PAGHERETE CARO, PAGHERETE - TUTTO di Sandokan

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PAGHERETE CARO, PAGHERETE
TUTTO di Sandokan

                                                     La lunga
fila della foto sopra non è del 1929, quando milioni di
americani vennero gettati sul lastrico dopo il crollo di Wall
Street. Non ritrae cittadini berlinesi dopo la catastrofica
sconfitta del nazismo. Non siamo a Calcutta e nemmeno a Buenos
Aires nei giorni della terribile crisi del 2001.

Siamo a Milano, in Viale Toscana, all’ingresso della Onlus
“Pane Quotidiano”. La foto di cittadini in attesa di un pasto
gratis è di sabato 20 marzo 2021, l’altro ieri.

L’immagine plastica, direte, della profondità della crisi
economica e sociale. Sbagliato! Messa così rischia di suonare
come un’assoluzione delle classi dominanti e dei loro governi,
che ci presentano la tragedia come fosse una catastrofe
naturale. La catastrofe non è nemmeno causata da presunte
“cieche leggi economiche”. E’ piuttosto il risultato di
deliberate decisioni politiche, dell’uso scientemente
programmato e pilotato della pandemia, della volontà politica
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di farne deliberatamente un evento scioccante per chiudere un
ciclo storico, per giustificare il passaggio ad un diverso
modello sociale. Lo chiamano “grande Reset”. La Grecia fu la
cavia per ristrutturare l’Unione europea. L’Italia si presenta
oggi, l’abbiamo detto qui e lo ripetiamo, il principale
laboratorio occidentale per sperimentare la transizione al
nuovo sistema.

La prova? Se lorisgnori volessero, potrebbero ben sforare il
deficit non di 12 o 20 ma di 100 o anche 300 miliardi. Non
avremmo la fila a Milano, non avremmo i nuovi milioni di
poveri, non avremmo il trauma sociale che umilia tanti
italiani, e non avremmo la devastante recessione in corso.
Chiedetevi la ragione per la quale lorsignori, pur potendo
adottare radicali politiche di sostegno al reddito, non lo
fanno. Non lo fanno perché il loro disegno deliberato è
appunto quello di fabbricare milionate di morti di fame così
da avere un esercito di proletari pronti a lavorare come nuovi
schiavi per un salario di fame.

In barba al racconto della “fine del lavoro”, ai discorsi
sull’automazione per cui staremo tutti in panciolle con un
reddito garantito, si scopre che il capitalismo cambia forma
ma non la sua essenza.

Riusciranno i dominanti a gestire questo passaggio alla iper-
modernità, ovvero il ritorno al capitalismo selvaggio, senza
tremende scosse sociali, cioè senza incontrare resistenze?

Non lo sappiamo e nemmeno loro lo sanno, giocano d’azzardo,
sperando che l’opera di rincoglionimento delle masse le abbia
definitivamente narcotizzate e disarmate.

Sappiamo tuttavia una cosa, anzi due. La prima è che noi si
deve lavorare per inceppare la macchina, affinché sia impedita
la transizione al nuovo capitalismo della barbarie. La seconda
è che la sollevazione popolare, dati i tempi, sarà per sua
natura anonima, tremenda e improvvisa, o per dirla con San
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Paolo:

 «Ora, quanto ai tempi e alle stagioni, fratelli, non avete
 bisogno che ve ne scriva, poiché voi stessi sapete molto bene
 che il giorno del Signore verrà come un ladro di
 notte. Quando infatti diranno: «Pace e sicurezza», allora una
 subitanea rovina cadrà loro addosso, come le doglie di parto
 alla donna incinta e non scamperanno affatto». [1
 Tessalonicesi, 5,1-11]

MODELLO             SINGAPORE?                  di       A.
Vinco

                                                 Il prossimo
World Economic Forum (WEF) sul tema del “Grande Reset”, si
svolgerà a Singapore dal 25 al 28 maggio. Non a caso proprio
lì. La città Stato o “smart city”, modello per la Cina
denghista, riceve da tempo l’encomio di potenti frazioni delle
élite occidentali. Nel 2018 Bloomberg ha classificato
Singapore come “digital leader”, ponendola al terzo posto
mondiale per quanto concerne il livello d’innovazione. Sempre
nel 2018 il WEF ha classificato Singapore al secondo posto nel
mondo in quanto a indice di competitività. Le autorità della
città stato non nascondono la loro soddisfazione. Dietro a
questa vetrina luccicante, la situazione è segnata da
squilibri sociali enormi: alta disoccupazione, alti livelli di
povertà e diseguaglianza, un sistema sanitario altamente
iniquo e poco performativo, vera e propria segregazione dei
lavoratori salariati immigrati. Come se non bastasse Singapore
è lo Stato a più alto e capillare livello di sorveglianza
digitale.

Siccome Singapore sarà la sede del prossimo WEF, dato che la
città-stato ci viene spacciata come esempio che annuncia il
nostro stesso futuro, vorremmo occuparcene più da vicino.

Pubblichiamo questo primo contributo, malgrado dissentiamo da
alcune affermazioni.

                            * * *

Singapore: prototipo di tecnocrazia asiatica confuciana

Cosa ci insegna la vicenda di Singapore, il governo che,
secondo Parag Khanna, sarebbe il più ammirato e studiato al
mondo? Lee KuanYew (LKY) fondatore della Città Stato, di
originaria formazione socialista anglosassone, fu guida del
Partito di azione popolare e il carismatico primo ministro che
nel giro di una generazione seppe portare Singapore dal
sottosviluppo del Terzo Mondo al pieno e più avanzato
sviluppato del Primo Mondo. Scrive Khanna, stratega politico
di fama globale, nel suo ultimo libro tradotto da Fazi su Il
secolo asiatico? ( marzo 2019), che oggi nel mondo gli
“statisti, i pianificatori urbani e gli strateghi si ispirano
a LKY, non a Thomas Jefferson”.

Nel 2005 la rivista “Time” acclamava LKY come il “Re Filosofo
del ‘900” e la personalità più importante nell’ispirare
l’evoluzione neo-socialista tecnocratica di Deng Xiaoping.
Nota come “smart nation” a causa del livello elevatissimo di
digitalizzazione generale, Khanna considera il modello di
Singapore una tecnocrazia confuciana basata sul capitalismo di
Stato, questa sarebbe la sua specificità rispetto al
democraticismo liberista occidentale. Il sociologo
singaporiano Chua Beng Huat ha dimostrato nel suo libro
Liberalism Disavowed che le scelte politiche di Singapore in
materia di edilizia pubblica, multirazzialismo avanzato e
capitalismo di Stato chiarificano la sua evoluzione sociale,
concretamente alternativa a quella occidentale.

Gli abitanti di Singapore sono quasi sei milioni, la gran
parte sono di provenienza cinese. Gli huaren, cinesi
d’oltremare, sono decine e decine di milioni sparsi nel Sud
Est asiatico, il loro numero esatto è tuttora in discussione.
I gruppi etnici che si distinguono per il dialetto parlato
sono l’elemento che differenzia i vari gruppi storici
culturali huaren. Molto importanti sono gli hokkien,
provenienti dalla provincia del Fujian. Questi si sono diretti
principalmente a Singapore, oltre che nella Malesia, a Taiwan
e a Hong Kong. Gli hokkien sono conosciuti per le loro
capacità militari e politiche. I Taiping, che secondo Hosea
Jaffe dettero il via alla rivoluzione comunista più grande e
radicale della storia, erano hakka. Hakka furono i marescialli
di Mao Zedong, Zhu De eYe Jianying; poi Den Xiaoping, poi il
leader di Singapore, già menzionato, LKY e l’ex presidente
della Repubblica di Taiwan Lee Teng- hui.

Per quanto la dirigenza della Città Stato non è ancora pronta
ad avere un primo ministro non cinese, sebbene il politico più
popolare del Paese sia un indiano tamil, in passato ha avuto
diversi presidenti o giudici indiani o anche un presidente
malese donna e gli indiani rappresentano la stragrande
maggioranza del gabinetto attuale. La “democrazia digitale dal
basso”, con richieste formulate online dai cittadini, si
integra nell’elitismo tecnocratico, al punto che la presidenza
di Singapore è definita un comitato democratico-tecnocratico
con un’ampia e profonda conoscenza di tutti gli aspetti della
governance.

L’identità di Singapore, a nostro avviso, è stata forgiata dai
terribili scontri razziali del 1964, quando migliaia di
islamici malesi si riunirono al Padang per commemorare il
Profeta Muhammad nell’anniversario della sua nascita, e dai
precedenti scontri, per tutto il corso degli anni ’50, tra
cattolici e mussulmani sul caso di Maria Hertogh, una bambina
cattolica indonesiana convertita dalla mamma all’Islam. Furono
quei tragici eventi, a nostro parere, a spingere LKY sulla
strada del nazionalismo modernistico, panasiatico e
confuciano, subito dopo l’Indipendenza dalla Corona britannica
(9 agosto 1965); non abbiamo però trovato fonti che confermino
questa nostra percezione degli eventi, i fatti successivi
sembrerebbero lo stesso convalidarla.

I dipendenti pubblici della Città Stato sono i più pagati al
mondo, il primo ministro è solitamente uno scienziato
informatico e secondo criteri valutativi occidentali il
sistema pedagogico scolastico singaporiano sarebbe il più
avanzato e “democratico” del pianeta, nel senso che darebbe a
tutti coloro che si trovano in età scolare le medesime
possibilità di sviluppo e conoscenza. L’ex primo ministro di
Singapore Goh Chok Tong disse alla metà degli anni ’90 che
dall’anno Duemila sarebbe stato l’Occidente a dover imparare
dall’Asia e non viceversa, LKY disse in più casi che il XXI
secolo sarebbe stato caratterizzato dall’offensiva
dell’ideologia panasiatista, con l’unificazione storica di
Cina, Giappone, Taiwan in una grande coalizione
antioccidentale.

Cosa vi è alla base dell’impulso poderoso della Tecnocrazia
confuciana singaporiana? A nostro avviso, vi è il grande
nazionalismo asiatico, non solo la volontà di superare la
grande divergenza con l’Occidente, ma anche quella di fare di
nuovo dell’Asia il centro del mondo. Questo spinse il
pragmatico e realista confuciano Deng Xiaoping a seguire il
modello nazionalista tecnocratico singaporiano, nella
strategia della inevitabile collisione storica con l’avanzato
Primo Mondo occidentale. Non importa di che colore sia il
gatto, importa acchiappi il topo. Il topo, in questo caso, è
la civilizzazione occidentale presa di mira dal nazionalismo
imperialista giapponese nel ‘900, da quello panasiatista di
LKY, Deng Xiaoping, Goh Chok Tong ai nostri giorni.

Sebbene Singapore abbia modeste dimensioni, il suo sistema di
difesa è uno dei più avanzati dell’area del Sud Est asiatico.
Nel luglio 2019, le forze armate di Singapore e l’Esercito
popolare di liberazione della Cina hanno avviato dieci giorni
di esercizi militari bilaterali. Lo riferiva in una nota il
ministero della Difesa (Mindef) di Singapore, precisando che
l’iniziativa era alla sua quarta edizione dal 2009, anno in
cui le parti avevano avviato l’esperienza. “La cooperazione
per l’esercizio fisico è uno dei cardini dei nostri già forti
legami bilaterali di difesa e delle relazioni tra Cina e
Singapore, due nazioni asiatiche unite e solidali”, ha
dichiarato il generale Fredeick Choo alla cerimonia di
apertura degli esercizi, citato da “The Straits Times”. Il
vice commissario del programma, il maggiore Liu Jia,
aggiungeva che l’esercizio aiuterà entrambi gli eserciti a
“rafforzare le capacità di antiterrorismo”, oltre che a
“approfondire la comunicazione, la cooperazione e l’amicizia
tradizionale”.

Nel settembre 2020 il Dipartimento della Difesa USA nel
rapporto sullo sviluppo e sulla postura militare asiatica
della Cina, inserisce con preoccupazione Singapore tra le
nazioni del Sud Est asiatico già pronte, con accordo
delineato, a ospitare basi militari cinesi. La successiva
smentita del premier della Città Stato non hanno convinto
affatto il Pentagono e il Dipartimento della Difesa, che
continuano a mettere la Città Stato sullo stesso piano di
Pakistan, Myanmar, Thailandia, a causa delle sue relazioni
privilegiate con Pechino

Povertà e emarginazione sociale a Singapore

Sebbene l’elite tecnocratica tenda a silenziare il dibattito
sulle condizioni sociali di una pur minima fascia della
popolazione, molte ricerche rilevano la straordinaria
sperequazione sociale vigente. La Città Stato, centro
finanziario offshore (CFO), avrebbe basato la propria
esponenziale crescita finanziaria sullo sfruttamento della
forza lavoro accumulata rappresentata da circa un milione e
mezzo di immigrati, controbilanciata dall’accumulazione di
capitale tutelata e salvaguardata dall’offshore. La
popolazione singaporiana può così arricchirsi in base alla
politica di stagnazione dei salari degli immigrati, che vedono
costantemente di fronte ai propri occhi lo spettro della
quotidiana riduzione e compressione salariali. Il reddito pro
capite supera i 40 mila dollari annui mentre il salario di un
lavoratore immigrato è mediamente fermo sui 400 dollari
mensili.

Tale situazione sociale si è addirittura radicalizzata nel
corso dell’attuale crisi globale da Covid-19: sovraffolamento
in dormitori fatiscenti, segregazione sociale e ulteriore
discriminazione xenofoba degli immigrati, emarginazione
sociale di un terzo della popolazione, hanno infatti acuito le
disuguaglianze di opportunità e salario. Le Forze armate
singaporiane possono punire con la fustigazione coloro che si
macchiano del reato di “disordine sociale”. Nel dormitorio più
affollato della Città Stato, vi sono circa 40 mila posti
letto, costantemente occupati da immigrati. 26 casi di morti
da Covid su 46 mila casi sono un successo per l’elite
tecnocratica singaporiana, ma quasi tutti i casi di morte e di
contagio riguardano non a caso la popolazione che vive ai
margini.

Se usiamo i coefficienti Gini, dove 0 è l’indicatore della
massima eguaglianza, Singapore nel 2019 ha registrato il 42,5
(cifra pressoché eguale a quella della Cina), si consideri che
il Giappone registra il 33,6 e l’India il 36,8. Sono le
pietose condizioni di vita della massa salariata a spiegare la
grande sproporzione in fatto di distribuzione della ricchezza.
Su quasi 6 milioni di abitanti, cinque milioni vivono in una
condizione sociale di grande progresso da Primo Mondo
avanzato, ma un milione di emigrati vive in condizioni sociali
e umane disperate.

Va infine considerato che, a differenza dell’Occidente
liberale dove il modello di democrazia rappresentativa involve
sistematicamente nella paretiana “plutocrazia oligarchica”,
nella tecnocrazia autoritaria singaporiana vive una pragmatica
e concreta meritocrazia che permette una effettiva e moderna
circolazione delle élite. Vanificato però, tutto questo, dalla
realtà sociale che riguarda gli esclusi, gli ultimi e gli
“infimi” della scala sociale; ciò, sia ben chiaro, non vuole
essere un endorsement per l’individualismo democraticistico
occidentale e per gli astratti diritti individuali
anglosassoni, che nella storia concreta hanno fatto e stanno
facendo pure di peggio.

I liberali, i cultori dei diritti individuali non hanno
sfruttato un milione di immigrati, come fanno a Singapore,
quei nazionalisti asiatici, ma interi continenti, radendo al
suolo    intere    civiltà    e  culture    con    il metodo
dell’annientamento e dell’estinzione pianificata con decine e
decine di milioni di sterminati, come magnificamente mostrato
da Mike Davis nel saggio Olocausti tardovittoriani.

Tacciano dunque, i liberali e le sinistre arcobaleno, di
fronte a Singapore o al militarismo cinese e restituiscano, se
vi riescono, quanto hanno tolto nel giro di pochissimi
micidiali anni al Terzo e al Quarto Mondo.
IL GRANDE                RESET          di      Ilaria
Bifarini

Dalla pandemia alla nuova normalità. Fresco di stampa il libro
di Ilaria Bifarini
Nulla tornerà come prima. Dimentichiamoci il mondo come lo
avevamo conosciuto prima di febbraio 2020.

Esagerazione? Catastrofismo? No, è l’inizio di una nuova era.
La crisi che stiamo vivendo farà da catalizzatore a
cambiamenti necessari per accelerare la realizzazione di un
disegno già predisposto, che prevede l’annientamento
dell’attuale sistema socioeconomico. È il Grande Reset, il
tema del prossimo Forum di Davos, il consesso annuale dove si
riuniscono i grandi della terra per decidere su questioni che
riguardano la governance mondiale. Un piano preciso, ufficiale
e ben documentato, sul quale istituzioni internazionali,
filantropi, organizzazioni non governative e mega-aziende
private collaborano apertamente già da tempo.

Nelle menti di chi progetta il nuovo mondo la dichiarata
pandemia rappresenta un’occasione troppo preziosa per essere
sprecata: nulla dovrà tornare come prima. Le misure
restrittive adottate dai          governi hanno sdoganato
definitivamente pratiche comportamentali funzionali alla nuova
normalità, dallo smartworking alla teledidattica. Le nuove
abitudini acquisite dalle popolazioni durante la crisi del
coronavirus     hanno    apportato     quell’impulso     alla
digitalizzazione e all’automazione decisivo per implementare
la Quarta Rivoluzione Industriale, che finora stentava a
realizzarsi. Milioni di imprese spariranno, molte avranno un
futuro incerto. Altri nuovi mercati verranno a crearsi, sulle
ceneri dei vecchi che dovranno far posto alla trasformazione.

Intanto, mentre si procede alla realizzazione del piano,
presentato dai suoi fautori come l’alba di un mondo migliore,
più equo e sostenibile, ovunque si assiste a un ulteriore
aggravamento delle disuguaglianze e della concentrazione di
ricchezza, con un’impennata straordinaria dei redditi dei
miliardari e uno scivolamento di milioni di cittadini nella
fascia di povertà. Una tendenza destinata ad aggravarsi, con
la distruzione di milioni di posti di lavoro e dell’economia
di produzione, destinata a dissolversi per far posto ad altri
mercati, sempre più digitalizzati e supportati dalle nuove
intelligenze artificiali.

A differenza delle rivoluzioni tecnologiche del passato, che
inauguravano un periodo di crescita e di creazione di nuovi
lavori, oggi l’azione combinata delle tecnologie informatiche
e di quelle biologiche apre scenari inediti. L’essere umano,
minacciato da un’intelligenza artificiale sempre più
performante e capace di sostituirlo in attività un tempo
impensabili -dalla medicina al giornalismo- si troverà a fare
i conti con un senso di inutilità e inadeguatezza. La
crescente disoccupazione e la distruzione dell’economia
reale, frutto della gestione della crisi del Covid, lasceranno
una desertificazione industriale e lavorativa, destinata a
rimanere tale secondo i progetti stessi del Grande Reset.

Riuscirà questo piano nel suo compito di trasformare non solo
l’economia e la società, ma anche la natura stessa dell’essere
umano? Una sfida aperta, su cui fa luce questo mio ultimo
lavoro.

* Fonte: Ilaria Bifarini
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