Le ciliegie e la tigre - Maria Pia Casamassa
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Maria Pia Casamassa Le ciliegie e la tigre Angelina riempì la tasca del prendisole con una manciata di ciliegie, si affacciò sulla porta aperta e l'alito tiepido del pomeriggio le solleticò il viso. Con la coda dell'occhio controllò che sua sorella fosse rimasta accanto al tavolo a tagliuzzare il pezzo di stoffa che le aveva dato, uscì rapida e imboccò il sentiero che tagliava i campi incolti intorno alla casa. Appena fu certa di non essere seguita, rallentò, tirò fuori dalla tasca il groviglio di ciliegie e districò da esso la più grossa. Staccò coi denti il picciolo e addentò piano la polpa, assaporandone il succo dolce e acidulo. La festa di S. Giovanni era trascorsa da pochi giorni, e quella mattina suo nonno aveva portato un gran paniere pieno di ciliegie. Le aveva raccolte di mattina presto, aveva messo il cappello buono ed era entrato nel bosco, ricomparendo dopo un bel tratto sulla sponda della fiumara. Aveva attraversato il ponticello che portava alla riva opposta, e inseguito dal chiasso delle rondini, era salito verso il dente di tufo al quale stava aggrappato il paese; lo aveva percorso tutto e con passo risoluto, aveva attaccato la ripida strada sterrata che portava a casa di Angelina. Come ogni volta che veniva da loro, il nonno a malapena si era affacciato in cucina, aveva posato sul tavolo le ciliegie e aveva rifiutato bruscamente il caffè che sua madre voleva preparare. Faceva sempre così, come se avesse fastidio a rimanere nella casa nuova di sua figlia, dove le stanze ancora odoravano di pittura e le mattonelle erano lucide e sgargianti. Da quando la scuola era finita, non era andata nemmeno una volta a trovarlo, non ne aveva voglia. Quando era più piccola, d'estate andava spesso fino alla masseria in cui vivevano i nonni, e a volte le era venuto lo sfizio di rimanere lì a dormire. Cenavano presto e appena si faceva buio la nonna preparava un lettuccio su una cassapanca e dopo averla fatta coricare spegneva il piccolo lume ad olio. L'entusiasmo per la novità pian piano scemava, e nonostante il gran caldo, si tirava le lenzuola ruvide sul naso e spiava i raggi di luna che filtravano da una finestrella. Le pareva che la solitudine opprimente della campagna si insinuasse tra le vecchie mura. Con l'orecchio teso al fremito degli alberi serrati attorno, cadeva in un dormiveglia estenuante, dal quale la traeva fuori, al mattino, il borbottio della radio a pile che il nonno, facendosi la barba, appendeva al grande ciliegio davanti alla masseria. Era un sollievo tornarsene poco dopo a casa, trascinando il sacchetto stracolmo di frutta, che i nonni avevano riempito già dal giorno prima.
Adorava le ciliegie, e tutti i frutti dell'estate, che maturando man mano, scandivano il tempo lungo e noioso delle vacanze. Ciliegie e gelsi arrivavano a giugno; a luglio, susine e albicocche; ad agosto, c'erano i fichi, bianchi e neri prima, e ultimi, i settembrini, piccoli e dolcissimi, che duravano fino all'inizio della scuola. Pescò dalla tasca due ciliegie gemelle, se le provò a un orecchio come un gioiello, e svoltò verso il viottolo che portava all'orto di sua madre, sputando i noccioli che aveva in bocca ora sulla macchia rossa di un papavero, ora su quella viola di un cardo. Vide Jo accucciato contro un mucchio di fieno, gli tirò addosso un nocciolo e si nascose dietro una fratta di rovi. Si affacciò, e il piccolo cane stava all'erta, guardando nella sua direzione con un solo orecchio dritto, come suo solito. Prima che si mettesse a correre, gli andò addosso e lo abbracciò. A Jo non piaceva essere strapazzato, ma Angelina ogni tanto sentiva il bisogno di farlo. Era il suo amico fedele. Suo padre lo aveva portato una sera dell'estate precedente, al ritorno dal lavoro, dentro al tascapane della colazione, sicché odorava di cemento e peperoni fritti. Jo era alto poco più di un gatto, ma a suo modo era coraggioso e la seguiva ovunque. Lo aveva chiamato Jo, come il cane pastore di “Dove corri Jo?”, il telefilm più bello della tivù dei ragazzi, e se ne infischiava delle compagne di scuola che se la ridevano, dicendo che Jo era la marca di un succo di frutta. Gli scoccò un paio di baci in testa e guardò verso la pineta che si stendeva fino alla strada provinciale dove non andava mai perché sua madre non voleva. Oltre le cime riarse, sulla spianata del campo sportivo, c'era qualcosa che desiderava assolutamente vedere. Una Fiat 128 un po' ammaccata, aveva poco prima concluso il giro del paese con una complicata retromarcia proprio sotto casa sua e tra un yuppi do e l'altro aveva annunciato a tutto volume da un altoparlante, che era arrivato il circo. Angelina non stava nella pelle per l'emozione e pensando allo spettacolo che si sarebbe tenuto quella sera, si era ricordata di un film che raccontava le straordinarie avventure di un grande circo americano. In particolare le era rimasta impressa una scena in cui, una ballerina rimaneva intrappolata sotto la zampa di un elefante, mentre il domatore spietato, la ricattava per gelosia. Da quel giorno aveva fantasticato spesso sul circo, crogiolandosi nel sogno di quel mondo nomade e spericolato, nel quale ogni cosa, l'amore soprattutto e la crudeltà persino, avevano una colore speciale che era sicura non sarebbe mai apparso nel monotono cerchio delle colline intorno al paese. Si era inventata anche un gioco, in un pomeriggio in cui si erano riuniti un bel po' di ragazzini del vicinato. Bisognava esibirsi con acrobazie e animali ammaestrati, ma a un certo punto, quasi tutti si erano stancati dei preparativi e avevano cominciato a giocare a nascondino. Ci era rimasta male, e adesso che finalmente un circo era capitato in paese, aveva deciso di andare a vederlo da vicino, prima dello spettacolo e prima degli altri ragazzi. Scacciò definitivamente il sospetto di star facendo una cosa azzardata, e si lanciò tra le sterpaglie. In pochi minuti arrivò sullo spalto più alto del campo e si fermò trafelata con le ginocchia che tremavano, mentre Jo accanto a lei, fiutava l'odore di cibo e stalla che veniva dall'accampamento.
Il tendone circolare, di un rosso polveroso, trionfava in mezzo al campo, sormontato da un'insegna sulla quale a lettere cubitali si leggeva Grande Circo Walrus. Tra i camion e le roulotte parcheggiate lungo il perimetro del campo, non si vedeva anima viva: Angelina si mise a sedere sul rialzo di cemento per poter osservare con calma, e Jo partì velocemente in esplorazione. Lo chiamò tre o quattro volte a bassa voce, e Jo agitò lentamente la coda, continuando ad annusare il copertone di una ruota. Allora Angelina si decise a scendere: se incontrava qualcuno, poteva dire che era lì per riprendersi il cane. Saltò leggera dall'ultimo gradone e avanzò lungo la fiancata di un camion coperta di manifesti; all'interno un pony dalla lunga criniera bionda sbuffò e scosse la cavezza. Angelina sorrise e scorse Jo sul lato opposto che guizzava tra cavi elettrici e tubi di plastica. Provò a raggiungerlo facendo il giro del campo ma fu costretta a passare davanti a un grosso autocarro e si ritrovò molto vicina al tendone. Da una fenditura aperta sul telo si intravedeva la pista buia e a qualche metro da esso, c'era un piccolo carrello, con il cassone coperto da un'incerata gialla. I lembi della copertura erano scostati e Angelina si avvicinò con cautela di un paio di passi e reclinò il capo per sbirciare attraverso l'apertura. Nello stesso momento la tigre sollevò la testa dal fondo della gabbia in cui era sdraiata e la guardò. Angelina si immobilizzò e trattenne il fiato. La tigre la fissò per un istante e poi tornò a poggiare il capo sul pavimento della gabbia. Socchiuse col languore di un gatto disturbato nel sonno gli occhi bellissimi, del colore delle caramelle a menta, e Angelina respirò. Non riusciva a vederla per intero, ma distingueva nettamente gli artigli neri che spuntavano dall'orlo della zampa, grossa quanto la mano aperta di un uomo. “Attenta che ti mangia!” Una voce improvvisa alle sue spalle la fece sobbalzare, e voltandosi per poco non cadde addosso a un ragazzo magro che stringeva tra le mani un rastrello. La osservava a labbra strette, con un espressione che lo faceva somigliare a un ranocchio. Indicò la gabbia e con aria divertita le chiese: “Non hai paura?” Le sue parole si fusero col rullare sordo del suo cuore e tuttavia pensò che avesse il modo di parlare delle zingare che venivano in paese nei giorni di fiera. Imbarazzata, si mosse per andar via ma il ragazzo si spostò velocemente davanti alla gabbia e alzando il telo che la ricopriva mormorò: “Aspetta, ti faccio vedere”. La tigre, investita dalla luce, drizzò nuovamente il testone, e il ragazzo infilò il manico del rastrello tra le sbarre, spingendolo con insistenza sul petto dell'animale finché con uno scatto nervoso non si mise in piedi. Era enorme: il dorso ossuto toccava quasi il soffitto della gabbia e digrignava il muso mostrando le zanne gialle. Muoveva con insofferenza la punta della coda e tra le sue zampe, schiacciato contro le sbarre, apparve qualcosa, simile a uno straccio o all'avanzo di un pasto. Quando la tigre si lasciò cadere pesantemente sul ventre, dal viluppo di peli uscì un debole guaito e Angelina meravigliata, si rese conto che era un cagnolino. Si voltò verso il
ragazzo per chiedere spiegazioni e si trovò dinanzi a un largo sorriso, che metteva in mostra, tra due fossette profonde, una fila perfetta di denti grandi e bianchi. Anche gli occhi chiari di lui brillavano sotto un ciuffo di capelli che pareva stoppa di pannocchia. Angelina dischiuse le labbra e sentì un tepore dolce, come quando nei giorni belli di primavera, si metteva con la schiena contro il muro di casa a prendere il sole. Un incanto, e Jo lo infranse, precipitandosi in mezzo a loro due e abbaiando come un disperato contro la belva rinchiusa. Angelina lo prese in braccio e gli strinse il muso in una mano, ma lo strepito era fatto, e dal tendone venne fuori un uomo alto e robusto che corrucciato disse qualcosa al ragazzo in una lingua straniera. Lui non si scompose, inarcò le sopracciglia in modo buffo e continuò a sorriderle. Tenendo stretto Jo che cercava di liberarsi, Angelina indietreggiò, infilandosi svelta tra i camion. Mentre saliva goffamente le alte gradinate del campo, si girò e il ragazzo le gridò: “Vieni a vederci stasera!”. Arrivata in cima, si mise a correre stringendo forte Jo e lo lasciò andare solo quando fu vicina all'orto. Si sentiva felice e saltellando raggiunse lo spiazzo fuori casa dove sua sorella la stava aspettando. Le sarebbe piaciuto raccontarle della tigre, ma voleva tenere per sé l'incontro col ragazzo e non le disse nulla. Attese con ansia che suo padre tornasse dal lavoro, per chiedergli di portarla al circo, pensando tutto il tempo al ragazzo e al suo invito. Suo padre arrivò che il sole stava tramontando e andò a sistemare i suoi attrezzi in garage, e quando trepidante, Angelina gli diede la notizia del circo, lui ci pensò su e sorridendo si lasciò scappare un “vediamo”. Sembrava ben disposto, anche se il suo “vediamo” significava di sicuro che ne avrebbe parlato con sua madre. Intanto si sarebbe preparata: andò nella sua stanza e tirò fuori dall'armadio il vestito e le scarpe comprate per la festa del patrono, si sciacquò il viso e si appuntò sui capelli una molletta nuova. C'era ancora un po' di tempo per l'inizio dello spettacolo. Tornò giù azzimata e contenta, e si sedette a tavola accanto al padre. Stavano trasmettendo il telegiornale e lui guardava fisso lo schermo. Angelina con il suo sorriso più accattivante gli rifece la richiesta; all'inizio pensò che non l'avesse sentita, ma poi lui si voltò verso la cucina, dove stava sua madre e da dove veniva un rumore di pentole sbatacchiate qua e là, e senza guardarla pronunciò il suo terribile “un'altra volta”. Non provò nemmeno ad insistere. Aveva un tono di voce tale che non c'era verso di spuntarla. Il sorriso le si spense lentamente in viso, ingoiò il groppo che le era salito in gola e se ne andò fuori. Nel cielo ancora chiaro si cominciavano a vedere le stelle e folate fresche di vento portavano la musica del circo. Lo spettacolo era iniziato. Poco dopo anche suo padre uscì, per andare al bar, come faceva ogni sera. Piena di rabbia, rientrò, e salì nella sua camera, sfilandosi con furia il vestito e gettandolo sul pavimento. Nel letto, affondò il viso nel cuscino e pianse come non faceva da tempo, lasciandosi addormentare da lunghi singhiozzi disperati. La luce abbacinante che entrava dalla finestra la svegliò che era mattina inoltrata. Scese
nella cucina pulita, ancora odorosa di caffè, e intontita di sonno entrò nel ripostiglio. Sul ripiano più basso dello stipo cercò a tastoni nel paniere delle ciliegie e ne tirò fuori steli, foglie e qualche frutto piccolo e ammaccato. Alzò gli occhi su una mensola alta e in bella vista c'erano una decina di vasetti, lustri e colmi di ciliegie sotto spirito. Tutta la collera che aveva provato la sera prima si riaccese in un lampo. Uscì e camminò svelta verso l'orto. Sua madre era già a lavoro nel recinto ma anziché raggiungerla, continuò a camminare spavaldamente verso la pineta, senza voltarsi. Arrivò al campo lentamente ma col cuore in subbuglio. La distesa di sabbia era stata sgombrata e a terra erano rimasti i solchi delle ruote e qualche cartaccia. Sotto i muraglioni che contenevano il terrapieno, la strada deserta si perdeva tra campi di stoppie e boschi impenetrabili al sole. Sentì in bocca tutto l'amaro della delusione e anche un po' di fame: per ritornare si avviò nel letto asciutto del torrente che scorreva lungo la pineta. Saltò da una pietra all'altra, in equilibrio tra zolle e piante di finocchio selvatico, scansando cocci di bottiglie e sacchetti di spazzatura, finché, a metà strada non le capitò sotto i piedi una specie di pupazzo svuotato. Si abbassò per esaminarlo e con ribrezzo riconobbe il cagnolino che aveva visto nella gabbia della tigre. Era morto da poco, e a giudicare dalla posa scomposta in cui era, dovevano averlo gettato giù dall'argine. Turbata, si arrampicò sul greto e fece velocemente il tragitto sino all'orto. Voleva raccontare a sua madre della scoperta. La trovò che puliva le gabbie dei conigli con gesti vigorosi e tranquilli; si accorse di Angelina e senza smettere di lavorare, con un accenno di sorriso la stuzzicò: “Sei caduta dal letto stamattina?”. Angelina fece spallucce, staccò una foglia dall'albero a cui si era appoggiata e la strappò in piccoli pezzi: in fondo era meglio non dirle niente. Mentre stava andando via sua madre la richiamò: “ Angelì, fatti un giretto e chiama il cane, è da ieri sera che non si vede”. Si girò attonita verso di lei e fu presa da una lieve vertigine, in cui pensieri si attorcigliavano confusi. Poi sentì proprio in mezzo al petto un breve schianto e le fu chiaro che avevano preso Jo, per metterlo nella gabbia della tigre.
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