione della disabilità, “coatta” e “indotta”,
affidandoci alle parole giuridiche e letterarie che ne descrivono la condizione.

Con l’aumentare dei disagi aumenta anche l’impegno di associazioni e movimenti nell’elaborare carte (o
guide) dei diritti dei bambini in varie situazioni, tra cui i bambini disabili. Sarebbe sufficiente conoscere
(letteralmente “sapere insieme, o per mezzo di”) e concretizzare (letteralmente “aumentare insieme, o per
mezzo di”) la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia per tutelare adeguatamente anche i
bambini disabili. A tale proposito, si può provare a rileggere la Convenzione facendo riferimento a testi
non giuridici per dare sensibilità a un atto internazionale che, come tale, può sembrare distante e
distaccato dalla difficile realtà della disabilità.

“Ti guardo da dietro, la tua testa più allungata, fragile, di bambino, eterno bambino. Forse è stato il
forcipe a darle quella forma, vent’anni fa, quando sei nato. Hai i capelli corti, a spazzola, da rugbista, da
calciatore, da nuotatore, tu che di sport non ne hai mai fatto uno. Qua e là ne hai qualcuno di bianco, per
ricordare che appunto bambino non sei più, che sono passate l’infanzia e l’adolescenza, che adesso in
realtà saresti un uomo. Un uomo senza barba né baffi né voce scura, con la pelle rimasta come di neonato,
liscia e rosea, pallida a volte per la rabbia dei capricci, con le mani piccole e paffute, con l’improvviso
ridere birichino sulla tua faccia di Pulcinella, di Brighella, di Arlecchino, di burattino assorto in misteriosi
pensieri e misteriosi viaggi in solitudine dove non ti possiamo accompagnare mai” (la scrittrice Isabella
Dossi Fedrigotti). “Gli Stati parti riconoscono ad ogni fanciullo il diritto di beneficiare della sicurezza
sociale, nonché delle assicurazioni sociali, e devono prendere misure necessarie perché questo diritto
venga pienamente realizzato in conformità alla loro legislazione interna” (art. 26 par. 1 Convenzione).
Ogni bambino, ancor di più se disabile, ha bisogno di un sistema di sicurezza sociale perché la sua vita

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non diventi un viaggio in solitudine dove nessuno lo possa accompagnare. “Sicurezza”, da “sine cura”,
senza preoccupazione, “sociale”, da “colui che segue, che accompagna”: se si riuscisse ad avere
quest’atteggiamento concreto si realizzerebbe già in parte quella “presa in carico” di cui tanto si parla e
che non riguarda solo l’aspetto socio-sanitario, ma soprattutto quello umanitario.

“Sei capace di sorridere nello stesso modo totale e beato a un giocattolo, a un gelato, a un pallone, a un
triciclo o alla tua mamma, strizzando i tuoi occhi scuri da cinesino, quegli occhi che alla tua nascita ci
avevano un po’ meravigliato e che siamo andati a cercare invano negli album delle fotografie, nelle
immagini dei cugini, degli zii, dei parenti. Da chi li ha presi? C’interrogavamo, già sapendo che quelli
erano stati fatti per te, segno della malattia che, toccando a te, è toccata a tutta la famiglia: per
riequilibrare quali privilegi, per insegnare quale mistero, per guidarci – tu con i tuoi sorrisi silenziosi –
attraverso quale giungla?” (I. Dossi Fedrigotti). “[…] far raggiungere al fanciullo l’integrazione sociale e lo
sviluppo individuale più completo possibile, incluso culturale e spirituale” (art. 23 par. 3 Convenzione).
Sviluppo culturale e spirituale è quello che ci vuole soprattutto per i cosiddetti “normodotati”. E allo
sviluppo culturale e spirituale contribuiscono le differenze, (dal verbo latino “differre”, portare da una
parte all’altra), “ciò per cui o in cui una persona o una cosa si distingue o discerne dall’altra”.

“Ti accarezzo la guancia e i capelli con la stessa delicata incertezza con cui si accarezza un bambino nella
carrozzina. Sei nella carrozzella anche tu e mi chiedo se ti piace, se ti dà fastidio, se sei in grado di sentire
quello che vuol dire la mia mano, se sei capace di distinguere la carezza vera da quella fatta per
compiacere i genitori, i parenti, gli astanti. Ti prendo la mano che però raramente risponde, mi stringe:
come la mano di un bambino, appunto, che ha troppe cose da fare, deve giocare, toccare, assaggiare,
esplorare, e non ha tempo per indulgere in tenerezze, disturbato dalle attenzioni, infastidito da chi gli sta
addosso. Ti parlo qualche volta, ti dico delle parole, ma tu non ascolti, giri la testa, te le fai scivolare
addosso come se non sentissi, più interessato al mio portachiavi, agli orecchini, al bottone lucente della
mia giacca” (I. Dossi Fedrigotti). “Gli Stati parti riconoscono al fanciullo disabile cure speciali ed
incoraggeranno e garantiranno la concessione, nella misura delle risorse disponibili, ai fanciulli disabili in
possesso degli appositi requisiti ed a quanti se ne prendono cura, dell’assistenza di cui sia stata fatta
richiesta e che risulti adeguata alle condizioni del fanciullo ed alle specifiche condizioni dei genitori o di
altri che si prendono cura di lui” (art. 23 par. 2 Convenzione). Occorre aver cura non solo del bambino ma
anche dei suoi familiari e delle altre persone vicine, i cosiddetti “caregiver” (o “carer”), coloro che

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assistono senza compenso i congiunti.

“Quale linguaggio capisci tu che sai emettere solo gorgoglii di soddisfazione e pianti di disperazione
oppure a volte strani suoni usciti da chissà dove che ripeti e ripeti come una monotona canzoncina? Ti
piacciono i maglioni viola? Preferisci le camicie con le maniche corte? Hai freddo, hai caldo, ti dà fastidio
la lana sulla pelle, quale minestra mangi più volentieri? Ti va di essere trattato come un neonato, ripulito,
vestito, nutrito senza che tu possa mettere becco? E te ne rendi conto in realtà, t’infuri in silenzio vedendo
come vivono gli altri ventenni? O invece non conosci che te e la tua realtà di bambino seduto su una
carrozzella, che non parla, non cammina, non sa fare niente da solo, e noi intorno a te siamo altri, diversi,
alieni, stirpe extraterrestre capace di mille cose che ti sono precluse? Qualche volta pensiamo, grazie a un
sorriso o a un oggetto, di aver carpito il tuo segreto, illusi di essere sulla tua stessa linea, ma poi di nuovo
sfuggi” (I. Dossi Fedrigotti). Il linguaggio presuppone comunicazione ed un bambino disabile, come ogni
bambino, con la sua presenza comunica già delle esigenze particolari che esigono prestazioni altrettanto
particolari. “Tali prestazioni dovrebbero essere garantite, quando il caso lo richieda, tenuto conto delle
risorse e delle specifiche condizioni del fanciullo e delle persone responsabili del suo mantenimento
nonché di ogni altra considerazione pertinente in materia per quanto concerne la richiesta di prestazioni
fatte dal fanciullo o a suo nome” (art. 26 par. 2 Convenzione). Non è il bambino disabile che non capisce il
linguaggio comune ma egli è portatore, come ogni bambino, di un suo linguaggio, di “particolari bisogni”
(come si legge nell’art. 23 par. 3 Convenzione), ricordando che “particolare” (da “parte”) significa che
“appartiene in proprio a uno solo, o a certe persone, o a certe cose” ed ogni bambino è una “parte”
dell’universo dell’infanzia e l’infanzia è una parte, forse la più importante, della formazione della
personalità di ogni persona. I vari termini, “bambino”, “fanciullo”, “infanzia”, etimologicamente si
riferiscono all’incapacità di parlare, pertanto il prendersi cura di un bambino, di un qualsiasi bambino,
presuppone l’educazione al linguaggio e ai linguaggi. Oggi si assiste al dilagare di disturbi del linguaggio,
dal parlatore tardivo al mutismo selettivo, anche perché manca una vera comunicazione con i bambini: si
parla dei bambini, ma non si parla con loro e a loro. Con i bambini disabili bisognerà attivare ogni forma
di “comunicazione alternativa e aumentativa” (CAA).

“Sì, i medici hanno spiegato, hanno tentato di spiegarci da dove vieni e perché sei fatto così ma noi non
abbiamo capito, non sappiamo dove e quando è cominciato il tuo viaggio e quale sia la tua malattia. Noi ti
scrutiamo, ti studiamo per scoprire di più di te. Sappiamo che sei buono, sorridente, capriccioso solo

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quando vorremmo importi qualcosa che veramente non ti va, lo yogurt al malto, per esempio, invece di
quello ai mirtilli. Sappiamo che ti dà fastidio il sole, che hai la pelle delicata, che il tuo gioco preferito è il
vecchio triciclo rosso con le ruote gialle che ormai non si fabbrica più, che facciamo fatica a rintracciare
nei fondi di magazzino quando hai finito per distruggere il precedente. Sappiamo che tutti quelli che ti
conoscono dopo un po’ ti amano” (I. Dossi Fedrigotti). “[…] garantire che tutti i membri della società, in
particolare i genitori ed i fanciulli, siano informati sull’uso di conoscenze di base circa la salute e la
nutrizione infantile […]; sviluppare la medicina preventiva, l’educazione dei genitori e l’informazione ed i
servizi in materia di pianificazione familiare” (art. 24 par. 2 Convenzione). Occorre preparare i futuri
genitori ad un’eventuale o sospetta disabilità del nascituro anche perché, talvolta, la coppia va in crisi per
l’incapacità di affrontare e gestire insieme la problematica.

“Sappiamo anche delle tue malinconie e non riusciamo a sopportarle. Passi il cattivo umore che precede i
capricci, passino i momenti di rabbia quando butti via qualsiasi cosa ti trovi in mano, ma la tristezza no, la
tristezza di un adulto-bambino che se ne sta seduto composto sulla sua carrozzella con le mani
abbandonate e la testa un po’ ripiegata sul lato, ci spacca il cuore. Ti vorremo distrarre allora dai pensieri
che forse nemmeno pensi, dagli abissi nei quali stai guardando - o forse no -, dall’idea che magari ti sei
fatta per un attimo di essere diverso dagli altri. Ti vorremmo scrollare, farti giocare, rimetterti in forma e
in allegria” (I. Dossi Fedrigotti). “Cure speciali” e “particolari bisogni” del fanciullo disabile e “specifiche
condizioni dei genitori o di altri che si prendano cura di lui” (dall’art. 23 Convenzione): non siano solo
parole scritte in un atto internazionale ma siano iscritte in ogni atto quotidiano. Ogni bambino ha bisogno
di “cure speciali” affinché non resti “eterno bambino” o non diventi “adulto-bambino”.

“Di nuovo ti carezzo la testa, nostro sfortunato - o fortunato? - burattino e mi domando cosa sarà di te,
domani, dopodomani, quando non ci saremo più. È questo stesso pensiero, è vero, che ogni tanto ti rende
triste? «Non supererà l’adolescenza», «Non raggiungerà i vent’anni», dicevano i medici pensando di
consolarci. E invece eccoti qui, eterno bambino, mai pubere e mai giovane, malato sì, ogni anno di tutte le
malattie, ma di quelle dei bambini, non di quelle dei vecchi. Chi ti accudirà, chi ti curerà, chi baderà a te
comprandoti gli yogurt giusti e passandoti al setaccio carne, verdure, patate e minestre? Chi ti
imboccherà, chi ti massaggerà quei tuoi piedi rigidi, un trentasei scarso, che neppure le scarpe
ortopediche sono riuscite a far camminare?” (I. Dossi Fedrigotti). “Gli Stati parti devono promuovere nello
spirito della cooperazione internazionale lo scambio di informazioni adeguate nel campo delle cure

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sanitarie preventive, nel trattamento medico, psicologico e funzionale del fanciullo disabile, tra cui la
diffusione di informazioni concernenti i metodi di riabilitazione e servizi di formazione professionale,
nonché l’accesso a questi dati, allo scopo di consentire agli Stati parti di migliorare le loro capacità e
competenze e di ampliare la loro esperienza in questi settori” (art. 23 par. 4 Convenzione). Prima ancora
della cooperazione internazionale si deve e si può realizzare la cooperazione locale e interfamiliare.
Occorre avvolgersi tutti in un abbraccio terapeutico (o holding).

“Sì, c’è l’istituto, che già conosci, dove stai bene, ma non posso pensarti lì, bambino sempre più fragile e
anziano, nei tuoi momenti malinconici, con la testa ripiegata, le mani abbandonate, senza voglia di fare
niente. Del tuo futuro mai nessuno parla ma quelli che ti amano ci pensano in continuazione. Medici,
infermiere, ospedali, strutture, istituti: tutto è previsto, programmato. In verità però chi lo vuole un
bambino senza età seduto in carrozzella, che non cammina, non parla, non sa mangiare né andare in
bagno, non sa leggere né scrivere e nemmeno ragionare come tutti gli altri?” (I. Dossi Fedrigotti). “Gli
Stati parti riconoscono che un fanciullo fisicamente o mentalmente disabile deve godere di una vita
soddisfacente che garantisca la sua dignità, che promuova la sua autonomia e faciliti la sua partecipazione
attiva alla vita della comunità” (art. 23 par. 1 Convenzione). Si passi dal “curing” (cure) al “caring” (cura).

«Basta che il bambino si faccia il minimo graffio e scatta immediatamente l’allarme generale. La mamma
corre a prendere il cerotto, il papà si precipita con il disinfettante, i nonni sospirano: “Chissà, poverino,
come ti sei fatto male!”. Forse il piccolo non ci badava neppure, visto tanto allarmismo, tanta ansia, pensa:
“Già, devo proprio essermi fatto male!”. E giù a piangere… Il graffio di ieri era lo stesso di quello di oggi,
eppure nessuno vi faceva caso» (il pedagogista Pino Pellegrino). “[…] un fanciullo fisicamente o
mentalmente disabile deve godere di una vita soddisfacente che garantisca la sua dignità, che promuova
la sua autonomia e faciliti la sua partecipazione attiva alla vita della comunità” (art. 23 par. 1
Convenzione). Genitori e educatori devono educare nel senso indicato dalla Convenzione ogni bambino,
altrimenti rischiano di farlo diventare “disabile della vita”.

“Anche molti adulti, estenuati da un compito formativo al quale loro stessi non sono stati preparati, hanno
gettato la spugna, e si muovono tra un rigido proibizionismo che stenta però a trovare le ragioni che
fondano questo o quell’altro modo di agire, e un lassismo che tutto permette, disinibito all’eccesso,

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compiacente e complice. Quindi incapacità o rinuncia (le due cose si intrecciano vistosamente) ad attivare
un pur minimo accompagnamento educativo, con conseguente abbattimento di ogni segnaletica di
carattere etico” (padre Ugo Sartorio, giornalista e scrittore). Occorre recuperare il senso etico
(ricordando che “etica” ha la stessa origine di “etologia”, scienza che studia il comportamento degli
animali), altrimenti si rischia di far crescere una generazione di antisociali. Prendendo spunto dall’art. 23
della Convenzione, si può dire che è necessario far raggiungere al fanciullo l’integrazione sociale e lo
sviluppo individuale più completo possibile, incluso lo sviluppo culturale (in grandezza) e spirituale (in
profondità) per non renderlo un “disabile sociale”.

Nel par. 1 dell’art. 23 della Convenzione si legge l’espressione “fanciullo fisicamente o mentalmente
disabile” e un bambino può nascere tale o diventare tale o essere reso tale. “Fisico” etimologicamente
significa “riguardante la natura” e “mente” deriva da una radice col senso di “pensare, conoscere,
intendere”. Ad un bambino bisogna fornire tutte le competenze per affrontare la vita ed in primo luogo
quelle affettivo - relazionali. Dopo i risultati di uno studio della Harvard University, denominato “Progetto
Making Caring Common” (letteralmente “rendere comune il prendersi cura”) ad opera dello psicologo
statunitense Richard Weissbourd, secondo cui i genitori predicano l’altruismo ma educano soprattutto al
successo personale per cui i bambini stanno diventando troppo egoisti, lo psicologo infantile Michele
Borba avverte che i genitori devono cambiare il loro atteggiamento, perché inculcare nei giovani l'idea del
successo personale prima di tutto, in realtà, non porta né al successo né alla felicità: “Gli studi dimostrano
che la capacità dei bambini nel provare empatia per gli altri ha effetti sulla loro salute, porta benessere e
felicità, così come sul loro sviluppo cognitivo, sociale, emotivo. L'empatia attiva la coscienza e il
ragionamento morale, frena il bullismo e l'aggressività, migliora la gentilezza, riduce i pregiudizi e il
razzismo, promuove eroismo e coraggio morale e aumenta la soddisfazione personale. L'empatia è un
ingrediente chiave dell'umanità e alla base della società civile”. Perché si deve allevare “in particolare
nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà” (dal Preambolo
della Convenzione).
Il peggior handicap è non consentire al bambino di vivere la propria infanzia a causa di vari eccessi ed
oggi si sta verificando la scomparsa dell’infanzia che era stata teorizzata (anche se con riferimento alla
tecnologia) dal sociologo statunitense Neil Postman nel 1982. Ogni bambino, a maggior ragione se
disabile, deve crescere (da “creare, andare formandosi”) in un’atmosfera di felicità (“fecondità”), amore
(“non morte”) e comprensione (“prendere insieme”) (dal Preambolo della Convenzione): così si realizza la
vera “presa in carico” dei disabili e di ogni persona. “Per cambiare gli uomini bisogna amarli. La nostra
influenza arriva solo fin dove arriva il nostro amore” (il pedagogista svizzero J. Heinrich Pestalozzi).
Perché “l’affettività si configura […] come realtà umana complessa da analizzare nelle sue radici
cognitive, nelle sue implicazioni comportamentali, nella posizione che assume come ingrediente
inevitabile nella dinamica delle decisioni della persona umana” (lo psicologo Ferdinando Montuschi[1]).
“Là dove siamo vittime impotenti di una situazione disperata che non possiamo cambiare, possiamo
trovare un senso cambiando atteggiamento verso di essa, e quindi noi stessi, così che, da un punto di vista

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umano, maturiamo, cresciamo, ci superiamo e, in tal modo rendiamo testimonianza della più tipica
capacità umana, cioè la capacità di trasformare una tragedia personale in trionfo” (lo psichiatra austriaco
Viktor E. Frankl[2]): sia così per ogni disabilità perché e purché non si sia affetti da inabilità ad amare e a
essere amati.
Tutto è possibile se non ci si fa prendere da quella malattia che biblicamente è chiamata “sklerokardia”,
durezza dei cuori, che erge fredde barriere. È anche questo il senso di uno dei verbi “positivi” usati
nell’art. 23 e in altri articoli della Convenzione, “incoraggiare”, dare coraggio, (coraggio, da “cor habeo”,
ho cuore): si tratta di una virtù ampia, come dichiara l'origine forte e generica che la lega al cuore. Il
coraggio è il prestare l'ampiezza del petto all'incerto, al pericolo, al dolore, la disposizione salda al
sacrificio.

Riferimenti bibliografici

AA. VV. “Mi riguarda”, Edizioni E/O, Roma 1994

https://www.diritto.it/parole-di-convenzione-e-di-convinzione-sulla-disabilita-infantile/

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