Maggio 2021 Domande per Pasqualotto e le sue risposte.

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Maggio 2021
Domande per Pasqualotto e le sue risposte.

     1. Le espressioni della scuola Huayan :
«fenomeni SENZA OSTRUZIONE" , e
«Le diecimila manifestazioni sono connesse in modo inestricabile, ma pur partecipando l’una
dell’altra NON SI CONFONDONO",
mi hanno colpito per l' eleganza , l' originalità , e la "concretezza".
Mi pare di cogliere in queste espressioni un ' intenzione particolare in chi le ha formulate :
quella di cercare di comunicare all' ascoltatore una visione "panorama/particolari" in cui
l' attenzione dell' ascoltatore venga appositamente leggermente sbilanciata a favore del particolare .
Insomma , inventarsi un' espressione verbale che cercasse di comunicare all' ascoltatore : "l'
insieme potenzia il particolare ".
a) mi piacerebbe sapere se anche a lei fa questa impressione
b) se ho capito bene , lei ha detto che "fenomeni senza ostruzione" è una resa "in positivo " del :
"tutte le cose sono vuote di esistenza propria ".
questa resa "in positivo" , "concreta",     è ascrivibile al fatto che l' autore della frase è un cinese ?
( e non un indiano , ad esempio )
c) quali sono i corrispondenti più prossimi delle forme di pensiero della Scuola Huayan nel
pensiero occidentale ?

    Non credo ci sia alcuna intenzione di ‘sbilanciarsi’ a favore del particolare. In questo Fazang
     è chiarissimo: “I due livelli di realtà costituiti dalla produzione condizionata [vacuità]
     e dall’esistenza relativa sussistono fianco a fianco” (Trattato sul leone d’oro, p.170-171)
    E’ così: ‘fenomeni senza ostruzione’ equivale a dire che tutti i fenomeni sono anattā (privi
     di sé), privi di ‘sostanza propria’ (svabhava). Questo è stato capito prima dal Buddha e poi
     dai Maestri indiani come Nagarjuna.
    In appendice all’edizione italiana del ‘Trattato’ di Fazang c’è un interessante saggio di M.
     Ghilardi che compara le tesi di Fazang con la dialettica di Hegel (pp.237-261). Antesignani
     di Hegel possono essere considerati Platone ed Eraclito, come ho cercato di chiarire in
     Pasqualotto, Il tao della filosofia (Luni) e Illuminismo e illuminazione (Donzelli). Ma l’idea
     della ‘Rete di Indra’ ha riscontro in Occidente solo in tempi recenti (Cfr. F. Capra, Il tao
     della fisica e A. Naess, Ecosofia). Con qualche forzatura si potrebbero rintracciare dei tratti
     comuni anche nell’Etica di Spinoza e nel sistema di Leibniz.

   2. Ruolo, significato e specificità del terzo gioiello (Sangha). Cosa potrebbe /dovrebbe
       caratterizzare il sangha di buddisti, un sangha zen da una comunità religiosa cattolica,
       cristiana di ebrei o mussulmani aldilà delle specifiche "credenze". Alla luce anche delle
       storie di collaborazione tra maestri e comunità che ci ha presentato.

    SANGHA

Quando si parla di etica buddhista spesso si indulge ad un atteggiamento affrettato che individua il
fine ultimo del cammino di perfezione morale nell’illuminazione. Che l’illuminazione o
‘risveglio’(bodhi) sia di fondamentale importanza tanto nelle parole del Buddha che nell’intera
storia di tutte le Scuole buddhiste, non v’è dubbio. Tuttavia è parimenti fuori dubbio che il
cammino verso l’illuminazione separato dalle pratiche previste dall’etica non solo è scorretto in
linea di principio perché non realizza l’equilibrio tra prajnā e karunā, ma è anche pericoloso di
fatto perché rischia di condurre verso il baratro del solipsismo. Non è un caso, infatti, che il vivere
in comunità (Sangha) sia considerato in tutte le tradizioni buddhiste, fin dall'origine, una delle cose
più importanti e preziose, uno dei Tre Gioielli (triratna) 1. Più in particolare, vivere in comunità con
quanti tentano di ottenere il distacco e l’illuminazione, costituisce una di quelle caratteristiche che
segnano l'inizio di una nuova vita e di un nuovo mondo: "controllo dei sensi, contentezza,
disciplina che porta alla liberazione e compagnia di amici virtuosi, puri e diligenti" 2. Ora questa
condizione in cui si realizza la "compagnia di amici virtuosi, puri e diligenti" non solo rappresenta la
migliore situazione pratica per il cammino di liberazione, ma esplicita anche il profondo e centrale
significato etico racchiuso nella massima: "Proteggendo sé stessi si proteggono gli altri;
proteggendo gli altri si protegge se stessi" 3. In particolare, tale significato va fatto emergere
richiamandosi al modo rivoluzionario con cui gli insegnamenti del Buddha affrontano e sviluppano
i concetti "se stesso" e "altri", ossia rifacendosi alla teoria dell'anattā. In base a questa teoria
ciascun sé - sia esso inteso come semplice elemento fisico o come singolo individuo vivente - non è
né costituito né pensato come unità separata, come ente autonomo, come 'atomo' indipendente.
Questa acquisizione teorica non va assunta in senso 'debole', ossia considerando che ciascun ente
entra in relazione con altri enti, ma va colta e tenuta presente in senso 'forte', considerando cioè
che ciascun ente è, sempre e necessariamente, costituito da relazioni: nel caso specifico dei
rapporti tra individui, ciò significa che ciascun io non solo non si sviluppa, ma addirittura non esiste
indipendentemente dall'esistenza di altri io. Questa condizione di intrinseca interrelazione è
constatabile innanzitutto a livello biologico, dove ciascun individuo nasce e si sviluppa solo in base
e in virtù di rapporti che lo legano all’ambiente fisico ed ad altri individui; ma essa si dispiega
anche a livello etico, dove ciascun individuo, sia nei comportamenti attivi che in quelli passivi,
viene formato dalle connessioni prodotte da tali comportamenti: la forma generale della
connessione che qualifica i suoi condizionamenti genetici e ambientali qualifica anche le condizioni
etiche. Riprendendo la teoria confuciana delle “cinque relazioni” (wu lun)4, si potrebbe dire che:
ciascuno risulta essere qualcuno solo in quanto è luogo di ‘raccolta’, di ‘arrivo’ e di ‘partenza’ di
molteplici funzioni e relazioni. In tal senso, all'idea di 'individuo', corrispondente all’immagine di
un punto isolato, si dovrebbe sostituire come più realistica quella di 'dividuo', corrispondente
all’immagine di un luogo di passaggio di almeno due linee. Le difficoltà – a dire il vero non solo
occidentali - di comprendere la teoria dell'anattā proposta dagli insegnamenti del Buddha, si
condensano soprattutto nel fatto che essa è talmente radicale da costringere il senso comune a
ripensare proprio quella nozione di identità personale che appare tanto evidente da essere
accettata come vera: l'idea di anattā infatti conduce ad intendere ogni ente - compreso quindi
l’essere umano - non più come unità indivisibile ma come molteplicità complessa. Per spiegare la
natura di tale molteplicità complessa, gli insegnamenti del Buddha ricorrono (1) al noto schema
dei cinque khandha (skandha in sanscrito) che illustra le funzioni psichiche dell''individuo' umano,

1

2
e (2) all'altrettanto noto schema del paticcasamuppāda che spiega come tali funzioni si
modifichino nel tempo. In base alle indicazioni fornite da questi schemi si può dire che Sangha,
assieme ad un significato etico, ne ha uno 'ontologico' in base al quale ogni 'individuo', ancor
prima di entrare in una comunità o in una società, è una comunità e una società. Risulta infatti
essere, innanzitutto, un organismo 'tessuto' da una serie di mutevoli rapporti fisici, e, in secondo
luogo, un ‘testo’ formato da diversi elementi e livelli di carattere culturale: risulta essere,
insomma, una rete prodotta da un complesso variabile di nodi, dove il movimento di un 'filo' si
ripercuote inevitabilmente sugli altri 'fili' e sulla tenuta generale della rete. 5 Quindi ciascuno è
Sangha ancor prima di far parte di un Sangha particolare: il Sangha particolare, ossia la comunità
specifica che ciascuno sceglie per stare e agire nelle migliori condizioni possibili in vista della
liberazione,6 non è altro che un'occasione propizia per far emergere appieno l'intrinseca natura
comunitaria che ciascuno è. Diventare consapevoli di essere Sangha non è tuttavia operazione
meramente teorica: nella comunità buddhista ogni attività, è, in linea di diritto, finalizzata ad
incorporare l'idea di anattā. Ciò avviene innanzitutto nella meditazione, con l'attenzione
all'andamento del respiro che consente, tra l'altro, di osservare come in realtà l'aria che si inspira e
si espira non sia propriamente 'nostra', ma sia una porzione - momentaneamente di passaggio al
nostro interno - della massa d'aria che ci circonda e che viene utilizzata anche dagli altri esseri: in
tal modo massimamente concreto, essa ci mostra la 'porosità' e la non-separatezza del nostro io
che in precedenza credevamo compatto e indipendente. In secondo luogo, nell'ascolto, mediante
l'attenzione alla struttura relazionale delle poche parole e dei minimi suoni che 'circolano' nel
Sangha: tale struttura emerge soprattutto abituandosi ad ascoltare il silenzio dal quale parole e
suoni provengono e al quale ritornano. Il silenzio si rivela progressivamente come il 'collante' che
lega parole e suoni, fino al punto che nessuna parola può più venire percepita come opposta ad
un'altra, e nessun suono può più venir udito come 'dissonante' rispetto ad un altro: parole e suoni,
che dal silenzio sorgono e nel silenzio sfumano, appaiono come onde di un oceano, ciascuna con la
propria forma, ma tutte intrise della medesima materia e, pertanto, tutte appartenenti alla stessa
massa d'acqua. Utile ad 'incorporare' l'idea di anattā che fonda l'esperienza di essere Sangha,
risulta anche il saper osservare attentamente la relatività delle forme: in particolare, le condizioni
di penombra dalla quale - nel 'tempio', nel 'monastero' o, più semplicemente, nella sala da
meditazione - ogni cosa è avvolta, svolgono la medesima funzione del silenzio in rapporto alle
parole e ai suoni: i contorni degli oggetti, pur mantenendo la loro propria fisionomia, venendo
‘slabbrati’ dalla penombra, mostrano la loro continuità con lo spazio che li circonda. Spazio di
sfondo che risulta essere l’equivalente del silenzio di fondo. L'idea di anattā si rende percepibile
poi nel lavoro che si svolge all'interno del Sangha dove grande è l'importanza attribuita
all'intercambiabilità dei ruoli: al contrario di quanto avviene nella divisione del lavoro imposta
dalla produzione 'profana', nella comunità buddhista ognuno viene incaricato, a turno, di svolgere
tutte le mansioni. In tal modo viene fatta emergere la struttura e la funzione cooperativa del
lavoro, analoga a quella che costituisce e regola ciascun individuo inteso come organismo fatto di
aggregati (khandha) e sviluppato dalla dinamica della coproduzione condizionata
(paticcasamuppāda). Un modo assai particolare e concreto per esperire l'idea di anattā mediante il
lavoro può esser rappresentato dalla cucitura dell'abito (kesa) nella tradizione dello Zen Sōtō. Non
si tratta infatti di una semplice 'confezione', ma di un vero e proprio 'esercizio spirituale': in quanto
utilizza pezzi di stoffa consunti o usati, tale esercizio impedisce di considerare alcunché come
'scarto', ossia come materiale morto, definitivamente separato dagli altri materiali; in quanto, poi,
costringe a focalizzare l'attenzione sull'operazione di cucitura tra pezzi diversi, richiama
simbolicamente l’attenzione sulla funzione dei nessi che formano il tessuto dell’intera realtà.
Infine, utile all'incorporazione dell'idea di anattā, si può considerare anche l'intera gamma dei
gesti che vengono eseguiti nella scansione delle attività quotidiane presenti nel Sangha: nella loro
esecuzione infatti viene esercitata l'attenzione alla qualità della continuità che connette i diversi
movimenti che li compongono. A tale scopo risulta assai efficace la lentezza con la quale vengono
eseguiti: a titolo esemplificativo, si può ricordare la 'passeggiata lenta' (kinhin) praticata nello Zen
Sōtō, dove si è invitati a prestare attenzione al fatto che l'appoggio di un piede deve seguire senza
interruzione l'appoggio dell'altro piede, quasi a sottolineare fisicamente la continuità che
caratterizza gli eventi nel tempo e le cose nello spazio. 7A questo punto, una volta che l'idea di
anattā sia stata assimilata fisicamente, nel corpo, e praticamente, nel comportamenti, la comunità
buddhista dovrebbe trasformarsi da semplice associazione di praticanti separata dal resto del
mondo, a luogo in cui ci si allena per vivere la non separatezza: luogo, cioè, dove si fa emergere la
natura Sangha di ciascuno, in modo da produrre, sviluppare e rafforzare l'attitudine a sciogliere
ogni tipo di separazione, fino al punto da far valere e funzionare questa attitudine in ogni
occasione in cui si diano rapporti tra 'individui'. In tale prospettiva Sangha, allora, non si pone
soltanto come comunità utopica, come modello ideale di ogni possibile comunità, ma si prospetta
come quel luogo dove corpo e mente si plasmano in modi tali che ogni 'incontro' ad esso esterno
si trasformi in comunità. Sangha, dunque, non come comunità di eletti, come setta, come unione
di perfetti, ma come associazione di praticanti che si esercitano a trasformare ogni insieme umano
- famiglia, villaggio, città, Stato, comunità internazionale - in comunità non individuale, in quanto
formata da individui che hanno trasceso la condizione di individui. In definitiva, se la condizione di
anattā non viene soltanto compresa intellettualmente, ma sperimentata concretamente e in modo
radicale, non solo si riesce a liberarsi dall'idea di individuo e dalla pratica dell'individualismo, ma si
riesce anche a superare la nozione di comunità ideale come realtà separata dal mondo: in tal
senso partecipare all'attività di un Sangha particolare dovrebbe condurre al superamento dell'idea
stessa di Sangha particolare.

note

I triratna (pali: Tiratana) sono, oltre a Sangha, il Dharma e il Buddha. Formalmente, si diventa buddhisti
“prendendo rifugio”, ossia avendo fiducia, in questi “Tre Gioielli”. La formula tradizionale del “prendere rifugio” è:
< Buddham saranam gacchāmi, dhammam saranam gacchāmi, sangham saranam gacchami>,e va ripetuta tre
volte
2
Dhammapada XXV,16. Fin dai primi tempi della predicazione del Buddha la comunità si distingueva in: comunità
dei religiosi (monaci e monache: bhikkhu e bikkhuni); e in comunità dei devoti laici (upāsaka). Oltre a questa
distinzione, il Buddha non formalizzò nessun altro tipo di organizzazione, tanto che dopo la sua morte sorsero tra
immediatamente molti problemi relativi alla struttura e al funzionamento del sangha.
3
Samyutta Nikāya, V, 168 (Pali Text Society, Oxford 1994, p. 149)
4
    Per Confucio ciascuno è qualcuno solo perché è contemporaneamente figlio/a di genitori, padre/madre di figli,
fratello/sorella di fratelli/sorelle, marito/moglie, sottoposto o dirigente, amico di amici. Su Confucio cfr. H.
Fingarette, Confucio, tr. di A. Andreini, Vicenza, Neri Pozza 2001, e M. Scarpari, La concezione della natura umana
in Confucio e Mencio, Venezia, Cafoscarina 1991.
5
    Questa metafora della rete viene utilizzata in uno dei più famosi sūtra mahayanici, l’ Avatamsaka Sūtra (cfr. The
Flower Ornament Scripture, tr. di Th. Cleary, Boston, Shambala 1987), e ripresa da Fazang della Scuola Hua yan
(cfr. Trattato sul leone d’oro, tr. di S. Zacchetti, Padova, Esedra 2000).
6
Prendere rifugio nel sangha significa anche prendere i voti di pratimoksa (in pali: pātimokkha) [= liberazione
mediante l’eliminazione (di ciò che produce sofferenza)], dei quali si tratta nel Vinayapitaka (Canestro della
Disciplina), e che si suddividono in :
    1. Otto “Voti per un giorno” per i laici (non uccidere, non rubare, non avere relazioni sessuali illecite, non
mentire, non usare sostanze intossicanti, non cantare/danzare, non magiare dopo mezzogiorno, non usare
sedie/letti lussuosi); intossicanti);
2. Cinque precetti per uomini e donne laici (non uccidere, non rubare, non commettere adulterio, non mentire,
non assumere sostanze
3. Trentasei voti per monaci novizi e monache novizie;
3.     Dieci voti che le novizie devono osservare per due anni prima di essere ordinate bhikkhuni;
5. 227 voti (nella tradizione theravada) del monaco ordinato (bikkhu);
6. 111 voti (nella tradizione theravada) per le monache ordinate (bikkhuni).-
7
     Nello Zen Rinzai, invece, questa ‘passeggiata’ – che serve, tra l’altro, a sgranchire le gambe dopo zazen
(meditazione seduta) – è più veloce.
(cfr. G. Pasqualotto, Dieci lezioni sul Buddhismo, Venezia, Marsilio 2008, pp. 101-106

3.     Abbiamo a lungo parlato del tema linguistico e della traduzione dei testi sanscriti in cinese.
Vorrei sapere perché certi monaci erano in grado di conoscere le due lingue. Dove e perché avevano
imparato il cinese? Tenuto conto anche della varietà di idiomi...

        In modi e per motivi assai diversi: per esempio Ān Shìgāo imparò il cinese nel periodo in cui
           fu preso come ostaggio presso la corte cinese della dinastia Hàn orientali.
           Dharmarakṣa conosceva il cinese in quanto proveniente dal Kushan che aveva stretti
           rapporti con la Cina. Kumārajīva apprese il cinese durante la prigionia a partire dal 382.
           Buddhabhadra grazie all’incontro col pellegrino buddhista cinese Fǎxiǎn (337-422) che lo
           convinse a trasferirsi in Cina, a Cháng’an. Bodhiruci arrivò in Cina dall’India settentrionale e
           divenne traduttore grazie al suo soggiorno a Shaolin. Anche Paramartha partì dall’India, ed
           apprese il cinese nei suoi lunghi viaggi nella regione del Funan.
           La fonte principale per i primi traduttori è il Gāosēng zhuàn (高僧傳, Biografie di monaci
           eminenti, cfr. T.D. 2059, conservato nel Shǐchuánbù), composto da Huìjiǎo ( 慧 皎 ) in 14
fascicoli nel 519 e contenente la biografia di 257 tra monaci e monache vissuti in Cina tra il
    67 e il 519. L'opera raccoglie 257 biografie principali e 243 biografie aggiunte.
    Le biografie sono così raccolte:
    譯經科, yìjīngkē (I-III fascicoli): sezione dei traduttori di opere;
    義解科, yìjiěkē (IV-VIII fascc.): sezione degli esegeti;
    神異科, shényìkē (IX-X fascc.): sezione dei taumaturghi;
    修禪科, xiūchánkē (XI fasc.): sezione dei praticanti la meditazione;
    明律科, mínglǜkē (XI fasc.): sezione dei maestri del vinaya
    亡身科, wángshēnkē (XII fasc.): sezione di coloro che immolarono il proprio corpo;
    誦經科, sòngjīngkē (XII fasc.): sezione dei cantori dei sūtra;
    興福科, xīngfúkē (XIII fasc.): sezione dei benefattori
    經師科, jīngshīkē (XIII fasc.): sezione degli innografi;
    昌導科, chāngdǎokē (XIII fasc.): sezione dei predicatori.
    Il prosieguo di questa opera è lo Xùgāosēngzhuàn (續高僧傳) di Dàoxuān (道宣, 596-667).

4. Il concetto di karma come viene modificato dal pensiero buddhista cinese fino ad arrivare
   alla posizione di Lin Chi, nel quale, di fatto, ha un ruolo molto periferico? Può esserci stato
   in questo ridimensionamento - se così è stato - un ruolo del pensiero taoista?

 Non credo. L’influsso o le analogie del taoismo rispetto al Buddhismo chán riguardano
    soprattutto l’idea di wúxīn 無 心 (giapp.: mushin), “mente vuota” o “svuotamento del
    cuore”. Inizialmente i daoisti ritennero il Buddha venerato dalle comunità buddhiste niente
    altro che lo stesso Lǎozǐ ( 老 子 ), Col crollo della Dinastia in ambito daoista, la scuola
    Xuánxué ( 玄學 , Scuola della Sapienza oscura) fu introdotto la distinzione fra conoscenza
    immediata e conoscenza graduale che rimase anche nell’ambito delle scuole buddhiste
    cinesi.

5. Il pensiero della Prajna Paramita viene accolto dal pensiero cinese, trova delle opposizioni o
   viene riletto con chiavi diverse?

 In Cina vi fu una notevole opera di traduzione di molti testi Prajñāpāramitā a partire dal II
    sec. d.C. con i traduttori Lokakṣema, Zhī Qīan, Dharmarakṣa, Mokṣala, Kumārajīva,
    Xuánzàng, Făxián e Dānapāla. Le traduzioni cinesi della letteratura Prajnaparamita
    iniziarono molto presto, soprattutto con il lavoro di traduzione di Kumarajiva e dei suoi
    discepoli. Uno dei maggiori traduttori in cinese della Prajna paramita fu Xuanzang che
    tornò dall’India con tre copie del Mahāprajñāpāramitā Sūtra e utilizzò le tre versioni per
    garantire l'integrità della documentazione originale. A partire dal Sesto Patriarca Hui-neng
    (638-713) si prestò particolare attenzione al tema di mushin, tuttavia la Prajnaparamita
    rimase fondamentale sia per i riferimenti alla moralità (sila) che alla saggezza (prajna).

6. Si può parlare di "nuovo buddhismo" sia per il buddhismo cinese sia, a seguire, per il
   buddhismo giapponese e poi per quello occidentale, oppure si tratta, per lo più, di diversi
   punti di vista che non mutano il messaggio originario del Fondatore?

 No, non credo si possa parlare di ‘nuovi Buddhismi’ rispetto a quello indiano: tutte le
    principali idee del Buddhismo indiano si ritrovano anche nel Buddhismo cinese (e in quello
    giapponese), benché il Buddhismo cinese abbia introdotto importanti elaborazioni come,
per esempio, la teoria dei “5 gradi” per l’illuminazione e quella della triplice verità
    (Yuánróng sāndì) proposta da Zhìyǐ della Scuola Tiantai. Anche il “Sutra del Loto”
    (Saddharmapuṇḍarīkasūtra), che ebbe un enorme fortuna in Cina e in Giappone, fa parte
    nell'enorme corpus della letteratura del Buddhismo Mahāyāna.
    Diverso è il discorso sul piano delle pratiche e tecniche meditative: grandi innovazioni
    furono infatti introdotte dal Buddhismo cinese (soprattutto con le Scuole del Chán) e dal
    Buddhismo Vajrayana (o Tibetano).

7. Mi piacerebbe sapere a livello storico come interagivano le 13 scuole del buddhismo cinese,
   se c'era opposizione tra loro e quali erano i punti in comune e quali le differenze che le
   caratterizzavano.
 Anche se è celebre la disputa tra Scuola del Nord e Scuola del Sud, il conflitto tra Scuole
    diverse non era la regola, ma l’eccezione. Quasi tutti i Maestri del Buddhismo cinese
    avevano avuto una formazione che implicava contatti con Maestri di varie Scuole, o anche
    Maestri non appartenenti a nessuna Scuola.
    Per conoscere in dettaglio le vicende storiche delle diverse Scuole del Buddhismo cinese e
    dei loro rapporti sono fondamentali, oltre al classico «Biografia di monaci eminenti» (cin.:
    Gāosēng zhuàn, 高僧傳, giapp.: Kōsō den), i lavori di John R. McRae: The Northern School
    and the Formation of Early Chan Buddhism (University of Hawai`i Press, 1986); Encounter,
    Transformation, and Genealogy in Chinese Chan Buddhism (University of California Press,
    2003); Il buddhismo cinese dai Sui ai Song, in La Cina, a cura di M. Scarpari, Torino, Einaudi,
    2010, Vol. II, pp. 491-525.

8. A livello di pratica com'era la loro specificità, quali le devozionali e quali no e come
   impostavano la pratica ascetica (meditazione).

   A questa domanda è difficile rispondere, perché bisognerebbe conoscere nel dettaglio la
   vita quotidiana nei monasteri buddhisti cinesi dal III sec fino, almeno, al XVIII. Per questo è
   necessario utilizzare studi specialistici, come, ad esempio, quelli di Hao Chunwen, The
   Social Life of Buddhist Monks and Nuns in Dunhuang during the Late Tang, Five Dynasties,
   and Early Song in “Asia Major” III serie, Vol. 23, No. 2 (2010), pp. 77-95, Academia Sinica
   Publ. (Institute of History and Philology, Academia Sinica, Nankang, Taipei, Taiwan) e di
   Kenneth K. S. Ch'en, The Role of Buddhist Monasteries in T'ang Society in History of
   Religions, The University of Chicago Press, Vol. 15, No. 3, 1976, pp. 209-230.

9. Approfondire le specificità della pratica della scuola Tendai e che cosa cambia oppure
   rimane di queste nella scuola chan

   Si vedano le schede 56, 57, 58.
   Per quanto riguarda l’utilizzo del XVI capitolo del Sutra del Loto è da ricordare che qui il
   Buddha dichiara di essere eterno: «Il Tathagāta vede il triplice mondo per quello che è:
   senza nascita né morte, senza caduta né rinascita, né nel saṃsāra né nel nirvana, né reale
   né irreale, né esistente né inesistente, né ciò che è, né altro da ciò che è, né falso, né vero,
né altro da ciò che è o da ciò che non è. Il Tathagāta non vede il triplice mondo come la
   vede la gente comune e ignorante.»
   Il Buddha, per spiegare la teoria del Buddha eterno, nonostante l’evento del suo
   parinirvāṇa, narra la parabola del padre che apprende che i figli hanno i ingerito del veleno.
   I figli gli corrono incontro chiedendogli di curarli l'avvelenamento e il padre consegna loro
   un antidoto. I più svegli lo prendono subito; invece quelli confusi a causa del veleno si
   rifiutano di farsi curare. Allora il padre escogita un espediente: annuncia ai figli di essere
   vecchio e vicino alla morte, gli lascia l’antidoto invitandoli a prenderlo dopo la sua morte, e
   se ne va. Da un paese lontano invia loro un messaggero con la notizia di essere morto. I figli
   non sanno più cosa fare per il loro avvelenamento e prendono l’antidoto lasciato dal padre.
   Una volta guariti, il padre ricompare vivo e vegeto. Il Buddha chiede quindi agli allievi se il
   padre della parabola ha fatto bene o no a mentire ai figli sulla sua morte. I presenti
   rispondo che il padre ha fatto bene. In questa parabola, il padre-medico rappresenta il
   Buddha e la sua finta morte è come il suo ingresso nel nirvana. Secondo il Sutra del Loto, il
   Buddha universale che agisce per salvare tutti dalla sofferenza, non è morto e non morirà:
   ha fatto finta di morire per rendere gli individui più responsabili.
   Nelle Scuole chan possono essere trovate tracce degli insegnamenti sullo zhǐguān ( 止 觀 ,
   sanscr.: śamatha-vipaśyanā) presenti nei manuali della Scuola Tantai

10. Il buddismo cinese oltre a tradurre i sutra indiani ha prodotto dei sutra propri oltre al
   conosciuto “Sutra dell’altare”?

   A parte “il sutra di Huineng” (o “sutra dell’altare”, o “della piattaforma, o “del trono”), non
   ne conosco altri. D’altra parte il traduttore in lingua inglese del Sutra di Huineng, Won Mou
   Lam, scriveva nel 1929 che è giustificato “chiamarlo il solo Sutra esposto da un nativo della
   Cina” (cfr. Il sutra di Hui Neng, tr. di F. Pregadio, Roma, Ubaldini 1977, p.11).
   Esistono tuttavia dei testi buddhisti post-canonici, apocrifi o spuri che traducono testi
   buddhisti indiani in lingue dell’Asia orientale, come, per es., il cinese “Sutra delle azioni
   originali che adornano i Bodhisattva” (P'u-sa ying-lo pen-yeh ching 菩薩本業瓔珞經 ) e il
   coreano “Sutra dell’assorbimento adamantino” (Kŭmgang sammaegyŏng 金剛三昧經).
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