Le lapin agile: l'Italian Way of Doing Industry1 di Federico Butera2 Agilità delle imprese costruite per durare
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Le lapin agile: l’Italian Way of Doing Industry1 di Federico Butera2 Agilità delle imprese costruite per durare Agile è un leopardo, uno scimpanzé, un delfino, un falco, un cobra e molti altri esseri viventi. Agile è una danzatrice, un ginnasta, un climber, uno judoka, un samurai e molti altri professionisti. Ma con opportuno esercizio e formazione agile può diventare un coniglio o John Belushi. L’agilità richiede non solo l’adattamento alle condizioni esterne ma soprattutto la conservazione e la conservazione delle risorse per sopravvivere e svilupparsi: l’agilità è un attributo del funzionamento ma soprattutto è una caratteristica della struttura. Agile, come si scrive negli articoli che seguono, è una organizzazione capace di velocità, semplicità, adattamento ai cambiamenti interni ed esterni, efficacia, efficienza. Essa implica la capacità di anticipare, sentire, rispondere, adattarsi. L’agilità è particolarmente richiesta alle organizzazioni quando è elevata la variabilità, le minacce, le opportunità dell’ambiente esterno (mercato, contesto istituzionale, tecnologia, demografia, politica) e/o quando è elevato il tasso di inadeguatezza o obsolescenza della organizzazione interna (finanza, organizzazione, tecnologie, persone etc). In una parola quando è richiesta sia una capacità di risposta veloce ed adeguata a quella variabilità sia una capacità di cambiamento del sistema, da un modello a uno successivo: la reattività senza cambiamento strutturale è solo agitazione. La teoria classica della organizzazione si basava su due criteri principali: il coordinamento e controllo gerarchico e la divisione del lavoro, entrambe poggiate su una precisa definizione delle procedure. Su questa base erano stati modellati gli eserciti vittoriosi di Alessandro Magno, di Cesare, di Napoleone; le potenti burocrazie statali cinesi, austroungariche; la bimillenaria organizzazione della Chiesa; la innovativa fabbrica di Henry Ford. L’idea di fondo era “prima si costruiscono le organizzazioni, poi si vincono le battaglie”. Non è più così che imprese e le amministrazioni pubbliche possono vincere le battaglie che il sistema economico e sociale oggi impone. I primi studi sul rapporto organizzazione e ambiente furono quelli di Burns e Stalker (1961) e di Lawrence e Lorsch (1967). Burns e Stalker, del Tavistock Institute di Londra, studiando numerose aziende operanti in diversi settori, evidenziarono che per affrontare ambienti caratterizzati da forte instabilità, le imprese adottano forme organizzative sempre più flessibili, collocandosi su un continuum tra due modelli: quello meccanico, coerente con le teorie classiche dell’organizzazione e quello organico, più diffuso nelle organizzazioni professionali o innovative. Lawrence e Lorsh nelle loro ricerche mostrarono come il crescente livello di incertezza induce ad passare da organizzazioni altamente formalizzate e gerarchiche a organizzazioni orientate alla efficacia e alla flessibilità, suggerendo l’adozione di strutture duali, l’una per gestire la produzione e l’amministrazione l’altra per innovare e stare sul mercato. Perrow (1970), Davis (1972) rilevano che l’ambiente turbolento richiede un cambio di paradigma non solo alle “funzioni di confine”all’intera impresa o amministrazione: dall’orologio all’organismo (Butera 1984), dal castello alla rete (Butera 1990). E ciò che è avvenuto nelle imprese grandi, medie e piccole. Anche le imprese medie e piccole italiane che sembravano dovessero cedere il passo ad imprese più grandi e potenti, si svelano agili, competitive e efficaci. E celebri in tutto il mondo come il famoso locale di Montmartre, Le Lapin Agile. Agilità e organizzazioni costruite per durare, organizzazioni che restano forti Le organizzazioni agili che sopravvivono sono quelle “costruite per durare” (Collins e Porras, 1994) e capaci di “restare forti” (Cusumano, 2010). La gestione del cambiamento diventa la forza principale per assicurare al sistema queste caratteristiche, facendo convivere e interagire strutture duali (Kotter, 2012). 1 Questo articolo è © Fondazione Irso, 2012 2 Presidente della Fondazione Irso‐Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi (dal 1974) ; Ordinario di Sociologia dell’Organizzazione all’Università di Roma La Sapienza e all’Università di Milano‐Bicocca (1988‐2012); Direttore della rivista Studi Organizzativi (dal 1998) ; membro dell’Organismo Indipendente di Valutazione della Corte dei Conti
Cusumano recentemente prosegue nella linea tracciata nel loro famoso libro “Built to Last” da Collins e Porras, i quali avevano esaminato le aziende che erano durate nel tempo (tra cui, ad esempio, Ford, 3M, General Electric, IBM) e avevano cercato di individuarne alcune caratteristiche chiave, come un’ideologia di base, il concetto di BHAG (Big Hairy Audacious Goals), il disporre di una propria cultura, il tentare sempre nuove cose, il rifiutare l’idea di una “grande idea” per avviare un’impresa, l’innovazione costante. In sintesi, le aziende studiate da Collins e Porras erano non solo soggetti economici, ma istituzioni economico‐sociali: questo assicurava a loro la durabilità e alla società circostante la prosperità in un contesto di continuo cambiamento. Cusumano si pone un problema simile: come assicurare continuità e prosperità all’impresa in un mondo in cui nulla è stabile? Ma all’analisi di Collins e Porras egli aggiunge l’inquietante e recente questione: la contraddizione fra l’imperativo di continua e costosa innovazione nei prodotti/servizi, nell’organizzazione, nelle competenze da una parte e la crescente commodificazione dei prodotti/servizi dall’altra. Per le imprese occidentali non si tratta solo di fronteggiare la drammatica riduzione dei prezzi dei prodotti imposta dalle imprese manifatturiere cinesi; si tratta anche e simultaneamente di affrontare l’erosione o la scomparsa del valore dei prodotti dovuta all’innovazione tecnologica. Come contrastare, per esempio, l’abbattimento del costo dei componenti prodotti in Cina o l’abbattimento del valore economico della conoscenza scaricabile da Google a costo zero? Cusumano suggerisce di adottare 5 principi: 1. fare strategia e organizzazione di piattaforma piuttosto che di singoli prodotti 2. rafforzare l’offerta di servizi innovativi, per contrastare la commodificazione sia dei prodotti che dei servizi standardizzati 3. la creazione di capability all’interno dell’organizzazione 4. pull: partire dal mercato, dai bisogni del cliente e procedere a ritroso su tutte le fasi di produzione del prodotto o servizio 5. from scale to scope Questi princìpi sono stati riscontrati anche nell’esame del sistema produttivo italiano La trasformazione del sistema produttivo italiano Quattro preoccupazioni ricorrono nei discorsi sull’industria italiana: l’industria italiana è forte nei settori a crescita zero e debole nei settori in forte sviluppo; mancano le grandi industrie; l’industria italiana è particolarmente esposta alla concorrenza dei paesi emergenti; l’industria italiana sta perdendo competitività. Eppure l’industria italiana ha tassi di esportazione che competono con la Germania; crea valore; è innovatrice e competitiva; ha lineamenti comuni e distintivi. Di fronte alla debolezza del sistema Paese e alla demoralizzazione che ne consegue, emerge infatti un vigoroso processo bottom‐up basato su una grande vitalità di imprese, organizzazioni e territori di nuova concezione. Da dove nasce la loro forza? Che cosa accomuna casi di successo così diversi tra loro? Vi sono nuovi modelli e principi organizzativi e manageriali? Quanto potranno durare, se il Paese non se ne prenderà cura? Qual’è la locomotiva del sistema produttivo italiano? Dopo Fiat e Italsider degli anni ’60, dopo i distretti degli anni ’80, dopo il Made in Italy, dopo il 2013 che cosa trainerà una economia da sempre molto variegata, fra grandi, medie, piccole e piccolissime, fra Nord e Sud, fra imprese di successo e imprese che chiudono? La ricerca condotta dalla Fondazione Irso si interroga su un possibile what next: il modo italiano di fare impresa. Un primo volume curato da Butera e De Michelis con il titolo L’Italia che compete. L’Italian Way of Doing Industry, edito da Franco Angeli. Il programma di ricerca, consulenza e formazione sulla Italian Way of Doing Industry promosso dalla Fondazione Irso si ispira ad alcuni significativi casi di imprese italiane che sembrano mantenere e rafforzare anche nella crisi la propria competitività e che stanno contribuendo non poco alla tenuta economica e alla proiezione internazionale del nostro Paese. E si ripropone di sostenere le politiche pubbliche, lo sviluppo di impresa, la formazione degli imprenditori e del management delle imprese di minori dimensioni e delle reti di impresa.
Il nuovo modello di sistema italiano di produzione di beni e di servizi L’ipotesi del programma è che stia emergendo una Italian Way of Doing Industry, un modello socio‐ economico ancora allo stato embrionale che ha caratteristiche diverse sia dalle tradizionali esperienze distrettuali sia dai modelli delle grandi corporation americane. Le imprese dell’Italian Way per lo più non sono in attesa di diventare General Electric, non si sviluppano dai garage con la determinazione di trasformare un prodotto irripetibile in una azienda come Microsoft, Apple o Google; non aspettano per crescere che Catania, Treviso, il Veneto diventino Silicon Valley o Boston Route 114, non sono quelle che aspettano il trionfo del capitalismo molecolare. Ma hanno la loro via peculiare per competere e produrre prosperità. Il modello che iniziamo a intravedere è caratterizzato da sistemi di imprese grandi, medie e piccole che presentano 8 caratteristiche distintive: 1. fanno parte di insiemi come piattaforme, cluster, macro‐imprese che danno un senso unitario all’individualismo e all’apparente casualità dello sviluppo delle imprese; 2. sviluppano prodotti e servizi di qualità e ad alto livello di design con una componente artigianale in qualche punto del ciclo; 3. si internazionalizzano e cercano mercati non coperti; 4. crescono in base al continuo ascolto della clientela; 5. hanno forti relazioni col territorio; 6. hanno organizzazioni costituite da strutture organiche, agili e flessibili disposte su reti di grandi, medie e piccole imprese, con funzionamenti basati su cooperazione, conoscenza,comunicazione e comunità; 7. hanno un’“anima”, un’energia e un’identità fondata sulla valorizzazione del proprio scrigno delle competenze, delle eredità dinamiche, dei valori; 8. hanno una imprenditoria taking care prevalentemente industriale e con un buona qualità di relazioni industriali a livello aziendale. Il sistema produttivo dell’Italian Way of Doing Industry si caratterizza per un altissimo livello di agilità strategica, di mercato, organizzativa, imprenditoriale, culturale a tutti e tre i livelli in cui essa si esprime: I. piattaforme industriali “competitive” in cui imprese diverse cooperano e competono convergendo nello sviluppo dei prodotti e dei servizi e del posizionamento internazionale. II. “crocevie territoriali di reti d’impresa lunghe vitali”, un modello diverso dai distretti perché le reti sono basate sulla conoscenza, perchè il territorio è costituito da vaste global city region come il Nord, perché tali reti industriali e finanziarie sono globali; III. imprese integrali, ossia “imprese caratterizzate da organizzazioni organiche che perseguono in modo integrato elevate performance economiche e sociali, che agiscono concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale, che hanno condotte eticamente integre” (Butera, 2008). Il modello per analizzare e sviluppare le imprese dell’Italian Way: elementi costitutivi e loro interazione Cinque sono le dimensioni peculiari e fortemente interagenti su cui si esprime l’energia, l’innovatività, l’agilità delle piattaforme, delle reti, delle singole imprese appartenenti all’Italian Way of Doing Industry. 1. Mercato Le imprese italiane hanno una posizione di rilievo soprattutto nelle celebrate 4A (Abbigliamento, Alimentazione, Arredamento, Automazione), e in una quinta A come l’Accoglienza‐Turismo. Ma emergono casi esemplari che possono preludere a ulteriori sviluppi, nell’aerospazio, nelle biotecnologie, nelle nanotecnologie, nella chimico‐farmaceutica, nell’ICT, nelle energie rinnovabili e altre ancora. Le imprese italiane piccole e medie che hanno tentato di entrare nei mercati di massa sono state o saranno spazzate via. Ma in una economia delle nicchie globali che si stanno sviluppando, l’impresa italiana invece può competere, sia individualmente che come rete che come piattaforma.
Molte imprese italiane stanno raccogliendo le nuove sfide su nuovi mercati mondiali e non solo nelle nicchie delle 5A e delle altri settori high tech citati, ma anche in quelle delle tecnologie e dell’energia ecocompatibili (green economy), della cultura e dell’arte, dei bisogni primari della stragrande maggioranza dell’umanità (cibo, sanità, istruzione, abitazione etc). Un primo fattore di caratterizzazione delle imprese capaci di competere nell’Italian Way of Doing Industry riguarda il posizionamento di mercato: è la capacità di collocarsi agilmente in mercati di nicchia, su fasi alte della catena del valore, su nuovi mercati portatori di bisogni primari, attraverso processi di internazionalizzazione socialmente compatibili. 2. Strategie Le imprese italiane che hanno avuto successo non hanno per di più adottato strategie di costo (componentistica e materie prime), di leadership sulle nuove tecnologie ( come Google), di lock‐in (Microsoft), ma hanno fra loro combinate quelle di focalizzazione, di specializzazione, di qualità, di customer orientation entro dominati strategie di internazionalizzazione Il secondo fattore di caratterizzazione delle imprese dell’ Italian Way of Doing Industry riguarda, in sintesi, strategie per competere con i giganti multinazionali non andando sul terreno della produzione di massa o della eccellenza tecnologica ma sviluppando la capacità di concepire e realizzare strategie multiple con la prevalenza di quelle di focalizzazione, personalizzazione, valore sociale. Esse lo hanno fatto con agilità prima e meglio degli altri evitando il contatto con i giganti. Per usare una metafora sono state Davide contro Golia; adottare judo strategy 3. Organizzazione Le imprese italiane grandi, medie e piccole che hanno avuto successo hanno sviluppato forme di organizzazione innovative che avevano avuto molte anticipazioni fin dagli anni ’80. Per gran parte di loro l’impresa non è stata un “castello” chiuso ma si è aperta ad una infinità di relazioni e di processi di cooperazione lungo la catena del valore. Sono diventate reti organizzative vitali. L ’incrocio fra le reti di impresa e i processi economici e sociali di territori estesi hanno insegnato alle imprese a vivere un modo glocale di produzione. I territori sono diventati “crocevie territoriali di reti lunghe vitali”. L’impresa di successo immersa in questo nuovo contesto di relazioni produttive e sociali non ha perso la sua individualità, ma si è rafforzata allontanandosi drasticamente dalle tradizionali burocrazie industriali ereditate dal fordismo: quei “modelli organici” di organizzazione, altamente integrati e flessibili caratterizzati da funzionamenti basati su cooperazione, condivisione di conoscenze, comunicazione, comunità di lavoro nelle grandi e medie imprese come da sempre lo sono state nelle piccole; da gruppi di lavoro e team flessibili e autoregolati; da comunità di pratiche supportate da tecnologie Web 2.0; da nuovi modelli di lavoro e di professioni “a larga banda” ; da una forte cultura del lavoro, delle regole e dei risultati. Un terzo fattore caratterizzante le imprese capaci di competere nell’Italian Way of Doing Industry riguarda quindi la capacità di sviluppare e gestire modelli organizzativi basati su reti organizzative estese originate sul territorio e organizzazioni organiche altamente adattive. 4. Anima dell’impresa Le imprese dell’Italian Way of Doing Industry in quasi tutti i casi hanno avuto un’“anima” e un’identità, basate su uno scrigno delle competenze, valori, comunità di lavoro. cultura, abilità a riconoscere e indirizzare le proprie traiettorie di sviluppo, la gestione del cambiamento e innovazione. L’energia delle imprese italiane inoltre è stata spesso la ragione principale del successo, che può essere rilevata e misurata nelle sue componenti chiave, come l’energia delle competenze, l’energia organizzativa, l’energia tecnologica, l’energia emozionale. In una parola la capacità di valorizzare e creare eredità dinamiche di cultura, etica, visibilità, brand. Il quarto fattore caratterizzante le imprese capaci di competere nell’Italian Way of Doing Industry riguarda in sintesi l’anima e l’identità dell’impresa cha ha valorizzato le eredità delle persone, le capacità radicate nella storia dell’impresa, ha sviluppato energia e ha attivato uno scambio con i territori e il contesto globale. 5. Qualità dell’imprenditore La principale funzione dell’imprenditore dell’Italian Way è stata per lo più quella di essere un azionista interessato a costituire imprese durevoli (built to last) e desideroso di investire nell’impresa le risorse
generate e le proprie, e di reperire risorse finanziarie esterne per innovare a 360° sui prodotti, sui mercati, sui processi, sulle persone, sull’organizzazione, sul brand. Non sono mancati lo sviluppo del private equity e l’intervento di fondi stranieri: la qualità degli investitori non imprenditori è nell’Italian Way è stata quella di sviluppare l’impresa e con essa il valore dell’investimento, come è accaduto ad esempio a Technogym, Bulgari, Cassina e altri. Possiamo su questo punto formulare una quinta ipotesi di caratterizzazione e di traiettoria dell’Italian Way of Doing Industry: lo sviluppo di capacità di leadership industriale e di attrarre capitali di rischio, suscitando una imprenditorialità e managerialità radicata nell’Italian Way of Doing Industry. Le opportunità e i rischi Le opportunità risiedono nel fatto che l’esempio dei sistemi di imprese che hanno avuto successo in primo luogo rafforzi la coscienza di sé per affrontare così le pesanti sfide in corso e in secondo luogo si estenda ad altre imprese e ad altri territori dell’Italia, diventando una locomotiva della valorizzazione del patrimonio industriale italiano. I rischi che questa Italian Way non ce la faccia a salvare le imprese e il paese sono però molti. Alcuni sono interni: se le imprese non comprendono fino in fondo la loro natura mutante e non la gestiscono con urgency, energia, flessibilità, agilità, se non rafforzano la classe imprenditoriale, manageriale, professionale e tecnica. Altri sono esterni: se i servizi e le infrastrutture, se i “beni comuni della competitività” non crescono e non sono appropriati ai bisogni di questi sistemi di impresa. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Burns T., Stalker O.M. (1968), The Management of Innovation, Tavistock, London. Butera F. (1984), L’orologio e l’organismo, Franco Angeli, Milano Butera F. (1989), Il castello e la rete.,Franco Angeli, Milano. Butera F. (2009), Il cambiamento organizzativo. Analisi e progettazione, Bari, Laterza. Butera F., De Michelis G. (a cura di), L’Italia che compete. L’Italian Way of Doing Industry, FrancoAngeli, Milano. Collins J.C., Porras J.I. (1994), Built to Last: Successful Habits ofVisionary Companies, HarperCollins Publishers, New York (NY) Cusumano, M.A. (2010), Staying Power. Six Enduring Principles for Managing Strategy and Innovation in an Uncertain World, Oxford University Press, New York, NY ( trad italiana Restare Forti, Franco Angeli, Milano (2012) Davis, L.E. and Taylor, J (1972) The design of jobs, Penguin Dioguardi G. (2010), The network enterprise, Springer, New York. Lawrence P.R., Lorsch J.W., 1967, Organization and Environment. Managing Differentiation and Integration, Harvard University Press, Cambridge, Mass.( trad. it. Come organizzare le aziende per affrontare i cambiamenti tecnico produttivi e commerciali, Franco Angeli, Milano, 1976). Marini D. (2008), Fuori dalla media, Marsilio, Venezia. Micelli S. (2011), “I nuovi profili delle imprese italiane”, in Butera F., De Michelis G. (a cura di), L’Italia che compete. L’Italian Way of Doing Industry, FrancoAngeli, Milano. Kotter J.P Accelerate, in Harvard Business Review Italia, Novembre 2012 (con commento di Federico Butera) Perulli P., Pichierri A. (a cura di) (2009), La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord, Einaudi, Torino.
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