NUOVI ORIZZONTI DELLA TECNICA, DELLA SCIENZA E DELLA FEDE
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NUOVI ORIZZONTI DELLA TECNICA, DELLA SCIENZA E DELLA FEDE (A.A. 2021/2022 – I Semestre – 3 ECTS – 24 ore) Giovanni Amendola TERZA PARTE La fede cristiana nella neo-modernità tecno-scientifica CAPITOLO 2 La ragione sensibile come sintesi neo-moderna tra ragione forte e ragione debole Se, da un lato, la ragione forte della modernità positivista ed idealista si è mostrata infedele alle sue promesse di benessere, di pace e di felicità e se, dall’altro lato, la ragione debole della post- modernità risulta radicalmente inaffidabile per la costruzione di una società umana, occorre comprendere più profondamente quale sia la portata della ragione nella teorizzata, invocata e sperata neo-modernità. Cercheremo di mostrare come la concezione di ragione sensibile possa tenere unite le istanze della critica moderna, senza degenerare in assolutismi e fondamentalismi che finiscono con l’ottundere la razionalità umana, e le istanze della critica post-moderna, senza degenerare in una ipercritica che finisce con l’annientare la stessa razionalità. La ragione forte finisce con l’allontanarsi dal luogo sorgivo del pensare e identifica le proprie astrazioni con la realtà. Una tale ragione perde di vista la portata dell’intus-legere, della sua capacità intuitiva, non cerca più la sua origine, mentre tenta di operare esclusivamente nella ricerca di connessioni e di legami (inter-legare) in vista di una costruzione astratta e sistemica, che tuttavia non potrà mai davvero giungere coerentemente a compimento per l’incompletezza radicale di ogni teoria logico-formale. La ragione debole al contrario diffida totalmente delle sue proposizioni, perché un attimo dopo averle intuite ne riconosce la non verità e, pertanto, ritiene insensato connetterle assieme ad altre proposizioni, altrettanto non vere, e nessuna sistematizzazione sarebbe possibile. 1. La critica alla ragione forte: astratta, disincarnata, superficiale e calcolante In un saggio del 1807 dal titolo Chi pensa astrattamente? (Wer denkt abstrakt?), Hegel sostiene che a pensare in modo astratto non sia “l’uomo colto”, ma quello “incolto”: «la buona società perciò non pensa astrattamente, perché ciò è troppo facile, troppo basso (basso, non secondo l’esteriore condizione sociale)»1. Pensare astrattamente significa per Hegel identificare la realtà, in particolare quella dell’essere umano, con una astrazione che la deturpa, la degrada, la banalizza e la impoverisce infinitamente: riduce un uomo condotto al patibolo a null’altro che un assassino; etichetta una donna in base al vestito, alle parti del suo corpo o ai suoi parenti; tratta un uomo domestico esclusivamente come un servitore incapace di qualsiasi dialogicità. Si tratta di esempi proposti dallo stesso Hegel. In particolare, riportiamo alcuni suoi commenti sull’astrazione dell’assassino e sulla possibilità di un pensiero capace di oltrepassare l’astrazione e di intravedere una pienezza di umanità: 1 G.W.F. HEGEL, Wer denkt abstrakt? [1807], in Hegel-Studien, a cura di A. Bennholdt-Thomsenn, vol. 5, Bonn 1969, p. 161. Per la traduzione in italiano facciamo riferimento a quella di Furia Valori in G.W.F. HEGEL, Chi pensa astrattamente? [1807], 22 luglio 2015, in https://criticaimpura.wordpress.com/2015/07/22/g-w-f-hegel-chi-pensa- astrattamente-1807/).
«Questo pensare astrattamente, nell’assassino non vedere niente altro che questo astratto, che è un assassino, e con questa semplice qualità cancellare in lui tutta la restante essenza umana […]. Ben diversamente udii una volta una vecchia popolana dell’ospizio uccidere l’astrazione dell’assassino e vivamente rendergli onore. Il capo mozzo giaceva sul patibolo, c’era la luce del sole: “Eppure come è bello, disse; il sole benefico di Dio illumina la testa di Binder!”. A un ribaldo con il quale si è in collera si dice: tu non meriti che il sole ti illumini. Quella donna vide che il capo dell’assassino era illuminato dal sole, e che dunque ne era ancora meritevole. Ella lo solleva dal castigo del patibolo alla grazia raggiante di Dio: non realizza la conciliazione mediante le sue violette e la sua sentimentale vanità, bensì lo vede accolto nella grazia del più alto sole»2. La ragione forte è pertanto una ragione disincarnata come rileva Nietzsche in un passo di Così parlò Zarathustra: «“Io” dici e sei fiero di questa parola. Ma la cosa più grande cui non vuoi credere è il tuo corpo e il suo grande raziocinio (dein Leib und seine grosse Vernunft): non dice ‘io’, ma agisce da ‘io’»3. La ragione forte, nel suo radicarsi in astrazioni disincarnate non più pensate o addirittura mai pensate, appare come superficiale ed incapace di generare novità. Per Nietzsche le derive della ragione umana possiamo ritrovarle nei cosiddetti “dotti” del suo tempo, che finiscono con il riciclare il pensiero dei grandi filosofi che li hanno preceduti. Questi “dotti” sono descritti metaforicamente da Zarathustra come coloro «che siedono freddi all’ombra fredda: in tutto vogliono solo essere spettatori e si guardano dal sedere là dove il sole scotta i gradini. Simili a coloro che stanno sulla strada e fissano la gente che passa: così aspettano anche loro e fissano i pensieri che altri hanno pensato. Se li sfiori con le mani spargono polvere attorno a sé come sacchi di farina, involontariamente; ma chi potrebbe immaginare che la loro polvere è stata di grano e delizia gialla dei campi estivi? Se si presentano come saggi, mi fanno rabbrividire i loro detti e le loro povere verità […]. E quando abitavo da loro, abitavo sopra di loro. E me ne hanno voluto. Non vogliono sapere che uno cammini sopra le loro teste; e così misero legno e terra e immondizie tra me e le loro teste. Così attutirono l’eco dei miei passi: e finora sono stato udito peggio proprio dai più dotti. Ogni errore e debolezza umana misero tra se stessi e me: ‘controsoffitto’ lo chiamano nelle loro case. Ma ciò nonostante cammino con i miei pensieri sopra le loro teste; e persino se volessi camminare sopra i miei stessi errori, camminerei ancora sopra le loro teste» 4. Questa ragione forte, astratta e superficiale, Martin Heidegger la denota come razionalità o pensiero calcolante. È in tale contesto che prende forma la celebre affermazione di Heidegger, secondo cui «la scienza non pensa»: «La scienza non pensa. Quest’affermazione è scandalosa. Lasciamo all’affermazione il suo carattere scandaloso anche se aggiungiamo subito che la scienza ha comunque, sempre e in una sua maniera peculiare, a che fare con il pensiero. Ma questa sua maniera è autentica e carica di conseguenze solo quando l’abisso che sta tra il pensiero e le scienze diventa visibile e se ne riconosce l’insuperabilità. Qui non ci sono ponti, ma soltanto il salto. È per questa ragione che non fanno che recar danno tutti i ponti d’emergenza e tutti i ponti dell’asino che proprio oggi vogliono instaurare un comodo rapporto d’affari tra il pensiero e le scienze. Dobbiamo quindi, in questo momento, nella misura in cui proveniamo dalle scienze, sopportare quanto nel pensiero è scandaloso e inconsueto, posto che siamo preparati ad imparare a pensare» 5. Si tratta di un’affermazione paradossale e, come osserva lo stesso filosofo tedesco, scandalosa, che va compresa nella sua portata più ampia, ma anche, in un certo senso, criticata nelle sue vedute estremiste. Innanzitutto, l’affermazione indica quel pensare oggettivante che finisce con l’oggettivare lo stesso soggetto pensante. L’essere umano diventa così quasi una sorta di macchina 2 Ibid. 3 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Giunti, Milano 2006, 41. 4 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, 148-150. 5 M. HEIDEGGER, Che cosa significa pensare?, 41.
calcolante assorbito nei tecnicismi ed incapace di pensare autenticamente. In tal senso, questo “non pensare” non può essere meramente riferito alle scienze della natura, in quanto anche la filosofia e la teologia possono divenire “scienze che non pensano” ovvero che pensano nei termini di un pensiero calcolante ed oggettivante, come accade già nell’approccio naturalistico del positivismo o della filosofia del linguaggio di impronta neopositivistica. La teologia può trasformarsi in una scienza che non pensa e, di fatto, è accaduto ed accade continuamente, quando finisce con l’interrogarsi su questioni astratte e insignificanti per la fede e l’esperienza umana, come è avvenuto ad esempio, nella prima metà del Novecento, con la cosiddetta “teologia manualistica” e la “teologia del Magistero” o “teologia del Denziger” (Denzingertheologie)6. Infine, le scienze della natura “non pensano” nel momento in cui ritengono di darci la vera spiegazione della realtà. Su tutto ciò Heidegger orienta l’attenzione ed invita a ritornare e riscoprire un pensiero autentico che possa condurre ad una nuova epoca: «Il più considerevole [das Bedenklichste] nella nostra epoca preoccupante [bedenkliche] è che noi ancora non pensiamo» 7. Non è possibile, partendo dalle metodologie acquisite delle scienze sviluppare o giungere ad un tale pensiero. Non c’è continuità tra quella forma di razionalità e quella di cui si sta parlando qui, soltanto «il salto ci porta bruscamente là dove tutto è diverso, tanto diverso che ci sorprende» 8. Nella riflessione successiva Heidegger darà un nome alla razionalità della “scienza che non pensa”, distinguendo tra pensiero calcolante e pensiero meditante: «Ci sono pertanto due modi di pensare, entrambi necessari e giustificati, anche se in maniere diverse: il pensiero calcolante e il pensiero meditante. Proprio al pensiero meditante alludiamo quando diciamo che l’uomo del nostro tempo è in fuga davanti al pensiero»9. 2. La critica alla ragione debole: inaffidabile, evanescente, depressa e suicidaria In antitesi alla ragione forte, i postmodernisti hanno teorizzato una ragione debole come unica possibilità di uscita dalle degenerazioni totalitariste ed assolutiste di quel tipo di razionalità 10. Abbiamo già accennato all’incapacità di tale forma di ragione di rispondere ai problemi contemporanei che emergono da tanti ambiti, da quello politico, a quello economico, da quelli etici a quelli sociali. Una ragione debole è di fatto inaffidabile ed evanescente, perché non è in grado di sostenere fino in fondo le proprie tesi e, ad un’analisi più radicale, non è neppure in grado di enuclearle. Pertanto, nella concretezza del vissuto sociale, non riesce ad offrire alcun contributo ed orientamento. È di fatto una ragione suicidaria. Per comprendere in profondità perché questa ragione debole non può essere la soluzione alle degenerazioni della ragione forte, riprendiamo alcune riflessioni del poeta e filosofo italiano Marco Guzzi, conoscitore profondo del pensiero di Nietzsche e di Heidegger, che generalmente vengono considerati come i precursori della postmodernità e del pensiero debole. Questa forma di pensiero è talvolta collegata proprio al recupero del linguaggio poetico (presente, ad esempio, nelle stesse opere di Nietzsche e nei richiami alla poesia di Hölderlin da parte di Heidegger) come unica possibilità di uscita dal linguaggio formale e sistemico della filosofia razionalista ed accedere all’Essere e al luogo dell’autentico pensare come poetare (poesia pensante e pensiero poetante). Il recupero di tutto ciò, secondo il poeta Marco Guzzi, non conduce ad un relativismo nichilistico. Nell’opera intitolata eloquentemente La svolta, Guzzi fa notare come una reale ed incondizionata apertura verso il nulla, non approda necessariamente a quanto i sostenitori 6 Per una sintesi a riguardo rimandiamo a F.G. BRAMBILLA, “Teologia del Magistero” e fermenti di rinnovamento nella teologia cattolica, in La teologia del Novecento. Momenti maggiori e questioni aperte, a cura di G. Angelini - S. Macchi, Glossa, Milano 2008, pp. 189-198; mentre per una visione più approfondita sulla teologia manualistica, da cui prende spunto lo stesso Brambilla, rimandiamo allo studio di G. COLOMBO, La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, 305-335. 7 M. HEIDEGGER, Che cosa significa pensare?, 39. 8 Ibid., 105. 9 M. HEIDEGGER, L’abbandono, Il melangolo, Genova 1983, 31. 10 G. VATTIMO – P. A. ROVATTI (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2010.
di filosofie nichiliste contemporanee vorrebbero far credere, in quanto essi stessi non compiono concretamente tale oltrepassamento, ma restano vittime della stessa ragione asettica: «Non sarà il nichilismo contemporaneo incapace di penetrare, di sprofondare davvero nel Nulla, perché ancora ben ancorato a strutture egoiche e volontaristiche, a modalità metafisiche di pensiero, che conoscono soltanto la cieca guida della ragione rappresentativa?11». Seguendo l’analisi di Guzzi, i tentativi politico-culturali del comunismo marxista, da un lato, e del nazifascismo dall’altro (entrambe degenerazioni fondate sulle fallaci pretese di una ragione forte) si sono mostrati incapaci di ascoltare ciò che il pensiero stesso invocava, conducendo ad una ulteriore fase depressiva della ragione umana, sfociante nelle risposte dialetticamente opposte ma psicologicamente complementari, del neopragmatismo, del neoliberismo o del pensiero debole, da un lato, e quelle fanatiste e fondamentaliste, dall’altro. Così sintetizza Guzzi, evidenziando una sorta di legame psicologico-culturale: «il fondamentalista è un nevrotico ossessivo, mentre il nichilista neopragmatico e tecnodipendente è un depresso»12. Inoltre «Il nichilista “debole”, quello che in fin dei conti si dice: “Non resta che il declino, non resta che questa sorta di affossamento e di affondamento universali, che poi non sono tanto male”, è un depresso. Si sente giù e va giù. Ormai non sostiene più che questo moto sia piacevole. Ancora negli anni Ottanta del Novecento si diceva che fosse bello declinare. C’era l’estetismo del “pensiero debole”, che ci voleva convincere che in fondo andare alla rovina fosse bello e divertente»13. Pertanto, per avviare una fase matura e libera della ragione umana, occorrerebbe ritornare alle intuizioni originarie dell’oltrepassamento del pensare asettico e freddo presenti nella evoluzione storica della riflessione filosofica, per ricercare quella forma matura di pensiero, senza per questo abbandonare la ragione analitica, ma rifondandola per non ricadere nelle astratte elucubrazioni apatiche e insensibili: «Finora l’uomo ha esercitato un’astrazione intellettuale attraverso una contestuale separazione dal proprio corpo emozionato. Il pensiero doveva essere spassionato, tanto più quello scientifico, che è figlio del pensiero filosofico». Abbiamo invece bisogno di un «pensiero appassionato, un pensiero che resti nella passione, e non si separi mai dalla passione della trasformazione in atto»14. 3. La ragione sensibile e amante (eroticamente ed agapicamente) 3.1. Ragione come razionalità calcolante (inter-legere) La ragione intesa come intelligenza rimanda etimologicamente ad inter-legere, ovvero un legare assieme idee, concetti, affermazioni che abbiamo nella nostra mente. Si tratta di qualcosa molto vicino al ragionamento logico, ai famosi sillogismi di Aristotele. Ad esempio, se leghiamo assieme le affermazioni “Tutti gli uomini sono mortali” e “Tutti i greci sono uomini”, possiamo dedurre che “Tutti i greci sono mortali”. Si tratta della forma logico-inferenziale asettica della razionalità, la razionalità calcolante, in grado di trovare connessioni logiche tra i concetti (legando concetti diversi tra loro) e di produrre ragionamenti deduttivi, tipica dell’intelligenza artificiale, ma anche della razionalità esclusivamente argomentativa ed analitica, basata sul calcolo e sulla misura economicista di pesi e contrappesi. 3.2. Ragione come razionalità intuitiva (intus-legere) Nella storia del pensiero filosofico, etimologicamente, il termine intelligenza è stato anche interpretato come intus-legere, leggere dentro. Intendendo così una comprensione profonda delle 11 M. GUZZI, La svolta. La fine della storia e la via del ritorno, Jaca Book, Milano 1987, 192. 12 M. GUZZI, L’insurrezione dell’umanità nascente, 28. 13 M. GUZZI, L’insurrezione dell’umanità nascente, 28. 14 Ibid., 30.
cose, un vedere qualcosa che prima non si vedeva, dunque all’intuizione. L’immagine è quella di una lampadina che si accende nella mente e illumina qualcosa, che prima non capivamo ed ora invece ci appare chiaro. Intuizione infatti deriva dal verbo in-tueor che significa vedere dentro. Si tratta della forma intuitiva della razionalità, la razionalità intuitiva, in grado di intuire (leggendo e vedendo in profondità) i principi e le regole alla base di ogni successivo ragionamento, come appare nel caso degli assiomi e delle regole inferenziali delle scienze logico-formali o, più in generale, in ogni forma di conoscenza intuitiva in ambito filosofico. Fin qui, gli elementi classici della ragione umana che finiscono con il separarla radicalmente dalla dimensione sensibile. Da un lato ci sarebbe il razionale e dall’altro lato il sensibile. Proviamo a ricucire questi aspetti attraverso una comprensione più profonda della ragione umana, che indichiamo come ragione sensibile. La sensibilità che aggettiva questa modalità del pensare umano non va intesa come mero recupero dell’importanza della percezione sensibile nell’atto di conoscenza, dimensione mai dimenticata dalla filosofia tomista e dalla scolastica medievale e riportata in luce, attraverso il recupero della corporalità, evidenziandone ulteriori aspetti, dalla riflessione fenomenologica husserliana e post-husserliana, ma piuttosto di una categoria fondamentale e fondante per la stessa ragione umana. Sequeri propone una concezione di sensibilità non meramente corporale, dipendente esclusivamente dai sensi umani, ma una sensibilità per il senso propria dello spirito e non soltanto del corpo. Soltanto a questo livello si ha a che fare con una ragione all’altezza dell’umano e dell’esperienza umana della realtà: la ratio hominis digna. Non ritrovare la profondità di questo pensiero significa continuare a consegnare la conoscenza della realtà e dell’uomo a forme di razionalità inadeguate a comprendere il senso della vita umana. La razionalità matematica, fisica, chimica, biologica non si mostrano all’altezza di questa forma ulteriore di razionalità, in quanto non riescono, per propria costituzione, a guardare la realtà propria dell’umano, la connotano come calcolo ottimizzato, come relazioni di onde/particelle quantistiche, come processi e reazioni molecolari o come emergenza di necessità ormonali, restando troppo al di là di ciò che realmente appare a livello dell’umano15. Anche la contrapposizione romantica della dimensione sensibile ed emozionale a quella razionale ed intellettiva non si è mostrata all’altezza del razionalismo illuministico. Sebbene abbia cercato di richiamare lo sguardo su aspetti che superano le logiche del puro calcolo utilitaristico, si è mostrata per lo più come irrazionale, incapace di un pensiero critico da porre in dialogo con la ragione asettica e insensibile, sempre più forte della sua pretesa onnipotenza produttiva. La filosofia e la teologia non sono riuscite a cogliere questa dinamica e si sono allarmate per attrezzarsi anch’esse di un pensiero insensibile, per fondare, da un lato, i presupposti delle analisi linguistiche a fondamento delle scienze della natura e per rintracciare, dall’altro, argomentazioni per tutelare estrinsecamente la verità del cristianesimo. In tal modo, si è data per scontata l’affidabilità all’impostazione razionalistica di fondo. L’affondo a quella tipologia di razionalità è stato così affidato, quasi completamente, al nichilismo nietzschiano, finendo col dissolvere la razionalità stessa16. 3.3. Ragione come razionalità emotiva (inter-legere-et-sentire) Secondo tale accezione, la ragione sensibile è simile a ciò che alcuni hanno chiamato “intelligenza emotiva”: ogni nostro pensiero è intriso di esperienze emotive. Le emozioni non sono mai assenti dalla nostra mente. Esempio: il caso di Phineas Gage (1848). Phineas Gage era un operaio 15 «La vera realtà di cui è fatto il mondo umano, qui, non appare semplicemente. Quello che si cerca in quel piano di realtà – ossia la verità della coscienza, della libertà, della creatività, degli affetti, del pensare e del credere, dell’immaginazione e della memoria – lì non si vede proprio. Se ne scorgono, al più, tracce: del tutto disgiunte dal significato che immaginosamente viene loro attribuito: lucine di led che si attivano, tracce di particelle che svaniscono, emissione e metabolismo di sostanze, attivazione di nodi e terminali nervosi. Ed è tutto: inclusivo dello sguardo della madre e di un motto di spirito, dei Dialoghi di Platone e della Quinta sinfonia di Beethoven, della fedeltà alla parola data e dei dieci Comandamenti» (P. SEQUERI, Il sensibile e l’inatteso. Lezioni di estetica teologica, Queriniana, Brescia 2016, 27). 16 Cf ivi, 20.
statunitense che nel 1848 subì un grave incidente mentre lavorava alla costruzione di una ferrovia. Una trave di ferro gli perforò la guancia sinistra trapassandogli il cranio e recidendo parte del lobo frontale sinistro. Sebbene si salvò, la sua personalità subì notevoli cambiamenti divenendo irriconoscibile dai suoi stessi amici. Dall’analisi di casi simili a questo, Damasio individuò il ruolo attivo e l’interazione delle emozioni nei processi decisionali e razionali fino ad affermare, in riferimento al caso Gage che «il suo carattere, i suoi gusti, i suoi sogni, le sue aspirazioni: tutti cambieranno. Il corpo di Gage può essere ben vivo e vegeto, ma c'è un nuovo spirito che lo anima»17. Caratteristiche fondamentali dell’intelligenza emotiva: (1) la consapevolezza delle proprie emozioni; (2) il dominio delle proprie emozioni; (3) la motivazione; (4) l’empatia; (5) l’abilità sociale. Si tratta della forma sensibile emotiva della razionalità, la razionalità emotiva, dove entra in gioco la dimensione sensibile tipica dell’intelligenza emotiva, in grado di sentire e di legare assieme le istanze classiche dell’intelletto e delle emozioni, riconoscendo la corporeità della ragione umana e l’affettività nel procedere razionale. Possiamo considerarla come ampliamento sensibile della dimensione analitico-relazionale (inter-legere) dell’intelligenza, in quanto incrementa la relazionalità del legame tramite il sentire emotivo: mentre nella razionalità calcolante si cercano relazioni tra concetti e idee della mente, qui invece si cercano le relazioni che si instaurano emotivamente e personalmente con ciò che ci circonda: la natura, gli animali e gli altri esseri umani. 3.4. Ragione come razionalità adorante (intus-legere-et-sentire) Si tratta della forma sensibile adorante della razionalità, la razionalità meditante ed adorante, in grado di giungere a profondità inaudite, ascoltando una parola riconosciuta nella paradossale immanenza-trascendenza come donata; una razionalità sensibile alla sofferenza e al senso, costitutivamente non-strumentale. Possiamo considerarla come ampliamento sensibile della dimensione intuitiva (intus-legere) dell’intelligenza, in quanto incrementa la profondità della visione tramite il sentire esistenziale e spirituale. Il pensiero meditante di Heidegger è un pensiero oltre il calcolo, dove il pensare (Denken), a cui la scienza non può pervenire con il suo approccio metodologico ed epistemico, ha a che fare con il ringraziare (Danken). Si tratta di un pensiero che varca il limite, che compie un salto, in un territorio non più chiaro e distinto, ma incerto e indefinito a cui tuttavia non è lecito sottrarsi a meno di non rinunciare a priori a ciò che darebbe appunto da pensare. Qui si legge davvero in profondità, intuendo cose profonde, al di là della superficie dei concetti: il senso profondo della nostra vita nell’universo. Il filosofo agnostico francese Jean-Luc Nancy (1940-2021) a proposito della ragione, scrive: «Il filosofo è quello che non si prosterna. Eppure deve prosternarsi: in quanto filosofo deve sapere che la ragione si prosterna davanti a ciò che di essa si supera infinitamente. Deve quindi sapere che solo la ragione adorante è pienamente razionale e ragionevole»18. La legittimità di un pensiero che si affaccia sull’oltre, sebbene non sia un richiamo immediato alla dimensione religiosa, è stata esplorata proprio da alcuni esponenti della filosofia e della sociologia della religione che hanno mostrato come oltre ad una razionalità logico-formale, vada riconosciuta una liceità alla ragionevolezza, intesa come richiesta di un senso globale del vivere, che non si qualifica come illogica o irrazionale, ma piuttosto si manifesta come meta-logica, come possibilità che il Meta-razionale o l’Ulteriorità, propria di ogni esperienza religiosa, incroci in qualche modo l’uomo e la sua ragione. Il sociologo Ferrarotti ritiene che tale ragionevolezza «sembra affermare che l’uomo trova e troverà sempre forza per non rassegnarsi alla mera razionalità formale, quella del calcolo, della macchina e della burocrazia, che ne schiaccerebbe tutte le speranze», mentre è in ricerca di un orizzonte globale di senso «verso ciò che non può assolutamente essere soddisfatto 17 A. DAMASIO, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1996, 36. 18 J-L NANCY, L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo, Cronopio, Napoli 2012, 123
dalla razionalità di tutto ciò che la scienza e la tecnica hanno già escogitato o potranno offrire nel futuro»19. Giancarlo Gaeta, storico del cristianesimo, giunge per altri versanti a conclusioni analoghe, passando in rassegna alcuni dei testimoni più autentici delle vicende catastrofiche dello sterminio razziale20. Nello specifico, osserva come Walter Benjamin si sia rifiutato «di leggere il mondo dal di fuori, in base e in funzione di determinate categorie filosofiche, estetiche, storiche, eccetera, ma vuole mettere il pensiero a contatto con i fatti e le cose affinché “si rivelino nel loro segreto significato”. Si tratta di pensare sensibilmente»21. 3.5. Ragione come razionalità erotica (inter-legere-et-sentire-et-amare) Si tratta della forma sensibile passionale della razionalità, la razionalità erotica, che potenzia ulteriormente la razionalità emotiva attraverso il recupero e la concentrazione di tutte le energie vitali. Possiamo considerarla come ampliamento sensibile e amativo-passionale della dimensione analitica (inter-legere) dell’intelligenza, in quanto incrementa la relazionalità del legame tramite la spinta passionale. Il teologo Leonardo Boff in riferimento all’emergenza della questione ecologica 22 ne parla nei termini di una ragione sensibile e cordiale. Boff sostiene che tali problemi non possono essere affrontati restando nell’ambito del razionalismo moderno, incentrato sulla logica, ma necessita una proposta alternativa «fundada num outro tipo de racionalidade, naquela cordial e sensível»23. Una tale “ragione cordiale” ha a che fare con gli affetti, i sogni e le utopie che orientano la vita e danno speranza all’esistere umano, fino a ribaltare il paradigma cartesiano del «cogito, ergo sum» in quello del «sentio, ergo sum»24. Infatti, secondo Boff, la razionalità analitica da sola non è capace di attivare quella passione e tensione vitale che spinge ad agire concretamente per la salvaguardia dell’ambiente, per essere corresponsabili della cura del mondo. 3.6. Ragione come razionalità agapica (intus-legere-et-sentire-et-amare) Si tratta della forma sensibile unitiva ed amante della razionalità, la razionalità agapica, in grado di cogliere nell’unione armonica con la totalità dell’esistente una direzionalità trasformativa personale, sociale e cosmica; una razionalità sensibile alla giustizia e all’amore, costitutivamente oblativa ed agapica. Possiamo considerarla come ampliamento sensibile e amativo-unitivo-oblativo della dimensione intuitiva (intus-legere) dell’intelligenza, in quanto incrementa la profondità della visione tramite il sentire unitivo. In conclusione, la forma alta della razionalità umana è quella della razionalità erotica ed agapica al tempo stesso, entro cui trovano senso le altre forme di razionalità. Se volessimo sintetizzare la tesi principale tramite uno slogan o un aforisma, potremmo dire che solo chi ama è intelligente. Come ricordava papa Benedetto XVI: «Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore» (Caritas in veritate, 30). In altri termini, non si è veramente ed autenticamente intelligenti senza amare. Chi ritiene di essere intelligente attraverso l’esercizio di una ragione meramente strumentale, orientata ad un fine indifferenziato o, ancor peggio, orientata ad interessi personali, egoistici e bellici, tendenti a negare l’amore, vive nell’illusione del ritenersi intelligente. 19 F. FERRAROTTI, Il paradosso del sacro, Laterza, Roma-Bari 1983, 118. 20 Cf G. GAETA, Religione del nostro tempo, Edizioni E/O, Roma 1999. 21 Ivi, 51. 22 Cf L. BOFF, Ethos Mundial: Um consenso mínimo entre os humanos, Sextante, Rio de Janeiro 2003. 23 L. BOFF, «A busca de um ethos planetario», Perspectiva Teologica 40 (2008), 175. 24 Ivi, 176.
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