Idea di Università Convegno per docenti e ricercatori universitari Castelromano, 27-28 settembre 2019

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Idea di Università Convegno per docenti e ricercatori universitari Castelromano, 27-28 settembre 2019
Idea di Università

Convegno per docenti e ricercatori universitari
Castelromano, 27-28 settembre 2019

Università e unità del sapere
G. Tanzella-Nitti
Pontificia Università della Santa Croce, Roma
Università e unità del sapere
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G. Tanzella-Nitti
Pontificia Università della Santa Croce, Roma
SISRI - Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare
Castelromano, 27 settembre 2019

      Un Convegno come quello che ci riunisce suscita gratitudine e sorpresa. Siamo
infatti invitati a parlare in un contesto accademico qualificato e qualificante di temi
che hanno appassionato da sempre, ma sono rimasti purtroppo temi di nicchia, da
trattare sottovoce, forse con un senso di nostalgia… Oggi abbiamo l’opportunità di
riportarli al centro del dibattito. Domande supreme: qual è il senso ultimo della
ricerca? Ci muoviamo davvero verso una verità? Una verità che non divide, ma
addirittura unisce; non ci illude, ma invece ci appaga e ci consola? È qual è il suolo
dell’istituzione universitaria in questa ricerca? Può oggi ancora favorirla, in sintonia
con le sue radici storiche, o deve rassegnarsi a proporci un sapere pragmatico, perché
più facilmente collegato alle risorse economiche che devono sostenerla?

     Certamente, nell’affrontare una tematica come la nostra siamo in compagnia di
ottimi pensatori che sottoscriverebbero buona parte delle tesi che oggi ci riuniscono:
da John Henry Newman, a Romano Guardini, da José Ortega y Gasset a Karl Jaspers,
da Jacques Maritain ad Alister McIntyre, da Karol Wojtyla a Joseph Ratzinger…
Eppure qualcuno potrebbe pensare che parlare di unità del sapere, di fini
dell’università o dell’ideale di una persona colta siano argomenti sì interessanti, ma
che obbligherebbero ancora a guardare verso il passato, non verso il futuro. Argomenti
che un certo slang contemporaneo qualificherebbe come vintage, o forse retrò…

     In realtà oggi, con buona pace degli storici, raccogliamo qui la sfida di guardare
anche e soprattutto verso il futuro. È quanto timidamente si comincia oggi a fare anche
in ambienti accademici qualificati, direi soprattutto in ambito anglosassone. Vi sarà
forse capitato di imbattervi in un recente articolo dei “Proceedings of the National
Academy of Sciences”, firmato da 9 ricercatori fra cui 3 italiani, Carlo Rovelli, Paolo e
Alberto Mantovani, dal titolo assolutamente fuori moda Why science needs philosohy
(senza punto interrogativo…). Il dibattito pubblico innestato da questo scritto fa ben
sperare, come fanno ben sperare le 6 raccomandazioni finali che gli autori
suggeriscono come guidelines per ricreare ambienti accademici colti ove il dialogo fra
scienze naturali e scienze umane giovi alla reale profondità sia delle une che delle
altre.

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Nella presente relazione cercherò di affrontare i seguenti punti, in successione: I.
Può l’università essere un luogo di unità del sapere? - II. Tentativi di unificazione del
sapere consegnatici dalla storia - III. Unità del sapere e unità della persona - IV.
Educare all'unità del sapere nel lavoro universitario.

I. Può l'università essere luogo di unità del sapere?
    Uno sguardo sull'università odierna fa emergere alcuni elementi a tutti ben noti:

— alto grado di specializzazione e crescente moltiplicazione delle varie discipline, sia
scientifiche che umanistiche;
— scarso collegamento fra le varie materie di insegnamento e fra i vari settori della
ricerca, anche all'interno della stessa area disciplinare;
— sensibili problemi di comunicazione fra i diversi linguaggi;
— perplessità circa il fine principale dell'insegnamento universitario (se istruzione
specialistica che prepari all’impiego oppure formazione più generalista che faccia
acquisire un’opportuna metodologia e prepari all’esercizio di una coscienza critica...)
— un certo disagio, nelle università di massa, di fronte all’alto rapporto
studenti/docenti, con la conseguente difficoltà ad instaurare rapporti personali
attraverso i quali trasmettere una conoscenza di ambito esistenziale o sapienziale.

    In realtà, il termine “università” vuole dire, almeno in Europa continentale, cose
diverse da quanto esso indicava 50 o 60 anni fa. Questo termine evocava curriculum
limitati di 4 o 5 anni, al termine dei quali c’era il nulla oppure le avventure
oltreoceano. Oggi università vuol dire master di vari livelli, attività extracurriculari,
dottorati di ricerca, percorsi post-doc entro le mura universitarie, ecc. Devo perciò
precisare che quando impiegherò il termine università mi riferirò in modo particolare
al percorso disciplinare classico, quello che forgia i primi anni di studio, sia nel modo
di porsi di fronte ad un certo ambito del sapere, sia nel modo di vederne i rapporti con
le altre discipline. È il campus universitario come si presenta ai nostri studenti che vi
accedono per la prima volta o cominciano ad immaginarlo sfogliando la Guida
accademica dello studente.

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Pensando alla missione di questa università—che più che tradizionale la
chiamerei fondamentale—vari autori hanno sottolineato, in un modo o nell'altro, il
carattere contestuale degli studi che vi si compiono e la loro appartenenza ad un
quadro comune, ad un'intenzione unitaria, anche se i modelli alla base di tale unità
“universitaria” non sono stati sempre univoci. Così si esprimevano autori che hanno
maggiormente riflettuto sull’istituzione universitaria.

    Per Wilhelm Von Humboldt (1767-1835) gli studi e la ricerca nell'università sono
unificati da una logica e da condizioni comuni che ne favoriscono lo svolgimento.
Questi sono «Libertà e solitudine» degli studiosi, l’«autonomia dal potere politico», la
«ricerca disinteressata della verità». John Henry Newman (1801-1890) vedeva gli
studi universitari unificati dallo scopo di formare la maturità della persona, quello di
creare un habitus ove si realizzi un'unificazione sapienziale delle conoscenze, previa e
più importante dell'istruzione nei singoli insegnamenti; l'università per Newman deve
«educare l'intelligenza», deve formare gentlemen. Karl Jaspers (1883-1969)
considerava l'università il luogo del dialogo e dell'interdisciplinarità; il luogo
dell’argomentazione super partes, rigorosa e profonda. Senza le università la
conoscenza non potrebbe tendere alla verità, ma sarebbe catturata dal sapere
pragmatico. E la verità, per essere colta, necessita della composizione delle varie
prospettive. José Ortega y Gasset (1883-1955) riteneva che gli studi universitari hanno
il compito di fornire una visione completa dei nodi culturali della propria epoca,
offrendo una sintesi matura e contestuale delle varie visioni del mondo procedenti
dalle diverse aree di insegnamento (fisica, biologia, storia, sociologia, filosofia). Come
per Newman, anche per Ortega y Gasset, l'università deve formare uomini colti.

    A questi autori si potrebbero affiancare Jacques Maritain e Romano Guardini e, in
tempi a noi più recenti, Allan Bloom o Alister McIntyre. Per tutti costoro il campus
universitario è compreso come un luogo di incontro non accidentale, un'area definita
da un'architettura culturale ancor prima che da un'architettura urbanistica o materiale.
Così si esprimeva Jaspers: «L’Università è la sede in cui tutte le scienze si incontrano.
Nella misura in cui le scienze rimangono un aggregato, l'Università assomiglia a una
bottega spirituale; ma nella misura in cui queste tendono ad una unità del sapere, essa
assomiglia all'impresa di una costruzione, mai finita, di un tempio» (1).

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Dando per scontato—ma scontato non è— che un dialogo fra i saperi può
tematizzarsi solo laddove la nozione di verità continui ad essere significativa e la sua
ricerca non pregiudizialmente frustrata, due sono, a mio avviso, i principali ostacoli
che l’idea di unità del sapere incontra in contesto universitario.

    Il primo è ritenere, erroneamente, che unità del sapere vada intesa come unità
enciclopedica. Ovvero, la simultanea presenza in una stessa persona, istituzione o
progetto educativo, di differenti competenze provenienti da diversi rami della scienza.
Forse realizzabile in passato, una simile visione è oggi impraticabile a motivo
dell'enorme ampliamento delle nostre conoscenze: un’enciclopedia è uno strumento,
anche assai valido in molti casi, ma non è un fine. L’università ha senso come luogo di
sapere specialistico, e tale deve restare. Questa obiezione parte però dall’asserto,
fallace, che l’idea di persona coltivata e di unità del sapere si oppongano all’idea di
specializzazione. La specializzazione sarebbe un male e la cultura generale un bene. In
realtà, parafrasando Newman, l’idea di persona colta non si oppone alla
specializzazione, ma al riduzionismo, che è cosa ben diversa. Una persona
specializzata è una persona colta se comprende il ruolo della sua disciplina nel
contesto delle altre e sa di cosa la sua materia è debitrice, in chiave storica,
epistemologica o antropologica, alle altre discipline. Essa cade invece nel
riduzionismo quando considera l’oggetto della sua materia come unica fonte
significativa del reale e promuove il suo metodo come unico criterio di conoscenza.

    La seconda obiezione segnala che ogni tentativo di unificazione del sapere ha
storicamente rimandato all’impiego di un sistema filosofico in ultima analisi idealista,
che interpreti e riunifichi in un quadro coerente tutte le diverse conoscenze. Sarebbe
questa, in fondo, la prospettiva tipica delle ideologie: forzare una determinata lettura
della realtà riconducendola, appunto, ad un sistema opportunamente pre-concepito per
scopi di influenza culturale, di autonomia, di egemonia intellettuale o di potere.
L’enciclopedia delle scienze filosofiche (1817-1830) di Hegel o L'Enciclopedia
universale della scienza unificata (1938), di Neurath, Carnap e Dewey, voluta
dall’avventura neopositivista, sarebbero fra gli esempi più paradigmatici di questa
riduzione/unificazione ideologica proposti nell’epoca moderna. Diversamente da
questa visione, è invece possibile parlare di unificazione partendo dalla realtà e non

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dalle idee, dalla percezione del ruolo del soggetto nel mondo e dalle grandi domande
esistenziali che lo accomunano, non dalle diverse visioni soggettive che si confrontano
in modo dialettico e non di rado dividono. Lasciamo questa seconda obiezione per il
momento in sospeso, per riprenderla fra poco.

II. Tentativi di unificazione del sapere consegnatici dalla storia

    Può essere utile, ai nostri fini, richiamare brevemente alcuni fra i principali
tentativi di unificazione del sapere consegnatici dalla storia.

    Nel pensiero classico, l’unità è sostanzialmente fornita dalla visione unificante
della “natura”, colta come un cosmos ordinato, dal quale tutto proviene e al quale tutto
ritorna. È unificazione di carattere fisico: cercata a partire da uno o più principi
elementari, dai quali derivava la pluralità degli esseri. Ma è anche unificazione di tipo
razionale-concettuale, perché realizzata grazie ai principi della matematica e della
geometria, un mondo di forme e di idee che appartenevano alla sfera divina, con i
quali poter costruire tutto ciò che esiste. In epoca classica oggetti e discipline si
strutturavano secondo un modello gerarchico, la cui finalità era mantenere l'ordine e la
coerenza del tutto.

    Il Medioevo cristiano rilegge il concetto di natura alla luce di quello di
“creazione”, recuperando l'impianto gerarchico in chiave teologica: tutto procede da
Dio e a Dio tutto ritorna. Gli insegnamenti profani si riuniscono in modo strumentale
attorno alla teologia, alla quale riconoscono la maggiore dignità dell'oggetto e la
maggiore importanza del fine. Si tratta di una riunificazione non solo contenutistica,
mediante una riconduzione (reductio) alla teologia (Bonaventura, Tommaso), ma
anche esistenziale (si pensi anche alla Divina Commedia di Dante).

    Nel pensiero moderno è invece la filosofia a tentare l'impresa dell'unificazione del
sapere. In sede razionalista, mediante l'unificazione del metodo (prima Cartesio e poi
Kant). In sede idealista affidando allo Spirito, alla Ragione o alla Storia il compito di
svelare il ruolo delle parti all'interno del tutto. Erede del programma di unificazione
filosofica e metodologica tipico della modernità, il neopositivismo si propose di

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unificare il sapere promuovendo la conoscenza empirica e la logica formale come
misure del tutto, inseguendo l’immagine (irreale) di un’impresa scientifica
formalmente completa e autoreferenziale. Il miraggio neopositivista sfocerà però nello
scetticismo e nel relativismo, per essere poi superato da una critica interna alla scienza
stessa. Anche il pensiero ermeneutico avanzerà in epoca moderna e contemporanea
una nuova proposta di riunificazione metodologica. L'unica strada per riunire le
scienze sarebbe quella dell'interpretazione, della decodificazione o anche della
decostruzione, del risalire sempre più in alto alle origini di un asserto, alle intenzioni
del soggetto, alle forme di conoscenza di una tradizione. Tuttavia, analogamente alla
proposta neopositivista, anche quella ermeneutica rischia di lasciare irrisolto il tema
della verità, specie quando lo sforzo di comprendere ed interpretare ad infinitum
termina nell'esito involutivo di avere ormai capito che non c'è più nulla da capire.

       Un’attenzione         particolare   la        merita    la     recente     rivalutazione
dell’interdisciplinarietà, un tentativo di ricomposizione scaturito da un'analisi interna
alle scienze stesse. Oggi, più che in passato, le diverse discipline si riconoscono
bisognose le une delle altre per poter affrontare coerentemente il loro oggetto. Il
dialogo interdisciplinare, però, non offre alcun modello di unità del sapere.
L'interdisciplinarità potrebbe tramutarsi perfino in una dannosa illusione, quella di
ritenere che dopo aver invitato a discutere allo stesso tavolo uno scienziato, un filosofo
e un teologo, siamo per questo automaticamente in grado di risolvere le questioni più
complesse, dall'origine dell'universo allo statuto epistemologico dell'embrione umano,
dallo sviluppo umano sostenibile all'etica della comunicazione di massa... È anche
oggi     frequente     una    comprensione      dell’interdisciplinarità   in   modo   soltanto
funzionalista o pragmatico.

       Provo allora a suggerire una tesi: il tema dell'unità del sapere va impostato su basi
più profonde; esso deve giungere a coinvolgere non solo le scienze, ma soprattutto la
persona. L'unità del sapere non si realizza nell'unità di metodo o nell'unificazione dei
diversi contenuti, bensì in interiore homine: l'unità non è una somma, ma un habitus.

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III. Unità del sapere e unità della persona

    Riflettere sull’unità del sapere centrandola sull'unità della persona può forse
consentirci di affrontare una domanda cruciale: si è persa l'unità del sapere quando le
discipline hanno cominciato a differenziarsi o quando la persona ha perso il proprio
centro interiore? E in cosa consisteva allora questo centro?

    Ma procediamo con ordine. In un soggetto libero, la principale fonte di
unificazione non è la coesistenza armonica o comunque non contraddittoria di
conoscenze provenienti da ambiti diversi del sapere, bensì l'orientamento del soggetto
verso un fine, riconosciuto buono e meritevole di essere perseguito grazie a quelle
conoscenze. È la comune esperienza antropologica della “scelta”, che prima di essere
realizzata ci obbliga ad unificare tutti i dati a nostra disposizione. Così avviene la
scelta di una professione, la scelta di un luogo ove abitare, la scelta di un coniuge, ecc.
Maggior valore esistenziale possiede una scelta, più esigente diviene, per quanto
possibile, l’unificazione delle conoscenze a nostra disposizione.

    L'uomo colto (Ortega y Gasset) o l'uomo educato (Newman) realizza in sé una
certa unità del sapere perché nella formazione dei suoi giudizi e nella determinazione
delle sue scelte, non ha escluso—per negligenza, preconcetti o scarsa onestà
intellettuale—nessuna fonte ragionevole di conoscenza.

    Il nocciolo della questione è che quanto maggiore è l'importanza dei fini da
perseguire, quanto più alta la posta in gioco nelle opzioni da realizzare, maggiore è la
forza con cui il soggetto avverte l'esigenza di unificare e porre in relazione tutto ciò
che egli conosce, tutto quanto rappresenta il suo bagaglio intellettuale e umano. Fare
chiarezza sugli interrogativi esistenziali, sulle ragioni del proprio vivere, costituisce la
spinta più grande a cercare l'unità coerente di tutto quanto si conosce: Affermava in
un’occasione Giovanni Paolo II, «ci muoviamo verso l'unità ogni volta che cerchiamo
il significato della nostra vita». In altre parole, il referente ultimo che dà unità
all'esperienza intellettuale del soggetto, rimanda ad una sfera di ambito esistenziale, o
anche, religioso-esistenziale.

    L'unità del sapere non dipende dunque né dalla quantità, né dal tipo di conoscenze
che posseggo, ma dal modo con cui so porle in relazione con le ragioni del mio vivere,

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dal modo con cui so utilizzarle per fare luce sul senso del mio conoscere e del mio
agire. Un sapere ricomponibile è un sapere che resta aperto non solo al tema della
verità, ma anche al tema del senso dell'esistenza.

    In certo modo, un sapere ricomponibile è un sapere che resta aperto, in definitiva,
al tema di Dio. Quando un soggetto—un ricercatore, un intellettuale—si orienta in
modo esistenziale verso la verità, o se si vuole verso Dio, allora la sua ragione reclama
che nessuna delle sue conoscenze venga messa da parte, nessuna di esse può restare
umiliata o venire contraddetta, ma tutte devono confortare il consenso ultimo che
reclama l’orientamento esistenziale verso la verità e verso Dio, garante ultimo della
verità. Orbene, è questo atto esistenziale della persona a costituire la spinta più
formidabile verso la sintesi e l'unità del proprio sapere, sebbene non siano risparmiati a
nessuno la fatica e il travaglio per raggiungerli.

    Quando la persona umana rinuncia a questo orientamento verso il fine ultimo,
capace di unificare il suo conoscere e agire, termina allora col perdere se stessa.
Rassegnarsi ad un sapere frammentato ed incomponibile finisce col frammentare
l'uomo, procurandogli un disagio tanto più acuto quanto più esistenzialmente
importanti sono i contributi del sapere che egli omette o trascura di integrare. Una
volta persa quest'unità interiore non la si può rimpiazzare con un insieme di certezze,
per quanto numerose, provenienti da aspetti periferici della realtà. L'uomo ha perso il
suo “centro”, e con esso l'unità del suo sapere. Ciò potrebbe accadere quando un
medico non si interrogasse più sul significato della medicina, sul perché egli abbia
scelto questa attività, e su chi sia, davvero, l’oggetto del suo lavoro e della sua ricerca
l’essere umano. O potrebbe accadere quando un fisico non si chiedesse più perché la
realtà sia meritevole di essere studiata, quale sia l’origine della sua intelligibilità, quale
causa abbia l’appello della sua bellezza…

    La condizione fondamentale perché si dia un'unificazione del sapere e si
ricostruisca progressivamente un'università in cui le scienze siano ricomposte, è che si
sappia chi è quell'uomo in cui il sapere viene unificato. Non è possibile spingere il
nostro prossimo a sapere tutto e di tutto, se non lo si aiuta a capire se stesso e il
significato che ha per lui tutto ciò che gli viene chiesto di conoscere.

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La storia ci riconduce alle origini di questi strappi di cui tuttora, forse, paghiamo
ancora le conseguenze. Al tramonto del medioevo cristiano, la frammentazione più
carica di implicazioni per l'unità della persona non fu quella che diede origine alla
diversificazione delle scienze, effetto inevitabile della divisione delle grandi Summae
in trattati più circoscritti; lo strappo più acuto fu piuttosto quello che introdusse una
nuova comprensione del mondo ed una nuova auto-comprensione dell'uomo e della
sua vita morale, separandole entrambe da quelle che l'umanità aveva fino a quel
momento ricevuto dalla Rivelazione cristiana e dai fini che questa illuminava.

    Il Principe di Machiavelli, ad esempio, parlerà ancora di “virtù”, ma queste non
hanno ormai più nulla a che fare né con l'etica aristotelica, né con le beatitudini
evangeliche: una volta accettato che il fine giustifica i mezzi o, poco più tardi, che
ogni legge morale si basa su convenzioni rivedibili, viene aperta la strada al dominio
dell'uomo sull'uomo. La politica, l'economia, la tecnica o la medicina, separandosi
progressivamente dal riferimento al fine ultimo dell'uomo, pagano il prezzo di
trasformarsi in una politica, un'economia, una tecnica o una medicina capaci di
rivoltarsi contro l'uomo stesso.

    Qualcosa di analogo è storicamente accaduto nei nostri rapporti con il mondo:
quando si separa il significato ontologico che il mondo possiede, ovvero il suo status
creaturale, da quanto sul mondo io posso operare, fare o disfare, si aprono allora le
porte alla sua manipolazione, alla sua reificazione, alla sua distruzione, lacerando
ancora una volta l’uomo in se stesso e verso gli altri.

    Per sanare queste lacerazioni non serve una riunificazione enciclopedica. Di
fronte ad una cultura che tenta senza successo di riunificarsi nei suoi mezzi, occorre
promuovere una cultura che si riunifichi attorno alla sfera dei fini. Il “centro interiore”
da riconquistare è quello della propria coscienza, nella quale far dialogare tutti i settori
del proprio sapere, perché nessuno di essi è estraneo ai motivi del nostro vivere, alle
nostre responsabilità verso l'uomo e verso il mondo.

    La frantumazione di questo centro non è opera dell'ignoranza, ma del peccato. Un
termine finora non introdotto, ma che in questa sede possiamo semplicemente indicare

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come il rifiuto consapevole di cercare la verità, di andare al fondo dei problemi, il
rifiuto di comportarsi con la massima onestà intellettuale e rettitudine di coscienza.

IV. Educare all'unità del sapere nel lavoro universitario

    Proviamo a questo punto a suggerire alcune possibili applicazioni, nella nostra
quotidiana vita universitaria, di quanto prima visto.

    In primo luogo non andrebbe dimenticato che, anche fra le mura universitarie,
l’obiettivo ultimo di ogni rapporto educativo è la formazione della persona. Educare
alla ricerca di unità e alla coerenza fra le varie fonti di sapere è un aspetto
fondamentale della formazione della persona. Ogni educatore sa che la persona cresce
e matura quando sa formulare giudizi, esercitare scelte, affermare la propria identità
intellettuale, spirituale e affettiva, attraverso decisioni che costruiranno gradatamente i
tratti della propria personalità. Ma questi giudizi e queste decisioni, saranno tanto più
sicuri (e la propria personalità tanto più stabile) quanto maggiore sarà la certezza con
cui sapremo giustificarli di fronte a noi stessi e agli altri. Tale stabilità non è
compatibile con un regime di ambiguità o di doppia verità. Educare all'unità del
sapere, come habitus e come atto esistenziale della persona, è irrinunciabile in ogni
percorso che voglia essere davvero educativo.

    In secondo luogo, trasmettere un sapere unificato vuol dire trasmettere una
testimonianza di vita. Affinché ciò sia possibile occorre che ogni docente non rinunci
ad una propria, personale “unità del sapere”; faccia cioè dialogare dentro di sé metodo
scientifico e apertura a domande di senso, scienza e sapienza, addestramento nei mezzi
e riflessione sui fini —se credente, anche fede e ragione— trasmettendo con passione
questa sintesi, o almeno indicando la direzione verso cui cercarla.

    Il fatto che un simile itinerario esuli dai comuni programmi universitari non
rappresenta un ostacolo. Si può percorrere ad esempio una pista storico-biografica,
favorendo l'incontro degli studenti con autori che hanno cercato con passione una
sintesi del sapere non rinunciando a porsi le domande più importanti—chi sono, da
dove vengo, dove vado—proprio partendo dall'esercizio del loro lavoro scientifico.

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Indipendentemente dal loro credo religioso, figure come Keplero, Pascal, Newton,
Maxwell, Pasteur, Duhem, Poincaré, Cauchy, o in tempi più recenti Lejeune, Einstein,
Abdus Salam, o i nostri Giovanni Prodi ed Ennio De Giorgi, hanno offerto riflessioni
assai significative in proposito.

     Nel rapporto fra docente e studente, “trasmettere conoscenze” vuol dire allora
trasmettere una testimonianza, rendere partecipi del tentativo vitale di percorrere una
strada dove scienze umane e scienze naturali, linguaggio formale e linguaggio estetico,
esperienza morale e pensiero religioso non siano più pezzi incomponibili di un
mosaico destinato a restare incompiuto, settori separati ed incomunicabili
dell'esistenza umana, ma divengano tutte vere dimensioni della conoscenza:

      «La realtà è un'unità a molti livelli. Posso percepire un'altra persona come un aggregato
      di atomi, ma anche come un sistema biochimico aperto in interazione con l'ambiente, o
      come un esemplare di homo sapiens, come un oggetto di bellezza, o come qualcuno i
      cui bisogni meritano il mio rispetto e la mia compassione, o infine come un fratello per
      cui Cristo è morto. Tutti questi aspetti sono veri e coesistono in maniera misteriosa in
      quell'unica persona. Se ne negassi uno, significherebbe che sminuisco sia quella persona
      che me stesso, che tento di capirla; significherebbe non rendere giustizia alla ricchezza
      della realtà» (2).

     Nell'immagine di Polkinghorne, il livello di interpretazione più alto, porsi di
fronte ad un uomo come «ad un fratello che merita il mio rispetto, un fratello per cui
Cristo è morto» equivale ad accedere alla sfera dei fini, l'unica capace di ricostruire
l'unità della mia conoscenza su quell'oggetto che in questo caso è anche un soggetto.
Un'università aperta all'unità del sapere è un'università dove non si trascura nessuno di
questi livelli. Se ciò potrebbe non avvenire (pur dovendolo) a livello istituzionale,
l’apertura ad una verità globale può sempre essere trasmessa a livello personale,
attraverso il lavoro e la testimonianza di ogni docente.

______________
(1) K. Jaspers, Filosofia e scienza, “Rivista di Filosofia” 41 (1950), 245-259, qui 257.
(2) J. Polkinghorne, Riduzionismo, “Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede”, a
cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma
2002, pp. 1235-1236).

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UNIVERSITÀ E UNITÀ DEL SAPERE: SELEZIONE DI TESTI

     «Se dunque polemizzo contro la conoscenza Professionale o Scientifica come fine
sufficiente di un'Educazione Universitaria, non pensiate, Signori, che voglia mancar di
rispetto a studi, o arti, o vocazioni particolari, e a coloro che sono impegnati a essi. Nel
dire che la Legge o la Medicina non sono il fine di un'educazione Universitaria, non
intendo dire che l'Università non deve insegnare la Legge o la Medicina. Che cosa
infatti essa può insegnare, se non insegna qualche cosa di particolare? Essa insegna
tutta la conoscenza insegnando tutti i suoi settori, e in nessun altro modo. Io dico
soltanto che vi sarà questa distinzione per quel che riguarda un Professore di Legge, o
di Medicina, o di Geologia, o di Economia Politica, in un'Università e fuori di essa, che
fuori di un'Università egli corre il pericolo di essere assorbito e circoscritto dalla sua
specializzazione e di fare lezioni che sono nulla più che le Lezioni di un giurista, di un
medico, di un geologo, o di un economista politico; mentre in un'Università egli sa
dove collocare se stesso e la propria scienza, a cui giunge, per così dire, da una
sommità, dopo aver avuto una visione globale di tutto il sapere, è trattenuto dalla
stravaganza dalla stessa competizione di altri studi, trae da essi un'illuminazione
speciale e un'ampiezza mentale e un senso di libertà e il possesso di sé, e tratta di
conseguenza il suo proprio settore con una filosofia ed una ricchezza di risorse, che
non appartengono allo studio in se stesso, ma alla sua educazione liberale.

     Ecco dunque come risolverei il sofisma, poiché lo devo chiamare così, con cui
Locke e i suoi discepoli ci vorrebbero distogliere con la paura dal coltivare l’intelletto,
basandosi sulla nozione che nessuna forma di educazione la quale non ci insegni
qualche professione temporale, o qualche arte meccanica, o qualche segreto fisico, è
del tutto inutile. Io dico che un intelletto coltivato, poiché è un bene in se stesso, porta
con sé una forza e una grazia per ogni opera e occupazione che intraprende, e ci rende
capaci di essere più utili, e a un numero maggiore di persone. Abbiamo un dovere
verso la società umana in quanto tale, verso la condizione cui apparteniamo, verso la
sfera in cui ci muoviamo, verso gli individui a cui siamo in vario modo legati, e che
incontriamo in periodi successivi della nostra vita; e quell’educazione filosofica e
liberale, come l’ho chiamata, che è la funzione specifica di una Università, se nega il
posto più eminente agli interessi professionali, non fa altro che posporli alla
formazione del cittadino e, mentre serve i più alti interessi della filantropia, prepara
anche alla felice attuazione di quegli scopi puramente personali, che a prima vista
sembra screditare.

(J.H. Newman, L'Idea di Università (1852), Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 201-203.

      «Tutti i settori del sapere sono, almeno implicitamente, l'oggetto
dell'insegnamento universitario; questi settori non sono isolati e indipendenti l'uno

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dall'altro, ma formano insieme un tutto o un sistema; essi si fondono e si completano
vicendevolmente, e l'esattezza e la veridicità del sapere che essi, ciascuno per suo
conto, trasmettono, sono relative alla visione che ne abbiamo come di un tutto; la vera
cultura consiste nel processo di trasmissione del sapere all'intelletto in questa maniera
filosofica; una tale cultura è un bene in se stesso; la conoscenza la quale è tanto il suo
strumento quanto il suo risultato è chiamata Conoscenza Liberale; una tale cultura,
insieme con la conoscenza che ne è causa, può convenientemente esser ricercata di per
se stessa; essa è, inoltre, di grande utilità secolare, in quanto costituisce la formazione
migliore e più alta dell'intelletto per la vita sociale e politica»
(Ibidem, pp. 246-247)

      «Spinti dalla nostra primaria sete di conoscenza, tale ricerca è guidata dalla nostra
visione dell'unicità della realtà. Cerchiamo di conoscere delle particolari informazioni,
non per loro stesse, ma come via per giungere a quella unicità. Senza un riferimento
all'intero dell'essere, la scienza perde significato. Con esso, al contrario, anche le più
specializzate branche della scienza acquistano significato e vita (...). Ciò che determina
la vera direzione di ogni ricerca è la nostra abilità a perpetuare, cioè a porre
continuamente in relazione fra loro, due elementi del pensiero. Uno è la nostra volontà
di conoscere l'infinita varietà e molteplicità della realtà che sempre ci sfugge; l'altro è
la nostra reale esperienza di unità che soggiace a questa pluralità»

(K. Jaspers, Die Idee der Universität (1946), (Owen, London 1965, p. 38)

     «L'università deve certamente venire incontro alle necessità di formazione e di
impiego, e sotto questo aspetto assomiglia alle antiche scuole di pratica professionale.
Tuttavia essa vi aggiunge qualcosa di totalmente nuovo, quando viene incontro a
questi bisogni definendo il loro ruolo proprio all'interno della totalità delle conoscenze.
Se da un certo punto di vista l'università può assomigliare ad un insieme di diverse
scuole professionali, isolate le une dalle altre, oppure ad un supermercato intellettuale
con abbondanza di merci per ogni gusto, da un altro non può ridursi solo a questa
apparenza; altrimenti, se così fosse, l'università semplicemente si disintegrerebbe. La
ragione profonda della sua esistenza sta nell'unicità e nell'interezza delle conoscenze
nel loro insieme, vale a dire in ciò che solo permette di conoscerle nel senso più ampio
del termine»

(Ibidem, p. 93)

     «È ineludibile creare di nuovo nell'università l'insegnamento della cultura, cioè
del sistema delle idee vive che ciascun tempo possiede: questo è il compito più
radicale dell'università (...).

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La cultura è un compito imprescindibile di ogni vita umana, è una dimensione
costitutiva della sua esistenza, come le mani sono un attributo dell'uomo. A volte
l'uomo non ha mani; però non per questo non è più uomo, ma solo monco. Allo stesso
modo, ed assai più radicalmente, può dirsi che una vita senza cultura è una vita monca,
fallita e falsa. L'uomo che non sa vivere all'altezza del suo tempo, vive al di sotto di
ciò che sarebbe la sua vita autentica, cioè falsifica e truffa la sua stessa vita,
svuotandola»
(José Ortega y Gasset, Misión de la Universidad (1930), in «Obras Completas», 12 voll.,
Madrid 1987, vol. IV, pp. 323 e p. 344)

     «Vorrei non giudicare severamente, ma devo dire che fra i molti docenti
accademici che nel corso dei miei lunghi studi ho imparato a conoscere, non v'era
quasi nessuno che si sia attivamente interessato dei suoi studenti, anzi devo forse dire
restrittivamente, di gente tanto timida. Secondo i casi, erano scienziati ben noti o
anche meno noti, e buoni o meno buoni parlatori; dei giovani però non si sono
interessati per loro iniziativa. Se questi erano arrivati al loro posto giusto e avevano
risvegliato il loro interesse con qualche loro prestazione, poteva accadere qualcosa di
diverso. Ma molto importanti finalità formative della pedagogia erano da adempiere
preventivamente: risvegliare l'interesse del giovane, aiutarlo ad attingere se stesso;
insegnargli come si lavora intellettualmente e, più propriamente, in modo scientifico,
come si formula una questione e la si affronta, come si impara a usare i sussidi per
risolverla, a superare le difficoltà...»

(R. Guardini, Appunti per un'autobiografia, Morcelliana, Brescia 1986, pp.79-80)

     «“Tutto”. Ci fermiamo a questa espressione. “Tutto” è un concetto vicino a ciò
che è contenuto nel vocabolo “universitas”. “Universitas” è un particolare ambiente
orientato alla conoscenza di “tutto”. Al soggettivo “universitas” corrisponde
l'oggettivo “universum”. Questo orientamento, questa aspirazione sono strettamente
uniti all'uomo di tutti i tempi, alla natura stessa dell'intelletto umano. Intellectus est
quodammodo omnia (l'intelletto umano è in un certo senso tutto — san Tommaso).
Infatti, tutto ciò che in qualunque modo esiste, è dato in compito alla conoscenza
umana, e dunque all'intelletto umano. Tutto ciò che in qualunque modo esiste — cioè
tutta la realtà, tutta la realtà diversificata. L'intelletto umano è rivolto verso questa
realtà, sia sotto l'aspetto della sua universalità (“tutto”), sia sotto quella della
diversificazione. Le istituzioni che portano il nome “università” annunciano con il loro
stesso nome questa fondamentale verità sull'uomo, sulla conoscenza umana. Tutta la
realtà viene data in compito all'uomo sotto l'aspetto della verità. L'“università” parla
allo stesso tempo di un particolare indebitamento dell'uomo verso tutta la realtà
diversificata. Questo è l'indebitamento mediante la verità. L'uomo deve al mondo la
verità. L'uomo estingue questo debito mediante la conoscenza della verità sul mondo,
sulla realtà, sul Creatore e sulla creazione, e allo stesso tempo, egli realizza se stesso.
Giustifica la sua intellettualità in tutto il cosmo».

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(Giovanni Paolo II, Omelia per la Celebrazione della Parola all'università di Lublino, 9-VI-
1987, n. 2)

     «Fin dalle origini l'Università è stata concepita come universale, nel senso cioè di
una istituzione aperta a tutti e volta a coltivare ogni forma di sapere ed a studiare la
verità in ogni sua espressione: scientifica, filosofica, teologica. Compete quindi
all'Università la ricerca della verità in tutti i settori e la trasmissione di essa mediante
l'insegnamento. Le verità proprie dei differenti rami della realtà sono studiate in modo
ordinato, sistematico e approfondito nelle distinte articolazioni in cui si divide
l'Università: facoltà, istituti, dipartimenti; ma l'Università, in quanto tale, ha come
compito lo studio di tutta la verità, e solo dalla conoscenza di questa trae criteri validi
per organizzare e conferire significato agli studi dei singoli settori».

(Giovanni Paolo II, Al Corpo Accademico dell'Università di Padova, 12-IX-1982, n. 2)

     «Ora, è proprio caratteristica dell'università, che è per antonomasia universitas
studiorum a differenza di altri centri di studio e di ricerca, coltivare una conoscenza
universale, nel senso che in essa ogni scienza dev'essere coltivata in spirito di
universalità, cioè con la consapevolezza che ognuna, seppure diversa, è così legata alle
altre che non è possibile insegnarla al di fuori del contesto, almeno intenzionale, di
tutte le altre. Chiudersi è condannarsi, prima o dopo, alla sterilità, è rischiare di
scambiare per norma della verità totale un metodo affinato per analizzare e cogliere
una sezione particolare della realtà. Si esige quindi che l'università diventi un luogo di
incontro e di confronto spirituale in umiltà e coraggio, dove uomini che amano la
conoscenza imparino a rispettarsi, a consultarsi, a comunicare, in un intreccio di sapere
aperto e complementare, al fine di portare lo studente verso l'unità dello scibile, cioè
verso la verità ricercata e tutelata al di sopra di ogni manipolazione».

(Giovanni Paolo II, Incontro con il mondo della cultura, con i docenti e con gli studenti nella
sede dell'Ateneo torinese, Torino, 3-IX-1988, n. 3).

     «L'impegno scientifico non è un'attività che riguarda la sola sfera intellettuale.
Esso coinvolge l'uomo intero. Questi infatti si lancia con tutte le proprie forze nella
ricerca della verità, proprio perché la verità gli appare come un bene. Esiste dunque
una inscindibile corrispondenza fra la verità e il bene. Questo significa che tutto
l'operare umano possiede una dimensione morale. In altre parole: qualunque cosa
facciamo — anche lo studio — noi avvertiamo al fondo del nostro spirito un'esigenza
di pienezza e di unità. (...) In ultima analisi — e ciascuno di noi lo sa per esperienza —
l'uomo o cerca se stesso, la propria affermazione, l'utilità personale, come finalità
ultima dell'esistenza, oppure si rivolge a Dio, Bene supremo e vero Fine ultimo,
l'Unico in grado di unificare, subordinandoli e orientandoli a Sé, i molteplici fini che
di volta in volta costituiscono l'oggetto delle nostre aspirazioni e del nostro lavoro.
Scienza e cultura, pertanto, acquistano un senso pieno e coerente e unitario, se sono
ordinate al raggiungimento del fine ultimo dell'uomo, che è la gloria di Dio».

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(Giovanni Paolo II, Ai partecipanti al congresso «UNIV '80», Roma, 1-IV-1980, n. 2).

     «La Chiesa guarda alla esperienza universitaria sotto il profilo del suo contributo
alla formazione integrale della persona: pur nel pieno rispetto dell'autonomia della
scienza e delle sue leggi intrinseche, questo fine può essere perseguito solo se la
ricerca e l'insegnamento si svolgono in modo tale da avere sempre come punto di
riferimento la crescita dei grandi valori i quali, nella misura in cui sono autentici, sono
anche in potenziale sintonia col messaggio cristiano. Se nei Docenti e negli Studenti vi
è la viva coscienza di questa finalità, la loro vita all'interno dell'Università non potrà
non orientarsi verso l'attuazione di una comunità solidale, fondata su di un fecondo
rapporto umano tra maestri e allievi»

(Giovanni Paolo II, Il discorso alla comunità universitaria di Ca' Foscari, Venezia, 17-VI-
1985, n. 2).

     «La testimonianza cristiana [del docente cattolico] si realizza concretamente per
lui non in un riversamento di tematiche confessionali sulle discipline insegnate o
studiate, ma piuttosto nell'apertura dei suoi orizzonti alle domande ultime e
fondamentali dell'uomo e nella qualità stimolante della sua presenza nell'università. Ha
colto nel segno quell'intellettuale che ha scritto con grande lucidità: “chi volesse
insegnarci la verità ci metta in condizione di scoprirla da noi stessi”»

(Conferenza Episcopale Italiana, Problemi dell'università e della cultura in Italia, 15-IV-
1990, in «Notiziario CEI» (1990/4) 97-109, n. 7)

     «Il cristiano deve avere sete di sapere. Dall'approfondimento della scienza più
astratta, all'abilità manuale degli artigiani, tutto può e deve condurre a Dio (...) Il
lavoro così fatto è orazione. Lo studio così fatto è orazione. La ricerca scientifica così
fatta è orazione. Tutto converge verso una sola realtà: tutto è orazione, tutto può
portarci a Dio, alimentando un rapporto continuo con lui, dalla mattina alla sera. Ogni
onesto lavoro può essere orazione; e ogni lavoro che è orazione è apostolato. In tal
modo l'anima si irrobustisce in un'unità di vita semplice e forte»

(Beato Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, Ares, Milano 19885, n. 10).

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