MYANMAR: PERCHÉ IL "COLPO DI - STATO" di A. Vinco
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MYANMAR: PERCHÉ IL “COLPO DI STATO” di A. Vinco Ricevi amo e pubblichiamo L’antiamericanismo preventivo dei generali in Myanmar Con una azione preventiva e non violenta, definita piuttosto frettolosamente “Golpe” dai media globalisti pro-Biden, i generali a Myanmar hanno impedito una serie di Rivoluzioni colorate asiatiche pianificate dal Segretario di Stato Tony Blinken — come ha spiegato alla televisione russa Leonid Ivashov, generale in pensione e attuale direttore dell’Accademia per i problemi geopolitici di Mosca. Pochi giorni prima dell’azione preventiva e antiamericanista dei generali di Yangon, il ministro della Difesa russa, Sergej Soygu, era appositamente volato in loco; come è noto il ministero della Difesa di Mosca è il maggior fornitore dell’esercito birmano. Singapore e Pechino sono invece da anni i massimi investitori in Myanmar. Con l’approvazione di alcune
misure di liberalizzazione, l’apertura agli investimenti diretti esteri (IDE) e la temporanea sospensione delle sanzioni internazionali, Yangon intendeva, dopo l’insediamento del nuovo governo nel 2016 guidato dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Ky, abbandonare l’autarchia del passato, eredità residuale del Governo nazionalsocialista e filosovietico del generale Ne Win (1962-1988), un coraggioso e illuminato statista che non fu mai suddito né di Washington né di Pechino. Ne Win fu il padre storico del nazionalismo antimperialista di Yangon e i generali si ispirano devotamente al suo testamento storico. Si poneva in programma, dal 2016, la transizione da uno stato di belligeranza tra il Tatamdaw Kyi (le forze armate) e le organizzazioni combattenti etniche, circa 18, alla sottoscrizione di un cessate il fuoco nazionale che fosse una via di mezzo tra il nazionalismo birmano dei militari e la volontà di pacificazione di Aung San Suu Ky. La transizione andò in porto, nonostante le traumatiche contraddizioni delle aree periferiche del Paese, soprattutto grazie al potere di veto dei militari che hanno reso il Governo una “democrazia armata nazionalista” ostaggio del loro stesso potere sulle transazioni dell’economia e della finanza, sebbene la costituzione riservi agli uomini in divisa non più del 25 % dei seggi. Il Consiglio Supremo della Difesa, l’organismo giuridico militare, si è sempre battuto perché il partito di Auung San Suu Ky operasse in modo intransigente ma dentro l’architettura costituzionale, dato che il rischio principale in Myanmar è rappresentato dalla guerra civile e etnica. La San Suu Ky, grazie alla mediazione dei militari nazionalisti, avviò la pratica dei governi regionali monocolore, che non ebbero un effetto destabilizzante nella vita civile birmana ma iniziarono anzi a avviare l’integrazione di minoranze etniche nel governo del Paese. Va anche considerato che la maggior parte dei vari raggruppamenti fondati sul separatismo etnico
continua a non vedere di buon occhio la leader della Lega Nazionale per la Democrazia non solo per il suo legame con i militari ma per il suo criptonazionalismo birmano. A più riprese, l’eroina birmana ha definito l’esercito il suo fiore all’occhiello, anche in virtù del ruolo rivestito in passato dal padre nelle forze armate di Yangon e ha riabilitato storicamente il nazionalsocialismo birmano di Ne Win. Il legame tra la donna politica birmana e l’esercito si è spezzato però nel novembre 2020; esponenti di punta dell’elite nazionalistica di Myanmar hanno denunciato da subito un flusso consistente di brogli nel corso delle più recenti elezioni e l’azione di presunti agenti britannici e americani, che avrebbero voluto far precipitare la Birmania nella guerra civile. L’eroina birmana non si mostrava all’altezza del suo compito, voleva mediare con l’Occidente, invece che denunciare il tentativo di golpe e la destabilizzazione su base etnica; per i militari era giustamente troppo. Sono così passati all’azione per salvare la Birmania dalla guerra civile. Guarda caso, negli stessi giorni assistevamo negli USA a uno scenario simile. Il golpe dello Stato Profondo e delle intelligence in USA andava in porto e Trump fermava l’insurrezione populista e anarcoliberista del Campidoglio. In Birmania hanno preso invece l’egemonia i nazionalisti antioccidentali dal 1 febbraio. I media globalisti liberali e della Silicon Valley parlavano di golpe. Cina e Russia di “democrazia sovrana” tutelata. Che cosa è in ballo in Myanmar? Per quanto possa apparire uno scenario marginale e secondario, a Myanmar si sta viceversa giocando una partita decisiva nel destino geopolitico globale. Yangon, importante snodo della BREI cinese, garantisce gli accessi all’Oceano Indiano da un lato, al sud est asiatico dall’altro. La linea geoeconomica Bangladesh-Cina-Pakistan-Myanmar diviene così anche una via geopolitica, la cui importanza non è proprio secondaria se
consideriamo il recente accordo – Regional Comprehensive Economic Partnership – stabilito tra i dieci Paesi ASEAN (tra cui Myanmar) più Giappone, Cina, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Australia. Un nuovo blocco geopolitico egemonico, che esclude le economie occidentali e che è ormai in grado di abolire il dollaro come moneta internazionale di scambio, affermando una serie di controvalori finanziari e monetari alternativi. Nell’ultimo anno, il sistema SWIFT, il più grande circuito di pagamenti al mondo, ha visto una riduzione esponenziale del dollaro come moneta transnazionale di riferimento e lo stesso fenomeno si sarebbe verificato negli asset delle principali Banche centrali al mondo. Un altro fenomeno che attesta la egemonia globale del nazionalismo rivoluzionario e del Confucianesimo di stato dell’Impero di Mezzo lo abbiamo con la vittoria sull’attacco americano a base di dazi e sanzioni e con l’autonomia produttiva e strategica dei colossi cinesi nella dimensione dei microchip e dei semiconduttori. Abbiamo già definito, in diversi casi, il 2020 l’anno della Rivoluzione Mondiale Covid 19 e della definitiva egemonia internazionale del nazionalismo han cinese. Il banco di prova Myanmar lo ha ben mostrato. La serie di Sovversioni colorate asiatiche di Blinken e dello Stato profondo sono state fermate ancor prima che vedessero la luce. Infine, Zeng Guang, capo epidemiologo del CDC cinese, accusa i laboratori inglesi, americani, francesi di essere alla base della diffusione anticinese del Covid-19, essendo nota l’esperienza dei colonialisti d’Occidente nello scatenamento di guerre biochimiche. (vedi QUI) I risultati dell’OMS hanno infatti in questi giorni completamente scagionato la Cina dalla ipotesi propagandistica angloamericana che la voleva all’origine del virus. Abbiamo così il mandarinato nazionalistico dell’Impero di Mezzo il
quale, con la voce del ministro degli Esteri Weng Wenbin, si permette di parlare apertamente di “virus liberale anglosassone” o “virus imperialista angloamericano” (vedi QUI e QUI). Wang Wenbin è un pezzo da novanta del fronte nazionalpatriottico confuciano di Xi Jinping; il Partito nazionalpopolare egemone di Xi nella guerra di fazioni ha definitivamente messo ai margini il gruppo riformista socialdemocratico di Shangai (tendenzialmente filobritannico come lo può però essere un partito han) superando la durissima prova di Hong Kong e ha ormai dalla propria parte la fazione, marginale alla base del Partito ma influente nel mandarinato, neomaoista e propriamente “comunista“. Non sta a noi fare gli epidemiologi e indagare le cause scatenanti del virus. Abbiamo provato a ricostruire la guerra globale dei vaccini (vedi QUI). Vediamo però, dopo la Rivoluzione Mondiale 2020, un nuovo universo in marcia. Il nuovo universo multipolare sarà di nuovo fondato su identità nazionali e patriottiche prima di ogni altro elemento sociologico come il presidente Putin ha affermato nel corso del suo intervento da remoto a Davos. E’ la guerra imperialista di civiltà a mandare in frantumi i tre decenni fondati sull’ alienante utopismo liberale. Cina, Russia, Turchia sono perciò all’avanguardia storica. Xi Jinping, Putin, Erdogan dettano le nuove regole. Un’azione politica come quella dei generali di Yangon ridisegna le catene globali del valori come o addirittura più di varie azioni coperte di Wall Street. Joe Biden e il sionismo globalista stanno rincorrendo sul piano del nazionalismo i tre paesi multipolaristi di avanguardia ma ripartono chiaramente con anni di ritardo. Si consideri infine che il grande nazionalista sociale e imperiale Xi Jinping, il profeta storico politico del “sogno mondiale cinese”, nonostante le terribili prove di Hong Kong e del “virus liberale sovvertitore”, non ha ancora sfoderato il suo asso nella manica: la mobilitazione imperiale e universale delle
infinite comunità huaren sparse in tutto il mondo. Molti analisti sostengono che quel momento arriverà quando il “Risorgimento” han sarà realizzato: con l’unificazione storica con Taiwan, momento che la Cina continentale sta attendendo dal 1997.
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