Le Tredici Tele Sonia Cardìa - Penna e Taccuino

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Sonia Cardìa

Le Tredici Tele
Dedicato a chi crede che
         nella vita esista
una seconda opportunità per tutti
1
Cara Nina,
oggi fa molto freddo, non solo per il fatto che è inverno, ma soprattutto perché è il giorno in cui
avresti compiuto quattro anni e ogni tuo compleanno ormai per me è come una brutta stagione:
gelida. Ho messo una giacca pesante prima di uscire a fare un po' di spesa. Mi sono dovuta
adeguare a nuove abitudini… ricordo quando vivevamo a Firenze e passavo al negozio del Signor
Pino. Ti portavo sempre a comprare il pane, la frutta e la verdura. Eri molto piccola, avevi due
mesi: ti fasciavo con una coperta di lana per timore che prendessi freddo e sulla tua piccola
testolina mettevo una cuffietta rosa, fatta a maglia in cotone, da nonna Pia, mia madre. Quel
colore faceva risaltare il blu dei tuoi occhi. Ti tenevo stretta al mio petto mentre Signor Pino
riempiva le buste e nell’attesa mi piaceva osservarti, scrutarti. Ti accarezzavo dolcemente con le
dita le guance arrossate dal freddo, poi per timore che quelle piccole mani si freddassero le
mettevo sotto la coperta, ma tu non stavi ferma un istante e nemmeno un battito di ciglia, già le
avevi tolte di nuovo fuori.
«Va bene Lucia, è un chilo?»
Mi diceva con quella sua c aspirata che hanno i toscani.
Signor Pino usava la busta di carta riciclata, per fare i calcoli della spesa, “ancora alla vecchia
maniera”. Prendeva una penna e inseriva gli importi, poi in basso tracciava una riga e scriveva il
totale. Lo stesso involucro lo usava per imbustare gli alimenti. Calcolava ancora tutto a mente.
«A me non servono le calcolatrici, questa tecnologia finirà per rovinarci il cervello.»
Non era un amante degli oggetti tecnologici, non possedeva ancora nemmeno un cellulare. Io
invece avevo appena acquistato un Nokia 6110, potevo chiamare chiunque in qualsiasi momento
senza dover cercare una cabina telefonica come facevo un tempo. Dopo aver fatto il conto il
fruttivendolo mi comunicava il prezzo:
«Per te Lucia, sono solo mille e cinquecento lire.»
Quando andavo con te, era lui ad aiutarmi con la spesa, altrimenti non sapevo come trasportarla.
La strada da casa nostra al negozio non era lunga. Dopo il matrimonio tra la vendita dei miei dipinti
e il lavoro di tuo padre all’università potemmo permetterci uno stile di vita agiato. Acquistammo
una villa appartenuta a un ricco signore, venduta dai suoi figli dopo la sua morte. Tuo padre la
arredò con molto gusto e classe: quella che lo aveva sempre contraddistinto. Ti amava tanto e
vedendolo mentre ti coccolava e giocava con te, speravo fortemente che la tua infanzia fosse
meravigliosa. Pregavo che almeno tu fossi una bambina felice, non come me. Mio padre invece
voleva avere il controllo su tutto e tutti. Aveva già deciso che avrei dovuto fare l’avvocato e
seguire le sue orme nel suo noto: “Studio Legale Avv. Luigi Contini”. Ma il mio cuore palpitava solo
per l’arte, la mia passione. Volevo dipingere, quello era il mio sogno. Sono cambiate tante cose e
ora dipingo solo te. Sei diventata la mia unica ispirazione, o forse dovrei dire la mia ossessione. Il
particolare più bello? Il tuo sorriso, quello che mi hai regalato per i primi tre anni della tua vita, e i
tre anni più belli della mia. Dopo averli dipinti li nascondo nel sottotetto della casa dei miei
genitori. Ora sono tornata a vivere a Cagliari, ormai Firenze non aveva più nulla da darmi se non
solo brutti ricordi. Custodisco i tuoi quadri gelosamente, come se la tua anima fosse rimasta
intrappolata al loro interno. Credo che mia madre pensi che sia diventata pazza, perché mi sente
parlare da sola. Non sa che invece sto comunicando con te. Personalmente non ho mai smesso di
sperare, c’è qualcosa dentro di me che mi spinge a credere che un giorno ci riabbracceremo, ma a
quanto pare sono l’unica a crederlo.
Non riconoscevo più tuo padre ormai da tempo. Era cambiato, le sue attenzioni nei miei confronti
erano diminuite, era sempre nervoso, rientrava a casa tardi e la scusa era sempre la stessa:
improvvise riunioni con i colleghi. Aveva atteggiamenti di ira anche verso di te, così litigavamo.
Tutto era diverso in lui e iniziai a pensare che mia madre aveva ragione quando mi diceva che non
era l’uomo giusto per me. Volevo dirti che questa mattina ho finito un altro dipinto, rappresenta il
tuo quarto compleanno. Anche se il tempo passa so come sei o come saresti stata, perché una
madre non dimentica nulla del proprio figlio. Una madre può andare oltre l’immaginazione. Una
madre avverte certe cose e io sento che tu sei da qualche parte ad aspettarmi e in questo giorno
importante vorrei poter prendere in mano il telefono e chiamarti per dirti:
«Amore mio, sto arrivando a prenderti. Copriti bene, perché fuori fa freddo!»
Mamma
2

I figli sono come gli aquiloni: gli insegnerai a volare, ma non voleranno il tuo volo. Gli insegnerai
a sognare, ma non sogneranno il tuo sogno. Gli insegnerai a vivere, ma non vivranno la tua vita.
  Ma in ogni volo, in ogni sogno e in ogni vita rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento
                                               ricevuto.

                                     (Madre Teresa di Calcutta)

Firenze, 1987.
Mi trasferii a Firenze dopo la maturità e la separazione dei miei genitori. Per me non fu una doccia
fredda quella notizia, sapevo che prima o poi sarebbe successo, come una sera dopo l’ennesima
lite tra di loro, mentre ero intenta ad ascoltare musica e disegnare entrò papà nella mia stanza,
sembrava una furia, mi sorprese ad abbozzare. La mia specialità erano i ritratti di volti umani e
animali.
«Lucia, cosa fai?» Mi urlò addosso, e come se fossi la causa di tutta la loro vita matrimoniale fallita,
mi prese dalle mani l’album con i miei disegni e li strappò uno per uno davanti ai miei occhi,
lasciandoli cadere sul pavimento. Non riuscii a dire nulla. Sentii il mio volto ribollire, guardai mio
padre con il disprezzo peggiore che un essere umano potesse provare per un altro. Gli occhi gonfi
di lacrime e ad ultimare l’opera arrivò fortissimo uno schiaffo. Un tonfo così forte da farmi girare il
viso dal lato opposto.
«Devi studiare! Tu diventerai un avvocato, che lo voglia o no. Ricordatelo.»
Dopo aver pronunciato quelle parole si chiuse la porta alle spalle e io caddi in un pianto disperato.
Sentivo d’essere sola, nemmeno mia madre accorse ad aiutarmi, ma d’altronde come poteva farlo
nello stato in cui versava, non era più la stessa e non capivo cosa le stesse capitando. La mattina
successiva mi alzai e vidi i miei disegni buttati sul pavimento. Li presi in mano, ormai erano carta
straccia, ma c’era un disegno che non avrei buttato per nulla al mondo, era il profilo di un cavallo
bianco. Ero legata a quel disegno perché per me i cavalli rappresentavano la libertà e la forza,
proprio quella che a me mancava. Presi quel disegno, lo attaccai pezzo per pezzo col nastro
adesivo. L’unico che salvai, il resto mi venne ordinato da mio padre di bruciarlo dentro il
caminetto. Un rito quasi funerario, per me. Vidi quella fiamma alta che mi riscaldava il viso, potei
percepire quel calore pungente sulle guance e i piccoli pezzi di carta neri grandi quanto dei
coriandoli, salivano verso l’alto sulla tromba del camino. Erano delle minuscole parti del mio
ingegno che morivano e andavano in paradiso: se mai ne fosse esistito uno. Quella mattina mio
padre continuò a ribadirmi il fatto che non mi avrebbe più voluto sorprendere a disegnare.
«Sono degli stupidi scarabocchi, che non ti porteranno da nessuna parte.»
Quella sua riluttanza verso la mia passione, e il disprezzo col quale mi guardava mi faceva sentire
inutile. Ordinò a Carmela, la domestica di tenermi d’occhio.
«Come vede la mia Signora in questo periodo non è in grado di badare a nostra figlia, le chiedo di
riferirmi ogni sua mossa. Controlli ogni giorno se ha eseguito i suoi compiti scolastici.» Mentre
parlava io ero in piedi davanti a lui con la testa china, Carmela in un angolo della stanza remissiva
con le braccia che cadevano sui fianchi e lui seduto sulla sua personale sedia a dondolo, a fumare il
solito maledetto sigaro. Senza nessun sentimento guardava fuori dalla finestra, quella Cagliari che
adorava e dall’alto di quel castello che si era costruito, si sentiva il Re di un finto impero.
«Sì Dottor Contini.» Gli rispose Carmela. Lei era l’unica in quella casa che mi degnava di
considerazione. Forse le facevo pena, però mi voleva bene, praticamente fu lei a crescermi. Le era
stato esplicitamente ordinato di rivolgersi a lui usando il suo amatissimo titolo “Dottore”. Carmela
si avvicinò a me e poggiandomi una mano sulla spalla disse: «Andiamo Lucia, ti accompagno nella
tua stanza» e assicurandosi che lui non stesse guardando mi fece l’occhiolino. In quel momento
riuscì a strapparmi un piccolo sorriso. Una volta arrivate nella mia stanza, Carmela mi abbracciò,
senza farsi notare da nessuno. In quella casa sembrava che tutto dovesse essere fatto di nascosto:
tradimenti, desideri, sofferenze, emozioni. Sotto quel tetto si diffondeva una coltre nube nera di
negatività, e mio padre ne era la causa. Lui sempre tutto d’un pezzo, in giacca e cravatta, non si
cambiava nemmeno per pranzare e cenare. Poi spariva nel nulla per giorni, e quelli erano i
momenti più belli. Lui a sbattersi con qualche segretaria e noi, io e Carmela, libere di parlare senza
sguardi indiscreti. Mia madre invece trascorreva le giornate nella sua stanza, al buio. Ogni tanto
provavo ad entrare per stare un po' con lei ma mi ordinava di chiudere la porta.
«Ho un forte mal di testa», diceva con voce fioca. Osservavo per un attimo tra le tenebre della
stanza, con quell’arredamento in massello scuro, intarsiato da vari decori che infittivano ancor di
più l’oscurità di quelle quattro mura. Sul comodino era sempre poggiato un bicchiere, una bottiglia
d’acqua e una pila di flaconcini di farmaci. Lamentava di avere continui mal di testa, quindi ne
deducevo che si trattasse di antidolorifici. Con gli anni capii che in realtà erano antidepressivi.
Guardando mia madre, ho sempre sperato di non essere come lei. Sottomessa ad un marito che la
tradiva, insoddisfatta da una vita professionale alla quale dovette rinunciare, sempre per volere di
mio padre. Era un’attrice. Lei, con la sua bellezza mediterranea faceva gola a tanti registi, che nei
primi anni della sua giovinezza le diedero l’opportunità di avere parti importanti in alcuni film. Ne
girò una decina in Italia, al fianco di grandi attori e attrici, poi quando le chiesero di trasferirsi in
America per ruoli più importanti, mio padre non glielo permise. Quella fu la fine della sua carriera,
nessun regista la chiamò più, sparirono tutti! Credo che la sua depressione iniziò da quel momento
e da quello stesso istante mio padre, per soddisfare i suoi istinti sessuali, andò a cercare altrove.
Guardando la foto del loro matrimonio, promisi a me stessa che per me sarebbe stato diverso.
Avrei sposato un uomo solo per amore, e quest’uomo avrebbe dovuto amare tutto di me, anche le
mie passioni.

Dopo qualche mese che mi trasferii a Firenze, mia madre mi confidò che stava iniziando una nuova
relazione con un uomo di nome Luca Gianbattista, un ingegnere, vedovo da cinque anni. Credo
che avessero in comune tanto e la cosa più bella per me fu sentire mia madre stare bene. Durante
il mio primo periodo fiorentino mi mancavano tante cose della Sardegna, dai savoiardi la mattina
immersi nel caffellatte, all’odore del mare e stranamente il vento, mi mancava il vento caldo, il
Levante che proveniva dal mare e quello freddo di Maestrale dal Nord. L’umido della sera, le urla
dai palazzi vicini, e il silenzio della domenica. Mi mancavano le conversazioni con Carmela. Tutte
cose che davo per scontate, improvvisamente diventavano indispensabili. Chiamavo mia madre
ogni giorno, spendevo una marea di lire nella cabina telefonica e ricordo ancora il suono delle
monete cadere che mi ricordavano che la comunicazione stava arrivando al termine.
«Ciao mamma, ci sentiamo presto», così finivano sempre le nostre chiamate.
Le lezioni andavano avanti, ero entusiasta di tutto quello che apprendevo, imparavo tante cose e
amavo follemente dipingere. La mia specialità erano sempre i ritratti. Ad ogni lezione
partecipavano ragazzi e ragazze che si offrivano come modelli per le nostre riproduzioni. Ricevevo
molti complimenti dai professori, avevo una dote naturale e di questo se ne accorsero da subito. I
miei dipinti erano quasi reali e a tratti sembravano prendere vita. Condividevo la stanza con due
coinquiline, Daniela e Stella, due brave ragazze, arrivate dalla Sicilia per studiare Psicologia. Il
tempo per socializzare era pochissimo, quindi la nostra convivenza si limitava a condividere un
appartamento, nulla di più. Tutte e tre eravamo molto riservate e anche i nostri discorsi vertevano
esclusivamente su argomenti di studio. Io non sapevo nulla di loro e loro nulla di me. In
quell’appartamento vigeva la regola del rispetto, che veniva applicata da tutte. Sul frigorifero
attaccammo un foglio con le dieci regole da rispettare, i nostri personali comandamenti per una
serena convivenza:
1. La prima persona ad alzarsi ha la precedenza nell’uso della toilette;
2. Tempo da trascorrere in bagno dieci minuti;
3. Asciugarsi i capelli nell’antibagno;
4. Uso dell’acqua calda cinque minuti;
5. Uso della caffettiera due volte al giorno;
6. Una volta alla settimana consegna dei soldi per la spesa e ogni 10 del mese per l’affitto;
7. Niente ragazzi, quindi niente sesso nell’appartamento;
8. Si fuma nel balcone (per me non era un problema. Non fumavo);
9. Uso della lavatrice una volta alla settimana;
10. Rispettare i turni delle pulizie (vedi foglio di fianco).
    Seguiva di lato il foglio con i turni delle pulizie, che più o meno era sempre lo stesso. I piatti li
    lavavamo a turno.
    Nonostante la mia infanzia poco felice, potei permettermi gli studi a Firenze e stavo seguendo il
    mio sogno. Per me fu una grande rivincita. Avevo ancora tanto da imparare, iniziai a dare i primi
    esami ottenendo ottimi risultati, non accettavo meno di 30, volevo laurearmi con 110 e lode. La
    mia stanza puzzava di pittura, le tele erano sparse in ogni angolo e il fine settimana, quando c’era
    bel tempo, andavo in centro a fare ritratti ai passanti. Lo facevo in cambio di poche lire, non mi
    servivano soldi, il mio scopo era affinare la tecnica. Le persone restavano a bocca aperta, i miei
    ritratti non erano delle caricature. I miei dipinti toglievano fuori l’anima delle persone, parlavano
    di loro. Erano uno scatto fotografico impresso con il pennello. Un giorno feci anche il mio, ci
    impiegai qualche settimana a terminarlo, oltre alla difficoltà di guardarmi allo specchio, si aggiunse
    un particolare che sugli altri mi veniva naturale, ma su me stessa trovai difficile. Non riuscii a dare
    personalità alla mia immagine. Lo mostrai al mio professore d’arte, lo prese in mano e iniziò a
    scrutarlo nei minimi particolari. Prese una lente per osservarlo ancora più da vicino e dopo aver
    pronunciato una smorfia di dubbio disse: «Non saprei… i colori, le spennellate, i contrasti di luce
    sono perfetti, ma nel complesso manca di qualcosa.» Fece una breve pausa e continuò a fissare
    quel dipinto e aggiunse: «Lo sguardo ha qualcosa che non mi convince, non è penetrante come
    tutti gli altri suoi dipinti Lucia, è come se in questo auto ritratto non fosse stata trasferita l’anima
    del soggetto.»
    Rimasi basita dalle sue parole e dalla sua attenta analisi. Pensai attentamente alle sue parole: chi
    ero? Chi era davvero Lucia, la giovane ragazza venuta dall’isola? Con il suo volto olivastro, gli occhi
    castani e i capelli neri? Mi posi tante domande alle quali in quel momento non seppi dare risposta.
Tentai a rifare quell’autoritratto infinite volte e il risultato era sempre lo stesso. Era l’unico mio
dipinto che avrei definito anonimo e chissà se un giorno sarei riuscita a colmare quel vuoto che mi
bloccava.
3

              Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo.
                                          (Albert Einstein)

Firenze, 1989.
Arrivò la primavera e con essa una nuova presenza si fece viva nella mia vita. il professor Lorenzo
Bonciani, che venne inserito nel mio corso di pittura. Affascinante, elegante, gentile. Era
decisamente più grande di me, ma la sua personalità mi intrigava. Più volte mi dimostrò che
l’attrazione era reciproca. Iniziò con i complimenti sul mio talento, finendo con una rosa rossa
poggiata sul mio cavalletto, ogni giorno. Per un mese andò avanti questo corteggiamento fino a
quando assieme alla rosa trovai un biglietto:
“Mi farebbe piacere invitarla a cena questa sera”.
Un venerdì sera per l’esattezza, quindi potei concedermi qualche ora di libertà dallo studio. Subito
dopo lo incontrai nell’androne dell’istituto e con il biglietto in mano, feci cenno di assenso con il
capo. Lui sorrise e entrò in aula. Quella sera indossai l’abito più elegante che possedevo: nero con
delle perline che ne impreziosivano il colletto. Appoggiai sulle spalle un soprabito per non
prendere freddo. Lorenzo era elegantissimo, mi portò in un ristorante di gran classe, con i
lampadari a goccia che cadevano verso il pavimento, luminosi e brillanti. Il cameriere ci fece strada
fino al nostro tavolo in un angolo molto riservato della sala.
«Grazie per aver accettato l’invito.» In un attimo passammo subito a darci del tu.
«Sono lusingata, sai dopo tutte quelle rose, quasi mi sembrava strano che ancora non l’avessi
fatto.»
«Non sapevo come avresti reagito, e sinceramente temevo in un tuo rifiuto.»
«Devo ammettere che all’inizio ho avuto delle perplessità…» lasciai la frase in sospeso e abbassai
lo sguardo.
«Per cosa, se posso chiedertelo?»
«Sono una tua studente e…» lasciai per la seconda volta a lui l’interpretazione della mia frase.
«Capisco, certo hai ragione, se qualcuno lo venisse a scoprire potrei passare dei problemi, ma
credo che tu sia abbastanza grande per decidere. Giusto?»
«Certamente, infatti ho deciso di accettare.»
«Lucia, non sono un uomo che fa tanti giri di parole e con te voglio essere molto sincero. Ho
divorziato da mia moglie due anni fa, da allora non ho più frequentato nessuna donna. Tu mi hai
stregato con la tua particolare bellezza, che sa di semplicità, e incantato dal tuo talento nella
pittura.»
«Grazie», credo che diventai rossa in viso dall’imbarazzo e aggiunsi: «Davvero credi che abbia del
talento?»
«Non sono solo io a dirlo, ma anche molti miei colleghi che hanno visto le tue opere. Credo che ti
aspetti un futuro meraviglioso come pittrice.»
«Me lo auguro, visto che è il mio sogno!»
«Ti aiuterò a realizzarlo, vedrai ci saranno per te molte opportunità.»
«Grazie, ne sono onorata.»
Fu una conversazione piacevole e dopo la cena mi invitò a casa sua, e lì successe: facemmo
l’amore, e fu bellissimo.

La prima volta che feci l’amore era il lontano 1986 durante la festa dopo la maturità. E sulle note
della hit del momento “Papa don’t preach” di Madonna e dopo tre bicchieri di birra potei
sperimentare quel tanto acclamato sesso di cui parlavano tutti. Quel ragazzo fu Maurino Illario,
che mi faceva il filo da tempo, era carino anche se non aveva nulla di eccezionale. Però accadde!
Semplicemente, successe e basta. Come fu per me quella sera di sesso? Sinceramente la mattina
dopo ricordai solo un forte mal di testa…
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