LA VIA DELL'ITALEXIT di Leonardo Mazzei - sollevazione

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LA VIA DELL'ITALEXIT di Leonardo Mazzei - sollevazione
LA  VIA   DELL’ITALEXIT                                   di
Leonardo Mazzei

Alcuni lettori, per niente convinti dell’ITALEXIT, ovvero
dell’uscita dall’euro, hanno mosso delle obiezioni alle tesi
di MPL-P101 pubblicate giorni addietro. “L’Italia è troppo
piccola per reggere l’urto della reazione dei mercati”, “col
debito che abbiamo ci strangolerebbero”, “i capitali
fuggirebbero a gambe levate”, “avremmo inflazione e…
svalutazione”. Volentieri entriamo nel dettaglio con questo
articolo.

Quelli che… ormai è troppo tardi

Che
l’euro sia un grave problema per l’economia italiana viene
ormai
riconosciuto con sempre maggior frequenza. Ma mentre la platea
degli
ultras della moneta unica si va pian piano svuotando, viene
invece a
riempiersi quella di chi, pur ammettendo i danni prodotti, sa
solo
concludere che ormai è troppo tardi per uscirne.
Insomma, se fino a qualche tempo fa si doveva assolutamente
restare
nell’eurozona per i presunti benefici di questa collocazione –
moneta
“forte”, aggancio a sistemi produttivi considerati più
avanzati, tutela
del risparmio, eccetera – oggi si tende ad evidenziare i
problemi
connessi all’uscita. Segno dei tempi, senza dubbio, ma anche
della
manifesta impossibilità di continuare a sostenere la bontà di
una scelta
che ha fatto sprofondare l’Italia nella crisi più grave degli
ultimi
ottant’anni.

Certo, la recessione scoppiata nel 2008 ha avuto una
dimensione non
solo europea, ma il fatto che si sia rivelata più profonda e
prolungata
proprio nell’Unione, ed ancor più nell’eurozona, qualcosa
dovrà pur
dirci. Tanto più che tra i benefici dell’euro doveva esserci
pure quello
di attenuare i cosiddetti shock esterni. E’ avvenuto invece il
contrario, come dimostrato da tutti gli indicatori economici:
da un lato
l’Unione Europea è l’area dove la crisi ha picchiato più duro,
dall’altro l’euro ha aumentato le asimmetrie tra le varie
economie
nazionali che la compongono. Detto in altri termini, la moneta
unica ha
innescato un meccanismo di redistribuzione della ricchezza al
contrario,
avvantaggiando i paesi più ricchi (Germania in primis) a danno
di
quelli considerati “periferici”. Tra questi l’Italia.

Naturalmente, il nostro Paese non è l’unico ad essere
profondamente
danneggiato dall’euro, basti pensare al drammatico caso della
Grecia.
Né le negative conseguenze della moneta unica sono solo di
tipo
economico, dato che il vincolo esterno così prodotto colpisce
a morte la
stessa democrazia parlamentare. Diversi sono dunque i motivi
per
tornare alla moneta nazionale: dalla riconquista della
sovranità
democratica, al recupero del controllo dello strumento
monetario come
mezzo decisivo per realizzare una politica economica volta ad
uscire
dalla crisi ed a contrastare la disoccupazione.

Chi scrive non ha dunque dubbi sulla necessità di uscire
dall’euro e
dalla stessa UE, ben sapendo al tempo stesso che per ottenere
una vera
svolta l’uscita è sì necessaria ma da sola non sufficiente. Ma
una
necessità di questa portata è senz’altro una priorità
assoluta. Anche
perché, senza uscita dalla gabbia dell’euro, ogni ipotesi di
vera
ripresa (e dunque di lotta alla disoccupazione) non si regge
in piedi.
Il decennio alle nostre spalle è lì a dimostrarlo.

Colpisce come di fronte al disastro economico di questi anni i
difensori della moneta unica si stiano ora asserragliando
dietro ad una
campagna terroristica, ricca di argomenti irrazionali come di
affermazioni assolutamente false. E’ di questo che vogliamo
occuparci in
questo articolo, dedicato in primo luogo a quanti, pur
variamente
collocati, ci propongono grosso modo un solo ragionamento: sì,
è vero,
l’euro crea problemi, aderirvi è stato forse un errore, ma
ormai è
troppo tardi, visto che uscirne adesso sarebbe una catastrofe.
Un
esempio di questo modo assurdo di affrontare le cose è
condensato in
questa frase, che chiude un articolo di Giorgio Lunghini sul
Manifesto
del 23 settembre 2016:

 «In
 breve, l’Unione Economica e Monetaria europea è come l'”Hotel
 California” nella canzone degli Eagles: forse sarebbe stato
 meglio non
 entrare, ma una volta dentro è impossibile uscire».   [1]

Il fatto è che una vera e propria catastrofe economica e
sociale è
già in atto da anni. Dal 2008 l’Italia ha perso 9 punti di Pil
ed il 25%
della produzione industriale, mentre la disoccupazione è
andata alle
stelle, con quella giovanile oltre il 40%. Ecco, prima di
annunciare le
catastrofi del futuro (dovute all’uscita dalla moneta unica,
che d’ora
in poi chiameremo per comodità Italexit), bisognerebbe
confrontarsi con
quelle del presente, anche perché rimanendo nell’euro l’unico
futuro che
possiamo immaginare è, nella migliore delle ipotesi, quello di
una
prolungata e micidiale stagnazione. Micidiale in particolar
modo sul
piano sociale, per i suoi effetti di impoverimento generale,
di
precarizzazione senza sbocchi per i giovani, di
marginalizzazione
crescente di intere categorie (come i pensionati), di regresso
complessivo nei campi della scuola e della sanità.

Ma uscire “non sarà una passeggiata”, così ci ammoniscono i
difensori dello status quo. Grazie, ma lo sapevamo già. Il
fatto è che
ormai sono rimasti in pochi a poter passeggiare liberi dalle
preoccupazioni per il domani. Il raffronto non va dunque fatto
tra i
problemi connessi all’Italexit ed una (inesistente) situazione
altrimenti positiva. L’unico raffronto serio che possiamo e
dobbiamo
fare è tra quei problemi e l’insostenibilità della situazione
attuale.

D’altronde, se si ammette che l’euro è un problema, perché non
mettere al centro la riflessione su come venirne fuori? Certo,
alcuni
insistono sulla strada della “riforma”: riforma dell’UE, dei
trattati,
della stessa Bce. Peccato si tratti di riforme impossibili,
dato che
l’Unione Europea non è nata per la costruzione di un’Europa
solidale,
bensì per dare forma ad un’area in cui i demoni del
neoliberismo
potessero dispiegarsi senza ostacoli. Che è poi quello che è
realmente
avvenuto. Ma la sentenza definitiva sull’irriformabilità
dell’UE (e
dunque dell’euro) ce l’hanno fornita i fatti, a partire dallo
strozzamento finanziario applicato alla Grecia nel 2015.

Ma poi, per quale motivo una moneta dovrebbe essere
“irreversibile” (come ogni tanto afferma Draghi) [2] e
dunque eterna? Curioso, ma rivelatore, questo pittoresco
atteggiamento
antistorico: più una nuova credenza religiosa in tempi di
profonda
secolarizzazione, che un argomento razionale da discutersi con
gli
strumenti della ragione.

Ed è forse proprio per la natura dogmatica di questa posizione
che i
problemi reali dell’Italexit vengono sempre posti in maniera
distorta ed
oltremodo esagerata. In proposito potremmo citare un vasto
campionario
di svarioni e di vere e proprie stupidaggini. Qui ci
limiteremo ad
affrontare i cinque temi che più insistentemente vengono
lanciati nella
campagna terroristica che vorrebbe convincerci che proprio non
possiamo
farci niente, che non ci sono alternative alla gabbia
dell’euro, che il
TINA (There is no alternative) della signora Tatcher l’avrà
vinta ancora una volta.
I cinque temi in questione sono i seguenti: 1) la
svalutazione, 2)
l’inflazione, 3) la fuga dei capitali, 4) la ridenominazione
del debito,
5) il presunto isolamento dell’Italia e le sue dimensioni
ritenute
troppo piccole per ritornare alla sovranità monetaria.

Sono cinque temi da sempre branditi dalla propaganda filo-
euro,
quelli che dovrebbero chiudere il discorso rispetto ad ogni
prospettiva
di uscita. Viceversa, cercheremo di dimostrare non solo le
falsità di
quella propaganda, ma pure la gestibilità di un passaggio
certo
difficile, ma comunque affrontabile oltreché inevitabile, come
quello
dell’Italexit. Agli argomenti di un terrorismo da quattro
soldi che
ormai convince sempre meno, come si è visto nel caso della
Brexit,
tenteremo di contrapporre un ragionamento che, senza negare i
problemi,
cercherà di ricondurli alla loro effettiva consistenza.

1. L’Italexit e la svalutazione

Partiamo dal tema della svalutazione, quello maggiormente
usato per
incutere terrore. Eppure le svalutazioni, come pure le
rivalutazioni,
sono fatti economici che avvengono di continuo senza che ciò
determini
alcuna catastrofe. Anzi, il più delle volte la maggioranza
delle persone
neppure si accorge di queste variazioni nei cambi. Ovviamente
è tutta
una questione quantitativa, perché una svalutazione del 10%
non produce
le conseguenze di una del 50%. Dunque, gli effetti – sia
quelli positivi
che quelli negativi – andrebbero valutati in base all’entità
della
svalutazione attesa. Ma questo vorrebbe dire ragionare, che è
l’esatto
opposto della volontà di spaventare. Ecco allora (ma sono solo
due
esempi tra i tanti) che il direttore del Corriere della Sera,
Luciano
Fontana sparacchia un 30% [3] , mentre il già citato Lunghini
(perché porsi limiti?) arriva al 50/60%.

Si tratta di cifre campate in aria, tant’è che chi le
sbandiera non
porta mai vere argomentazioni a sostegno. E la poca serietà di
questi
numeri è provata dal fatto che costoro parlano sempre di una
forte
svalutazione della nuova lira, ma mai ci dicono verso quali
altre
valute. In ogni caso, se ci si riferisce a quel che rimarrebbe
dell’euro, nel caso di un’uscita della sola Italia, queste
cifre non
stanno né i cielo né in terra. Se si parla del dollaro idem.
Se invece
ci si vuol riferire al nuovo marco tedesco è possibile anche
un’oscillazione intorno al 30%, ma non tanto per una
svalutazione della
lira, quanto per una fortissima rivalutazione del marco
rispetto
all’insieme delle monete circolanti. Che è esattamente quel
che
servirebbe all’Italia, e che ovviamente la Germania cercherà
di impedire
a tutti i costi.

In
realtà esistono diverse ricerche che prevedono, dopo un
periodo
transitorio ovviamente più turbolento, un assestamento della
nuova lira
ben diverso da quello ipotizzato dai catastrofisti. Tra
questi,
riprendiamo i dati [4] di uno studio dell’OFCE (Observatoire
français des conjonctures économiques).
Secondo i due autori – Cédric Durand e Sébastien Villemot – in
caso di
rottura dell’euro, la nuova lira si apprezzerebbe addirittura
dell’1%
rispetto alla media dei dodici paesi dell’eurozona presi in
esame. Una
sostanziale stabilità data dalla media di una rivalutazione
verso la
Francia (12%), la Spagna (11%), la Finlandia (19%), il Belgio
(18%), la
Grecia (39%) ed una svalutazione verso la Germania (13%),
l’Olanda
(14%), l’Austria (14%).

Naturalmente, trattandosi di simulazioni, anche queste cifre
sono
opinabili. Ma, a differenza di quelle buttate là a casaccio
sui media
nostrani, esse vengono almeno da studi approfonditi coi quali
sarebbe
bene confrontarsi. Che è esattamente quello che i
catastrofisti di
mestiere non faranno mai.

Detto questo è indispensabile affermare un punto ben preciso:
una
svalutazione verso la Germania (e l’area economica che gli si
raccoglie
attorno) è assolutamente necessaria per l’economia italiana.
Si tratta
di recuperare competitività verso un paese che continua a
praticare una
fortissima politica mercantilista, verso un sistema produttivo
che è
diretto concorrente dell’industria italiana. Secondo i dati
del 2016, il
surplus commerciale della Germania (5) ha raggiunto i 252,9
miliardi,
avvicinandosi ormai al 10% del Pil, quando le regole
dell’Unione europea
imporrebbero di non superare il 6%. Ma, si sa, l’Europa parla
tedesco e
per Berlino non ci sono sanzioni. Questo straordinario
risultato
commerciale ha però un nome ben preciso: euro. E’ grazie alla
moneta
unica, e cioè grazie alla possibilità di avere de facto una
sorta di
marco super-svalutato che la Germania ha retto la crisi mentre
tanti
paesi dell’UE invece vi affondavano. Questa banale
osservazione ci porta
a dire due cose: la prima è che l’euro non è una moneta
neutrale, dato
che avvantaggia alcuni paesi e ne danneggia altri (e questa è
la ragione
per cui chi ne è avvantaggiato lo difende e lo difenderà a
denti
stretti); la seconda è che avere una moneta sopravvalutata è
spesso uno
svantaggio più che un vantaggio.

Breve digressione. I vantaggi dell’euro per i paesi del centro
(Germania in primis) non si riducono alla questione del
cambio. Tra di
essi vi è anche la possibilità di finanziare a tassi
bassissimi, e
spesso addirittura in territorio negativo, il proprio debito
(quello
pubblico come quello privato), ottenendo così un ulteriore
guadagno
competitivo rappresentato dallo spread che si determina grazie
alle
asimmetrie interne all’area euro. Un altro vantaggio, che in
prospettiva
potrebbe diventare ancor più importante, risiede nella
svalutazione
interna che le politiche austeritarie – necessarie a
riequilibrare la
competitività proprio perché non si può agire sui cambi –
producono in
paesi come l’Italia. Uno degli effetti di queste politiche è
la
svalutazione del valore delle aziende, come pure di quello
degli
immobili. In questo modo, tali beni sono destinati a finire
sempre più
spesso nelle mani di gruppi nord-europei grazie ai prezzi di
svendita
che si sono così determinati.

Ma torniamo alla svalutazione. Qui l’importante è comprendere
che
l’alternativa al deprezzamento valutario (svalutazione
esterna) non è la
non-svalutazione, bensì la svalutazione interna. Cos’è, in
poche
parole, la svalutazione interna? Essa consiste in una
progressiva
riduzione dei salari, delle pensioni, del welfare in generale,
ma anche
(come abbiamo già accennato) in una ugualmente progressiva
riduzione del
valore dei beni materiali. Quando, ad esempio, si protesta
contro il
crescente degrado del sistema sanitario è a questo meccanismo
che
bisognerebbe in primo luogo pensare. Idem quando, sempre ad
esempio, non
si riesce più a vendere ad ottanta una casa acquistata magari
a cento.
Ovviamente la stragrande maggioranza delle persone non si
rende conto di
tutto ciò, anche perché i media si guardano bene dal mettere
la pulce
nell’orecchio sui veri effetti dell’euro.

Ci stiamo però avvicinando al decennale dello scoppio della
crisi,
ed ormai le granitiche certezze sulla presunta bontà della
moneta unica
sono solo un ricordo del passato. Sta di fatto che mentre da
un lato
(quello di coloro che abbiamo chiamato “catastrofisti”) ci
sono solo
ipotesi, dall’altro (quello dell’osservazione concreta di
quanto
avvenuto in questi anni) vi sono i dati reali della crisi,
dell’aumento
spaventoso della disoccupazione, della precarietà di massa,
del
crescente degrado sociale, del generale impoverimento del
Paese.

Un aspetto che i media vogliono in ogni modo occultare è che
mentre
i costi di una svalutazione esterna si distribuirebbero
eventualmente
sull’intera società, quelli della svalutazione interna
colpiscono invece
in maniera particolare le fasce popolari. Ragion per cui la
classe
dominante nazionale, anche a costo di venire essa stessa
“svalutata”, ha
preferito schierarsi con l’oligarchia finanziaria europea che
è alla
testa del “partito dell’euro”.

E, a proposito di classe dominante, è interessante vedere quel
che
ha scritto di recente Riccardo Sorrentino sul Sole 24 Ore.,   [6]

dove ci ricorda come il surplus commerciale dell’Italia «in
termini
reali, ha superato i livelli pre-crisi già a fine 2014»,
concludendo
così che l’euro non è un problema per l’economia italiana.

Ora, è vero che questo recupero c’è stato, ma a quale prezzo?
Il
dato della bilancia commerciale è un saldo tra un “più” (le
esportazioni) ed un “meno” (le importazioni). Se questo saldo
ha ripreso
a salire si deve giusto all’effetto combinato dei due fattori.
Da un
lato, causa la riduzione dei consumi interni, le importazioni
sono
calate; dall’altro, solo la deflazione salariale – il brutale
abbassamento del salario reale – ha consentito alle imprese
italiane di
mantenersi relativamente competitive. Detto più chiaramente:
se i conti a
Confindustria tornano è solo grazie all’aumento dello
sfruttamento dei
lavoratori ed all’impoverimento degli italiani.

Le tabelle del Mise (Ministero per lo Sviluppo Economico)
parlano chiaro. [7] Le
importazioni sono crollate violentemente con la crisi del 2009
e poi,
in maniera più graduale, con la lunga recessione del
2012-2014. C’è un
dato che chiarisce l’entità di questa catastrofe: nel periodo
2008-2016
il valore delle importazioni è passato da 382 a 365 miliardi
di euro
(-4,5%). Ma attenzione, questo è un calo in valore che ancora
non ci
dice di quanto sono diminuite le importazioni in quantità. Un
dato che
si può in qualche modo approssimare solo tenendo conto del
tasso medio
globale dell’inflazione, operazione che ci consente di stimare
all’ingrosso una diminuzione reale attorno al 30%. Una cifra
che ci dice
di quanto si è impoverita realmente l’Italia in questo
periodo. Senza
svalutazioni monetarie, certo. Ma probabilmente anche a causa
di ciò.

Più in generale, volendo ora chiudere sul tema, che le
svalutazioni non siano il dramma che si dice ci è dimostrato
da diverse
esperienze. Ad esempio la svalutazione della lira sul dollaro
degli anni
’70-80 del secolo scorso (dal 1974 al 1985 la lira si svalutò
di oltre
il 200% sulla moneta americana) non impedì all’economia
italiana di
continuare a crescere. Altro esempio l’Argentina, dopo
l’abbandono del
cambio fisso tra il peso e il dollaro avvenuto nel 2002. E’
vero che nel
primo anno di questo divorzio il Pil del paese latino-
americano calò
del 14,7%, ma nei cinque anni successivi la crescita cumulata
fu del
51,6%, un’enormità.

2. L’Italexit e l’inflazione

Normalmente, chi usa in maniera terroristica la parola
“svalutazione” dice o comunque sottintende inflazione. Ora,
premesso che
l’attuale problema dell’economia europea si chiama semmai
deflazione,
che dell’inflazione è l’esatto opposto, qual è l’effettivo
rapporto tra
questi fenomeni? In che misura la svalutazione produce
inflazione?
Da sempre siamo stati abituati a pensare ad un rapporto
meccanico,
per cui se la svalutazione è 10 anche l’inflazione si
avvicinerà a quel
valore. In realtà le cose sono molto, ma molto più complesse.
Intanto il
valore della moneta è soltanto uno dei molteplici elementi che
determinano il tasso di inflazione. In secondo luogo, diversi
sono i
fattori di aggiustamento che tendono a smussare gli effetti
inflazionistici della svalutazione. In terzo luogo –
scusandoci per
l’insistenza sul punto – non è detto (anzi!) che svalutare sul
“nuovo
marco” equivalga a svalutare sul dollaro e sulle altre monete.

Sono cose che chi scrive su giornali di rilevanza nazionale
non può
non sapere. Ma per molti l’equazione percentuale di
svalutazione uguale
tasso di inflazione è troppo comoda per potervi rinunciare. La
cosa è
però così grossolana che alcuni hanno almeno il pudore di
stabilire un
rapporto un po’ più basso. Il già citato Lunghini fa così
corrispondere
ad una (impensabile) svalutazione del 50% un’inflazione del
20%. Ma
poiché quest’ultima potrebbe sembrare troppo bassa, egli ha la
premura
di dirci che quel 20% sarebbe solo una media annua per un
periodo non
breve dopo la svalutazione.

Su cosa si basa tanta sicumera? Non lo sappiamo, ma è chiaro
come
questo sia uno di quei casi in cui l’ideologia (ovvero
l’adesione al
dogma della bontà dell’euro a prescindere) prevale sulla
realtà, cioè
sull’osservazione empirica dei casi concreti che pure la
storia recente
ci consente di esaminare.

Ne prendiamo in esame due. Il primo è quello della famosa
svalutazione della lira del settembre 1992. Rispetto al marco
tedesco
quella svalutazione finì per attestarsi proprio sul temuto 30%
di cui si
continua a parlare oggi. Bene, quale fu l’effetto inflattivo
di quella
svalutazione? L’inflazione media del triennio successivo
(1993-1995) fu
del 4,6%. Oggi può sembrare molto, ma quella del triennio
precedente a
tassi fissi (1990-1992) era stata del 5,9%! Come si vede la
realtà è a
volte un po’ diversa da come ce la raccontano.

E il confronto con la Germania? Uno si aspetterebbe
l’esplosione
del differenziale di inflazione dopo il 1992. E invece quel
differenziale, che era pari al 2,7% nel triennio 1990-1992
(quello
precedente la svalutazione), scende sorprendentemente all’1,6%
nel
triennio post-svalutazione (1993-1995) nel quale la lira
arriva a
deprezzarsi fino al 50% sul marco (esattamente il picco che
Lunghini
ipotizza oggi con l’uscita dall’euro), per poi scendere
all’1,2% nel
triennio successivo (1996-1998) quando la lira prende a
rivalutarsi.
Questa è la verità sulla svalutazione del 1992. E la cosa fu
talmente
chiara fin da subito che già un anno dopo perfino Mario Monti
dovette
fare autocritica: «Un punto dove certamente ho visto male
riguarda le
conseguenze inflazionistiche… perché per ora non ci sono stati
effetti».   [8]

A questo caso, piuttosto studiato, se ne aggiunge un altro sul
quale non è necessario rifarsi a studi particolari dato che
concerne
l’esperienza diretta degli ultimi anni. Dal maggio 2014 al
gennaio 2017
il rapporto euro-dollaro è sceso da 1,39 a 1,03. Dunque la
svalutazione
dell’euro è stata pari al 25,8%. A qualcuno risulta che in
questo
periodo in Italia, ma dovremmo dire in Europa, sia esplosa
l’inflazione?
Per la verità le cronache continuano ancora a parlarci della
necessità
di debellare la deflazione. Eppure il dollaro è la moneta con
la quale
si acquistano le materie prime.

Con quale onestà intellettuale, nella situazione data, si
possa
continuare a disegnare scenari catastrofici dovuti all’elevata
inflazione che seguirebbe alla svalutazione lo giudichino i
lettori.
Eppure è proprio lì che si continua a battere. E tra i temi
che vengono
agitati, dagli autori citati come da altri, ve ne sono due in
particolare: quello dei mutui e quello del prezzo dei
carburanti. Due
questioni sulle quali rimandiamo a quanto scritto già tre anni
fa:

 «Per chi ha dei mutui da pagare la situazione non potrebbe
 che
 migliorare. I mutui verrebbero anch’essi ridenominati nella
nuova moneta
e dunque, in caso di svalutazione, si svaluterebbero
anch’essi; mentre
l’eventuale inflazione aggiuntiva ridurrebbe di fatto il
valore reale
delle rate dei mutui a tasso fisso. Diverso è il problema del
prezzo dei
carburanti, che indubbiamente esiste ma non nei termini che
comunemente
ci si immagina. Se prendiamo, ad esempio, il caso della
benzina,
bisogna considerare che il costo della materia prima (il
petrolio) – che
è l’unico che risentirebbe della svalutazione, dato che i
pagamenti
vengono effettuati in dollari – incide solo per il 25% sul
prezzo alla
pompa. Il 57% sono tasse (accise e Iva), mentre il restante
18% include i
costi di trasporto e raffinazione, nonché il margine lordo
delle
aziende distributrici. Se proprio vogliamo fare i conti, ne
risulta che
un’ipotetica svalutazione sul dollaro del 15% produrrebbe un
aumento del
costo alla pompa del 3,75%. Come si vede, siamo a percentuali
ben più
basse di quel che normalmente si pensa, che potrebbero
comunque essere
tranquillamente azzerate con una parallela riduzione del
carico fiscale.
Che è poi quel che fanno normalmente gli stati, quando non
sono con il
cappio al collo come quelli dell’area mediterranea
dell’Eurozona, per
assorbire le oscillazioni continue del prezzo del greggio sui
mercati
internazionali».   Dal   «Vademecum: perché il nostro paese deve uscire
 dall’euro? Come può riprendersi la sua sovranità» [9]

In conclusione, l’eventuale effetto inflattivo della
svalutazione
conseguente all’uscita dall’euro si presenta come
assolutamente
gestibile.

3. L’Italexit e la fuga dei capitali

C’è o no il rischio che l’attesa della rottura dell’eurozona
porti
ad una consistente fuga di capitali dall’Italia? In realtà più
che di un
rischio si tratta di una certezza. Anzi, questa fuga è già in
atto,
come ci mostrano anche i saldi Target2. Essa finirà, non
sembri un
paradosso, proprio con l’uscita dall’euro. La fuga di capitali
è infatti
tipica di ogni situazione di incertezza che precede una
modifica
sostanziale dei rapporti di cambio. Precede, non segue, questo
è il
punto. Con la fuga si cerca infatti di anticipare questo
evento, mentre a
cose fatte (nel nostro caso la rottura dell’eurozona o
comunque
l’Italexit) la fuga non avrebbe più alcun senso, anzi sarebbe
piuttosto
pericolosa per i detentori di capitali. Se si vuole impedire
(o
quantomeno limitare) la fuga dei capitali la regola di sempre
è dunque
quella di agire con la massima rapidità.
Quel che è importante sottolineare è che il fenomeno
denominato
“fuga di capitali” non è legato in maniera specifica
all’uscita dalla
moneta unica, bensì – più in generale – a quel che ci si
attende in
termini di svalutazione. La fuga avverrebbe dunque anche a
fronte
dell’attesa di una forte svalutazione dell’euro verso il
dollaro. E’
sempre stato così, e non si vede proprio perché se ne parli in
termini
catastrofisti solo riguardo all’Italexit. Tra l’altro, con i
loro
argomenti, i catastrofisti di ogni risma che si esercitano sul
punto, in
quanto sostenitori di un’aspettativa di svalutazione alta
quanto
irrealistica, sono in realtà i principali alimentatori di
quella fuga
che pure dicono di temere come la peste. Piccole
contraddizioni che è
difficile non notare.

Ma perché proprio l’Italexit fermerebbe invece la fuga in
corso? E’
presto detto. Chi esporta capitali – o aprendo conti
all’estero od
acquistando titoli in altra valuta – lo fa per aggirare la
ridenominazione dei propri capitali da euro a lira con un
rapporto 1:1.
Una volta che la ridenominazione sarà avvenuta si
determineranno i nuovi
rapporti di cambio; prima in maniera più convulsa, poi
arrivando ad una
maggiore stabilità. Parallelamente andranno a determinarsi i
nuovi
tassi di interesse sui mercati finanziari e dunque i nuovi
spread. A
quel punto – e solo a quel punto – i capitali usciti
rientreranno,
perché lo scopo della fuga non è quello di tenere i propri
soldi a
Berlino, bensì quello di speculare sulle variazioni del
cambio.
Naturalmente, non è questo un giochino senza rischi. Ad
esempio, se le
cose dovessero andare come prevede il già citato OFCE, chi
avesse deciso
di comprare oggi titoli francesi (con un tasso di rendimento
di un
punto e mezzo inferiore rispetto ai corrispettivi italiani)
rischierebbe
un bel salasso. Rischierebbe meno chi avesse comprato dei Bund
tedeschi, ma non è un caso che questi ultimi abbiano tassi
negativi che
risulterebbero piuttosto pesanti nel tempo.

Insomma, ecco un altro apparente paradosso, saranno proprio
gli
stessi meccanismi dei mercati finanziari a far rientrare i
capitali
usciti verso l’Italia. Rientro che, a quel punto, contribuirà
ad un
certo apprezzamento della lira. Questo significa che non
esista il
problema di un controllo sul movimento dei capitali?
Assolutamente no.
Un controllo contro la speculazione andrebbe esercitato
sempre, anche al
di fuori delle situazioni di emergenza, ma a maggior ragione
dovrà
esservi nel momento dell’Italexit. Momento che andrà gestito
con la
massima determinazione e rapidità.
Naturalmente i catastrofisti ci diranno che simili controlli
sono
vietati, che comunque si rivelerebbero inefficaci, per non
parlare del
panico che così si determinerebbe. Eppure si tratterebbe
soltanto di
fare – non necessariamente nelle stesse forme, s’intende –
quel che due
paesi dell’eurozona hanno già fatto e – ancora più importante
– l’Unione
europea gli ha imposto di fare. Oltre al più noto caso greco
del 2015,
ci riferiamo alla crisi di Cipro del 2013, quando vennero
adottate le
seguenti misure:

  «Un limite massimo di 5mila euro al mese per le transazioni
  all’estero mediante carta di credito. Un tetto di 3mila euro
  in contanti
  – per ogni viaggio – a chi intende uscire dal Paese. Divieto
  di
  riscuotere assegni. Prelievo dai bancomat non superiore ai
  300 euro
  giornalieri. Limiti molti severi a chi vuole trasferire
  denaro
  all’estero. E un’autorizzazione ad hoc, dietro esibizione di
  documenti
  giustificativi – formula che ha il sapore di una pericolosa
  discrezionalità – per i pagamenti delle imprese che importano
  beni e
  prodotti».

Così scriveva Marco Onado sul Sole 24 Ore del 28 marzo 2013.
[10]
Dunque i controlli sono possibili, eccome. Che l’ortodossia
liberista lo neghi non stupisce. Ma non si vede proprio perché
quel che è
stato già fatto in nome degli interessi delle banche e della
moneta
unica, non possa esser fatto a difesa degli interessi
dell’economia
nazionale.
4. L’Italexit e la ridenominazione del debito

Arriviamo ora al tema della ridenominazione del debito.
Inutile
dire quel pensano in proposito i nostri catastrofisti: il caos
generalizzato nel migliore dei casi, un terribile aumento del
valore del
debito verso l’estero in quello che loro reputano ovviamente
lo
scenario più probabile. Per accertare l’attendibilità di tutto
ciò è bene partire innanzitutto da un principio generale,
quello della cosiddetta Lex Monetae,
che stabilisce che uno stato sovrano ha il potere di
determinare il
tasso di conversione tra la precedente e la successiva moneta
avente
corso legale. [11] Anche
su questa materia i catastrofisti si sono lungamente
esercitati per
spaventare i debitori, ad esempio le persone che hanno da
pagare un
mutuo in euro, e che ne vedrebbero aumentare il valore in
conseguenza
della svalutazione della nuova lira. E’ un problema che
semplicemente
non esiste.
Il nostro Codice Civile [12] così traduce il principio della Lex
Monetae:

 «Art.
 1277. Debito di somma di denaro: I debiti pecuniari si
 estinguono con
 moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento
e per il
 suo valore nominale. Se la somma dovuta era determinata in
 una moneta
 che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo
 deve farsi in
 moneta legale ragguagliata per valore alla prima».

Dunque,
nel caso di un’esplosione dell’intera eurozona – visto che a
quel punto
l’euro semplicemente non ci sarebbe più – non esisterebbe
alcun
problema né per i debiti interni né per quelli esteri.
Se, invece, l’euro continuasse ad aver corso legale in altri
paesi,
ma non in Italia, si applicherebbe l’art 1278 del Codice
Civile:
  «Art.
  1278. Debito di somma di monete non aventi corso legale: Se
  la somma
  dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale
  nello Stato,
  il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso
  del cambio
  nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il
  pagamento».

Anche
in questo caso il pagamento avverrebbe in lire, ma poiché
farebbe
riferimento «al corso del cambio nel giorno della scadenza» il
debitore
potrebbe trovarsi a dover pagare con una lira svalutata. Per
ovviare a
questo problema basterà però applicare l’art. 1281:
  «Art.
  1281. Leggi speciali: Le norme che precedono si osservano in
  quanto non
siano in contrasto con i principi derivanti da leggi
 speciali. Sono
 salve le disposizioni particolari concernenti i pagamenti da
 farsi fuori
 del territorio dello Stato». E’ chiaro – e difatti sul punto
 i
 catastrofisti hanno ormai abbassato la cresta – che qualsiasi
 governo
 che si troverà a gestire l’Italexit non potrà che intervenire
 con una
 legge speciale sulla questione, così come affermato da tempo
 da Alberto
 Bagnai: «Lo Stato ovviamente dovrà, nel decreto di uscita,
 prevedere una
 deroga all’art. 1278 stabilendo che i rapporti di debito e di
 credito
 in euro disciplinati dal Codice Civile saranno regolati in
 nuove lire al
 cambio previsto alla data del changeover (cioè uno a uno), e
 non a
 quella della scadenza del pagamento (che incorporerebbe la
 svalutazione)».   [13]

Sul tema dell’applicazione della Lex Monetae è
intervenuto di recente l’economista francese Jacques Sapir.
Anche in
Francia non manca infatti chi, a partire dall’ex presidente
Nicolas
Sarkozy, mostra di non credere a questo principio. Sapir
dimostra invece
come la Lex Monetae sia riconosciuta esplicitamente dallo
stesso
diritto dell’UE. Nel regolamento relativo all’introduzione
dell’euro (CE
n° 1103/97) così si legge:

  «Considerando
che l’introduzione dell’euro costituisce una modifica della
 legge
 monetaria di ciascuno Stato membro partecipante; che il
 riconoscimento
 della legge monetaria di uno Stato è un principio
 universalmente
 accettato; che la conferma esplicita del principio di
 continuità deve
 portare al riconoscimento della continuità dei contratti e
 degli altri
 strumenti giuridici nell’ordinamento giuridico dei paesi
 terzi». In
 altre parole, commenta Sapir: «Se il governo francese decide
 di
 ritornare al franco ad un tasso di conversione di 1 a 1 con
 l’euro, ha
 il diritto di farlo per quanto riguarda tutti gli strumenti
 giuridici e i
 contratti emessi all’interno dell’ordinamento giuridico
 francese».   [14]

Bene, si dirà, ma cosa succede invece con il debito estero?
Qui i
catastrofisti davvero non hanno freni. Secondo costoro con
l’Italexit il
debito pubblico aumenterebbe a dismisura, dato che – a loro
avviso – la
quota detenuta da soggetti esteri andrebbe restituita in euro.
Non
solo, ancora più grave sarebbe il problema del debito privato
verso
l’estero, sul quale evitano non a caso di citare le cifre
reali.
Esaminiamo dunque separatamente questi due aspetti – pubblico
e privato –
di una questione che scopriremo essere assai meno preoccupante
di come
si vorrebbe far credere.

La quota estera del debito pubblico italiano è superiore agli
800
miliardi di euro. Ormai nessuno mette però in discussione il
diritto
dello Stato (Lex Monetae) di ripagare in nuove lire il debito
emesso sotto la propria legislazione. Si cerca allora di
spostare
l’attenzione su due altri aspetti: 1) la quota di debito
estero emessa
sotto altre legislazioni, 2) l’effetto delle cosiddette
“clausole CAC”
introdotte dal governo Monti nel dicembre 2012. Sul primo
punto la
propaganda tesa a spaventare sugli effetti dell’Italexit è
facilmente
smontabile, dato che la quota di titoli del debito emessi
sotto
legislazione straniera è pari a soli 48 miliardi (un misero
2,5% del
totale). Sul secondo punto, quello delle “clausole di azione
collettiva”
(CAC), che riguardano all’incirca la metà dei titoli in
circolazione,
esistono diversi pareri, ma sta di fatto che le CAC sono state
concepite
come strumento di tutela dello Stato non degli investitori.
Questi
ultimi avrebbero sì la possibilità teorica di opporsi alla
ridenominazione (basterebbe una minoranza da un quarto ad un
terzo dei
creditori), ma l’esperienza insegna (vedi il caso greco) come
nei casi
di ristrutturazione del debito – e la ridenominazione nei
fatti lo è – i
grandi creditori preferiscono sempre accettare quel che gli
viene
proposto piuttosto che rischiare di perdere tutto con un più
pesante
default. Lo Stato – e questo è un punto davvero decisivo –
uscirebbe
dunque dall’Italexit con un debito pubblico ridotto, non
aumentato come
invece si vorrebbe far credere.

Passiamo ora al debito privato verso l’estero. Secondo i dati
riportati in un articolo di Enrico Grazzini [15] questo
debito semplicemente non esiste. O meglio, esistono dei
singoli
debitori come dei singoli creditori, ma la somma di queste
posizioni
finanziarie verso l’estero dà un saldo attivo di 580 miliardi
di euro.
Ne consegue che l’insieme di questi soggetti trarrebbe un
beneficio
anziché un danno dall’Italexit e dalla svalutazione della
nuova lira. E
forse un beneficio ci sarebbe per la stessa economia italiana
nel suo
insieme, perché almeno una parte di questi capitali avrebbe
buoni motivi
per rientrare in Italia dopo la stabilizzazione dei cambi.

Naturalmente, un saldo positivo non esclude singole posizioni
negative che potrebbero mettere in sofferenza qualche azienda,
e
principalmente qualche banca. Ma anche questo aspetto – sul
quale lo
Stato potrebbe intervenire di volta in volta (non scordiamoci
che al
momento dell’Italexit molte saranno le cose oggetto di
trattativa), va
visto in un contesto che è invece complessivamente positivo.
Tutto
questo senza dimenticarci che in questi casi è pressoché
inevitabile che
vi siano soggetti che riescono a guadagnare (come gli
investitori
sull’estero di cui sopra), come altri destinati a rimetterci.
Per cui ha
poco da lamentarsi il già citato Fontana quando ci ricorda
(peraltro
con cifre inattendibili) il problema delle aziende italiane
che hanno
emesso bond sotto legislazione straniera. Queste aziende lo
hanno fatto
per spuntare tassi più bassi, una maniera per scommettere al
gran casinò
dei mercati finanziari. Non sempre queste scommesse – al pari
di quelle
sulle valute – vanno a buon fine. Ma si tratta di aziende
private che
si assumono coscientemente certi rischi ogni giorno, ed è
assurdo che se
ne parli solo a proposito di quelli connessi con l’uscita
dall’euro.

5. Un Italia troppo “piccola”?

Veniamo ora ad un argomento più generale, che concerne sempre
la
sfera economica pur travalicandola. E’ la tesi secondo cui
l’Italia – e
più precisamente l’economia italiana – sarebbe comunque troppo
piccola
per affrontare la sfida dell’Italexit. A questa tesi se ne
affianca
un’altra, quella secondo cui l’Italia si troverebbe
politicamente più
“sola”.
Ora, a parte il fatto che pensando all’UE a dominanza tedesca
non
può non venirci in mente il detto “meglio soli che male
accompagnati”,
perché questa preoccupazione? Uscendo dall’euro l’Italia mica
dichiarerebbe guerra a qualcuno, semplicemente (cosa che oggi
non fa)
difenderebbe i propri legittimi interessi. Certo che ci
sarebbero anche
turbolenze politiche – sarebbe assurdo sostenere il contrario
-, ma alla
fine gli attuali partner economici non avrebbero molto
interesse a
farci una guerra prolungata. Le sanzioni, poi, sono un’arma a
doppio
taglio. In ogni caso il mondo è grande, e quello al di fuori
dei confini
dell’UE è in espansione.

In realtà la tesi di un’Italia “troppo piccola” non fa neppure
i
conti con le conseguenze della crisi della globalizzazione.
Naturalmente, ed è normale che sia così, in materia esistono
diverse
opinioni, ma è difficile negare l’evidenza dell’accrescersi
delle misure
protezionistiche in tutto il mondo, così come quella della
tendenza
alla riduzione della quota del commercio estero sul Pil
mondiale. E’
giusto, tuttavia, prendere questo argomento sul serio.

Intanto bisogna rilevare che quella italiana rimane pur sempre
una
delle più importanti economie del mondo. E se oggi lo è un po’
meno del
passato lo si deve anche (certo, non esclusivamente) all’euro.
Ed è
un’economia che comprende un’industria manifatturiera che,
nonostante
gli effetti micidiali della crisi, in Europa resta seconda
solo alla
Germania. Ora, è pacifico che uno scioglimento concordato
dell’eurozona
sarebbe preferibile ad un’uscita unilaterale. Peccato che il
primo
scenario sia poco probabile. Ed è altresì pacifico che meglio
sarebbe
affrontare il dopo-Italexit in stretta alleanza con altri
paesi. Ma non
si può mettere il carro davanti ai buoi, dato che la
costruzione di
nuove alleanze e/o di nuove aree macro-economiche (non però di
nuove
aree valutarie) dipende dalle scelte politiche dei vari paesi.
Scelte
che deriveranno da tanti fattori e che di sicuro non possiamo
disegnare
oggi a tavolino.

Lo scenario da considerarsi come quello di gran lunga più
probabile
è dunque l’Italexit, e questo ci riporta appunto al tema delle
“dimensioni” dell’Italia. In proposito l’opinione di chi
scrive è molto
semplice: riguardo alla scelta di tornare alla moneta
nazionale più che
le dimensioni contano i fondamentali dell’economia. Ma se
questi ultimi
sono messi in discussione proprio dall’appartenenza alla
moneta unica è
chiaro che la decisione è di fatto obbligata.

Se sulla questione delle “dimensioni” le opinioni sono le più
disparate, l’unico modo di orientarci è quello di guardarci
attorno. Di
esaminare cioè la realtà. Limitandoci all’Europa si possono
osservare
diversi paesi membri dell’UE che, pur avendone i requisiti, si
guardano
bene dall’entrare nell’euro. E’ questo il caso della Polonia,
ma ancora
più significativo è quanto accaduto di recente con la
decisione della
Repubblica Ceca di sganciare la propria valuta nazionale – la
corona –
dall’euro. L’aggancio, in vigore da tre anni, avrebbe dovuto
essere il
primo passo verso un futuro ingresso nell’eurozona. Adesso il
passo c’è
stato, ma nella direzione opposta di quella sperata dai
partigiani della
moneta unica. [16]
Da notare che subito dopo lo sganciamento la corona si è
rivalutata
rispetto all’euro. Eppure la Repubblica Ceca ha un sesto della
popolazione ed un ottavo del Pil dell’Italia. Non solo. Pare
che nella
stessa direzione di Praga – quella dello sganciamento – voglia
muoversi
l’ancor più piccola Danimarca, la cui moneta è legata da
sempre
all’euro.

Rimanendo ancora in Europa, ma uscendo dall’UE, come non
considerare i casi di due piccoli paesi come la Svizzera e la
Norvegia?
Da sempre, i sostenitori della tesi avversa ci fanno notare
che questi
potrebbero essere solo dei casi particolari. Ma il fatto che
questi
“casi particolari” stiano però aumentando vorrà pur dire
qualcosa. Come
qualcosa di ancora più importante ci dice la banale
osservazione –
questa francamente inconfutabile – di come (indipendentemente
dalle
dimensioni) tutti i paesi europei non-euro abbiano retto molto
meglio
alla crisi rispetto a quelli con la moneta unica.

Ma il tema delle “dimensioni” non può essere ovviamente solo
europeo. Prendiamo il caso di un paese simile all’Italia (in
termini di
popolazione e di Pil), anche se più piccolo: la Corea del Sud.
Questo
paese fa forse parte di una qualche unione monetaria?
Ovviamente no. Ma
con la sua moneta nazionale (lo won) continua a tenere ritmi
di crescita
annua superiori al 3%. Tuttavia la Corea del Sud non è
un’eccezione,
bensì la regola, dato che nel mondo non ci sono altri “euri”
in vista. E
questo è un punto dirimente. Infatti, se la spinta alla
creazione di
macro-aree monetarie vi fosse davvero, nei cinque continenti
dovremmo
assistere ad un pullulare di iniziative in tal senso. Ma così
non è. In
nessun angolo del pianeta, dalla lontana Oceania all’arretrata
Africa,
dalla tumultuosa Asia alla speranzosa America Latina, nulla si
muove in
quella direzione. L’euro, a vent’anni dalla sua nascita, non
ha nessun
fratello con cui giocare. Ci sarà pure una ragione.

Evidentemente le dimensioni contano quando si parla di
un’azienda, o
di una filiera produttiva. Diverso è il discorso quando si
tratta
dell’economia di un paese e della sua moneta.

Brevi conclusioni

Questo articolo non ha certo lo scopo di negare i problemi
dell’Italexit. Questi problemi ci sono, e sarebbe assurdo
affermare il
contrario. Ma si tratta comunque di problemi gestibili.
Insomma,
dall'”Hotel California” dell’euro si può uscire, eccome. Del
resto,
l’alternativa sarebbe solo quella dell’incancrenimento della
crisi, con i
suoi terribili aspetti sociali che conosciamo. Il problema che
si pone è
semmai un altro: quale sarà la gestione del passaggio
dall’euro alla
nuova lira? La risposta a questa domanda dipende dal governo
che – ci
auguriamo quanto prima – si troverà ad affrontare
concretamente la
questione. Chi scrive crede in un governo popolare
d’emergenza, frutto
di una larga alleanza di tipo costituzionale (una sorta di
Cln), che
prenda in mano le redini dell’Italia in questo decisivo
frangente.
E’ importante che questo governo abbia a cuore il futuro del
Paese,
e in particolare gli interessi e i bisogni delle classi
popolari. Anche
per questo l’uscita dalla moneta unica dovrà essere
accompagnata da un
programma di misure urgenti (dalla nazionalizzazione del
sistema
bancario ad un piano per il lavoro) che rappresentino una
decisiva
svolta rispetto ai disastri prodotti dal sistema neoliberista.
Sistema
che i meccanismi dell’euro vorrebbero rendere eterno.
* Questo saggio venne originariamente pubblicato sulla rivista
IL PONTE nel numero di maggio-giugno 2017.

NOTE

(1) https://ilmanifesto.it/le-conseguenze-di-unuscita-dalleuro/

(2)

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/06/euro-draghi-la-mone
ta-unica-e-irrevocabile-la-questione-delluscita-non-e-
contemplata-dal-trattato/3371615/

(3) http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/06-03-2017/index.shtml

(4) http://www.ofce.sciences-po.fr/pdf/dtravail/WP2016-31.pdf

(5)http://www.repubblica.it/economia/2017/02/09/news/germania_bilancia_commerciale_al_top

_e_nel_2016_l_export_vola_a_1207_miliardi-157902113/

(6)

http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/mondo/2017-02-27/cinque-luoghi-comuni-n

o-euro-sfatare-112318.shtml?uuid=AEwoNIe

(7)http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/commercio_internazionale/osservator

io_commercio_internazionale/statistiche_import_export/interscambio.pdf
(8) La Repubblica del 12 settembre 1993

(9) «Vademecum: perché il nostro paese deve uscire dall’euro? Come può riprendersi la sua

sovranità», a cura del Coordinamento nazionale Sinistra contro l’euro.

(10) https://www.pressreader.com/italy/il-sole-24-ore/20130328/281560878248490

(11) https://it.wikipedia.org/wiki/Lex_monetae

(12) http://www.altalex.com/documents/news/2015/01/08/delle-obbligazioni-in-generale

(13) http://goofynomics.blogspot.it/2012/09/a-rata-der-mutuo.html

(14) http://vocidallestero.it/2017/03/23/sapir-lex-monetae-e-diritto-europeo/

(15)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/tutti-i-conti-delli
talexit-nessuna-catastrofe-se-litalia-uscisse-
dalleuro/#_ftnref9

(16) https://www.sollevazione.it/2017/04/czexit-la-repubblica-ceca-si-sgancia.html
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