LE RISCRITTURE DELLA MATERIA NORDICA

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LE RISCRITTURE DELLA MATERIA NORDICA

Sommario: La risemantizzazione del mito – Il mito nordico dopo Snorri – Il preromanticismo - Thomas Carlyle:Il
mito di Odino - Il romanticismo tedesco: la ricezione della mitologia nordica in ambito tedesco - Richard Wagner
e la ricreazione del mito nordico - L’anello del Nibelungo - Propaganda politica e reinterpretazioni religiose del
mito nordico

                                 La risemantizzazione del mito

Del mito sono possibili diverse definizioni. Nell’ambito degli studi storico-religiosi definiamo mito
un “racconto sacro” che si riferisce al mondo divino e che dà espressione ai valori condivisi di una
società, spiegando al contempo la realtà così come i membri di quella determinata società la
concepiscono (miti spiegano, ad esempio, la formazione dell’universo, l’inevitabilità della morte,
l’origine del male ecc.). Perché un mito sia considerato tale, in questo senso, è quindi indispensabile
che una società lo consideri “vero”, creda in esso, e non lo ritenga semplicemente un racconto
interessante, gradevole o profondo ma pur sempre frutto di immaginazione.

Possiamo dunque domandarci che cosa ne sia di un certo mito o di un intero sistema di miti nel
momento in cui viene meno la fede di una comunità, quando cioè tale comunità smette di credere al
mito perché si converte a un diverso sistema religioso (e dunque sposta la sua fede su miti
differenti) o, semplicemente, sviluppa un atteggiamento razionalistico avverso al pensiero mitico in
generale.

Per rispondere a questa domanda possiamo tenere conto di almeno tre possibili sviluppi:

    a) Il mito viene inteso come racconto screditato. In questo caso la società che ha abbandonato i
       propri antichi miti li squalifica come racconti falsi, menzogneri, di per sé dannosi. E’ questo
       l’atteggiamento che troviamo in numerosi autori cristiani della tarda antichità e del
       medioevo: i miti antichi (greci, romani, celtici, germanici) vengono bollati come invenzioni
       puerili o addirittura diaboliche, dannose in quanto offuscano la verità della dottrina cristiana.
       Con minore severità, il mito può essere screditato in quanto racconto non radicalmente
       menzognero, ma fortemente inadeguato. Secondo questa impostazione, le generazioni
       precedenti (quelle che credevano al mito) erano ricorse ingenuamente a delle spiegazioni
       inesatte non possedendo ancora le conoscenze necessarie per sviluppare una più corretta
       visione della realtà. E’ questo l’atteggiamento diffuso, ad esempio, in ambito illuminista,
       secondo cui l’umanità era ricorsa ai miti non avendo ancora pienamente sviluppato un
       metodo scientifico di interpretazione del mondo.

    b) Il mito può trasformarsi in un sistema di simboli condiviso da un’intera comunità. e dunque
       in un linguaggio condiviso. In questo senso il mito “decaduto” [ = non più creduto] si
       avvicina molto al “mito letterario”: una struttura narrativa e simbolica nota a un’intera
       comunità e che può quindi essere utilizzata per esprimere in modo figurato o narrativo
       concezioni ed esperienze proprie di quella comunità. Nell’Europa occidentale, ad esempio,
       le figure del mito classico sono state utilizzate (e spesso lo sono ancora) dopo l’abbandono
       della religione greca e di quella romana sia nell’ambito delle arti figurative sia nella
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letteratura. Venere o Cupido vengono allora usati come rappresentazione dell’amore,
       Minerva come personificazione della saggezza, Giove del potere, Marte della guerra e della
       violenza, Apollo della bellezza ecc.

   c) Il mito può infine essere utilizzato come base per la costruzione di un mito nuovo, sia in
      ambito religioso sia in ambito sociale. Qualcosa del genere – in ambito strettamente
      religioso – è avvenuto nell’antichità quando, ad esempio, il profeta Mani ha utilizzato il
      sistema mitologico zoroastriano dell’antica Persia per creare un nuovo sistema religioso,
      noto con il nome di Manicheismo.
      Qualcosa di simile – per quanto riguarda più strettamente il nostro campo di studi – è
      avvenuto nel XIX secolo quando Richard Wagner ha utilizzato la mitologia nordica per
      creare un nuovo mito,a suo parere adatto all’età moderna. In quest’ultimo caso è più difficile
      pervenire a una chiara classificazione del tipo di mito: Wagner non pensava infatti che i
      personaggi delle sue opere fossero veramente esistiti in un lontano tempo mitico, era però
      convinto che possedessero un’efficacia simbolica tale da renderli adatti a esprimere un
      autentico senso religioso. La sua nuova mitologia, dunque, doveva dare una espressione più
      profonda e adeguata al sentimento religioso degli uomini del suo tempo, insoddisfatti delle
      religioni tradizionali.

In tutti e tre questi casi, comunque, ha luogo un processo di risemantizzazione del mito ormai non
più creduto. Vale a dire: la comunità che smette di credere religiosamente ai racconti tradizionali
tramandati assegna loro un significato nuovo, che permette loro di circolare nelle mutate condizioni
storiche e culturali, conservando un importante valore ideologico e una funzione di comunicazione
pur avendo appunto perduto la funzione di “racconti sacri”.

                                Il mito nordico dopo Snorri

   1. Diversi modi di rapportarsi al mito pre-cristiano

Nel raccogliere i miti nordici nel suo libro intitolato Edda, l’islandese Snorri Sturluson (XIII secolo)
perseguiva due diversi obiettivi:

   -   un obiettivo di tipo “pragmatico”: Snorri intendeva preservare i racconti mitologici d’epoca
       pagana perché non andasse perduto l’antico patrimonio di immagini e di metafore necessario
       al perpetuarsi della poesia tradizionale;
   -   un obiettivo di tipo “metafisico”: nel raccogliere i miti della religione ormai abbandonata,
       Snorri, cristiano, cerca di presentare le credenze dei suoi avi almeno parzialmente come
       intuizione delle verità cristiane. Secondo questo schema interpretativo, gli antichi abitanti
       della Scandinavia non sarebbero stati dunque adoratori di démoni (come sostenuto in
       un’epoca precedente dai predicatori cristiani), ma dei “buoni pagani” che, pur non potendo
       conoscere il Cristianesimo, ne avevano intuito le principali verità, dando loro forma grazie
       ai miti sugli dèi.

Questa duplicità di atteggiamento caratterizza tutta la storia della ricezione del mito nordico in
epoca post-medievale:
   - da un lato, infatti, si è sviluppato – soprattutto a partire dall’inizio del XIX secolo – un
       atteggiamento rigorosamente filologico che studia i documenti della cultura nordica pre-

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cristiana come espressione di una cultura radicalmente diversa dalla nostra. Questo
       atteggiamento tende a sottolineare dunque l’alterità del mondo pre-cristiano scandinavo
       rispetto alla successiva società cristiana e alla attuale società laicizzata. Una tale
       consapevolezza dell’alterità della cultura studiata indice gli studiosi a prestare molta
       attenzione a non proiettare su di essa atteggiamenti, concezioni e pregiudizi tipici della
       nostra cultura e di cui, spesso, non siamo nemmeno del tutto coscienti.
   -   d’altro lato, già a partire dal XVII secolo, si è avuto un atteggiamento completamente
       opposto: eruditi, scrittori, studiosi, politici ecc. hanno frequentemente cercato di assegnare ai
       documenti del passato nordico pre-cristiano un valore simbolico che permettesse di
       assimilarli alla nostra cultura. Secondo questo atteggiamento, sarebbe possibile riconoscere
       nei documenti del passato le verità di cui siamo convinti nel presente. E’ così accaduto che
       si dessero interpretazioni dei miti nordici che cercavano di usarli per confermare concezioni
       cristiane, esoteriche, politiche che si volevano diffondere e propagandare nella realtà
       contemporanea.

   2. Il mito nordico nel Medioevo

In epoca medievale, successivamente alla conversione al Cristianesimo, vediamo il mito nordico
sopravvivere essenzialmente in due ambienti, con modalità naturalmente assai diverse:

   -   abbiamo in primo luogo una sopravvivenza in ambiente erudito, di cui Snorri rappresenta
       l’esempio più significativo. Persone colto, spesso sacerdoti, raccolgono le testimonianze del
       passato pagano e redigono i manoscritti cui dobbiamo la nostra conoscenza attuale del mito
       nordico;
   -   in secondo luogo il mondo religioso pre-cristiano sopravvive, almeno parzialmente, a livello
       popolare. Nelle campagne, infatti, viene in genere abbandonato il culto delle grandi divinità
       pagane, culto che difficilmente può nascondersi all’autorità ecclesiastica e su cui si
       concentra l’intervento repressivo dello Stato e della Chiesa. Sopravvivono però credenze su
       aspetti “minori” o marginali della religione pagana: il culto degli elfi in Islanda, ad esempio,
       o le tecniche per conoscere il futuro o assicurarsi tempo favorevole alla fertilità dei campi.
       Alcuni racconti in origine mitologici, una volta venuta meno la fede nella loro funzione
       religiosa, sopravvivono come fiabe popolari.

   3. La riscoperta della letteratura nordica antica

Per quanto riguarda l’Islanda, non si può affermare che ci sia stata una frattura nella tradizione
letteraria tra il Medioevo e l’Età moderna: i manoscritti della letteratura antica hanno continuato a
essere copiati per tutto il Medioevo, mantenendo viva la memoria della letteratura e della mitologia
messe per la prima volta per iscritto tra XII e XIII secolo.
E’ però vero che tra XVI e XVII secolo si assiste in Islanda a un nuovo interesse per la letteratura
dei secoli precedenti. I vescovi islandesi, in contatto con gli ambienti luterani dell’Europa
continentale, si interessano ai documenti letterari del proprio passato nazionale: è così che nel XVI
secolo si torna a studiare in Islanda la poesia scaldica del passato. All’inizio del XVII secolo,
inoltre, l’erudito Magnus Olafsson di Laufas, che aveva studiato a Copenaghen [dalla fine del XIV
secolo al 1944 l’Islanda fu soggetta al potere della Danimarca] eseguì una nuova redazione
dell’Edda di Snorri. Tra il 1608 e il 1609 fu pubblicata questa “Edda di Laufas”, che presentava il
testo di Snorri in modo molto più sistematico e facilmente consultabile che nei manoscritti
medievali. Di questa redazione, inoltre, venne eseguita una traduzione latina pubblicata nel 1629.
Pochi anni più tardi il vescovo islandese Brynjolfur Sveinsson riscoprì il codice redatto nella
seconda metà del XIII secolo in cui erano stati raccolti i carmi di argomento mitologico ed eroico
utilizzati da Snorri come fonti per la compilazione della sua Edda. Questo codice – il cosiddetto

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Codex Regius del canzoniere eddico – venne donato al re di Danimarca, venne dunque acquisito
dalla Biblioteca Reale di Copenaghen e messo a disposizione degli studiosi.

   4. Il Goticismo scandinavo

L’interesse per i testi della letteratura nordica medievale si intensificò nel corso del XVII secolo in
Scandinavia anche in relazione alle trasformazioni politiche ed economiche che in quel periodo
ebbero luogo nei due regni del Nord: la Svezia (che comprendeva all’epoca anche la Finlandia) e la
Danimarca (che comprendeva anche Norvegia e Islanda).
In conseguenza della partecipazione nordica alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648) i paesi nordici
si arricchirono enormemente, trasformandosi per la prima volta dopo il Medioevo in vere potenze
continentali. E’ a quel periodo che risale l’ampliamento delle capitali – Stoccolma e Copenaghen –
e il forte incremento della loro popolazione.
La nuova potenza raggiunta spinse i sovrani nordici a dare il via a una politica culturale il cui
obiettivo era quello di proiettare la propria potenza anche nel lontano passato, costruendo quello che
si può definire un “mito sociale”: lo splendore dell’epoca pre-cristiana, infatti, doveva “nobilitare”
le monarchie del presente, affermandone l’antichità e la gloria perenne.
Soprattutto in Svezia ci si spinse molto lontano in questa operazione: importanti eruditi, infatti,
affermarono che gli Svedesi attuali erano discendenti diretti dei Goti che, nel V e nel VI secolo,
avevano invaso l’impero romano e avevano costruito, con Teoderico il Grande, il primo stato
germanico in Europa. Secondo questi studiosi, gli antichi abitanti della Scandinavia erano Goti, e la
lingua antico-nordica non era che una variante del gotico [come sappiamo, si tratta in realtà di due
differenti lingue appartenenti alla famiglia germanica]. Lo scrittore svedese Olof Rudbeck (1679-
1702) giunse ad affermare che la Svezia era l’antica Atlantide, e che di lì aveva avuto origine
l’intera civiltà mondiale.

Questo clima culturale e politico, però, non produsse solo eccessi stravaganti. L’interesse per
l’antica cultura nordica fece sì che, nel corso del XVII secolo, venissero pubblicati studi importanti
e venissero eseguite, spesso per la prima volta, edizioni moderne della letteratura medievale. il
danese Ole Worm pubblicò nel 1636 un ampio studio in latino sulla scrittura runica (Literatura
runica). Nel 1665 Peder Resen diede alle stampe un’edizione dell’Edda di Snorri corredata di una
traduzione latina e di una danese. Nella prefazione all’opera, Resen (detto, alla latina, Resenius)
dava un’interpretazione spirituale dell’Edda, riconoscendovi una prefigurazione della dottrina
cristiana.
Un altro libro che esercitò una forte influenza – spesso di carattere assai discutibile – sulle
generazioni future fu Antiquitatum Danicarum libri tres di Thomas Bartholin (danese anch’egli),
pubblicato a Copenaghen nel 1689. Pubblicando in traduzione latina diversi carmi eddici e scaldici,
Bartholin li commentò esaltando il coraggio degli antichi Scandinavi, presentandoli soprattutto
come uomini di inaudito coraggio e sprezzanti della morte e contribuendo così alla creazione dello
stereotipo del vichingo che “muore ridendo”.

                                     Il Preromanticismo

Alla metà del XVIII secolo, anche per rispondere alle critiche che, soprattutto da parte inglese,
venivano rivolte al sistema assolutistico dello Stato danese, il re di Danimarca diede incarico a uno
storico svizzero che viveva a Copenaghen di scrivere un’opera che illustrasse il glorioso passato
della civiltà nordica. Questo storico, Paul Henri Mallet, utilizzò come fonti della sua opera

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soprattutto il lavoro di Bartholin, e nel 1755 pubblicò la sua Introduction à l’histoire de
Dannemarc, cui fece seguire, l’anno successivo, una raccolta di testi antico-nordici in traduzione
francese, intitolata Monumens de la mythologie et de la poesie des Celtes, et particulièrement des
anciens Scandinaves.

Come ben si capisce dal titolo dell’antologia curata da Bartholin, gli studiosi dell’epoca non
distinguevano ancora – o almeno non chiaramente e coerentemente – tra popolazioni celtiche e
germaniche. Non avendo ancora sviluppato criteri scientifici che permettessero di distinguere tra
diversi gruppi linguistici, gli studiosi del XVIII secolo concepivano ancora, sulla scia di Cesare,
Celti e Germani come un’unica famiglia di settentrionali popolazioni “barbariche”, diverse per
istituzioni e tradizioni.

L’opera di Mallet venne ripubblicata nel 1763 in forma ampiamente rielaborata. Nell’edizione del
1763, Mallet propone con forza un nuovo “mito sociale”: gli antichi Germani (antenati degli
Scandinavi attuali) sarebbero stati i campioni della libertà e dell’uguaglianza contro la tirannide
romana. Rovesciando dunque l’interpretazione tradizionale, secondo cui i “barbari” sarebbero stati i
selvaggi distruttori della più avanzata civiltà latina, Mallet li considera i campioni di una nuova
idea, più moderna, di civiltà contro il dispotismo e l’arbitrio dell’Impero romano.
A questa rilettura “filo-barbarica” della storia antica, Mallet accompagna una diversa concezione
estetica. Anche in questo caso Mallet si contrappone all’esaltazione della civiltà greco-latina tipica
del Neoclassicismo settecentesco, soprattutto francese: a suo parere l’emozione estetica è suscitata
più dal sublime che dal bello, e sublime è tutto ciò che richiama il senso del terribile e del maestoso.
Il modello estetico da perseguire non è quindi tanto l’armonia tipica dell’architettura o della scultura
classica, ma la potenza della tempesta, dei paesaggi montani, del macabro e del malinconico. In
questo senso, dunque, la natura e la letteratura del Nord-Europa sono portatrici di emozioni più
intense e forti di quelle suscitate dall’ordinato paesaggio del Meridione, dai giardini italiani o anche
dal ritmo regolare della poesia classica e neo-classica.

Queste considerazioni di Mallet, va sottolineato, vengono rese pubbliche lo stesso anno in cui viene
pubblicato uno dei testi più celebri del XVIII secolo europeo, The Poems of Ossian, dello scozzese
James MacPherson. MacPherson, fingendo di tradurre i componimenti poetici di un antico bardo
scozzese, compone una serie di prose poetiche sul mondo dell’antica Scozia, un mondo di nebbie e
di sanguinosi scontri armati che assomiglia per molti versi al mondo descritto nelle saghe e nella
mitologia dell’antica Scandinavia. La moda della letteratura “barbarica” e “brumosa” che domina
larga parte dell’epoca pre-romantica trova dunque in Mallet e in MacPherson alcuni testi di
rifermimento fondamentali.

Thomas Gray
Questa nuova estetica del terribile e del barbarico trova una espressione interessante nel poeta
inglese Thomas Gray (1716-1771). Gray pubblica nel 1768 due odi tratte da carmi antico-nordici:
The Descent of Odin (tratto da Baldrs draumar, “I sogni di Baldr”) e The Fatals Sisters (tratto da
Darraðarljóð, “Canto dello stendardo”).

Il carme Baldrs draumar racconta del viaggio che compie il padre degli dèi nordici, Odino, che
discende agli inferi per evocare lo spirito di una profetessa e chiederle il significato dei sogni
angoscianti che da qualche tempo tormentano il sonno di suo figlio, il dio Baldr. La profetessa gli
rivela che Baldr dovrà morire per mano di suo fratello Höðr e il mondo dei morti (Hel) si sta
preparando a riceverne lo spirito.
L’ode di Gray rappresenta una libera rielaborazione del carme nordico. Per certi versi, Gray sembra
volerlo tradurre, permettendosi però assai più libertà che in una vera e propria traduzione.

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Soprattutto, Gray è interessato a sottolineare i particolari macabri della narrazione. Quando ad
esempio Odino giunge alle soglie di Hel, il cane infernale Garmr gli si fa incontro abbaiando.
Questo particolare viene amplificato notevolmente da Gray, che introduce elementi raccapriccianti e
terrificanti nella descrizione dell’animale. Gray, inoltre, introduce nella sua ode la magia delle rune,
un aspetto culturale che il XVIII secolo considerava indissolubilmente legato al mondo nordico
antico e di cui non si fa in effetti menzione nel carme antico-nordico. Evidentemente, a suo parere,
questo riferimento alla magia runica era indispensabile per caratterizzare un racconto di argomento
antico-nordico.
Dal punto di vista formale, l’ode di Gray si sforza di mantenere la struttura dialogica del carme e il
ripetersi di formule (“Prophetess, my spess obey”, “Leave me, leave me to repose” e le frequenti
variazioni). Per quanto riguarda la metrica, invece, Gray non tenta di riprodurre le tecniche e gli
effetti del verso allitterante germaniche, utilizza invece versi a rima baciata perfettamente consoni
alla prassi di versificazione del XVIII secolo inglese.

The Fatal Sisters riprende uno dei testi più misteriosi e macabri della letteratura antico-nordica. Il
Darraðarljóð, infatti, narra di dodici valchirie che tessono una tela con fili fatti di intestini umani,
utilizzando come pesi per il telaio (o staggi) dei teschi. Questa tela è in realtà un magico manufatto
che determinerà i destini dei combattenti nell’imminente battaglia di Clontarf (1014), che vede
opposti il capo scandinavo delle Orcadi, Sigurðr, e il re di Dublino Brian.
Anche in questo caso Thomas Gray amplifica il testo del carme nordico traendo 16 strofe dalle 14
originali. Gray intensifica ulteriormente l’elemento macabro già così massicciamente presente
nell’originale antico-nordico (soprattutto alla strofa 3). A questa esasperazione degli elementi anti-
classici del contenuto, fa però contrasto la forma tradizionale, classicista, della versificazione. The
Fatal Sisters si compone infatti di 16 quartine a rima alternata, senza utilizzazione
dell’allitterazione.

Nel complesso è evidente come Thomas Gray utilizzi i carmi antico-nordici per affermare una
nuova estetica del sublime “terribile”: l’enfasi assegnata a elementi macabri, epico-sanguinari,
infernali, appare funzionale alla polemica anti-classica. A questa polemica non si accompagna però
una innovazione dal punto di vista formale, e rimane confinata alle immagini proposte all’interno
delle composizioni poetiche.

                            Thomas Carlyle:Il mito di Odino

Thomas Carlyle

Nell’ambito della letteratura di lingua inglese, uno degli esempi più interessanti di ricezione della
cultura antico nordica nel XIX secolo è dato dallo storico e scrittore scozzese Thomas Carlyle
(1795-1881). La fama di questo saggista è dovuta soprattutto ad alcune opere a carattere
storiografico in cui trova espressione la sua visione romantica della storia come opera di grandi
personalità.
Nella raccolta di conferenze On Heroes, Hero-Worship, and the Heroic in History, Carlyle pubblica
un saggio su Odino in cui è evidente una oscillazione tra il disprezzo dell’uomo cristiano moderno
nei confronti di una mitologia considerata come ormai superata el’ammirazione. Così, Carlyle da un
lato scrive:

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è davvero difficile comprendere come uomini sani di spirito abbiano mai potuto credere
tranquillamente, e a occhi aperti, in un tale insieme di dottrine fino a prenderle come guida della
loro vita

Dall’altro lato, però, osserva:

Cominceremo ad avere una qualche probabilità di comprendere il paganesimo solo se
ammetteremo, prima di tutto, che per i suoi seguaci è stato una cosa profondamente vera.

La verità del paganesimo risiede, a parere di Carlyle, essenzialmente nel fatto che si tratta di una
religione della natura. Nella sua interpretazione – condivisa da buona parte degli studiosi
dell’Ottocento – gli dèi sono infatti personificazioni di forze naturali, e le loro storie sono metafore
sulla realtà della natura. Questa identificazione tra religione antica e natura affascina tanto più
Carlyle in quanto egli condivide il fascino del sublime terribile già riscoperto dalla generazione
preromantica. Scrive Carlyle nel suo saggio su Odino:

In quella meravigliosa isola di Islanda che i geologi dicono emersa e sospinta dalla forza del fuoco
dal fondo del mare; in quella terra selvaggia di sterile lava, avvolta per parecchi mesi all’anno da
fosche tempeste, ma pur raggiante in estate in una selvaggia bellezza; che si erge là, arcigna e
torva, nell’Oceano glaciale Artico; che, con le sue vette nevose e con i suoi geyser mugghianti, con
le sue sorgenti sulfuree e con le sue orride fenditure vulcaniche somiglia a un devastato e caotico
campo di battaglia tra il gelo e il fuoco, l; là, meno che in ogni altro luogo, ci saremmo aspettati di
trovare una letteratura o delle memorie scritte, e che il ricordo di queste cose fosse conservato per
iscritto.

Nelle parole di Carlyle è evidente il fascino per la natura violenta e selvaggia dell’estremo Nord
europeo. D’altro canto, tra gli dèi nordici, Carlyle conferisce una posizione di eccezione a Odino:
mentre le altre divinità sarebbero personificazioni delle forze naturali, infatti, Odino sarebbe la
trasposizione mitologica di un uomo dalle qualità straordinarie. Carlyle riprende quindi la
spiegazione “evemeristica” di Snorri, che aveva presentato Odino – nella Heimskringla e nel
prologo dell’Edda – come un antico sovrano divinizzato dalla memoria dei suoi discendenti.
Per Carlyle, Odino è il creatore del mondo di pensiero scandinavo, poeta e profeta allo stesso
tempo, e la sua qualità di eroe civilizzatore è rivelata dal fatto che a lui la tradizione attribuisce
l’invenzione delle rune:

Possiamo dire che Odino sia la vera sorgente della mitologia scandinava: Odino, o comunque fosse
chiamato, durante la sua vita terrena fu il primo pensatore scandinavo.

Odino stesso, dunque, sarebbe stato secondo Carlyle il creatore della mitologia nordica, e a lui si
dovrebbe la “invenzione” delle divinità naturali del pantheon scandinavo.

Riprendendo concezioni che si erano andate via via affermando sin dall’epoca “goticista”, Carlyle
ripropone dunque con forza al pubblico anglofono della sua epoca una visione del mondo religioso
ed etico antico nordico basato su alcuni capisaldi che sia avviano ormai a diventare dei veri e propri
luoghi comuni:

   -   la religione nordica è una religione della natura
   -   alla religione nordica manca la grazia e l’eleganza di quella greca, ma proprio questo la
       rende più autentica e più adatta a rappresentare le forze imponenti della natura
   -   il principale contenuto etico della religione e della mitologia nordica consiste
       nell’affermazione del coraggio

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Questi valori che Carlyle proietta nel passato mitologico scandinavo, li ripropone in realtà al
pubblico a lui contemporaneo, e per dare maggior forza a questa idealizzazione, egli afferma – caso
piuttosto inconsueto nella storia della cultura inglese – l’identità, o almeno l’affinità, tra popolo
inglese e popoli nordici:

In effetti il nostro sangue inglese è anche, in parte, danese e scandinavo; o meglio, in fondo, danese
e scandinavo e sassone non hanno tra loro altro che una differenza del tutto superficiale, come
quella che passa tra pagani e cristiani, o simili.

In questo modo Carlyle riattualizza l’eredità mitologica antico-nordica, ne minimizza il contrasto
con l’etica cristiana e l’assume come passato della propria nazione e della propria cultura, operando
così un processo di appropriazione e, naturalmente, selezionandone/modificandone i valori
originali, attribuendo alla mitologia nordica antica i significati che egli riteneva funzionali alla
grandezza culturale del suo paese. ( N.B. Il saggio di Carlyle è pubblicato in italiano nel volume:
Thomas Carlyle, Gli eroi e il culto degli eroi, TEA, Torino 1990 (pp. 13-60) )

 Il romanticismo tedesco : la ricezione della mitologia nordica in ambito
                                  tedesco

Il mito nordico e il romanticismo tedesco

Il mondo di lingua tedesca dimostra un crescente interesse per la mitologia e l’epica antico-nordica
a partire dalla fine del XVIII secolo. All’epoca si poneva il problema di una definizione del
concetto stesso di “tedesco”: il mondo di lingua tedesca era infatti frammentato in una miriade di
stati e staterelli indipendenti, ma formalmente ancora soggetti alla Corona Imperiale. L’Impero –
continuazione istituzionale del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, a sua volta in
continuazione con il Sacro Romano Impero fondato da Carlo Magno, ma limitato ai territori e est
della Francia, stato indipendente fin dal IX secolo – aveva perso ormai ogni funzione politica attiva
ed era sostanzialmente una pura finzione istituzionale. Grande importanza aveva invece lo Stato
austriaco, vale a dire i territori direttamente soggetti alla Casa d’Asburgo (dinastia che deteneva
anche la Corona imperiale) che formavano un vero impero comprendente, oltra all’Austria attuale,
anche la Lombardia (dal 1714), vasti territori del Nord-Est italiano, l’Ungheria, buona parte dei
Balcani, della Polonia, la Boemia e la Moravia e altri territori dell’Europa orientale. I “tedeschi”
(vale a dire i parlanti tedesco o un dialetto del tedesco) erano dunque in parte soggetti all’Austria, in
parte frammentati in molti stati autonomi – tra cui i più importanti erano la Baviera, la Prussia e la
Sassonia – e in parte facevano parte di Stati quali la Francia (per quanto riguarda l’Alsazia, allora
compattamente di lingua tedesca) o la Confederazione svizzera.
Le aspirazioni a una identità e a una unità nazionale, inizialmente piuttosto vaghe e certo non
maggioritarie, si rafforzano in occasione delle Guerre napoleoniche: la sconfitta degli Stati tedeschi
a opera degli eserciti francesi, e contemporaneamente (anche se può apparire contraddittorio) le idee
di libertà e di democrazia diffuse dalla Rivoluzione francese del 1789 suscitano tra i tedeschi le
speranze nella creazione di un nuovo stato nazionale, che realmente rappresenti gli interessi
dell’intera nazione (concetto questo che si forma proprio in quegli anni nel suo significato moderno)
e non solo dei piccoli principi dispotici.

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Già sul finire del XVIII secolo si erano verificati i primi tentativi di definizione di una cultura
tedesca autenticamente nazionale, non semplicemente derivata dai modelli classici e francesi.
Particolarmente interessante, per l’ambito che ci riguarda, sono la figura e l’opera del filosofo
Johann Gottfried Herder (1744-1803). Per Herder il patrimonio culturale di una nazione
contribuisce in modo determinante alla formazione della sua identità, e dunque ad assicurarne un
ruolo nel più ampio quadro della storia dell’umanità. Particolarmente rilevante, in questo senso, è la
presenza di una mitologia propria, che fornisce i mezzi simbolici per esprimere la visione del
mondo di un popolo. Nel suo saggio Iduna (1796), scritto in forma di dialogo, Herder sostiene che,
avendo perduto i tedeschi la loro antica mitologia, possono comunque fare ricorso alla mitologia
nordica, che appartiene a un popolo affine al loro per lingua e cultura. Ancora più avanti si spinge
un altro filosofo, Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) che nelle conferenze intitolate Discorsi alla
nazione tedesca e tenute a Berlino nel 1808, durante l’occupazione francese della città, giunge al
punto di sostenere che tedeschi e scandinavi costituiscono un unico popolo, e che le lingue nordiche
rappresentano varianti del tedesco.

Questa assimilazione del mondo nordico a quello tedesco operata dagli intellettuali tedeschi tra la
fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento spiega perché numerosi scrittori e poeti abbiano fatto
uso di motivi e leggende tipicamente nordici per comporre opere letterarie che, a loro parere,
rappresentavano l’autentico spirito tedesco. Il caso più evidente è rappresentato dalla trilogia
teatrale Der Held des Nordens (“L’eroe del Nord”) del poeta Friedrich de la Motte Fouqué. Fouqué
intende infatti riproporre al pubblico tedesco, in forma modernizzata, il racconto sui Nibelunghi.
Questa antica leggenda aveva trovato una altissima espressione letteraria, tra XII e XIII secolo,
nell’epos tedesco intitolato Das Niebelungenlied. Questo testo epico era stato però perduto e
dimenticato a partire dal XIV secolo, ed era stato casualmente riscoperto quando, nel 1755, era stato
ritrovato un manoscritto che ne conteneva il testo. Inizialmente il mondo culturale tedesco si era
dimostrato molto freddo nei confronti di quest’opera, che non corrispondeva ai canoni estetici del
neo-classicismo allora dominante, ma il giudizio era radicalmente cambiato all’inizio del secolo
successivo, con l’affermarsi della scuola romantica e di quel nuovo senso nazionale e patriottico di
cui abbiamo ora parlato. Il fatto interessante, per quanto riguarda Fouqué, è che pur volendo egli
creare una nuova grande opera che attualizzi il Nibelungenlied – che considera l’epos nazionale
tedesco e il fondamento della cultura tedesca stessa – non assume come testo da rielaborare e
rammodernare quello tedesco, ma le varianti nordiche della leggenda (Edda, carmi eddici, Saga dei
Volsunghi), considerate più autentiche e dunque, paradossalmente, più “tedesche” del tedesco
Nibelungenlied.

E’ grazie alle posizioni di teorici come Herder e Fichte e all’opera di scrittori come Fouqué,
dunque, che la mitologia nordica viene diffusa nel mondo linguistico tedesco. Questa diffusione
rappresenta il presupposto per la creazione, a metà del XIX secolo, di quella che è probabilmente la
più nota delle rielaborazioni moderne della mitologia nordica: la tetralogia wagneriana intitolata
Der Ring des Nibelungen (“L’anello del Nibelungo”).

                Richard Wagner e la ricreazione del mito nordico

Il contributo del compositore tedesco Richard Wagner (1813-1883) alla diffusione della conoscenza
del mito nordico in epoca moderna riveste una particolare importanza, in quanto obiettivo di
Wagner non fu semplicemente quello di riproporre al suo pubblico gli antichi racconti mitologici

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scandinavi, ma di adeguarli a quelle che, a suo parere, erano le esigenze del mondo d’oggi, creando
quindi un mito nuovo sulla base di quello antico.

Richard Wagner si dedicò allo studio delle antiche leggende germaniche negli anni (1843-1848) in
cui lavorò alla Cappella di corte di Dresda, allora capitale del Regno di Sassonia. A quell’epoca
risalgono i suoi primi melodrammi creati a partire da leggende medievali di area tedesca: il
Tannhäuser (sulla vita leggendaria di un Minnesänger di cui si narrava che fosse stato amante di
una diavolessa) e il Lohengrin, sul leggendario “cavaliere del cigno”. Sempre a quell’epoca
risalgono anche i primi appunti per una rielaborazione del mito nordico.
Gli anni di Dresda hanno termine allorché in Germania, come in tutta Europa, scoppia la
rivoluzione del 1848. L’obiettivo della rivoluzione era soprattutto quello di spezzare l’oppressione
instaurata dai regimi dispotici della Restaurazione dopo la conclusione del burrascoso periodo
inaugurato dalla Rivoluzione francese e conclusosi definitivamente con la sconfitta e l’esilio di
Napoleone nel 1815. Borghesi e operai, moderati e radicali concordavano sulla necessità di
instaurare regimi costituzionali, in cui fosse garantito un minimo di rappresentanza democratica e
fossero garantiti i diritti fondamentali dei cittadini. All’interno del campo rivoluzionario esistevano
però notevoli differenze, e si andava dai liberali moderati (che si sarebbero accontentati di un
regime monarchico costituzionale, con una rappresentanza democratica limitata alle classi più
agiate) agli anarchici, che si proponevano un radicale sovvertimento che assicurasse l’uguaglianza e
la democrazia non solo politica, ma anche sociale, abolendo la proprietà privata e sostituendola con
quella collettiva, e instaurando un modello di vita comunitario che abolisse non solo la monarchia,
ma lo stato in generale. A questa corrente più radicale aderiva in quegli anni Richard Wagner,
amico del principale teorico e dirigente anarchico dell’epoca, il principe russo Michael Bakunin.
Sono gli anni in cui Wagner scrive anche le sue riflessioni sulla funzione politica dell’arte, raccolte
nel libro L’arte e la rivoluzione. Le sue idee rivoluzionarie costringono inoltre Wagner, ricercato
dalla polizia, a lasciare Dresda e a cercare rifugio in Svizzera – all’epoca unica repubblica d’Europa
e rifugio dei dissidenti politici di ogni tendenza.
Va comunque osservato che le idee di Wagner sulla rivoluzione non sono identiche a quelle di
Bakunin e del movimento anarchico europeo: per lui, infatti, la questione della liberazione delle
classi più povere dallo sfruttamento sembra non occupare il posto centrale della sua riflessione.
Centrale appare invece il bisogno di ribellione dell’artista al mondo convenzionale e conformista
dei regimi oppressivi dell’epoca, al perbenismo condiviso da aristocrazia e borghesia. Per lui
dunque l’opposizione fondamentale non è quella tra operaio e borghese, ma quella tra artista e
conformista.
E’ in questo periodo di sommovimenti sociali, comunque, che Wagner incomincia a scrivere il testo
del suo Ring des Nibelungen (“L’anello del Nibelungo”), opera che doveva realizzare il suo grande
progetto culturale di rinnovamento artistico e costituire quello che lui definiva un Gesamtkunstwerk,
una “opera d’arte totale” in cui poesia, musica e arti figurative si fondessero in un tutto unico.
All’iniziale entusiasmo rivoluzionario, però, subentra con la sconfitta della Rivoluzione un
atteggiamento di rassegnato pessimismo, e nel 1854 Wagner si dedica alla lettura del filosofo
Schopenhauer che, riprendendo concetti fondamentali della filosofia orientale, e in particolare del
Buddhismo, presenta la realtà come grande illusione generata dai desideri e dalle passioni
dell’uomo. La via per liberarsi dalla infelicità e dalla frustrazione, dunque, sarebbe per
Schopenhauer – come per gran parte della tradizione mistica orientale – quella di rinunciare ai
propri desideri.
Questa evoluzione del pensiero di Wagner, dalla speranza rivoluzionaria alla rassegnazione, sempre
più tendente a una adesione alla tradizione e al potere politico costituito (tendenza che troverà
compimento con il sodalizio, a partire dal 1864, con il re di Baviera Ludwig II) lascia una traccia
profonda nel testo dell’Anello del Nibelungo, che presenta la stessa contraddizione tra spinte
rivoluzionarie e uno sguardo pessimistico sul mondo.

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L’attività di scrittura del testo, e poi di composizione musicale dell’Anello del Nibelungo, occupa un
lungo periodo della vita di Wagner. Come abbiamo visto, i primi appunti risalgono agli anni 1843-
1849, mentre la quarta e ultima parte del ciclo venne conclusa solo nel 1874, e l’intera tetralogia
venne messa in scena per la prima volta nel 1876 a Bayreuth, nel teatro creato appositamente, con il
sostegno di re Ludwig, per la rappresentazione delle opere di Wagner.
La produzione di Wagner, comunque, non si concluse con l’Anello del Nibelungo, e prima di morire
compose ancora quello che è considerato da molti il suo capolavoro: il melodramma Parsifal,
ispirato al romanzo cortese dell’autore medievale Wolfram von Eschenbach, e che conferma non
solo l’abbandono di ogni volontà rivoluzionaria, ma anche il ritorno a una religiosità cristiana
segnata fortemente dal misticismo e venata di apporti e suggestioni orientali.

                                   L’anello del Nibelungo

Al fine di prendere in esame le profonde trasformazioni operate da Wagner sulla tradizione
mitologica antico nordica è necessario riassumere il racconto svolto dall’autore nel corso della sua
tetralogia.

Preludio: Das Rheingold (“L’oro del Reno”)

Scena 1: Sul fondo del Reno.

Le ondine figlie del Reno (Rheintöchter) hanno il compito di custodire l’oro del Reno, sostanza da
cui dipende l’equilibrio dell’intero universo. Mentre si dedicano ai loro giochi, si insinua nel loro
mondo il nano Alberich, spinto dalla lussuria e dal desiderio di sedurre una di loro. Le ondine si
prendono crudelmente gioco di lui, promettendogli a turno i loro favori e poi insultandolo. Quando
il sole sorge illuminando l’oro, Alberich capisce che se ne può impossessare (impadronendosi in
questo modo anche di un immenso potere sul cosmo) a patto di maledire l’amore e rinunciarvi per
sempre. Furioso con le ondine, senza esitazione maledice l’amore e ruba l’oro. L’oscurità scende
sul mondo e la scena si chiude tra i lamenti delle figlie del Reno.

Scena 2: Nel mondo degli dèi.

Per volere di Wotan (nome tedesco che corrisponde a quello nordico di Odino) i giganti Fasolt e
Fafner hanno appena terminato di costruire la nuova splendida dimora degli dei, la Walhalla. I
giganti hanno però chiesto come compenso del loro lavoro la dea Freyja [che in Wagner è anche la
custode delle mele d’oro dell’eterna giovinezza, ruolo svolto nel mito nordico da Idunn]. Wotan ha
acconsentito al patto perché ha ricevuto da Loge [= Loki] la garanzia che avrebbe pensato a un
modo di evitare il pagamento, ma ora viene messo alle strette dai giganti che vogliono portare con
sé Freyja. Quando Wotan convoca Loge per riceverne aiuto, Loge [che per Wagner - che segue
ipotesi filologiche dell’epoca, ormai superate - è il dio del fuoco], Loge ammette sì di aver
promesso di pensare a una soluzione, ma non di trovarla. Racconta però poi di quanto è accaduto
recentemente nel mondo dei nani, dove Alberich ha raggiunto un potere straordinario grazie all’oro
di cui si è impadronito. Il racconto suscita l’avidità di Wotan, che cede Freyja ai giganti in ostaggio
e si reca con Loge nel mondo dei nani, l’oscuro Nibelheim. Gli dei intanto, privati delle mele della
giovinezza, cominciano visibilmente a invecchiare.

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Scena 3: Nel Nibelheim.

La scena si svolge nel mondo sotterraneo del Nibelheim: Alberich, grazie al potere dell’oro è
divenuto signore del Nibelheim, si è fabbricato un elmo capace di trasformare chiunque in
qualunque cosa e un anello che conferisce un potere immenso su ogni essere vivente. Vittima della
sua tirannia è in particolare il fratello Mime, costretto a lavorare come uno schiavo in condizione
umilianti.
Al loro arrivo, Wotan e Loge si mostrano increduli nei confronti del potere dell’elmo e convincono
Alberich a fornire una dimostrazione. Dapprima Alberich si trasforma in un serpe spaventoso, poi
però cade nel tranello teso da Loge e Wotan, che mettono in dubbio la sua capacità di trasformarsi
anche in qualcosa di piccolo: assume così le forme di un rospo e si fa imprigionare facilmente dai
due dei, che lo trascinano con sé alla Walhalla.

Scena 4: Di fronte alla Walhalla.

Alberich è prigioniero degli dei e Wotan esige la consegna del suo tesoro per liberarlo. Alberich
acconsente, confidando di poterne accumulare uno altrettanto grande grazie all’aiuto dell’anello
magico, ma si dispera e si infuria quando Wotan pretende anche l’anello. Costretto a consegnarlo,
Alberich maledice l’anello, che porterà disgrazia a chiunque lo possieda.
Giuingono a questo punto Fafner, Fasolt e Freyja, e Wotan capisce che solo con il tesoro di
Alberich può riscattare la dea dell’amore e della giovinezza. Ciò nonostante la sua sete di potere gli
rende estremamente difficile rinunciare al tesoro, e in particolare all’anello. Compare a questo
punto Erda, dea della terra e madre delle norne (le divinità del destino). Erda è una veggente [è
evidente che Wagner si ispira qui alla veggente che, nei carmi eddici, pronuncia il primo dei carmi,
la “Profezia della veggente”, appunto] e mette in guardia Wotan dal potere distruttivo dell’anello.
A malincuore, Wotan rinuncia così all’anello e consegna così l’intero tesoro ai giganti.
Immediatamente il potere di distruzione dell’anello si scatena, e Fafner si getta su Fasolt
uccidendolo per impadronirsi dell’intero tesoro. Si trasforma poi – grazie all’elmo magico – in un
drago per vegliare meglio sulle sue ricchezze.
Gli dei, che hanno così liberato Freyja, possono ora fare il loro ingresso solenne nella nuova
dimora, ma di lontano si sentono i malenti delle Figlie del Reno che invocano la restituzione
dell’oro. Loge, beffardo, ironizza sul furto perpetuato da Wotan e sulla sua violazione della
giustizia.

“Prima giornata”: Die Walküre (“La Valchiria”)

Atto I: Abitazione nella foresta

La sala principale ha al centro un frassino che fuoriesce dal tetto. Sieglinde è sola in casa quando
giunge uno sconosciuto, Siegmund, che cerca rifugio da un inseguimento dopo una battaglia. I due
non si riconoscono, ma provano una emozione profonda nell’incontrarsi, Torna Hunding, marito di
Sieglinde, che nota immediatamente la somiglianza tra i due. Siegmund racconta la propria storia:
da bambino è stato separato dalla sorella gemella in seguito a una incursione nemica. Da allora vaga
senza più famiglia. Al momento ha affrontato una battaglia per salvare una fanciulla che era
costretta a un matrimonio contro la sua volontà.
Hunding rivela allora di appartenere al gruppo contro cui ha appena combattuto. I doveri di
ospitalità gli impediscono di uccidere l’ospite, rimanda così il duello al giorno successivo.
Al momento di coricarsi, Sieglinde droga Hunding in modo che cada in un sonno profondo. Durante
la notte, Siegmund trova una spada conficcata nel tronco del frassino, e Sieglinde rivela che vi è
stata posta da un vecchio misterioso comparso il giorno delle sue nozze con Hunding. Siegmund

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estrae la spada. Riconosce in Sieglinde la sorella gemella, ma ormai si rende conto di essersene
innamorato. Insieme progettano di fuggire dalla casa di Hunding.

[N.B.: Wagner riprende dalla medievale Saga dei Volsunghi il motivo della spada conficcata nel tronco al centro della
sala. Nella saga, però, Sigmundr e la sorella – Signy – sono già adulti e non ancora separati al momento del matrimonio
e della comparsa di Odino/Wotan travestito. Il motivo dell’incesto è presente nella saga, ma è motivato con il fatto che
Signy vuole vendicarsi del marito e sa che solo un figlio il cui sangue appartiene totalmente alla propria stirpe può
realizzare la vendetta. Si traveste quindi da viandante e seduce il fratello, che è ignaro di quanto sta in realtà accadendo]

Atto II: Il mondo degli dei

Wotan ordina alla valchiria Brünnhilde di aiutare Siegmund nell’imminente scontro con Hunding.
Nel corso del dialogo, gli spettatori vengono a sapere che Wotan ha generato con Erda le nove
sorelle valchirie allo scopo di raccogliere gli spiriti degli eroi morti in battaglia e formare un
esercito in grado di difendere la Walhalla dalle minacce che si addensano dopo la perdita dell’anello
maledetto. Da allora Wotan cerca di dar vita a un eroe libero, in grado di rompere il patto con
Fafner e riappropriarsi dell’anello. In questo progetto però è insita una contraddizione, in quanto
solo un eroe totalmente libero può compiere il volere di Wotan, ma nel momento in cui lo compisse
si dimostrerebbe non interamente libero.
Il dialogo tra Wotan e Brünnhilde viene interrotto da Frigga, la sposa di Wotan, che in quanto
protettrice della famiglia proibisce al marito di aiutare Siegmund, adultero e incestuoso. Wotan è
prigioniero delle sue contraddizioni, si rassegna alla perdita di Siegmund e capovolge l’ordine
impartito a Brünnhilde.
Brünnhilde annuncia quindi a Siegmund la morte imminente e il suo futuro ingresso nella Walhalla,
ma quando l’eroe capisce che dovrà abbandonare Sieglinde rifiuta di seguirla. Commossa,
Brünnhilde contravviene all’ordine di Wotan e protegge Siegmund al sopravvenire di Hunding.
Furioso, interviene Wotan stesso a spezzare la spada di Siegmund e a provocarne la morte,
dopodiché uccide con un semplice gesto anche Hunding. Brünnhilde raccoglie Sieglinde e fugge.

Atto III: Il mondo degli dei

Brünnhilde cerca l’aiuto delle sorelle, che però non osano sfidare il volere del padre. Brünnhilde si
rende quindi conto che Sieglinde è incinta e aspetta un figlio di Siegmund. Le consiglia allora di
nascondersi nella stessa foresta dove vive il drago Fafnir: è quello l’unico luogo dove Wotan non la
cercherà.
Sopraggiunge Wotan, deciso a punire Brünnhilde. La priverà dell’immortalità, la farà cadere
addormentata e il suo destino sarà di andare sposa al primo uomo che la risveglierà. Brünnhilde è
disperata, e afferma di aver agito contro le parole di Wotan solo per rispettarne la reale volontà,
ostacolata da Frigga. Commosso, Wotan modifica la sua decisione: la punizione di Brünnhilde resta
inevitabile, ma intorno a lei – con l’aiuto di Loge – innalza un muro di fiamme, in modo che solo il
più coraggioso degli eroi oserà oltrepassarlo e raggiungere la valchiria addormentate. In questo
modo Brünnhilde sarà certa di andare sposa al più valoroso tra i guerrieri.

“Seconda giornata”: Siegfried

Atto I: Nella foresta di Fafner

Il nano Mime cerca di forgiare una spada per Siegfried, ma i suoi tentativi falliscono ogni volta
perché Siegfried le distrugge tutte. Mime non riesce nemmeno a ricomporre i pezzi della spada
spezzata Notung [ = la spada di Siegmund spezzata da Wotan].

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Compare Siegfried in compagnia di un orso catturato nella foresta, e lo aizza contro Mime.
Siegfried dichiara tutto il suo odio verso Mime e lo costringe a raccontare la verità sulle sue origini:
Mime si aggirava nella foresta cercando di impadronirsi del tesoro di Fafner quando si era imbattuto
in Sieglinde. Aveva dunque raccolto il bambino quando Sieglinde era morta di parto e l’aveva
tenuto con sé, con l’intento di addestrarlo per uccidere il drago Fafner.
Quando Siegfried si allontana compare “Il viandante” [Der Wanderer, in realtà Wotan stesso].
Wotan propone a Mime una gara di domande ponendo come posta in gioco la testa. Il nano accetta
il gioco e chiede quali stirpi abitino nel profondo della terra, sul suo dorso e sopra di essa. Wotan
conosce le risposte [nani, giganti e dei]. Quindi chiede al nano a quale stirpe Wotan si è mostrato
avverso pur amandola, quale sia il nome della spada di Siegfried e chi riuscirà a forgiarla di nuovo.
Mime conosce le risposte alle prime due domande, ma non alla terza. Wotan, vincitore della gara, fa
dono della testa di Mime a chi riuscirà a riforgiare la spada Notung.

[Il motivo della gara di sapienza tra Odino e altri esseri, umani o soprannaturali, è presente nella letteratura antico
nordica, sia nei carmi eddici che nelle saghe. Frequentemente Odino esce vincitore dalla gara in modo non del tutto
“leale”, ponendo come ultima domanda una questione di cui lui solo, in tutto il cosmo, conosce la risposta]

Torna Siegfried e, pur non conoscendo l’arte del fabbro, riesce a riforgiare Notung. Mime,
terrorizzato, prepara un veleno per ucciderlo.
Atto II: Nella foresta di Fafner

Davanti alla grotta di Fafner Wotan incontra Alberich e rinnovano il loro antico scontro.
Quando se ne sono andati entra in scena Siegfried che sta cercando di imparare il linguaggio degli
uccelli. Compare a quel punto Fafner e Siegfried lo uccide. Il drago, morente, capisce che Siegfried
è stato aizzato da Mime a compiere quell’uccisione e lo mette in guardia dal nano. Bevendo il
sangue del drago, Siegfried acquisisce il potere di comprendere il linguaggio degli uccelli, i quali
gli consigliano di prendere con sé l’elmo magico e l’anello. Lo mettono inoltre in guardia da Mime
e gli rivelano la sua intenzione di avvelenarlo. Siegfried uccide quindi Mime, a gli uccelli gli
rivelano dove Brünnhilde giace addormentata.

Atto III: Nelle vicinanze del muro di fiamme

Incerto sulla condotta da tenere, Wotan evoca di nuovo Erda, che però non gli fornisce alcuna
risposta.
Giunge Siegfried, e Wotan cerca di fermarlo ponendogli una serie di domande. Siegfried però non
si lascia trattenere e, con la spada Notung, spezza la lancia di Wotan, simbolo dell’ordine
universale. Si dirige quindi al muro di fiamme al cui interno vede una figura distesa racchiusa in
una corazza. Dopo aver aperto la corazza scopre che si tratta di una donna, la sua prima reazione è
di spavento, poi viene preso da un amore estatico condiviso da Brünnhilde al suo risveglio.
Innamorati, entrambi respingono le gioie e la gloria della Walhalla per scegliere l’amore.

“Terza giornata”: Die Götterdämmerung (“Il crepuscolo degli dei”)

Prologo

L’opera si apre con le tre Norne che si passano il filo del destino e intanto riassumono quanto è
accaduto fin dalla notte dei tempi. Si viene così a sapere che Wotan ha usato un ramo del frassino
cosmico per fabbricarsi la lancia su cui ha inciso la propria legge, e in conseguenza di quella
menomazione il frassino si è via via disseccato. Ora la sua legna è stata accumulata, e da essa
scaturirà il fuoco che brucerà la Walhalla. Mentre le Norne cantano questa storia, la fune si spezza,
segno che il destino di distruzione degli dei ormai è ineluttabile.

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Compaiono in Scena Siegfried e Brünnhilde. Siegfried sta per partire per nuove imprese, e lascia a
Brünnhilde l’anello come pegno del suo amore. In cambio, Brünnhilde le fa dono del suo cavallo,
Grane.

Atto I: Nella reggia di Gibicunghi, sul Reno

Nella reggia sul reno vivono re Gunther, sua sorella Gutruna e il fratellastro Hagen. Hagen è in
realtà figlio il figlio che la regina dei Gibicunghi ha avuto con il nano Alberich, che tramite lui
spera di riottenere l’anello maledetto [così come Wotan ha dato vita alla stirpe di Siegmund e
Siegfried con la stessa speranza]. Hagen sa che Siegfried sta per arrivare alla reggia e consiglia il
suo matrimonio con Gutruna. A tal scopo viene preparato un filtro dell’oblio da somministrare a
Siegfried al suo arrivo. Così avviene, Siegfried dimentica completamente Brünnhilde e si innamora
di Gutruna. Stringe quindi una fratellanza di sangue con Gunther, che gli chiede di aiutarlo a
conquistare la mano di Brünnhilde.

Nel castello di Brünnhilde

Nel frattempo Brünnhilde riceve la visita della sorella Waltraute: la catastrofe è ormai imminente e
Waltraute chiede a Brünnhilde di restituire alle Figlie del Reno l’anello maledetto. Per Brünnhilde,
però, quell’anello rappresenta l’amore di Siegfried e rifiuta di riconsegnarlo alle sue legittime
proprietarie.
Giungono a questo punto Siegfried e Gunther. Siegfried assume grazie all’elmo magico l’aspetto di
Gunther, quindi entra nel castello, soggioga Brünnhilde e la prende in sposa, sfilandole anche
l’anello che porta al dito. Non consuma però il matrimonio, nell’attesa di poter riprendere le proprie
sembianze.

Atto II: Nella reggia dei Gibicunghi

Alberich incita Hagen a riappropriarsi quanto prima dell’anello. Giunge Siegfried ad annunciare la
vittoria riportata su Brünnhilde e il prossimo arrivo di Gunther con la nuova regina dei Gibicunghi.
Al suo arrivo alla reggia, Brünnhilde vede l’anello al dito di Siegfried e comprende di essere stata
ingannata. Dichiara allora davanti a tutti di essere già stata sposa di Siegfried. Siegfried – che non
ricorda di avere già incontrato Brünnhilde – giura sulla lancia di Hagen di non aver mai sposato
Brünnhilde, e questa consacra la lancia di Hagen alla vendetta se Siegfried ha detto il falso. Quindi
Brünnhilde stessa rivela a Hagen l’unico punto in cui Siegfried è vulnerabile: lei stessa ha operato
una magia che rende Siegfried invulnerabile in tutto il corpo tranne che tra le scapole. Gunther,
Hagen e Brünnhilde preparano quindi il piano per uccidere Siegfried.

[Il motivo della invulnerabilità di Siegfried è presente solo nel Nibelungenlied, non nelle versioni scandinave della
leggenda. Nel Nibelungenlied, però, Siegfried diviene invulnerabile non grazie a una magia di Brünnhilde, ma perché si
bagna nel sangue del drago ucciso. Solo tra le scapole, dove si è posata una foglia di tiglio, il sangue del drago non
indurisce la sua pelle.]

Atto III: Foresta sul Reno

Siegfried partecipa alla caccia con Gunther e Hagen. Rimasto da solo sulle rive del Reno, incontra
le tre ondine che lo implorano di restituire l’anello e gli annunciano la sua morte se non lo farà.
Siegfried rifiuta e le tre ondine decidono di chiedere aiuto a Brünnhilde, rivelandole tutto quanto è
accaduto.

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