Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione della quaestio nella poesia
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Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione della quaestio nella poesia dottrinale della Commedia1 CORRADO CALENDA Università di Napoli «Federico II» In un notevole saggio recente in cui si propone un' impegnativa rilettura dell' intera poesia italiana del Medioevo, Claudio Giunta fornisce, in estrema ed efficace sintesi, la seguente definizione della quaestio, sulla falsariga della classica trattazione di M. Grabmann (Storia del metodo scolastico, [1909-11] voll. 2, Firenze, La Nuova Italia, 1980): metodo d'indagine fondato sul confronto tra tesi opposte e sul superamento di tale opposizione per forza di dimostrazione logica [che] fece le sue prime prove in Bernoldo di Costanza e in Abelardo, nell' XI e XII secolo, si rafforzò e perfezionò grazie alla traduzione del corpus aristotelico per raggiungere infine piena maturità nel XIII secolo penetrando in ogni campo del sapere (Giunta 2002:194). Scopo dell' autore è mettere in rilievo l' influenza della struttura della quaestio sullo stesso registro della poesia lirica del tempo utilizzando un celebre passo brunettiano (già messo in rilievo da Domenico De Robertis e Vittorio Russo) in cui, commentando il De inventione di Cicerone, si giunge al sorprendente rilievo che, alla base della lirica erotica, ci sarebbe una "tencione...tacita" tra due contendenti latori di diverse esigenze o voleri2. Questa non impropria estensione al dominio della lirica erotica, che parrebbe per sua natura monologica, introspettiva, conferma, mi pare, il ruolo decisivo che i modi della disputa giocano in una zona cospicua della nostra poesia delle origini: se spostiamo lo sguardo su utilizzazioni meno indirette, più esplicite di tali modi, il pensiero corre, per esempio, al genere "tenzone" vero e proprio, all' occitanico joc 11
Tenzone nº 4 2003 partit, all' impianto delle canzoni dottrinali dantesche, fino al petrarchesco S'amor non è. Ma il pensiero corre soprattutto ad alcune delle realizzazioni più memorabili della poesia dottrinale della Commedia dominate esattamente dalle procedure argomentative (dimostrative?) della quaestio, riproposta persino nel suo concreto, scolastico allestimento: penso al canto XXV del Purgatorio o al II del Paradiso, in cui Stazio e Beatrice rivestono sontuosamente i panni del magister per inscenare perfette quaestiones scolastiche intorno al tema rispettivamente della generazione dell' anima e delle macchie lunari. Queste brevi e in apparenza incontestabili premesse meritano però di essere subito problematizzate. A partire proprio dallo statuto della quaestio su cui si impone qualche riflessione supplementare. La definizione da cui siamo partiti, ineccepibile formalmente, evita di incidere nella sostanza profonda della prassi scolastica relativa alla quaestio, limitandosi a descrivere correttamente lo scenario approntato da colui su cui ricade la responsabilità di definire i termini del confronto e di proporre la soluzione. Ma che cosa avviene davvero, se non ci accontentiamo delle esibite apparenze, nel corso della disputa? Qui possono venirci in soccorso le riflessioni che al tema ha dedicato a più riprese uno straordinario storico della filosofia medievale, Franco Alessio, analista impareggiabile che ha sottoposto l' argomento al filtro di una lettura non convenzionale, a tratti persino spregiudicata3. Dunque, limitandoci a riassumere e parafrasare le sue conclusioni, assumeremo che il magister, titolare assoluto della quaestio, non è però niente di più che colui che legge, che il mediatore del sapere contenuto nel testo (non essendo la quaestio altro che il confronto tra testi di auctoritates distinte). Il fine delle sue parole è penetrare entro il verbum dell' auctoritas e mostrarne il senso autentico. L' attitudine è rigorosamente razionalistica: contro l' antica lectio monastica, la quaestio scolastica esorcizza ogni intrusione subiettiva ed emotiva, instaura un regime assolutamente impersonale che ha al centro l' intelletto volto all' acquisizione della scientia. Il percorso prevede sei passi distinti: i) estrazione della quaestio dal passo dell' auctor; ii) obiectiones dell' interlocutore fittizio; iii) presentazione della tesi del magister; iv) difesa 12
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … dalle obiectiones; v) presentazione degli argomenti che sorreggono la tesi del magister; vi) definitiva e conclusiva responsio ad obiectiones. Qui sottolinierò solo, di passaggio e come primo addentellato con la prassi dantesca, che gli argomenti esibiti dal magister o dall' interlocutore fittizio a sostegno delle proprie tesi, sono sempre tratti da auctoritas, ratio ed experientia, come sa benissimo Dante che, nella lettera Exulanti pistoriensi, cioè a Cino, a complemento del sonetto Io sono stato con Amore insieme, scrive: "Et fides huius, quanquam sit ab experientia persuasum, ratione potest et autoritate muniri"4. Ma riprendiamo la descrizione di Alessio. Sin qui tutto si inquadra perfettamente entro le coordinate generiche già chiarite, ma ora interviene il quesito fondamentale: in quale misura, cioè, la forma del confronto, il dialogo rende conto realmente di ciò che avviene durante la quaestio? È la natura di questa effettivamente dialogica, basata sul confronto reale tra posizioni distinte? In realtà il confronto e la disputa sono in sostanza una messa in scena: la forma dialogica è solo apparente (Platone, commenta Alessio, è il vero grande assente delle biblioteche scolastiche). L' interlocutore viene introdotto solo per essere esorcizzato, è l' emblema della lettura deviata, dell' insidia, dell' errore, è un sofista che non contrappone verità possibile a verità possibile, ma adultera l' unica verità, già a priori in possesso del magister. La logica, che detta le procedure del confronto, serve a smascherare un' apparenza e la quaestio si risolve nella teatralizzazione della lotta tra verità e apparenza, tanto è vero che le opere di Aristotile da cui il suo metodo è ricavato sono i Topici e gli Elenchi sofistici. L' acuta diagnosi di Alessio che, forse, generalizzata, potrebbe tradire il gusto di un' iperbolica demistificazione, maneggiata invece con accortezza può fornire la chiave interpretativa più idonea a valutare quello che ritengo l' episodio conclusivo e il culmine della poesia dottrinale dantesca nella Commedia, in cui il metodo della quaestio fa la sua ultima prova e insieme inesorabilmente dilegua. Mi riferisco al canto XXIX del Paradiso5, seconda e conclusiva parte di un impegnativo dittico "angeologico", che riveste, anche nella 13
Tenzone nº 4 2003 struttura generale della cantica e forse del poema, un ruolo appunto "conclusivo", segnando, come fece notare Silvio Pasquazi (1966:315- 37), il passaggio "al divino da l'umano, / a l'etterno dal tempo". Lo sviluppo diacronico del viaggio (e della narrazione), sia pur progressivamente rarefatto (dalla violenta evidenza della materia infernale alle cadenze rallentate delle successive fasi paradisiache), sta per lasciare il posto alla immobile fissità della contemplazione. Dove il dinamismo residuo della rappresentazione sarà unicamente a carico delle immense risorse della lingua e dell' "alta fantasia" dantesche. Del canto ci interesseremo solo nella misura in cui sarà possibile verificare la plausibilità della chiave di lettura proposta in relazione alla funzione che in esso vi svolge ancora il metodo della quaestio. Dunque, sulla soglia dell'Empireo e delle connesse problematiche espressive, l'autore si impegna con la solita, prodigiosa intensità, nella trattazione di un tema cristiano che, per definizione, è a cavallo tra la storia e l'eterno: luogo e tempo della creazione degli angeli, sua modalità, durata presumibile della fase di passaggio dalla creazione al parziale ammutinamento, caratteristiche vere e caratteristiche presunte delle facoltà angeliche, numero effettivo degli angeli. A fissare preventivamente le armoniche complesse del nostro testo, converrà isolarne altri due aspetti decisivi: i) il violento accostamento, che ha sconcertato più di un interprete, tra la pacata argomentazione dottrinale che occupa gran parte del testo e il tono aggressivo dell'invettiva, con accenti da poesia "comica", che in quell' argomentazione si incunea spezzandola in due tronconi; e ii), a ciò strettamente connessa oltre ogni apparenza, quella che si rivelerà, lo vedremo, come l' orgogliosa rivendicazione, da parte dello scrivente, del proprio ruolo di scriba dei, interprete autorizzato, per così dire, di una "verità", più o meno, e più o meno colpevolmente, violata da tutta la tradizione dottrinale ed esegetica; non esclusi, si badi, i campioni più accreditati della propria cultura filosofica e teologica, di volta in volta spregiudicatamente accolti o corretti o respinti, senza più steccati ideologici, senza più (ma in una direzione diversa, come vedremo, dall' 14
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … accogliente sincretismo dantesco) rivendicazioni di schieramento. Il magister Dante, di cui, come vedremo, Beatrice non è più che una controfigura, usa ancora, e insieme vanifica, il metodo del confronto, creando interlocutori fittizi, e perdenti in partenza (a meno che non siano allineati sulle parole del Libro), all' unico depositario del Vero. Dopo l'esordio, su cui sorvoleremo, ha inizio la lunga, complessa e articolata dichiarazione di Beatrice, introdotta da un tratto abbastanza comune, sì, nella dinamica "colloquiale" soprattutto del Paradiso, quello cioè della risposta rivolta ad un quesito non posto dall'interlocutore ma letto direttamente in Dio; un Dio però, in questo caso, designato come "là 've s'appunta ogne ubi e ogne quando" (v. 12). Perifrasi solo apparentemente neutra: in realtà suggerita dalla specificità della domanda implicita (Dante vuole informazioni su 46-7 "dove e quando questi amori [gli angeli] / furon creati e come", cioè proprio sull' ubi e sul quando, oltre che sul quomodo). Nonostante qualche non trascurabile aspetto eccentrico, quella di Beatrice, anticipo, sarà (come per esempio per il II dello stesso Paradiso, quello celeberrimo delle "macchie lunari") una vera e propria lezione magistrale, cadenzata sui ritmi e i dispositivi delle aule universitarie: solo che, lo abbiamo detto e cercheremo di capirne il motivo, nell'ultima parte essa si impenna nell'invettiva e nella requisitoria. Non solo: ma la stessa struttura della sua sezione argomentativa si increspa e si inquieta in una non comune pluralità di richiami, in più o meno velati rimproveri, in incisi rievocativi, quasi a suggerire l' insufficienza del contenitore dottrinale che si appresta ad esplodere nella sfuriata finale. Proviamo a riassumere, in modo conciso ma ordinato e tendenzialmente esaustivo, i nodi principali della lectio di Beatrice, trascurando per il momento, salvo rare eccezioni, la precisazione delle fonti di riferimento e tenendo conto, doverosamente, che ci rassicura il fatto che da queste parti è passato, come si sa, Bruno Nardi (1956:294- 302) con la sua indiscussa autorevolezza di storico del pensiero medievale, soprattutto in una memorabile lettura del 1956. 15
Tenzone nº 4 2003 Dunque (partiamo dal v. 13) non per un impostulabile accrescimento di bene, non certo per potenziarsi, ma solo perché il proprio splendore, ri-splendendo per riflesso, si riproducesse in altri esseri vivi e amanti e consapevoli, Dio, fuori del tempo e fuori dello spazio (17 "d'ogne altro comprender", infinito sostantivato) creò le cose viventi (ma Dante lo dice con un verso tra i più memorabili dell'intero poema: 18 "s'aperse in nuovi amor l' etterno amore"). Né, ovviamente, prima (se è lecito usare questa determinazione temporale per un evento di cui, insieme e per paradosso, non è possibile predicare né l' eternità né la temporalità) Dio fu inattivo, torpente, giacché appunto "prima" e "poscia" (a mio parere coppia di soggetti sostantivata), dunque il tempo, non preesistettero ("procedette" per 'precedette') alla creazione stessa. La quale creazione viene designata come 21 "lo discorrer di Dio sovra quest' acque" in riferimento a una celebre frase della Genesi, et spiritus Dei ferebatur super aquas, qui probabilmente rimanipolata per adattarla, nel deittico, al Cielo Cristallino o Primo Mobile, radice del tempo, in cui ora i due protagonisti si trovano. Effetto compiuto, senza alcuna carenza, della creazione furono forma (o puro atto, gli angeli), materia (o pura potenza, la materia bruta) e il prodotto della loro associazione (i cieli), generatisi simultaneamente così come tre frecce simultaneamente scoccano da un arco a tre corde. Né ai tre effetti occorse tempo alcuno per giungere alla pienezza del loro essere: essi furono prodotti non solo insieme ma anche istantaneamente e compiutamente, senza successione di fasi (30 "distinzione in essordire"), così come nei corpi trasparenti non vi è scarto o intervallo tra l'arrivo del raggio illuminante e la illuminazione del corpo stesso. Fattore essenziale di tale essere compiuto è l'ordine in cui, ab origine, le tre sostanze sono gerarchicamente disposte (31 costrutto piuttosto participio passato che sostantivo): al primo posto le sostanze angeliche, all'ultimo la materia bruta e, nel mezzo, i cieli, composto indissolubile di potenza e atto. Vero è che San Gerolamo parla assai spesso invece della creazione degli angeli come avvenuta assai prima di quella del mondo; ma a dirimere senza ombra di dubbio la questione vale la plurima testimonianza degli scrittori biblici, cui anche Dante con 16
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … la dovuta attenzione potrà utilmente ricorrere. Non solo, ma in questo caso anche la ragione umana potrà venire in soccorso, escludendo in quanto logicamente inammissibile la protratta esistenza (cotanto) di motori inattivi, cioè di esseri deprivati della propria perfezione, della facoltà di esplicare la funzione di propria competenza (si tratta, più o meno, del ragionamento che al v. 19 Beatrice aveva escluso potersi applicare all'Ente Supremo). Tempo, luogo e modalità della creazione degli angeli sono stati così chiariti. Beatrice passa a fissare i tratti decisivi della fulminea eppure catastrofica "storia", se così è lecito dire, in cui si giocò per sempre il destino delle entità angeliche: si tratta di quei venti secondi, o poco più, intercorsi tra la creazione e la "caduta degli angeli ribelli", scaraventati a turbare la terra che, come ricorda Buti, "sottostà a tutti li elementi". Agli angeli ammutinati si contrappongono gli angeli rimasti fedeli a Dio: quelli, trascinati alla rovina da Lucifero; questi, in grado di riconoscere con modestia la propria assoluta dipendenza da chi elargì loro una così privilegiata condizione. Dunque le Intelligenze angeliche rimaste fedeli a Dio, nell' acquisire poi una stabile e perfetta intenzione al bene, beneficiarono, sì, della grazia da Lui direttamente e gratuitamente infusa, ma nel contempo in qualche modo la meritarono: col che resta accertato che il modo più o meno disponibile con cui si accoglie la grazia determina l'entità del merito da parte del ricevente. A questo punto l'essenziale intorno al santo collegio degli angeli è stato detto. Ma urge aggiungere un codicillo per smentire un'opinione diffusa tra le scuole dei filosofi e dei teologi: essere cioè gli angeli forniti, come gli esseri umani, di intelligenza, volontà e memoria. Sarà così diradato l'equivoco che nasce dai falsi insegnamenti terreni; vv. 70- 75: Ma perché 'n terra per le vostre scole si legge che l'angelica natura è tal, che 'ntende e si ricorda e vole, ancor dirò, perché tu veggi pura la verità che là giù si confonde, equivocando in sì fatta lettura 17
Tenzone nº 4 2003 Le sostanze angeliche vivono nella perenne contemplazione di Dio a cui nulla, nello spazio e nel tempo, può mai restare celato; dunque la loro esperienza conoscitiva è completa e istantanea, priva di fasi, senza cioè che i vari oggetti di conoscenza si sostituiscano l' uno all' altro; e, di conseguenza, agli angeli non è necessaria la memoria che ha bisogno e vive di concetti ricavati dalla visione diretta delle cose (mi pare questa la lettura meno improbabile del problematico 81 "concetto diviso": la concettualizzazione, l' astrazione, la formazione di un' immagine da depositare nel senso interno della memoria risulta necessaria laddove il soggetto è sottoposto ad una pluralità di esperienze percettive in serie, garantendo il persistere dell'attività conoscitiva anche in assenza dell'oggetto percepito; ma, laddove tutto viene perennemente, istantaneamente e integralmente "visto", la memoria, in quanto archivio di species, non può essere che superflua). Le elucubrazioni delle "scuole" non sono perciò che sogni e deliri, più o meno colpevoli secondo le diverse intenzioni dei proponenti. Qui un piccolo indugio puntuale meritano i vv. 83-4: sì che laggiù, non dormendo, si sogna, credendo e non credendo dicer vero. La quasi totalità degli interpreti li legge, come parrebbe intuitivo, nel senso che coloro i quali, affermando il falso, credono di dire la verità sono meno colpevoli degli altri che volutamente cercano di far passare per vero ciò che sanno essere falso: ignoranza, sia pur colpevole, nel primo caso (come, poco più avanti, quella delle "pecorelle" ignare che 107-8 "tornan del pasco pasciute di vento, / e non le scusa non veder lo danno"); frode imperdonabile nel secondo. La sostanziale unanimità non dovrebbe però far trascurare del tutto la proposta, acuta, di Daniele Mattalia6 (interprete oggi, non so perché, un po' ignorato, nonostante i riconoscimenti che in più occasioni, per esempio, il severissimo Contini non ha mancato di tributargli); il quale Mattalia ritiene che la distinzione riguardi invece coloro che protervamente si ostinano a far passare per vere le loro opinioni e coloro invece che avanzano ipotesi senza la pretesa di essere senz'altro dalla parte della verità: col che, è chiaro, i segni + e - si invertono, risultando i secondi meno colpevoli. 18
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … Quest' ultima terzina, vv. 82-4, ricollegandosi all'accenno alle "scole" del v. 70, segna il passaggio alla fase della requisitoria, che si apre canonicamente in forma di apostrofe. La prima accusa, di narcisistico individualismo o di incoerenza (85 "per un sentiero" può valere sia 'tutti per lo stesso sentiero' che 'per un sentiero lineare, costante'), denunciando in sostanza non più che un eccesso di vanità, viene riconosciuta subito come meno grave rispetto a quelle che implicano svalutazione o deformazione del dettato biblico. Non calcolando i sacrifici che la diffusione del verbo divino ha comportato, né il valore in sé dell' umile obbedienza ad esso, corteggiando unicamente apparenza ed onori, i pensatori elaborano, e i predicatori si incaricano di diffondere, nozioni del tutto inventate, vere e proprie fandonie: come, per esempio, la favola dell'eclissi che accompagnò la morte di Cristo, esempio tipico di deliberata distorsione del dettato evangelico. Dal quale, a legger bene, apprendiamo il verificarsi di un evento integralmente prodigioso, l'oscurarsi cioè del sole sull'intera terra (101-2 "a li Spani e al'Indi / come a' Giudei tale eclissi rispuose"), rispetto al quale l'ipotesi di una violenta retrocessione della luna risulterebbe, nonché inutilmente esosa, inadeguata. Tra pseudo-scienza e miracolo tout-court il fedele non può esitare. L'approssimarsi quasi alla contumelia e al linguaggio comico -i cui contrassegni più vistosi sono le "ciance"(110) e le "iscede"(115) in sede di rima, il 'gonfiarsi' del "cappuccio"(117), l' "uccel" che si annida nel "becchetto" (118), il "porco Sant' Antonio" (124) e "gli altri assai che sono ancor più porci" (125)-, viene annunciato subito con quell'esibizione, in punta al v. 103, della dittologia onomastica "Lapi e Bindi", preceduta per giunta dalla citazione diretta di "Fiorenza" (ben tre nomi propri in un solo endecasillabo, una percentuale superiore a quella della più spinta poesia burlesca!). E si aggiunga che i "Lapi e Bindi" vengono inopinatamente convocati per una comparazione decisamente popolaresca, starei per dire triviale ('le sciocchezze propalate in un anno dai predicatori sono di più di quanti Lapi e Bindi popolino Firenze': ricordo imprevedibile, sulle soglie dell'Empireo, di una celebre, equivalente comparazione guinizzelliana nel sonetto a Guittone, dove il 19
Tenzone nº 4 2003 rilievo antonomastico, trasferito in territorio veneziano, riguardava ovviamente i lagunari "Marchi"). Un rapido sguardo alle già citate "pecorelle", vittime, non incolpevoli però, delle ciance dei predicatori, e la requisitoria riparte con il ricordo della diversa, pugnace missione assegnata da Cristo ai discepoli, cui viene contrapposto l'ilare, dissennato comportamento degli attuali predicatori, in cerca unicamente di un facile consenso popolare (oggi diremmo forse di un indiscriminato e irresponsabile allargamento di audience). Favore del volgo e stupido orgoglio vanno di pari passo; ma intanto Satana si annida nella punta del cappuccio dei frati e la gente ripone fiducia, senza alcuna ragione e senza alcuna testimonianza, in promesse prive di fondamento. Segue, a clamoroso coronamento della tirata, la celeberrima terzina (124-26) del "porco Sant'Antonio": comunque si legga questo memorabile sintagma ("il porco [di] Sant'Antonio" sogg. di "ingrassa", o "Sant'Antonio" sogg. e "il porco" ogg.), il senso dell' insieme non muta troppo ed è chiarissimo, affidato piuttosto al clamoroso, spiazzante estremismo espressivo che al significato, il quale in sostanza ripete, certo enfatizzando, ciò che è stato già detto, vale a dire la denuncia delle vuote promesse offerte dai predicatori colpevoli ad un volgo sprovveduto. A questo punto la digressione o, diremo, la lunga sterzata in chiave parenetica può essere interrotta. Ancora una volta si fa urgente il problema del tempo: il poco che è restato (ci troviamo, non scordiamocelo, nel Primo Mobile, dove più concitata si fa l'ansia di raggiungere l'Empireo) dovrà essere occupato da un ultimo argomento che giocoforza sarà esposto in rapida sintesi. Si tratta della questione del numero delle sostanze angeliche, che "s'ingrada" (130), cioè cresce, s'innalza ben oltre ogni umana capacità di computo e di espressione, come dimostra il testo di Daniele già parafrasato in XXVIII 93, che nella sua intonazione iperbolica allude certo ad un numero immenso, ma non indeterminato. La divina luce, come detto all'inizio del canto, splendendo eternamente ri-splende moltiplicandosi nelle sostanze angeliche secondo altrettante modalità quante sono i recipienti: e poiché all'atto di essere investite dall'eterna luce segue l'atto d'amore per quella 20
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … luce stessa, anche l'atto d'amore si diversifica secondo modalità simmetriche in cui si gradua il fervore. Con la lode finale dell'immenso valore divino che permane indiviso pur 'spezzandosi' in innumerevoli "speculi" (144), il canto si conclude. Questa, per grandi linee, la trama complessiva del nostro testo. La modesta parafrasi sin qui formulata sacrifica del tutto, come è ovvio, il prodigio della verbalità dantesca, che è e resta garante capitale della perdurante leggibilità del canto, della sua intatta suggestione espressiva. È stato ancora Contini (1976:191), nella lettura del canto precedente, a ricordarci in perfetta sintesi che "nella grandezza della Commedia sulla costruzione e lo sviluppo narrativo predomina l'esecuzione verbale, da verificare con meraviglia e sgomento ad ogni apertura di pagina", fondandosi sulla premessa generale che, nel poema, "la formalità pura equipara, quando non abbia il sopravvento, l'invenzione narrativa". E ciò sia detto a smentita di qualsiasi ormai improponibile dicotomia tra "poesia" e struttura, acutamente sconfessata da quel "ad ogni apertura di pagina". In realtà però quella parafrasi non è neanche in grado, finora, di render conto della forma del contenuto del nostro testo, delle operazioni cioè che l'autore sta ponendo in atto nello sviluppo della situazione narrativa, nell' aggiornamento dello statuto dei personaggi (soprattutto del personaggio-chiave, Dante stesso), nella sua complessiva strategia comunicativa che include innanzitutto, appunto, il metodo della quaestio.. Domandiamoci dunque: tra il contenuto proverbialmente teologico di una parte cospicua del canto e la sua straordinaria verbalità, c'è un messaggio ulteriore, che solo euristicamente chiameremo terzo, cui il testo sottilmente pare alludere nella sua stessa dinamica costruttiva? Per rispondere occorrerà innanzitutto tornare sulla questione delle "fonti" di riferimento provvisoriamente accantonato nel corso della nostra esposizione. Non tanto, si badi, per acclarare la "verità dell'opinione" (risultato già considerevolmente acquisito, soprattutto per 21
Tenzone nº 4 2003 merito di Bruno Nardi), ma per inseguire la "verità dell'espressione", il senso cioè dell'uso che Dante di quelle fonti, qui ed ora, sta facendo. Orbene, le auctoritates convocate nelle plurime ma collegate quaestiones del canto sono, innanzitutto, molteplici e, per così dire, discordanti fin quasi ad un sospetto di contraddittorietà. Si parte da Agostino, implicitamente richiamato nella negazione che si possa attribuire a Dio una sorta di protratta inoperosità pre-creazione; poi si passa al libro della Genesi mediato dall'interpretazione di Alberto Magno, Bonaventura e Tommaso per il "discorrer di Dio sovra quest' acque" (21) da intendere come riferimento al Cielo Cristallino; in terzo luogo, discorrendo dell'istantaneità tra atto della creazione e compimento totale del suo effetto, Dante preleva quasi letteralmente una similitudine da Tommaso ("Relinquitur quod creatio sit in instanti: unde simul aliquid, dum creatur, creatum est, sicut simul illuminatur et illuminatum est"), quel Tommaso cui, come vedremo, non saranno risparmiati di qui a poco appunti anche rilevanti. Poi addirittura si cita, per smentirlo, San Gerolamo, tardo continuatore di dottrine gnostiche, a proposito del momento a cui deve essere riportata la creazione degli angeli, e la contestazione si appoggia, esplicitamente, a luoghi della Sacra Scrittura (v. 41, soprattutto Genesi ed Ecclesiastico), e, implicitamente, ad Agostino (approvato in questo caso, sia pur con cautela e quasi con reticenza, dalla Summa tomistica). Di rincalzo, ai vv. 49 sgg., la questione del tempo trascorso tra la creazione degli angeli e la caduta dei ribelli viene risolta, questa volta, contro Tommaso e in linea, ad esempio, con Bonaventura e Duns Scoto (la ribellione non fu istantanea, anche se di pochissimo successiva alla creazione). Ma poi, addirittura, ai vv. 58-66, discutendo il rapporto, delicatissimo per la dottrina cristiana, tra grazia e merito, esaurientemente indagato da Attilio Mellone, Dante pare mettere nuovamente a confronto Tommaso e Bonaventura, schierandosi col secondo; non solo, ma, come segnalò Pietro Caligaris (1967:19) forse con un eccesso di scrupolo, qui Dante costeggerebbe nientemeno che l'eresia pelagiana. Al v. 72 ("è tal, che 'ntende e si ricorda e vole") torna il rimando, più o meno esplicito ad Agostino. Quanto al prodigioso oscuramento del sole durante la passione di 22
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … Cristo, Dante contesta apertamente Dionigi Areopagita e Tommaso che a lui si collega, e sottoscrive la soluzione di Gerolamo (già, come si è visto, contestato ai vv. 37 sgg.), riecheggiando con tutta probabilità quasi alla lettera, come dimostrò il Nardi, un passo di Pietro Comestore. Per finire, sulla faccenda del numero delle sostanze angeliche, Dante torna alle soluzioni tomistiche sigillandole però con il ricorso diretto all'autorità di Daniele. Le fonti di cui, se anche in modo non esaustivo, ci siamo sin qui occupati pertengono tutte, come si è visto, all'ambito della speculazione in senso stretto teologica. Se allarghiamo però lo sguardo alla storia del pensiero tout-court il quadro si articola e si complica ancora di più. La tesi della "creazione" smentisce l'emanatismo aristotelico-averroistico ripreso, e sia pure in chiave meramente espositiva, da Sigieri di Brabante. Contro lo stesso Sigieri e contro il pensiero neoplatonico Dante ribadisce che "la materia delle cose" terrene "è creata direttamente da Dio, insieme ai cieli e alle intelligenze motrici" (Nardi); anzi, a guardar bene, "per attribuire a Dio la creazione diretta della materia senza forma, Dante ha dovuto liberarsi del concetto aristotelico- averroistico e anche tomistico che ritiene la materia, in quanto pura potenza, incapace di esistere" (Nardi). Il passaggio più sintomatico dell'attitudine problematizzante il cui rilievo assoluto si sta tentando qui di dimostrare è quello compreso ai vv. 37-45: Ieronimo vi scrisse lungo tratto di secoli de li angeli creati anzi che l'altro mondo fosse fatto; ma questo vero è scritto in molti lati da li scrittor de lo Spirito santo, e tu te ne avvedrai se bene agguati; e anche la ragione il vede alquanto, che non concederebbe che' motori sanza sua perfezion fosser cotanto. Si tratta del passo in cui Dante nega che gli angeli siano stati creati prima del mondo sensibile: e lo fa, si badi, prima smentendo Girolamo, poi appoggiandosi all'autorità della Sacra Scrittura, infine 23
Tenzone nº 4 2003 appellandosi alla testimonianza della ragione, la quale vale ad escludere l'esistenza, almeno oltre un certo limite, di entità private della funzione a cui sono deputate. Altrettanto importante, a proposito dell'assenza di memoria nelle entità angeliche, che il riferimento già notato ad Agostino si innesti, questa volta sì sincretisticamente, su una dimostrazione che dipende tutta dalla teoria aristotelica della memoria come senso interno e con la complessiva teoria della conoscenza dello Stagirita. Per finire, ma senza illuderci di aver dipanato tutti i fili che si intrecciano nella trama del testo, si ritorni brevemente alla questione dell'eclissi dove, quasi per paradosso, è la teoria del miracolo assoluto che soddisfa maggiormente le esigenze razionali di Dante, rispetto alle ingenue rappezzature della pseudo-scienza in questo caso tomistica che "complica il miracolo evangelico mettendo a soqquadro tutto il sistema aristotelico-tolemaico" (Nardi). Il lettore, a questo punto, ha tutto il diritto di sentirsi disorientato dal modo in cui gli è stata spiattellata la trama asistematica che governa lo sviluppo argomentativo del canto. E forte sarà, come si accennava, la tentazione di risolvere tutto con il ricorso abbastanza scontato al quasi topico "sincretismo" dantesco. Temo però che si tratterebbe di una soluzione non solo sbagliata, ma fuorviante. Ritengo infatti che qui Dante non sta accumulando e giustapponendo auctoritates e criteri interpretativi, ma li sta annullando, vanificando, se ne sta liberando, ne sta facendo piazza pulita. Non intende esibire le sue fonti, per un impulso alla conciliazione o alla dotta ostentazione, o peggio per un'incapacità a decidersi tra sollecitazioni difformi se non discordanti, come forse in altre occasioni è stato persino possibile ipotizzare. E non basta neanche la pur preziosa osservazione di Nardi, secondo cui il fatto di trovarsi ancora nell'ultima sfera sensibile gli [a Dante] permette di attardarsi nel XXVIII e XXIX canto, prima dell'ultima ascesa, in disquisizioni filosofico- teologiche quali si facevano nelle scuole ai suoi tempi. Dal XXX in poi simili disquisizioni, 24
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … condotte con i procedimenti della logica discorsiva applicati alla fede, si attenuano man mano che ci avviciniamo al punto onde raggia la luce che avvolge l' universo, e cessano del tutto per far posto alla mistica contemplazione dell'indiamento. Diremo meglio che gli estremi residui di un' attitudine raziocinativa, o erudita, o scolastica, si innestano alla rappresentazione della fase decisiva del viaggio, del passaggio capitale dalla dimensione temporale a quella eterna, quando il pellegrino e l'autore, agens e auctor, in altre parole, stanno per coincidere e dunque la parola può pienamente liberarsi senza alcuna preoccupazione per dissonanze e incompatibilità, che tali continuano ad essere solo per chi si muova all'interno di una logica tutta umana. Unica preoccupazione legittima rimane quella di aderire al "vero", che non a caso, come si ricorderà, è il lemma-chiave su cui Contini ha organizzato le sue operazioni spitzeriane nell' analisi del canto precedente, il primo del dittico angeologico. Si noti per esempio il duplice accenno da parte di Beatrice (umile e quasi dimesso nella forma ma di grandissimo rilievo nella sostanza, giacché corrispondente ormai a una sorta di suprema investitura) alla posizione di definitiva superiorità acquistata dal pellegrino rispetto, appunto, a ogni fonte ipotizzabile, ad ogni "altro aiutorio": e tu te n'avvedrai se bene agguati; (v.42) Omai dintorno a questo consistorio puoi contemplare assai, se le parole mie son ricolte, sanz'altro aiutorio. (vv. 67-9) Ne deriva, con estrema coerenza, che il metodo della quaestio continua ad essere utilizzato nelle sue procedure, ma solo in quanto l'unica vera auctoritas riconosciuta, e riconosciuta qui del tutto esplicitamente e con una non equivocabile insistenza, sia quella del testo sacro: ma questo vero è scritto in molti lati da li scrittor de lo Spirito Santo (vv.40-1) 25
Tenzone nº 4 2003 E ancor questo qua sù si comporta con men disdegno che quando è posposta la divina Scrittura o quando è torta. (vv.88-90) …quanto piace chi umilmente con essa [la Sacra Scrittura] s'accosta. (vv.92-3) … e quelle son trascorse da' predicanti e 'l Vangelio si tace. (v.96) e se tu guardi quel che si revela per Danïel… (vv.134-35) È la finale equiparazione agli scribae dei, agli autori biblici, puri tramiti della parola divina, che affranca definitivamente da ogni ossequio a qualsiasi tradizione di pensiero e lascia una libertà di manovra riluttante a qualsiasi influenza: la convocazione plurima e volutamente caotica delle possibili fonti e la moltiplicazione dei criteri interpretativi sono figura dell' assenza di fonti e criteri che non siano quelli estraibili dal testo biblico. Il confronto, la disputa vera tra auctoritates è esclusa: unico contrassegno di verità, fissato a priori, è il testo sacro. Se è lo statuto del personaggio-Dante che sta mutando, cólto nel punto esatto in cui sta per coincidere con colui che è pienamente illuminato dalla finale rivelazione, tale mutazione si riverbera immancabilmente sulla sua ultima guida che si fa, a sua volta, figura integrale dell'unico, vero protagonista del dramma. Beatrice a questo punto ha perso ogni autonomia e nelle sue parole Dante incorpora, senza più distinzioni, la propria voce. Come chiarì esattamente Giorgio Petrocchi (1994:279-92): … alla vigilia di allontanarsi da Dante e di riprendere il suo scanno nella sua città, nella Gerusalemme celeste, [Beatrice] non deve rispondere a noi di nessuna verosimiglianza umana o quasi umana e ancor meno di univocità espressiva…proprio in uno dei suoi ultimi interventi oratorii Beatrice ha tolto dal suo discepolo alcuni modi caratteristici d'eloquio. 26
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … E, di rincalzo, conferma Antonio Enzo Quaglio (1965:311-26): … dietro la lucida e sprezzante condanna di Beatrice, avverti la delusione sentimentale e dottrinaria di Dante in persona. Dunque nel "voi" con cui ella direttamente si rivolge agli uomini colpevoli di disattendere il verbo divino, Dante non è più incluso (vi è incluso forse, come ha suggerito in più occasioni Corrado Bologna, il primo amico, Guido Cavalcanti, cui più di un' allusione può essere diretta nella trama del canto che ne risulta dunque vieppiù articolata). E se ha ragione André Pézard a segnalare il rilievo di quel vostre al v. 70 Ma perché 'n terra per le vostre scole sbaglia poi a ipotizzare che il biasimo di Beatrice sia rivolto anche alle scuole frequentate da Dante, alle sue ambigue frequentazioni culturali. Qui la Beatrice del Paradiso terrestre, quella che ha rinfacciato aspramente al pellegrino le sue colpe terrene sfruttando ancora, in qualche misura, la persistenza della propria anagrafica identità, non ha più alcuno spazio, ed è Dante che fa risuonare direttamente la sua voce all'indirizzo dei terreni frequentatori delle scuole filosofiche e religiose, tutte ormai liquidate in quanto colpevolmente parziali. Ma se dunque così mutati sono i termini della situazione narrativa, e Dante sta rivendicando a se stesso una esclusiva libertà di manovra autorizzata dalla superiore promozione che carica la sua pronuncia di specialissima responsabilità, allora il passaggio dalla disquisizione all' invettiva, il recupero esplicito cioè di quel morale negotium che, a norma dell' Epistola a Cangrande, rappresenta il genere in cui si inscrive veramente il poema, è un passo quasi obbligato. La finale riduzione (che è in realtà incomparabile sublimazione) delle auctoritates alla sola parola divina, alla quale ogni altra posizione e pronunzia si subordina rendendosi nel contempo utilizzabile, obbliga alla sollecitazione operativa, alla parenesi. E la finalità morale giustifica il ricorso, fin sulla soglia dell'Empireo, ai toni sorprendenti di un realismo non dissimulato, a cadenze anche ingiuriose ed esplicite, a quelli che Claudio Giunta propone oggi di designare come "versi a un 27
Tenzone nº 4 2003 destinatario". Le riserve cautelose dei puristi a proposito del brusco mutamento di tono e della sconveniente oltranza delle frasi pronunciate da Beatrice, sacrificano al culto di una norma retorica ormai anacronistica il riconoscimento di una motivazione superiore cui Dante, al solito, adempie con la sua proverbiale spregiudicatezza. Nella sfrontata fusione tra ricerca della verità e predicatoria ansia di comunicazione e proselitismo, si salda il connubio tra dottrina e prassi, tra fedeltà e sicurezza, quale era stato stabilito definitivamente nei grandi canti del Cielo del Sole con l'esaltazione incrociata di Domenico e Francesco (e il sermo humilis francescano, non per caso ispirato alla grande sorgente scritturale, si pone con ogni probabilità, ancor più delle consuetudini della poesia burlesca, come stimolo pragmatico, non più meramente letterario, alla brusca sterzata stilistica del canto). Senza contare, per concludere, che il tono brusco dell' invettiva traduce coerentemente, in questa finale versione sfigurata della quaestio, la riprensione (o contestazione degli argomenti avversi) così precisamente definita da Brunetto sulla falsariga di Tullio: Et dice che riprensione è quella parte della diceria nella quale il parliere reca cagioni e ragioni et argomenti per li quali attuta e menoma et indebolisce il confermamento dell' avversario. Dove il magister è depositario dell' unico vero, le procedure della logica e della persuasione possono deformarsi nelle figure della negazione e dell' aggressione: la necessità ormai impellente della reductio ad unum esclude l' ammissibilità di autentiche alternative e la sottile costruzione del canto testimonia una linea di confine oltre la quale niente sarà più controvertibile o sottoposto al vaglio della disputa e del confronto. 28
Corrado CALENDA Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione … NOTE 1 Si è preferito mantenere a questo saggio la forma sostanziale dell' esposizione orale, corredandolo esclusivamente dei pochi riferimenti bibliografici necessari. 2 Le citazioni da La Rettorica di Brunetto sono tratte dall' ed. a cura di F. Maggini, Firenze, Istituto di studi superiori, 1915. 3 Per una sintesi "d'autore" delle riflessioni dello studioso in merito, basti il rimando a F. Alessio, “Il pensiero filosofico”, in Manuale di Letteratura italiana. Storia per generi e problemi, vol. I, Dalle Origini alla fine del Quattrocento, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 45-80. 4 Cfr. Dante Alighieri, Opere minori, a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, vol. 5, t. II, Milano-Napoli, 1979, p. 532. 5 Le citazioni dalla Commedia sono tratte da La commedia secondo l'antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, vol. 4, Milano, Mondadori, 1966-67. 6 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, illustrata da G. Doré, Paradiso, a cura di D. Mattalia, Milano, Rizzoli, 1960, nota ad locum. 29
Tenzone nº 4 2003 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CALIGARIS, P. (1967): “Par. XXIX 58-63”, in Saggi di interpretazioni dantesche, Torino, SEI. CONTINI, G. (1976): “Un’esempio di poesia dantesca (Il canto XXVIII del Paradiso)” (1965), in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, pp. 191-213. NARDI, B. (1956): “Il canto XXIX del Paradiso”, in Convivium, XXIV, f.3, pp. 294-302. PASQUAZI, S. (1966): “Alle soglie dell’Empireo”, in All’eterno dal tempo, Firenze, Le Monnier. PETROCCHI, G. (1994): “La dottrina degli angeli” (1965), in Itinerari danteschi, Milano, Franco Angeli. QUAGLIO, A.E. (1965): “Il canto XXIX del Paradiso”, in Ateneo V (fasc. Speciale per il VII centenario dantesco). 30
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