Dar luogo a ciò che non ha luogo: utopia e prototyping - OpenEdition Journals
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Rivista di estetica 71 | 2019 The science of futures. Promises and previsions in architecture and philosophy Dar luogo a ciò che non ha luogo: utopia e prototyping Ramon Rispoli e Ester Jordana Lluch Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/estetica/5576 DOI: 10.4000/estetica.5576 ISSN: 2421-5864 Editore Rosenberg & Sellier Edizione cartacea Data di pubblicazione: 1 agosto 2019 Paginazione: 173-183 ISSN: 0035-6212 Notizia bibliografica digitale Ramon Rispoli e Ester Jordana Lluch, « Dar luogo a ciò che non ha luogo: utopia e prototyping », Rivista di estetica [Online], 71 | 2019, online dal 01 mars 2020, consultato il 20 mars 2020. URL : http:// journals.openedition.org/estetica/5576 ; DOI : https://doi.org/10.4000/estetica.5576 Rivista di Estetica è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Ramon Rispoli, Ester Jordana Lluch DAR LUOGO A CIÒ CHE NON HA LUOGO: UTOPIA E PROTOTYPING1 Abstract The purpose of this paper is to re-explore the relationship between utopia and ar- chitecture, trying first and foremost to challenge the way utopia has been conceived by architectural thought: i.e., as the prefiguration of a future seen as an ‘otherness’ distinct from the present, as far as the totality of its spatial, social, and political dimensions are concerned. Such vision – as we will argue – turns out to be deeply linked to a design logic of ‘projection’ and ‘prescription’; this, however, is not the only possible logic of design. Through a reflection upon some contemporary architectural practices, we will try to highlight a new horizon for design action, in which even utopia abandons its traditional ‘projective’ role and takes on a new meaning: rather than being the non-place of a possible future, u-topia stands for what doesn’t have place in the present but can emerge from its alteration. Such notion of utopia as a form of ‘situated critique’, in a concrete space and time, helps to dig more deeply into the political potential of many contemporary forms of architectural and urban design. Ne Il linguaggio dell’architettura postmoderna, com’è noto, Charles Jencks dichiara polemicamente che l’architettura moderna è morta il 15 luglio 1972 alle 3:32 circa del pomeriggio, con la demolizione del complesso residenziale Pruitt-Igoe a San Louis progettato da Minoru Yamasaki a metà degli anni Cin- quanta (Jencks 1977). Di fronte a un’architettura che – a suo parere – pecca allo stesso tempo di elitarismo e ingenuità nella sua pretesa di dare un ordine razionale al mondo attraverso gli strumenti del funzionalismo, l’architettura postmoderna si erge come il canto alla liberazione del linguaggio architettonico: un’architettura che, al di là della sua funzione sociale, sia capace di tornare ad 1 Il contributo è frutto della stretta collaborazione tra i due autori. Per quanto riguarda la redazione delle diverse parti del testo, il primo, secondo e quarto paragrafo sono a firma di Ester Jordana Lluch, e il terzo, quinto e sesto a firma di Ramon Rispoli. Rivista di estetica, n.s., n. 71 (2/2019), LX, pp. 173-187 © Rosenberg & Sellier 172
essere “dispositivo comunicante”. E certamente, tutti gli esempi emblematici del postmodern architettonico danno risalto alla forza espressiva ed estetica dell’architettura come linguaggio. Se Jencks celebra il postmodernismo come liberazione dal modernismo, qualche anno più tardi Frederic Jameson sostiene invece la necessità di analizzarlo come la forma culturale specifica che accompagna la trasformazione del capitalismo nel secondo dopoguerra. A partire da una lettura in chiave materialista, Jameson stabilisce infatti un nesso tra le affermazioni della postmodernità filosofica – con le sue insistenti diagnosi della “fine” (dell’arte, della storia) – e il postmodernismo estetico. A suo parere, uno dei tratti cruciali di questa trasformazione ha a che vedere con l’esperienza dello spazio e del tempo: nell’orizzonte del capitalismo finanziario il tempo – scrive – si frammenta in una serie di “presenti irrelati” mentre lo spazio si trasforma in un iperspazio in cui vengono meno «le capacità del corpo umano individuale di orientarsi, di organizzare percettivamente le cose che lo circondano da vicino, e, cognitivamente, di fare una mappa della sua posizione in un mondo esterno che lo consenta» (Jameson 1989: 56). La globalizzazione del capitalismo, in altre parole, esaurisce il movimento espansivo che lo aveva caratterizzato nella modernità, e ciò configura un’espe- rienza del mondo come totalità che annulla ogni possibilità di distanza (Jameson 1999: 126). Ciò si trova riflesso, secondo lui, nei modi stessi di produzione dello spazio-tempo nell’ambito dell’architettura: nel celebre esempio del Bonaventura Hotel di Los Angeles riconosce il paradigma di uno spazio in cui il soggetto sperimenta una sensazione pervasiva di confusione e spaesamento. Pertanto, se per Jencks la postmodernità ha inizio con la messa a nudo dell’ingenua ambizione dell’architettura moderna di essere strumento cruciale di trasformazione sociale, per Jameson questa temporalità frammentata e que- sta spazialità ibrida costituiscono un nuovo framework di analisi per pensare l’architettura contemporanea. Se l’architettura moderna gridava ai quattro venti la sua volontà di “realizzare l’utopia” – si pensi a Le Corbusier e alla sua Ville Radieuse – la rivendicazione del potenziale semiotico e comunicativo dell’architettura da parte del protagonisti del postmodern va di pari passo con l’abbandono di ogni preoccupazione riguardo al possibile ruolo politico e sociale del progetto. Nell’architettura postmoderna è stato visto il ripiegamento in un estetismo lontano da qualsiasi impegno politico, e quindi un atteggiamento “affermativo” piuttosto che trasgressivo rispetto alle forze economiche e politiche dominanti (McLeod 1989). E a dire il vero, nel corso degli ultimi decenni l’architettura sembra essersi posta in linea con l’egemonia culturale del capitalismo globale, piuttosto che contro di essa. Oggi, dopo la crisi economica del 2008, la questione dell’architettura e del progetto urbano sembra aver acquisito una nuova centralità: il problema della residenza è tornato ad presentare caratteri di estrema urgenza, e i processi di gentrification minacciano di distruggere le immagini tradizionali di città e vita urbana. Di fronte a tale stato delle cose sono sempre più frequenti le rivendi- 173
cazioni della dimensione politica dell’architettura, e molte di esse guardano proprio nella direzione di quelle utopie novecentesche per rivendicare il recupero del ruolo del progetto come motore fondamentale di trasformazione sociale. Da un certo punto di vista, si può quasi dire che l’architettura contemporanea soffre il peso nostalgico delle grandi esperienze utopiche intraprese nel corso del secolo precedente. Su questo sfondo, il presente contributo si propone di tornare a riflettere sulla relazione tra utopia e architettura e sul ruolo che tale relazione può avere nell’ottica di una trasformazione politica e sociale. Per farlo, si riesamineranno innanzitutto le riflessioni proposte a riguardo da Manfredo Tafuri e dallo stesso Jameson tra gli anni Settanta e Ottanta: due posizioni che rivelano in modo esemplare gli esiti divergenti di un dibattito ripropostosi più volte nel corso del Novecento. A quel punto ci si chiederà cosa cambia se – facendo leva su alcune riflessioni sviluppate di recente nel campo degli Science and Technology Studies2 – si sceglie di guardare all’utopia non dalla prospettiva tradizionale di un progetto inteso come pianificazione, bensí da quella di un progetto come prototyping. Ciò significa porre la questione in modo diverso da quello tradizionale: non ci si propone, infatti, di capire come l’architettura possa contribuire alla co- struzione dell’utopia, ma piuttosto come l’utopia stessa possa essere concepita diversamente proprio a partire da un nuovo modo di intendere il progetto. In questa prospettiva, si cercherà di mostrare come alcuni modi contemporanei del progetto di architettura siano capaci di confrontarsi radicalmente con il presente proprio a partire dall’adozione di una prospettiva decisamente più modesta e situata. Progetto e utopia Agli inizi degli anni Settanta, con la pubblicazione di Progetto e Utopia (1973) Manfredo Tafuri si esprime come una delle voci più critiche nell’ambito della cultura architettonica dell’epoca, sottolineando il ruolo intrinsecamente ideologico delle visioni utopiche che hanno accompagnato lo sviluppo dell’architettura e della città moderna. Il libro riprende e amplia la tesi già esposta in un articolo per la rivista Contropiano (Tafuri 1969) e riproposta anche nel testo di intro- duzione al catalogo della celebre mostra sul design italiano al MoMA di New York (Tafuri 1972). Se l’analisi storica di Tafuri risulta di interesse in questa sede è perché in essa la riflessione sul ruolo dell’utopia in architettura è intrinsecamente legata al modo in cui la stessa utopia si iscrive nella logica del progetto. A suo parere, le utopie 2 Da qui in avanti STS. 174
di rinnovamento radicale delle forme di costruire e abitare lo spazio rimandano alla pretesa dell’architettura e del progetto urbano di costituire gli strumenti più effettivi per la costruzione di una società migliore, e rappresentano – nel migliore dei casi – meri “sogni a occhi aperti”, totalmente incapaci di influire sulle dinamiche reali di trasformazione urbana, i cui unici motori effettivi sono il capitale privato e la speculazione immobiliare. Tafuri afferma, in quegli anni, che l’architettura è in crisi, e che le ragioni di tale crisi possono essere comprese unicamente attraverso un’analisi della posizione storica dell’architettura stessa nel seno dello sviluppo capitalista, vale a dire della relazione dialettica che si stabilisce – dal xix secolo in poi – tra progetto e utopia. La sua tesi è che progetto e utopia trovano la loro conciliazione dialettica nel modo in cui l’architettura si riduce a un modo di pianificazione e organiz- zazione della città nel corso degli anni Cinquanta: una riduzione, a suo parere, ideologica. Da questa prospettiva, il postmodern architettonico non è nient’altro che un nuovo esercizio meramente formalista le cui radici sono da ricercare proprio nella crisi dell’architettura contemporanea e del suo ruolo ideologico. Il compito dell’intellettuale, per Tafuri, è proprio quello di liberare il campo da tali residui ideologici per far sì che la lotta non si combatta «tra il capitalismo e lo spirito, ma tra il capitalismo e il proletariato» – per citare la celebre frase di Benjamin (2012: 162) –, e ciò significa anche smascherare l’utopia come una delle espressioni più idiosincratiche della “falsa coscienza intellettuale” nel campo del progetto. In quegli anni anche Jameson inizia a dedicare la sua attenzione al tema dell’utopia nell’orizzonte della critica marxista, prendendo però chiaramente le distanze dal materialismo intransigente di Tafuri. La sua analisi del pensiero utopico parte infatti da una prospettiva più vicina a ciò che Gramsci aveva definito il “nesso teoria-pratica” per riferirsi alla lotta contro l’egemonia: il ca- pitalismo borghese è da combattere non solo sul piano delle relazioni materiali di produzione ma anche su quello dell’elaborazione di immaginari e valori. È infatti su questo piano – quello cioè della lotta contro la spazialità urbana postmoderna – che bisogna riconoscere, secondo Jameson, il vero potenziale delle utopie architettoniche e urbane. Ciò implica, innanzitutto, abbandonare qualsiasi rigida separazione tra materialismo e idealismo: le utopie sono infatti contro-egemoniche nella misura in cui «producono e mantengono viva una certa idea alternativa di spazio e vita urbana» (Jameson 1985: 72), e ciò a prescindere del fatto che tale idea riesca o meno a tradursi in realtà concreta. Significano, in altre parole, la possibilità di pensare (e desiderare) l’alterità, immaginare spazi urbani altri rispetto a quelli reali, ridotti a mero epifenomeno delle dinamiche di circolazione del capitale: in ciò risiede tutta sua capacità critica nei confronti al presente. Un presente che peraltro, in quegli anni, è solo il presente delle società occidentali a capitalismo avanzato: visioni urbane considerate utopiche 175
nel mondo occidentale possono essere, e spesso sono, realtà al di fuori di esso3. In questo senso, quindi, le utopie non sono solo alternative immaginarie ma anche – e questo è un punto decisivo – veri e propri “spazi altri”, e costituiscono pertanto molto di più che i “sogni ad occhi aperti” condannati da Tafuri: Such utopian ideas are as objective as material buildings: [they] have conditions of possibility as rigorous as any material artifact. Those conditions of possibility are to be found, first and foremost, in the uneven development of world history, and in the existence, elsewhere, in Second and Third Worlds, of projects and constructions that are not possible in the First (Jameson 1985: 72-73). Pertanto se per Tafuri l’architettura, come ogni produzione culturale, occupa una posizione ideologica e non può quindi costituirsi come spazio di lotta po- litica – dato che la trasformazione avviene per lui solo al livello delle relazioni di produzione – Jameson apre invece alla possibilità che determinati progetti architettonici e urbani possano funzionare come spazi “contro-egemonici”. Due decenni più tardi, in Archeologies of the future (2005), lo stesso Jameson ritorna sulla questione dell’utopia attraverso un’ampia analisi storica, arrivando a definirla non tanto come una rappresentazione del futuro ma piuttosto come una sorta di wish fulfilment collettivo: è proprio questo “desiderare un futuro diverso” a costituire, per lui, il vero nucleo politico dell’utopia nella misura in cui rappresenta una rottura con un futuro predeterminato. Jameson vede quindi il vero potenziale dell’utopia negli effetti politici che questo desiderio di alterità può avere sul presente: nell’apertura di immaginari e esplorazioni che permettono di riflettere su come le cose potrebbero essere “altrimenti”. Ad essere in gioco nella discussione tra Tafuri e Jameson non è solo il ruolo politico che l’architettura assume in relazione al presente, ma anche quello che assume, attraverso l’utopia, in relazione al futuro. Nell’analisi di Tafuri, come si è visto, questo “gettare in avanti” rimane confinato al ruolo della pianificazione e dell’ordinamento. Ma se progettare implica per forza di cose un’attività di prefigurazione, ciò non significa che questa attività sia necessariamente pre-scrittiva (nel duplice senso di “già scritta” e “normativa”). Come si cercherà di illustrare, le riflessioni contemporanee sul concetto di prototyping permettono di individuare forme del progetto che, lungi dall’effettuare questo tipo di ordinamento pre-scrittivo, funzionano piuttosto come “ontologie aperte” i cui spazi di indeterminazione lasciano ai diversi attori (non solo umani) coinvolti in una situazione specifica la possibilità di interagire e di aprire nuove possibilità. 3 A riprova di ciò, Jameson fa riferimento al celebre progetto della Karl Marx-Allee a Berlino Est, con le residenze operaie ubicate al centro stesso della città: un modello diametralmente op- posto alle dinamiche di gentrification urbana caratteristiche delle società a capitalismo avanzato (Jameson 1985). 176
Per quanto riguarda Jameson, l’utopia per lui è uno strumento di lotta politica proprio perché consente di “desiderare l’alterità” rispetto a un’espe- rienza spazio-temporale pervasiva come quella postmoderna. È necessario, però, insistere sull’importanza di combattere materialmente questa esperienza spazio-temporale, e in questo senso possono risultare utili proprio quegli “spazi altri” a cui fa riferimento nel suo dibattito con Tafuri: “contro-spazi” concreti, alternative già esistenti alla spazialità capitalista e postmoderna, capaci di dare forma ad altre relazioni spazio-temporali. L’obiettivo di questo contributo è proprio quello di illustrare come dalle riflessioni sul prototyping possano aprirsi temporalità e spazialità nuove, e con ciò un nuovo modo di pensare la relazione tra architettura e utopia. Un’altra logica del progetto: il prototyping L’idea di prototyping a cui ci si riferisce – è fondamentale chiarirlo – non è quella tradizionale (la produzione del primo modello reale di un oggetto) ma quella proposta in anni recenti nell’ambito degli STS4 ed estesa da Corsín Jiménez anche al campo del progetto architettonico e urbano (2014a, 2014b): la configurazione di una sorta di infrastruttura “in versione beta” e open source, condizione di possibilità per la generazione di diversi futuri possibili in cui si compongono in maniera distinta le azioni e gli interessi delle diverse parti in causa (umane e non umane). In tal senso, il prototipo è sempre più di molti e meno di uno, nella misura e in cui non raggiunge mai uno stato di definizione ultima ma continua a riconfigurarsi e a riarticolarsi in maniera ricorsiva: è una “figura di con-possibilità” aperta e generativa (Corsín Jiménez, 2014b). Il vantaggio principale del prototipo in questa sua accezione sperimentale è da individuarsi – in opposizione alla logica prescrittiva, chiusa e definita del progetto tradizionale – proprio nel suo essere una prefigurazione in-definita, aperta, pre-broken: per usare i termini di Domínguez Rubio e Fogué (2015) la logica dell’enfolding (i-scrizione e pre-scrizione) del progetto tradizionale lascia spazio a quella dell’unfolding (di-spiegamento, apertura), in cui si dà la possibilità di “aver luogo” ad eventi non predeterminati una volta per tutte dal progettista, ma che risultano invece dal libero gioco del possibile e dagli interessi dei vari attori (non solo umani) implicati in una specifica situazio- ne. Il prototyping in tal senso è un processo che «non impone né configura, perché la sua ragion d’essere è permettere che emergano realtà a partire dai suoi errori e dai suoi fallimenti, obbligando a riconsiderare altri cammini e altre domande possibili», e così facendo «porta in superficie, in maniera per- 4 In un contributo molto recente Tironi e Hermansen propongono una interessante e dettagliata “grammatica del prototyping” nell’accezione datagli nell’ambito degli STS, mettendo in luce le implicazioni cruciali dell’adozione di tale logica progettuale (Tironi, Hermansen 2018: 334-336). 177
formativa, mondi e possibilità ancora assenti» creando un terreno in cui «le questioni, i problemi e gli interessi politici co-emergono nel processo stesso di prova» (Tironi 2017: 41-42). Da questa prospettiva, si può quindi concepire il pensiero progettuale non tanto come problem-solving bensì come una certa forma di problem-making: lungi dall’essere meramente “soluzionista”, infatti, nella sua stessa dinamica tale pensiero fa emergere l’intrinseca contingenza del reale, il complesso e contraddittorio intreccio di azioni e interessi in gioco in qualsiasi situazione, nonché la difficoltà di trovare una soluzione univoca capace di tener conto di tale intreccio. Questa difficoltà politica – o meglio cosmopolitica (Stengers 2005; Latour 2008) – è proprio ciò che la concezione tecnicista e soluzionista del progetto tende a rendere invisibile: nella coincidenza tra mondo realizzato concretamente e mondo immaginato dal progettista si nasconde, spesso, lo spettro della tecnocrazia. Tecnocratico è quel progetto che stabilisce “canovacci” o scripts di azione – per usare il celebre termine proposto da Madeleine Akrich (1992) – eccessivamente rigidi e definiti: un progetto che non si interroga sulla discrepanza che spesso emerge tra «i programmi iscritti attraverso il progetto e i modi in cui finiscono per essere ricevuti, attivati, trasformati o semplicemente ignorati» dai destinatari (Domínguez Rubio, Fogué 2015: 148). Il problema nodale del progetto inteso nella sua logica pre-scrittiva è proprio questa discrepanza tra obiettivi rigidamen- te prefissati ed esiti concreti: un esempio per tutti è quello delle infrastrutture architettoniche e urbane di Le Corbusier a Chandigarh che, nate come visioni utopiche e magniloquenti di una società nuova, finiscono per trasformarsi nel tempo in mercatini informali. A partire dal riconoscimento di questo problema – che come si è visto, è al tempo stesso un problema metodologico e politico –, Matthew Fuller propone un’estetica dell’underspecification per l’architettura e il progetto in generale5, in cui lo script si presenta dall’inizio come aperto a possibili alterazioni: [...] things should be made in order that their function can be reinvented, coupled with other things, that they do not pre-empt the future. A bridge in this sense is also then a platform, a set of conditions for things to happen. Underspecification is a con- ceptually advanced form of modesty for architecture, the idea that it is to make entities out of which other things will be composed (Fuller 2016: 79). 5 L’idea di underspecification di Fuller presenta evidenti analogie con quella di meta-design già proposta nell’ambito del design di sistemi. La premessa del meta-design come orizzonte concettuale e metodologia operativa, infatti, è che gli usi e i problemi di un certo sistema non possono essere previsti con precisione al momento del progetto, e che sono proprio le discrepanze tra funzioni del sistema e bisogni degli utenti a fornire nuovi insights in tal senso: gli utenti, pertanto, diventano co-progettisti (Fischer, Giaccardi 2006: 427). 178
Per tutto ciò che si è detto, quindi, nell’orizzonte del prototyping l’azione del progetto non significa pre-determinare sin dall’inizio un modo di essere delle cose, ma piuttosto “disegnare una piattaforma” – per usare il termine di Fuller – su cui le relazioni tra cose possano “aver luogo”, nella doppia accezione di spazio ed evento. Il prototyping in architettura Per ciò che si è visto, nel campo degli STS e nel design delle tecnologie la critica alla logica pre-scrittiva del progetto va di pari passo con la riflessione sulle possibilità aperte del prototyping; si tratta ora di capire in che modo queste nozioni possono essere utili quando applicate all’ambito specifico dell’architettura. Sembra cruciale, in quest’ottica, l’analisi storica proposta di recente da Michael Guggenheim in From Prototyping to Allotyping (2014), soprattutto nella misura in cui serve a chiarire che le riflessioni contemporanee sul carattere aperto del prototyping non aprono un problema nuovo in architettura, ma costituiscono piuttosto un nuovo modo di concepire un problema già noto. Una delle idee centrali dell’architettura moderna – afferma Guggenheim utilizzando una nota espressione di Latour – era quella di concepire e realizzare edifici che servissero a «rendere la società durevole» (Guggenheim 2014: 214). Posti di fronte alla necessità di progettare un’ampia varietà di tipologie architet- toniche, gli architetti moderni elaborarono manuali – come quello pubblicato da Ernst Neufert nel 1936 – per uniformare utenti e funzioni: ampie collezioni di modelli architettonici che avrebbero costituito lo strumento di partenza del progetto per varie generazioni a venire. In contrasto con questo modo di concepire e elaborare il progetto di archi- tettura, Guggenheim utilizza la nozione di allotyping – vale a dire, la trasfor- mazione degli usi prefissati di un edificio da parte dei suoi stessi utenti – per ripercorrere i passi salienti di una “contro-storia” che dagli anni Settanta arriva fino al postmodernismo. Le prime critiche ai modelli urbani funzionalisti espresse da Jane Jacobs nei primi anni Sessanta aprono, progressivamente, a una stagione di elabora- zioni teoriche e pratiche architettoniche dove il ruolo centrale e “demiurgico” dell’architetto viene messo in questione proprio dalla nuova centralità assunta dagli utenti e dalla loro capacità di convertire le funzioni di edifici e spazi già esistenti. In opposizione alla rigidezza della visione funzionalista, quindi, l’uso inizia a vedersi come qualcosa che è capace di crearsi e ricrearsi continuamente nel corso della storia. Alla fine degli anni Settanta, però, questa storia dell’allotyping vira in tutt’altra direzione. Il contributo teorico della semiotica finisce per dare una centralità sempre maggiore alla forma fino a quando, con il postmodern, gli architetti recuperano un ruolo centrale ma molto distinto da quello che avevano avuto 179
nel moderno: se è vero che gli usi si modificano durante la storia, la funzione del progettista è quella di creare forme stabili nel tempo, capaci di ospitare usi e funzioni in continuo mutamento. Quello che nasceva come un problema di usi finisce per trasformarsi, quindi, in un problema di forme e linguaggi: esemplare in questo senso è proprio la posizione di Charles Jencks. Il percorso tracciato da Guggenheim ha indubbiamente il merito di mettere in evidenza come le questioni della sperimentazione aperta e partecipata e l’at- tenzione agli utenti fanno già parte della storia dell’architettura recente, come dimostrano le vicissitudini dell’allotyping nel corso degli ultimi cinquant’anni. La questione, però, si riduce per lui unicamente alla relazione che si stabilisce tra progettista e utente attraverso l’artefatto architettonico, e ciò – alla luce di quanto detto in precedenza – sembra alquanto riduttivo. La logica del protot- yping nell’accezione datagli negli STS ha implicazioni che vanno molto al di là della relazione progettista-utente, e che hanno a che vedere, ad esempio, con ruolo che nel progetto hanno gli attori “non umani” (come la materia stessa) o con l’apertura di forme di spazialità e temporalità contingenti. Dar luogo a ciò che non ha luogo Come si è visto in precedenza, nel dibattito tra Tafuri e Jameson l’idea di utopia oscillava tra progetto ideologico e desiderio di alterità. Questo contributo ha invece l’intenzione di mostrare come l’utopia stessa può essere letta al di fuori di tale doppia polarità proprio grazie al prototyping: una logica che da un lato propone una diversa concezione del progetto, e dall’altro riconosce all’attività progettuale la possibilità di dar luogo – in maniera concreta e contingente – a nuove forme di spazialità le cui potenzialità ontologiche vanno ben al di là di quelle dei “controspazi” che lo stesso Jameson opponeva all’egemonia della città tardocapitalista. In primo luogo, la logica del prototyping mette radicalmente in discussione l’idea di progetto come pianificazione che pre-scrive nel mondo un determinato ordine di cose, spazi e relazioni. A differenza di ciò, il prototyping si propone di alterare una situazione materiale e sensibile specifica attraverso gli strumenti dell’esplorazione e della sperimentazione aperta, non predeterminata. Pensare al progetto come prototyping significa concepirlo, come si è visto, come una infrastruttura “in beta” che si dispiega in modo sperimentale, obbligando a riconsiderare costantemente altri cammini e alternative: una pratica open source in cui strumenti e metodi del progetto sono aperti e suscettibili di ridiscussione. Se la logica soluzionista è diretta strumentalmente alla soluzione di problemi predeterminati, in questo caso i problemi sono ciò che emerge dal processo: in questo modo il carattere aperto dell’infrastruttura garantisce possibilità di azione a tutti gli “attori” implicati nel progetto, che – nell’ottica cosmopolitica che si accompagna a questa nuova nozione di prototyping – non sono necessariamente 180
umani né vivi. Il progetto non si impone dall’alto e una volta per tutte su tali attori, ma scaturisce dalla loro dispiegamento (unfolding) e dalla loro articolazione. In secondo luogo, in relazione all’ontologia che si configura, il dinamismo intrinseco del prototyping configura relazioni materiali aperte e indeterminate e di conseguenza, spazialità e temporalità anch’esse aperte che si modificano in funzione di tali relazioni. Le interazioni tra i vari attori costituiscono dinamiche vive con processi di emergenza costante che, in modo generativo, configurano e riconfigurano nel tempo modi di coabitazione e convivenza possibile. Da questa prospettiva, si tratta quindi di concepire il progetto come l’azione spaziale di dar luogo, nell’hic et nunc materiale e situato, a ciò che non ha luogo (utopia) e non potrà averlo se non si interrompono, alterano o sovvertono certe pratiche e logiche materiali. In altre parole, non si tratta di immaginare l’alterità ma di alterare6 le modalità topologiche che configurano il presente, le logiche e le dinamiche imperanti che “fanno essere” il mondo in un certo modo. Vedere il presente come l’effetto di un insieme di condizioni materiali che possono essere analizzate e descritte nella loro formazione e trasformazione permette non solo di riconoscere le pratiche e le tecnologie che configurano il mondo in un modo determinato, ma anche di comprendere cosa non può avvenire senza l’alterazione di queste stesse pratiche e tecnologie. È proprio ciò che permette di “dar luogo a ciò che non ha luogo”, nella doppia accezione di evento nel tempo e di ubicazione nello spazio: ciò che non può darsi in una specifica configurazione materiale e spaziale, ma che può emergere dalla sua trasformazione. Questa diversa nozione di utopia risponde quindi alla logica del dare spazio, del “far emergere”. Se la relazione tradizionale tra progetto e utopia si tracciava dalla prospettiva di una pre- scrizione realizzata solo a posteriori dalla pratica, quest’altra logica progettuale consente di modificare radicalmente tale rapporto. In ambedue i casi si tratta di trasformare l’utopia in topos, ma il modo è del tutto diverso: nel primo caso si tratta di dar materia e forma concreta a un’alterità, a un mondo di relazioni “altre” immaginato e auspicato ma non ancora in essere; nel secondo si tratta, piuttosto, di dar luogo a ciò che non ha luogo (ou-topos), all’emergenza – e alla di-vergenza – del possibile attraverso l’alterazione di determinati processi e “modi di essere” del presente. Le implicazioni politiche ed epistemologiche dell’idea di prototyping vanno, pertanto, molto al là di una ridiscussione della nostra relazione con artefatti e 6 E proprio su questo punto che l’idea di utopia qui proposta differisce dalla nozione foucaul- tiana di eterotopia con cui sembrerebbe, in prima istanza, presentare qualche analogia. Stabilendo una differenza con le utopie classiche – “spazi senza luogo” che proiettano una certa visione ideale della società (o l’esatto contrario) – Foucault definiva le eterotopie come “spazi altri” in cui si verificano “esperienze altre” rispetto a quelle ordinarie (Foucault 2001: 1571). Prendendo le di- stanze da questa dimensione di alterità delle eterotopie, questo contributo riprende nuovamente la nozione di utopia caratterizzandola non nel senso dell’alterità bensì in quello dell’alterazione. 181
oggetti. Se l’architettura contemporanea è un campo privilegiato per ripensare l’utopia dalla prospettiva del prototyping è proprio perché la sua stessa azione si dispiega come spazialità e, insieme, come evento nel tempo. In questo senso il “dar luogo a ciò che non ha luogo” non si concepisce in uno spazio separato dal tempo, ma è inteso, in maniera indissociabile, come spazialità ed evento. Lungi dall’essere un esercizio meramente teorico, questo “dar luogo a ciò che non ha luogo” nel senso appena descritto può vedersi in azione in nume- rosi progetti e pratiche di architettura contemporanea, peraltro marcatamente eterogenei7. Per concludere ci si propone di analizzarne alcuni, con l’obiettivo di mostrare come ognuno di essi mette in atto un’alterazione diversa, capace a sua volta di rendere possibili diverse emergenze. Interessante, ad esempio, è il caso di 2012 Architecten, gruppo di progettisti attivo a Rotterdam dal 2017, il cui lavoro ha a che vedere la questione della proprietà e dell’uso dei materiali e con l’alterazione della nozione di “riciclo”. In contrasto infatti con l’idea tradizionale di riciclo come scomposizione e ri- composizione della materia – processi che implicano considerevoli investimenti energetici e produttivi – i progettisti promuovono ciò che definiscono pratica del “superuso”, che consiste nel riutilizzare artefatti e materiali nello stato in cui si trovano. Si assume come punto di partenza la materialità già disponibile per ricombinarla e riutilizzarla, a partire dall’idea di underspecification illustrata in precedenza: la diagnosi situata di tale materialità rende possibile analizzarne diverse dimensioni (infrastrutturali, energetiche, ecc.) ed esplorarne nuove pos- sibili interrelazioni. Si abbandona, in altre parole, la logica classica del rifiuto e del riciclo e si assume invece quella del bricolage – lavorare con ciò che è già disponibile – per rendere possibile l’emergere di nuove configurazioni materiali e spaziali. In un’ottica analoga, anche il celebre e controverso progetto delle residenze sociali della Quinta Monroy a Iquique (Cile) di Alejandro Aravena e del collettivo Elemental presenta elementi di notevole interesse. In un contesto marcatamente neoliberista come quello cileno, le logiche di mercato e la disponibilità limitata di finanziamenti pubblici per le residenze sociali funzionano di solito come strumenti di governamentalità biopolitica, obbligando a collocare tali residenze in un’area periferica; in contrasto con ciò, Aravena ha cercato sin dal principio un modo per permettere agli abitanti di continuare a vivere nell’insediamento urbano dove già risiedevano. Opporsi a questa sorta di marginalizzazione urbana imposta significava, evidentemente, destinare gran parte del budget all’acquisizione dei suoli che si 7 Molto significativi, in tal senso, sono i casi raccolti da Nishat Awan, Tatjana Schneider e Jeremy Till nel loro progetto di ricerca Spatial Agency (Awan, Schneider, Till 2011): esperienze progettuali che mettono in atto, in diversi modi e diverse misure, una serie di alterazioni dal carattere marcatamente politico. Numerosi esempi di questi “altri modi di vedere l’architettura” sono illustrati dagli autori sul sito internet www.spatialagency.net. 182
era scelto di non abbandonare: la sfida principale del progetto era quindi quella di realizzare, con ciò che restava dei fondi, alloggi che riuscissero comunque a garantire un certo grado di vivibilità. La soluzione di Aravena/Elemental è stata, com’è noto, quella di costruire la metà di ogni alloggio fornendola di tutti i servizi di base, e lasciando che gli abitanti si costruissero da soli l’altra metà nel tempo. Nonostante i caratteri indubbiamente problematici e controversi di questa scelta8, il progetto di hou- sing sociale della Quinta Monroy riesce a interrompere la logica egemonica del governo della città in due modi: da un lato, trova un modo per opporsi all’ap- parente inevitabilità della gentrification; dall’altro, nel suo essere underspecified lascia a ogni inquilino libertà di scelta riguardo alla configurazione finale del proprio alloggio, accogliendo l’ibridazione di materiali e forme e impedendo così qualsiasi esito omogeneo e estetizzante da “città-spettacolo”. Un altro esempio di progetto straordinariamente interessante – stavolta per la sua dimensione open source, che l’ha reso già noto a livello internazionale – è quello del Campo de Cebada a Madrid: un progetto nato nel 2010 con l’obiettivo di trasformare un’area urbana abbandonata in uno spazio politico e culturale per i residenti del quartiere popolare La Latina. L’elemento di maggiore interesse del Campo è l’assenza di una destinazione d’uso specifica: è un caso esemplare di spazio infra-determinato, suscettibile può essere “dispiegato” (unfolded) e attivato in molti modi diversi: gli elementi di arredo urbano presenti nell’area – realizzati in maniera collaborativa da progettisti appartenenti alla piattaforma multidisciplinare Zoohaus e dagli stessi residenti – sono tutti rigorosamente open source e permettono un’ampia gamma di configurazioni e usi. Per queste ragioni, Corsín Jiménez riconosce nel Campo un caso paradigmatico di urban commons (Corsín Jiménez 2014b: 354). In un orizzonte per molti versi analogo rientrano anche quelle pratiche progettuali – spesso collettive, spontanee e al margine della legalità – che ven- gono definite con il termine generale di Tactical Urbanism. Le celebri recetas urbanas di Santiago Cirugeda, il Guerrilla Gardening, o operazioni informali come il chair bombing (la riutilizzazione di artefatti abbandonati per far fronte alla mancanza di arredo urbano in un determinato luogo pubblico) sono tutti interventi “tattici” nella misura in cui «si insinuano nello spazio […] in modo frammentario» (Certeau 1984: 16), opponendosi alla pretesa “strategica” di chiara suddivisione e controllabilità spaziale-politica del governo tradizionale della città. 8 Tra gli altri, Camillo Boano e Francisco Vergara Perucich hanno espresso le loro reticenze riguardo al progetto e, soprattutto, alla possibilità di considerarlo come un caso paradigmatico di risposta “sociale” dell’architettura in un contesto neoliberale. Certamente – se analizzato dalla prospettiva classica del progetto come problem-solving – il risultato è ben lontano dall’offrire soluzioni definitive: secondo i due autori «risulta insultante» (Boano, Vergara Perucich 2016: 41) pensare che l’unica soluzione alla precarietà e alla povertà generate dal neoliberalismo sia convincere la gente ad accontentarsi di mezza casa. 183
La potenzialità politica di questi progetti – come evidenziano Domínguez Rubio e Fogué – è da ricercare nella loro capacità di “aprire” un determinato spazio pubblico a possibilità nuove e inaspettate, proprio attraverso la sovversione delle sue funzioni pre-scritte (Domínguez Rubio, Fogué 2015: 150). Per finire, vale la pena di menzionare il progetto della “Magic Mountain” di Ames (USA) realizzata nel 2002 da un altro studio di architettura madrileno, Amid.cero9: ad essere centrale in questo caso è una questione diversa, vale a dire il ruolo giocato da “attori non umani” nel progetto. Chiamati a trovare un modo per integrare il profilo di un’enorme centrale termoelettrica nell’ambiente circostante, i progettisti spagnoli hanno scelto di ricoprirla con una membrana organica fatta di rose e altre specie floreali, che nel tempo ha cominciato ad essere abitata da diverse specie di uccelli e farfalle. Ne è risultato un vero e pro- prio ecosistema dinamico co-progettato da umani e non umani: un esempio di progetto cosmopolitico in piena regola (Yaneva 2015; Tironi, Hermansen 2018). Prese nel loro insieme, le esperienze illustrate si collocano a una distanza considerevole dalle nozione classica di utopia: il loro obiettivo non è infatti la pre-scrizione di un determinato futuro bensì l’alterazione critica del presente, delle sue condizioni materiali e delle sue logiche egemoniche. Sono progetti e pratiche che architettoniche che reiterano, in modi diversi e da premesse diverse, l’atto di dar luogo a ciò che non ha luogo. Realizzando utopie nel presente Questo contributo si è proposto di riformulare un concetto particolarmente controverso come quello di utopia facendo leva su un’idea di progetto diversa da quella tradizionale ed egemonica della pre-scrizione. Si è cercato infatti di rintracciare, in una serie di esperienze contemporanee, la presenza di logica progettuale diversa: quella di una praxis capace di rela- zionarsi in maniera situata con la materialità del presente, adottando la logica dell’apertura (underspecification) e del prototyping, e opponendo così a qualsiasi visione totalizzante un’idea di assemblaggio e bricolage. In contrasto con l’idea moderna di proiezione (come “fuga in avanti”) di una certa immagine del mondo nel futuro, questa prospettiva concepisce il progetto come l’alterazione situata che permette dar luogo – qui e ora – a possibilità “utopiche”, rese possibili proprio dall’interruzione di determinate logiche e configurazioni materiali del presente. Tutti i casi illustrati entrano in questo orizzonte: partono dal confronto con una configurazione situata spazialmente, materialmente e storicamente per interrompere, modificare o sovvertire processi, pratiche e logiche che producono un certo modo di essere del presente, e dar così luogo a esperienze che non potrebbero darsi altrimenti. Si abbandona, pertanto, l’idea di prefigurazione di un luogo altro dove biso- gnerebbe con-vergere, in favore di un’attività aperta e situata di interrogazione 184
e alterazione capace di creare le condizioni per la di-vergenza in un luogo con- creto, con tutte le sue implicazioni politiche. Da questa prospettiva, il futuro non è tanto ciò che bisogna immaginare o pianificare ma piuttosto l’apertura che emerge dall’alterazione, sperimentale e continua, delle condizioni materiali di possibilità del presente. Bibliografia Akrich, M. – 1992, The De-Scription of Technical Objects, in W. Bijker, J. Law (a c. di), Building Technology / Shaping Society: Studies in Sociotechnical Change, London - Cambridge (MA), MIT Press. Awan, N., Schneider, T., Till, J. – 2011, Spatial Agency. Other Ways of Doing Architecture, Abingdon - New York, Routledge. Benjamin, W. – 2012, Aura e Choc. Saggi sulla teoria dei media, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi. Boano, C., Vergara Perucich, F. – 2016, Bajo escasez. ¿Media casa basta? Reflexiones sobre el Pritzker de Alejandro Aravena, “Revista de Arquitectura”, XXI, 31: 37-46. Certeau, M. de – 1984, The Practice of Everyday Life, Berkeley, University of California Press. Corsín Jiménez, A. – 2014a, The prototype: more than many and less than one, “Journal of Cultural Eco- nomy”, VII, 4: 381-398 – 2014b, The right to infrastructure: a prototype for open source urbanism, “Environment and Planning D: Society and Space”, 32: 342-362. Domínguez Rubio, F, Fogué, U. – 2015, Unfolding the Political Capacities of Design, in A. Yaneva, A. Zaera-Polo (a c. di), What is Cosmopolitical Design? Design, Nature and the Built Environment, Abingdon - New York, Routledge. Fischer, G., Giaccardi, E. – 2006, Meta-Design: a Framework for the Future of End-User Development, in H. Lie- berman, F. Paternò, W. Wulf (a c. di), End User Development, Dordrecht, Springer. Foucault, M. – 2001, Dits et écrits II. 1976-1988, Paris, Gallimard. Fuller, M. – 2016, Underspecified dreams of Parts and Wholes, “Inmaterial. Diseño Arte y Sociedad”, I, 1: 76-84. Gamara Quintanilla, G., Fortea, I. – 2006, Arqueologías del futuro. Una charla de Fredric Jameson, “El Viejo topo”, 219: 68-73. Guggenheim, M. – 2014, From Prototyping to Allotyping, “Journal of Cultural Economy”, VII, 4: 411-433. 185
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