LA VIA DELL'ITALEXIT di Leonardo Mazzei - sollevazione
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LA VIA DELL’ITALEXIT di Leonardo Mazzei Alcuni lettori, per niente convinti dell’ITALEXIT, ovvero dell’uscita dall’euro, hanno mosso delle obiezioni alle tesi di MPL-P101 pubblicate giorni addietro. “L’Italia è troppo piccola per reggere l’urto della reazione dei mercati”, “col debito che abbiamo ci strangolerebbero”, “i capitali fuggirebbero a gambe levate”, “avremmo inflazione e… svalutazione”. Volentieri entriamo nel dettaglio con questo articolo. Quelli che… ormai è troppo tardi Che l’euro sia un grave problema per l’economia italiana viene ormai riconosciuto con sempre maggior frequenza. Ma mentre la platea degli ultras della moneta unica si va pian piano svuotando, viene invece a riempiersi quella di chi, pur ammettendo i danni prodotti, sa solo concludere che ormai è troppo tardi per uscirne.
Insomma, se fino a qualche tempo fa si doveva assolutamente restare nell’eurozona per i presunti benefici di questa collocazione – moneta “forte”, aggancio a sistemi produttivi considerati più avanzati, tutela del risparmio, eccetera – oggi si tende ad evidenziare i problemi connessi all’uscita. Segno dei tempi, senza dubbio, ma anche della manifesta impossibilità di continuare a sostenere la bontà di una scelta che ha fatto sprofondare l’Italia nella crisi più grave degli ultimi ottant’anni. Certo, la recessione scoppiata nel 2008 ha avuto una dimensione non solo europea, ma il fatto che si sia rivelata più profonda e prolungata proprio nell’Unione, ed ancor più nell’eurozona, qualcosa dovrà pur dirci. Tanto più che tra i benefici dell’euro doveva esserci pure quello di attenuare i cosiddetti shock esterni. E’ avvenuto invece il contrario, come dimostrato da tutti gli indicatori economici: da un lato l’Unione Europea è l’area dove la crisi ha picchiato più duro, dall’altro l’euro ha aumentato le asimmetrie tra le varie economie nazionali che la compongono. Detto in altri termini, la moneta unica ha innescato un meccanismo di redistribuzione della ricchezza al contrario, avvantaggiando i paesi più ricchi (Germania in primis) a danno di
quelli considerati “periferici”. Tra questi l’Italia. Naturalmente, il nostro Paese non è l’unico ad essere profondamente danneggiato dall’euro, basti pensare al drammatico caso della Grecia. Né le negative conseguenze della moneta unica sono solo di tipo economico, dato che il vincolo esterno così prodotto colpisce a morte la stessa democrazia parlamentare. Diversi sono dunque i motivi per tornare alla moneta nazionale: dalla riconquista della sovranità democratica, al recupero del controllo dello strumento monetario come mezzo decisivo per realizzare una politica economica volta ad uscire dalla crisi ed a contrastare la disoccupazione. Chi scrive non ha dunque dubbi sulla necessità di uscire dall’euro e dalla stessa UE, ben sapendo al tempo stesso che per ottenere una vera svolta l’uscita è sì necessaria ma da sola non sufficiente. Ma una necessità di questa portata è senz’altro una priorità assoluta. Anche perché, senza uscita dalla gabbia dell’euro, ogni ipotesi di vera ripresa (e dunque di lotta alla disoccupazione) non si regge in piedi. Il decennio alle nostre spalle è lì a dimostrarlo. Colpisce come di fronte al disastro economico di questi anni i
difensori della moneta unica si stiano ora asserragliando dietro ad una campagna terroristica, ricca di argomenti irrazionali come di affermazioni assolutamente false. E’ di questo che vogliamo occuparci in questo articolo, dedicato in primo luogo a quanti, pur variamente collocati, ci propongono grosso modo un solo ragionamento: sì, è vero, l’euro crea problemi, aderirvi è stato forse un errore, ma ormai è troppo tardi, visto che uscirne adesso sarebbe una catastrofe. Un esempio di questo modo assurdo di affrontare le cose è condensato in questa frase, che chiude un articolo di Giorgio Lunghini sul Manifesto del 23 settembre 2016: «In breve, l’Unione Economica e Monetaria europea è come l'”Hotel California” nella canzone degli Eagles: forse sarebbe stato meglio non entrare, ma una volta dentro è impossibile uscire». [1] Il fatto è che una vera e propria catastrofe economica e sociale è già in atto da anni. Dal 2008 l’Italia ha perso 9 punti di Pil ed il 25% della produzione industriale, mentre la disoccupazione è andata alle stelle, con quella giovanile oltre il 40%. Ecco, prima di annunciare le catastrofi del futuro (dovute all’uscita dalla moneta unica, che d’ora in poi chiameremo per comodità Italexit), bisognerebbe
confrontarsi con quelle del presente, anche perché rimanendo nell’euro l’unico futuro che possiamo immaginare è, nella migliore delle ipotesi, quello di una prolungata e micidiale stagnazione. Micidiale in particolar modo sul piano sociale, per i suoi effetti di impoverimento generale, di precarizzazione senza sbocchi per i giovani, di marginalizzazione crescente di intere categorie (come i pensionati), di regresso complessivo nei campi della scuola e della sanità. Ma uscire “non sarà una passeggiata”, così ci ammoniscono i difensori dello status quo. Grazie, ma lo sapevamo già. Il fatto è che ormai sono rimasti in pochi a poter passeggiare liberi dalle preoccupazioni per il domani. Il raffronto non va dunque fatto tra i problemi connessi all’Italexit ed una (inesistente) situazione altrimenti positiva. L’unico raffronto serio che possiamo e dobbiamo fare è tra quei problemi e l’insostenibilità della situazione attuale. D’altronde, se si ammette che l’euro è un problema, perché non mettere al centro la riflessione su come venirne fuori? Certo, alcuni insistono sulla strada della “riforma”: riforma dell’UE, dei trattati, della stessa Bce. Peccato si tratti di riforme impossibili, dato che l’Unione Europea non è nata per la costruzione di un’Europa solidale,
bensì per dare forma ad un’area in cui i demoni del neoliberismo potessero dispiegarsi senza ostacoli. Che è poi quello che è realmente avvenuto. Ma la sentenza definitiva sull’irriformabilità dell’UE (e dunque dell’euro) ce l’hanno fornita i fatti, a partire dallo strozzamento finanziario applicato alla Grecia nel 2015. Ma poi, per quale motivo una moneta dovrebbe essere “irreversibile” (come ogni tanto afferma Draghi) [2] e dunque eterna? Curioso, ma rivelatore, questo pittoresco atteggiamento antistorico: più una nuova credenza religiosa in tempi di profonda secolarizzazione, che un argomento razionale da discutersi con gli strumenti della ragione. Ed è forse proprio per la natura dogmatica di questa posizione che i problemi reali dell’Italexit vengono sempre posti in maniera distorta ed oltremodo esagerata. In proposito potremmo citare un vasto campionario di svarioni e di vere e proprie stupidaggini. Qui ci limiteremo ad affrontare i cinque temi che più insistentemente vengono lanciati nella campagna terroristica che vorrebbe convincerci che proprio non possiamo farci niente, che non ci sono alternative alla gabbia dell’euro, che il TINA (There is no alternative) della signora Tatcher l’avrà vinta ancora una volta.
I cinque temi in questione sono i seguenti: 1) la svalutazione, 2) l’inflazione, 3) la fuga dei capitali, 4) la ridenominazione del debito, 5) il presunto isolamento dell’Italia e le sue dimensioni ritenute troppo piccole per ritornare alla sovranità monetaria. Sono cinque temi da sempre branditi dalla propaganda filo- euro, quelli che dovrebbero chiudere il discorso rispetto ad ogni prospettiva di uscita. Viceversa, cercheremo di dimostrare non solo le falsità di quella propaganda, ma pure la gestibilità di un passaggio certo difficile, ma comunque affrontabile oltreché inevitabile, come quello dell’Italexit. Agli argomenti di un terrorismo da quattro soldi che ormai convince sempre meno, come si è visto nel caso della Brexit, tenteremo di contrapporre un ragionamento che, senza negare i problemi, cercherà di ricondurli alla loro effettiva consistenza. 1. L’Italexit e la svalutazione Partiamo dal tema della svalutazione, quello maggiormente usato per incutere terrore. Eppure le svalutazioni, come pure le rivalutazioni, sono fatti economici che avvengono di continuo senza che ciò determini alcuna catastrofe. Anzi, il più delle volte la maggioranza delle persone
neppure si accorge di queste variazioni nei cambi. Ovviamente è tutta una questione quantitativa, perché una svalutazione del 10% non produce le conseguenze di una del 50%. Dunque, gli effetti – sia quelli positivi che quelli negativi – andrebbero valutati in base all’entità della svalutazione attesa. Ma questo vorrebbe dire ragionare, che è l’esatto opposto della volontà di spaventare. Ecco allora (ma sono solo due esempi tra i tanti) che il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana sparacchia un 30% [3] , mentre il già citato Lunghini (perché porsi limiti?) arriva al 50/60%. Si tratta di cifre campate in aria, tant’è che chi le sbandiera non porta mai vere argomentazioni a sostegno. E la poca serietà di questi numeri è provata dal fatto che costoro parlano sempre di una forte svalutazione della nuova lira, ma mai ci dicono verso quali altre valute. In ogni caso, se ci si riferisce a quel che rimarrebbe dell’euro, nel caso di un’uscita della sola Italia, queste cifre non stanno né i cielo né in terra. Se si parla del dollaro idem. Se invece ci si vuol riferire al nuovo marco tedesco è possibile anche un’oscillazione intorno al 30%, ma non tanto per una svalutazione della lira, quanto per una fortissima rivalutazione del marco rispetto all’insieme delle monete circolanti. Che è esattamente quel
che servirebbe all’Italia, e che ovviamente la Germania cercherà di impedire a tutti i costi. In realtà esistono diverse ricerche che prevedono, dopo un periodo transitorio ovviamente più turbolento, un assestamento della nuova lira ben diverso da quello ipotizzato dai catastrofisti. Tra questi, riprendiamo i dati [4] di uno studio dell’OFCE (Observatoire français des conjonctures économiques). Secondo i due autori – Cédric Durand e Sébastien Villemot – in caso di rottura dell’euro, la nuova lira si apprezzerebbe addirittura dell’1% rispetto alla media dei dodici paesi dell’eurozona presi in esame. Una sostanziale stabilità data dalla media di una rivalutazione verso la Francia (12%), la Spagna (11%), la Finlandia (19%), il Belgio (18%), la Grecia (39%) ed una svalutazione verso la Germania (13%), l’Olanda (14%), l’Austria (14%). Naturalmente, trattandosi di simulazioni, anche queste cifre sono opinabili. Ma, a differenza di quelle buttate là a casaccio sui media nostrani, esse vengono almeno da studi approfonditi coi quali sarebbe bene confrontarsi. Che è esattamente quello che i catastrofisti di
mestiere non faranno mai. Detto questo è indispensabile affermare un punto ben preciso: una svalutazione verso la Germania (e l’area economica che gli si raccoglie attorno) è assolutamente necessaria per l’economia italiana. Si tratta di recuperare competitività verso un paese che continua a praticare una fortissima politica mercantilista, verso un sistema produttivo che è diretto concorrente dell’industria italiana. Secondo i dati del 2016, il surplus commerciale della Germania (5) ha raggiunto i 252,9 miliardi, avvicinandosi ormai al 10% del Pil, quando le regole dell’Unione europea imporrebbero di non superare il 6%. Ma, si sa, l’Europa parla tedesco e per Berlino non ci sono sanzioni. Questo straordinario risultato commerciale ha però un nome ben preciso: euro. E’ grazie alla moneta unica, e cioè grazie alla possibilità di avere de facto una sorta di marco super-svalutato che la Germania ha retto la crisi mentre tanti paesi dell’UE invece vi affondavano. Questa banale osservazione ci porta a dire due cose: la prima è che l’euro non è una moneta neutrale, dato che avvantaggia alcuni paesi e ne danneggia altri (e questa è la ragione per cui chi ne è avvantaggiato lo difende e lo difenderà a denti
stretti); la seconda è che avere una moneta sopravvalutata è spesso uno svantaggio più che un vantaggio. Breve digressione. I vantaggi dell’euro per i paesi del centro (Germania in primis) non si riducono alla questione del cambio. Tra di essi vi è anche la possibilità di finanziare a tassi bassissimi, e spesso addirittura in territorio negativo, il proprio debito (quello pubblico come quello privato), ottenendo così un ulteriore guadagno competitivo rappresentato dallo spread che si determina grazie alle asimmetrie interne all’area euro. Un altro vantaggio, che in prospettiva potrebbe diventare ancor più importante, risiede nella svalutazione interna che le politiche austeritarie – necessarie a riequilibrare la competitività proprio perché non si può agire sui cambi – producono in paesi come l’Italia. Uno degli effetti di queste politiche è la svalutazione del valore delle aziende, come pure di quello degli immobili. In questo modo, tali beni sono destinati a finire sempre più spesso nelle mani di gruppi nord-europei grazie ai prezzi di svendita che si sono così determinati. Ma torniamo alla svalutazione. Qui l’importante è comprendere che
l’alternativa al deprezzamento valutario (svalutazione esterna) non è la non-svalutazione, bensì la svalutazione interna. Cos’è, in poche parole, la svalutazione interna? Essa consiste in una progressiva riduzione dei salari, delle pensioni, del welfare in generale, ma anche (come abbiamo già accennato) in una ugualmente progressiva riduzione del valore dei beni materiali. Quando, ad esempio, si protesta contro il crescente degrado del sistema sanitario è a questo meccanismo che bisognerebbe in primo luogo pensare. Idem quando, sempre ad esempio, non si riesce più a vendere ad ottanta una casa acquistata magari a cento. Ovviamente la stragrande maggioranza delle persone non si rende conto di tutto ciò, anche perché i media si guardano bene dal mettere la pulce nell’orecchio sui veri effetti dell’euro. Ci stiamo però avvicinando al decennale dello scoppio della crisi, ed ormai le granitiche certezze sulla presunta bontà della moneta unica sono solo un ricordo del passato. Sta di fatto che mentre da un lato (quello di coloro che abbiamo chiamato “catastrofisti”) ci sono solo ipotesi, dall’altro (quello dell’osservazione concreta di quanto avvenuto in questi anni) vi sono i dati reali della crisi, dell’aumento
spaventoso della disoccupazione, della precarietà di massa, del crescente degrado sociale, del generale impoverimento del Paese. Un aspetto che i media vogliono in ogni modo occultare è che mentre i costi di una svalutazione esterna si distribuirebbero eventualmente sull’intera società, quelli della svalutazione interna colpiscono invece in maniera particolare le fasce popolari. Ragion per cui la classe dominante nazionale, anche a costo di venire essa stessa “svalutata”, ha preferito schierarsi con l’oligarchia finanziaria europea che è alla testa del “partito dell’euro”. E, a proposito di classe dominante, è interessante vedere quel che ha scritto di recente Riccardo Sorrentino sul Sole 24 Ore., [6] dove ci ricorda come il surplus commerciale dell’Italia «in termini reali, ha superato i livelli pre-crisi già a fine 2014», concludendo così che l’euro non è un problema per l’economia italiana. Ora, è vero che questo recupero c’è stato, ma a quale prezzo? Il dato della bilancia commerciale è un saldo tra un “più” (le esportazioni) ed un “meno” (le importazioni). Se questo saldo ha ripreso a salire si deve giusto all’effetto combinato dei due fattori. Da un
lato, causa la riduzione dei consumi interni, le importazioni sono calate; dall’altro, solo la deflazione salariale – il brutale abbassamento del salario reale – ha consentito alle imprese italiane di mantenersi relativamente competitive. Detto più chiaramente: se i conti a Confindustria tornano è solo grazie all’aumento dello sfruttamento dei lavoratori ed all’impoverimento degli italiani. Le tabelle del Mise (Ministero per lo Sviluppo Economico) parlano chiaro. [7] Le importazioni sono crollate violentemente con la crisi del 2009 e poi, in maniera più graduale, con la lunga recessione del 2012-2014. C’è un dato che chiarisce l’entità di questa catastrofe: nel periodo 2008-2016 il valore delle importazioni è passato da 382 a 365 miliardi di euro (-4,5%). Ma attenzione, questo è un calo in valore che ancora non ci dice di quanto sono diminuite le importazioni in quantità. Un dato che si può in qualche modo approssimare solo tenendo conto del tasso medio globale dell’inflazione, operazione che ci consente di stimare all’ingrosso una diminuzione reale attorno al 30%. Una cifra che ci dice di quanto si è impoverita realmente l’Italia in questo periodo. Senza svalutazioni monetarie, certo. Ma probabilmente anche a causa di ciò. Più in generale, volendo ora chiudere sul tema, che le
svalutazioni non siano il dramma che si dice ci è dimostrato da diverse esperienze. Ad esempio la svalutazione della lira sul dollaro degli anni ’70-80 del secolo scorso (dal 1974 al 1985 la lira si svalutò di oltre il 200% sulla moneta americana) non impedì all’economia italiana di continuare a crescere. Altro esempio l’Argentina, dopo l’abbandono del cambio fisso tra il peso e il dollaro avvenuto nel 2002. E’ vero che nel primo anno di questo divorzio il Pil del paese latino- americano calò del 14,7%, ma nei cinque anni successivi la crescita cumulata fu del 51,6%, un’enormità. 2. L’Italexit e l’inflazione Normalmente, chi usa in maniera terroristica la parola “svalutazione” dice o comunque sottintende inflazione. Ora, premesso che l’attuale problema dell’economia europea si chiama semmai deflazione, che dell’inflazione è l’esatto opposto, qual è l’effettivo rapporto tra questi fenomeni? In che misura la svalutazione produce inflazione? Da sempre siamo stati abituati a pensare ad un rapporto meccanico, per cui se la svalutazione è 10 anche l’inflazione si avvicinerà a quel valore. In realtà le cose sono molto, ma molto più complesse. Intanto il valore della moneta è soltanto uno dei molteplici elementi che determinano il tasso di inflazione. In secondo luogo, diversi sono i
fattori di aggiustamento che tendono a smussare gli effetti inflazionistici della svalutazione. In terzo luogo – scusandoci per l’insistenza sul punto – non è detto (anzi!) che svalutare sul “nuovo marco” equivalga a svalutare sul dollaro e sulle altre monete. Sono cose che chi scrive su giornali di rilevanza nazionale non può non sapere. Ma per molti l’equazione percentuale di svalutazione uguale tasso di inflazione è troppo comoda per potervi rinunciare. La cosa è però così grossolana che alcuni hanno almeno il pudore di stabilire un rapporto un po’ più basso. Il già citato Lunghini fa così corrispondere ad una (impensabile) svalutazione del 50% un’inflazione del 20%. Ma poiché quest’ultima potrebbe sembrare troppo bassa, egli ha la premura di dirci che quel 20% sarebbe solo una media annua per un periodo non breve dopo la svalutazione. Su cosa si basa tanta sicumera? Non lo sappiamo, ma è chiaro come questo sia uno di quei casi in cui l’ideologia (ovvero l’adesione al dogma della bontà dell’euro a prescindere) prevale sulla realtà, cioè sull’osservazione empirica dei casi concreti che pure la storia recente ci consente di esaminare. Ne prendiamo in esame due. Il primo è quello della famosa
svalutazione della lira del settembre 1992. Rispetto al marco tedesco quella svalutazione finì per attestarsi proprio sul temuto 30% di cui si continua a parlare oggi. Bene, quale fu l’effetto inflattivo di quella svalutazione? L’inflazione media del triennio successivo (1993-1995) fu del 4,6%. Oggi può sembrare molto, ma quella del triennio precedente a tassi fissi (1990-1992) era stata del 5,9%! Come si vede la realtà è a volte un po’ diversa da come ce la raccontano. E il confronto con la Germania? Uno si aspetterebbe l’esplosione del differenziale di inflazione dopo il 1992. E invece quel differenziale, che era pari al 2,7% nel triennio 1990-1992 (quello precedente la svalutazione), scende sorprendentemente all’1,6% nel triennio post-svalutazione (1993-1995) nel quale la lira arriva a deprezzarsi fino al 50% sul marco (esattamente il picco che Lunghini ipotizza oggi con l’uscita dall’euro), per poi scendere all’1,2% nel triennio successivo (1996-1998) quando la lira prende a rivalutarsi. Questa è la verità sulla svalutazione del 1992. E la cosa fu talmente chiara fin da subito che già un anno dopo perfino Mario Monti dovette fare autocritica: «Un punto dove certamente ho visto male riguarda le conseguenze inflazionistiche… perché per ora non ci sono stati
effetti». [8] A questo caso, piuttosto studiato, se ne aggiunge un altro sul quale non è necessario rifarsi a studi particolari dato che concerne l’esperienza diretta degli ultimi anni. Dal maggio 2014 al gennaio 2017 il rapporto euro-dollaro è sceso da 1,39 a 1,03. Dunque la svalutazione dell’euro è stata pari al 25,8%. A qualcuno risulta che in questo periodo in Italia, ma dovremmo dire in Europa, sia esplosa l’inflazione? Per la verità le cronache continuano ancora a parlarci della necessità di debellare la deflazione. Eppure il dollaro è la moneta con la quale si acquistano le materie prime. Con quale onestà intellettuale, nella situazione data, si possa continuare a disegnare scenari catastrofici dovuti all’elevata inflazione che seguirebbe alla svalutazione lo giudichino i lettori. Eppure è proprio lì che si continua a battere. E tra i temi che vengono agitati, dagli autori citati come da altri, ve ne sono due in particolare: quello dei mutui e quello del prezzo dei carburanti. Due questioni sulle quali rimandiamo a quanto scritto già tre anni fa: «Per chi ha dei mutui da pagare la situazione non potrebbe che migliorare. I mutui verrebbero anch’essi ridenominati nella
nuova moneta e dunque, in caso di svalutazione, si svaluterebbero anch’essi; mentre l’eventuale inflazione aggiuntiva ridurrebbe di fatto il valore reale delle rate dei mutui a tasso fisso. Diverso è il problema del prezzo dei carburanti, che indubbiamente esiste ma non nei termini che comunemente ci si immagina. Se prendiamo, ad esempio, il caso della benzina, bisogna considerare che il costo della materia prima (il petrolio) – che è l’unico che risentirebbe della svalutazione, dato che i pagamenti vengono effettuati in dollari – incide solo per il 25% sul prezzo alla pompa. Il 57% sono tasse (accise e Iva), mentre il restante 18% include i costi di trasporto e raffinazione, nonché il margine lordo delle aziende distributrici. Se proprio vogliamo fare i conti, ne risulta che un’ipotetica svalutazione sul dollaro del 15% produrrebbe un aumento del costo alla pompa del 3,75%. Come si vede, siamo a percentuali ben più basse di quel che normalmente si pensa, che potrebbero comunque essere tranquillamente azzerate con una parallela riduzione del carico fiscale. Che è poi quel che fanno normalmente gli stati, quando non sono con il cappio al collo come quelli dell’area mediterranea dell’Eurozona, per assorbire le oscillazioni continue del prezzo del greggio sui mercati
internazionali». Dal «Vademecum: perché il nostro paese deve uscire dall’euro? Come può riprendersi la sua sovranità» [9] In conclusione, l’eventuale effetto inflattivo della svalutazione conseguente all’uscita dall’euro si presenta come assolutamente gestibile. 3. L’Italexit e la fuga dei capitali C’è o no il rischio che l’attesa della rottura dell’eurozona porti ad una consistente fuga di capitali dall’Italia? In realtà più che di un rischio si tratta di una certezza. Anzi, questa fuga è già in atto, come ci mostrano anche i saldi Target2. Essa finirà, non sembri un paradosso, proprio con l’uscita dall’euro. La fuga di capitali è infatti tipica di ogni situazione di incertezza che precede una modifica sostanziale dei rapporti di cambio. Precede, non segue, questo è il punto. Con la fuga si cerca infatti di anticipare questo evento, mentre a cose fatte (nel nostro caso la rottura dell’eurozona o comunque l’Italexit) la fuga non avrebbe più alcun senso, anzi sarebbe piuttosto pericolosa per i detentori di capitali. Se si vuole impedire (o quantomeno limitare) la fuga dei capitali la regola di sempre è dunque quella di agire con la massima rapidità. Quel che è importante sottolineare è che il fenomeno
denominato “fuga di capitali” non è legato in maniera specifica all’uscita dalla moneta unica, bensì – più in generale – a quel che ci si attende in termini di svalutazione. La fuga avverrebbe dunque anche a fronte dell’attesa di una forte svalutazione dell’euro verso il dollaro. E’ sempre stato così, e non si vede proprio perché se ne parli in termini catastrofisti solo riguardo all’Italexit. Tra l’altro, con i loro argomenti, i catastrofisti di ogni risma che si esercitano sul punto, in quanto sostenitori di un’aspettativa di svalutazione alta quanto irrealistica, sono in realtà i principali alimentatori di quella fuga che pure dicono di temere come la peste. Piccole contraddizioni che è difficile non notare. Ma perché proprio l’Italexit fermerebbe invece la fuga in corso? E’ presto detto. Chi esporta capitali – o aprendo conti all’estero od acquistando titoli in altra valuta – lo fa per aggirare la ridenominazione dei propri capitali da euro a lira con un rapporto 1:1. Una volta che la ridenominazione sarà avvenuta si determineranno i nuovi rapporti di cambio; prima in maniera più convulsa, poi arrivando ad una maggiore stabilità. Parallelamente andranno a determinarsi i nuovi tassi di interesse sui mercati finanziari e dunque i nuovi spread. A quel punto – e solo a quel punto – i capitali usciti
rientreranno, perché lo scopo della fuga non è quello di tenere i propri soldi a Berlino, bensì quello di speculare sulle variazioni del cambio. Naturalmente, non è questo un giochino senza rischi. Ad esempio, se le cose dovessero andare come prevede il già citato OFCE, chi avesse deciso di comprare oggi titoli francesi (con un tasso di rendimento di un punto e mezzo inferiore rispetto ai corrispettivi italiani) rischierebbe un bel salasso. Rischierebbe meno chi avesse comprato dei Bund tedeschi, ma non è un caso che questi ultimi abbiano tassi negativi che risulterebbero piuttosto pesanti nel tempo. Insomma, ecco un altro apparente paradosso, saranno proprio gli stessi meccanismi dei mercati finanziari a far rientrare i capitali usciti verso l’Italia. Rientro che, a quel punto, contribuirà ad un certo apprezzamento della lira. Questo significa che non esista il problema di un controllo sul movimento dei capitali? Assolutamente no. Un controllo contro la speculazione andrebbe esercitato sempre, anche al di fuori delle situazioni di emergenza, ma a maggior ragione dovrà esservi nel momento dell’Italexit. Momento che andrà gestito con la massima determinazione e rapidità.
Naturalmente i catastrofisti ci diranno che simili controlli sono vietati, che comunque si rivelerebbero inefficaci, per non parlare del panico che così si determinerebbe. Eppure si tratterebbe soltanto di fare – non necessariamente nelle stesse forme, s’intende – quel che due paesi dell’eurozona hanno già fatto e – ancora più importante – l’Unione europea gli ha imposto di fare. Oltre al più noto caso greco del 2015, ci riferiamo alla crisi di Cipro del 2013, quando vennero adottate le seguenti misure: «Un limite massimo di 5mila euro al mese per le transazioni all’estero mediante carta di credito. Un tetto di 3mila euro in contanti – per ogni viaggio – a chi intende uscire dal Paese. Divieto di riscuotere assegni. Prelievo dai bancomat non superiore ai 300 euro giornalieri. Limiti molti severi a chi vuole trasferire denaro all’estero. E un’autorizzazione ad hoc, dietro esibizione di documenti giustificativi – formula che ha il sapore di una pericolosa discrezionalità – per i pagamenti delle imprese che importano beni e prodotti». Così scriveva Marco Onado sul Sole 24 Ore del 28 marzo 2013. [10] Dunque i controlli sono possibili, eccome. Che l’ortodossia liberista lo neghi non stupisce. Ma non si vede proprio perché
quel che è stato già fatto in nome degli interessi delle banche e della moneta unica, non possa esser fatto a difesa degli interessi dell’economia nazionale. 4. L’Italexit e la ridenominazione del debito Arriviamo ora al tema della ridenominazione del debito. Inutile dire quel pensano in proposito i nostri catastrofisti: il caos generalizzato nel migliore dei casi, un terribile aumento del valore del debito verso l’estero in quello che loro reputano ovviamente lo scenario più probabile. Per accertare l’attendibilità di tutto ciò è bene partire innanzitutto da un principio generale, quello della cosiddetta Lex Monetae, che stabilisce che uno stato sovrano ha il potere di determinare il tasso di conversione tra la precedente e la successiva moneta avente corso legale. [11] Anche su questa materia i catastrofisti si sono lungamente esercitati per spaventare i debitori, ad esempio le persone che hanno da pagare un mutuo in euro, e che ne vedrebbero aumentare il valore in conseguenza della svalutazione della nuova lira. E’ un problema che semplicemente non esiste. Il nostro Codice Civile [12] così traduce il principio della Lex Monetae: «Art. 1277. Debito di somma di denaro: I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento
e per il suo valore nominale. Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima». Dunque, nel caso di un’esplosione dell’intera eurozona – visto che a quel punto l’euro semplicemente non ci sarebbe più – non esisterebbe alcun problema né per i debiti interni né per quelli esteri. Se, invece, l’euro continuasse ad aver corso legale in altri paesi, ma non in Italia, si applicherebbe l’art 1278 del Codice Civile: «Art. 1278. Debito di somma di monete non aventi corso legale: Se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento». Anche in questo caso il pagamento avverrebbe in lire, ma poiché farebbe riferimento «al corso del cambio nel giorno della scadenza» il debitore potrebbe trovarsi a dover pagare con una lira svalutata. Per ovviare a questo problema basterà però applicare l’art. 1281: «Art. 1281. Leggi speciali: Le norme che precedono si osservano in quanto non
siano in contrasto con i principi derivanti da leggi speciali. Sono salve le disposizioni particolari concernenti i pagamenti da farsi fuori del territorio dello Stato». E’ chiaro – e difatti sul punto i catastrofisti hanno ormai abbassato la cresta – che qualsiasi governo che si troverà a gestire l’Italexit non potrà che intervenire con una legge speciale sulla questione, così come affermato da tempo da Alberto Bagnai: «Lo Stato ovviamente dovrà, nel decreto di uscita, prevedere una deroga all’art. 1278 stabilendo che i rapporti di debito e di credito in euro disciplinati dal Codice Civile saranno regolati in nuove lire al cambio previsto alla data del changeover (cioè uno a uno), e non a quella della scadenza del pagamento (che incorporerebbe la svalutazione)». [13] Sul tema dell’applicazione della Lex Monetae è intervenuto di recente l’economista francese Jacques Sapir. Anche in Francia non manca infatti chi, a partire dall’ex presidente Nicolas Sarkozy, mostra di non credere a questo principio. Sapir dimostra invece come la Lex Monetae sia riconosciuta esplicitamente dallo stesso diritto dell’UE. Nel regolamento relativo all’introduzione dell’euro (CE n° 1103/97) così si legge: «Considerando
che l’introduzione dell’euro costituisce una modifica della legge monetaria di ciascuno Stato membro partecipante; che il riconoscimento della legge monetaria di uno Stato è un principio universalmente accettato; che la conferma esplicita del principio di continuità deve portare al riconoscimento della continuità dei contratti e degli altri strumenti giuridici nell’ordinamento giuridico dei paesi terzi». In altre parole, commenta Sapir: «Se il governo francese decide di ritornare al franco ad un tasso di conversione di 1 a 1 con l’euro, ha il diritto di farlo per quanto riguarda tutti gli strumenti giuridici e i contratti emessi all’interno dell’ordinamento giuridico francese». [14] Bene, si dirà, ma cosa succede invece con il debito estero? Qui i catastrofisti davvero non hanno freni. Secondo costoro con l’Italexit il debito pubblico aumenterebbe a dismisura, dato che – a loro avviso – la quota detenuta da soggetti esteri andrebbe restituita in euro. Non solo, ancora più grave sarebbe il problema del debito privato verso l’estero, sul quale evitano non a caso di citare le cifre reali. Esaminiamo dunque separatamente questi due aspetti – pubblico e privato –
di una questione che scopriremo essere assai meno preoccupante di come si vorrebbe far credere. La quota estera del debito pubblico italiano è superiore agli 800 miliardi di euro. Ormai nessuno mette però in discussione il diritto dello Stato (Lex Monetae) di ripagare in nuove lire il debito emesso sotto la propria legislazione. Si cerca allora di spostare l’attenzione su due altri aspetti: 1) la quota di debito estero emessa sotto altre legislazioni, 2) l’effetto delle cosiddette “clausole CAC” introdotte dal governo Monti nel dicembre 2012. Sul primo punto la propaganda tesa a spaventare sugli effetti dell’Italexit è facilmente smontabile, dato che la quota di titoli del debito emessi sotto legislazione straniera è pari a soli 48 miliardi (un misero 2,5% del totale). Sul secondo punto, quello delle “clausole di azione collettiva” (CAC), che riguardano all’incirca la metà dei titoli in circolazione, esistono diversi pareri, ma sta di fatto che le CAC sono state concepite come strumento di tutela dello Stato non degli investitori. Questi ultimi avrebbero sì la possibilità teorica di opporsi alla ridenominazione (basterebbe una minoranza da un quarto ad un terzo dei creditori), ma l’esperienza insegna (vedi il caso greco) come nei casi
di ristrutturazione del debito – e la ridenominazione nei fatti lo è – i grandi creditori preferiscono sempre accettare quel che gli viene proposto piuttosto che rischiare di perdere tutto con un più pesante default. Lo Stato – e questo è un punto davvero decisivo – uscirebbe dunque dall’Italexit con un debito pubblico ridotto, non aumentato come invece si vorrebbe far credere. Passiamo ora al debito privato verso l’estero. Secondo i dati riportati in un articolo di Enrico Grazzini [15] questo debito semplicemente non esiste. O meglio, esistono dei singoli debitori come dei singoli creditori, ma la somma di queste posizioni finanziarie verso l’estero dà un saldo attivo di 580 miliardi di euro. Ne consegue che l’insieme di questi soggetti trarrebbe un beneficio anziché un danno dall’Italexit e dalla svalutazione della nuova lira. E forse un beneficio ci sarebbe per la stessa economia italiana nel suo insieme, perché almeno una parte di questi capitali avrebbe buoni motivi per rientrare in Italia dopo la stabilizzazione dei cambi. Naturalmente, un saldo positivo non esclude singole posizioni negative che potrebbero mettere in sofferenza qualche azienda, e principalmente qualche banca. Ma anche questo aspetto – sul quale lo Stato potrebbe intervenire di volta in volta (non scordiamoci
che al momento dell’Italexit molte saranno le cose oggetto di trattativa), va visto in un contesto che è invece complessivamente positivo. Tutto questo senza dimenticarci che in questi casi è pressoché inevitabile che vi siano soggetti che riescono a guadagnare (come gli investitori sull’estero di cui sopra), come altri destinati a rimetterci. Per cui ha poco da lamentarsi il già citato Fontana quando ci ricorda (peraltro con cifre inattendibili) il problema delle aziende italiane che hanno emesso bond sotto legislazione straniera. Queste aziende lo hanno fatto per spuntare tassi più bassi, una maniera per scommettere al gran casinò dei mercati finanziari. Non sempre queste scommesse – al pari di quelle sulle valute – vanno a buon fine. Ma si tratta di aziende private che si assumono coscientemente certi rischi ogni giorno, ed è assurdo che se ne parli solo a proposito di quelli connessi con l’uscita dall’euro. 5. Un Italia troppo “piccola”? Veniamo ora ad un argomento più generale, che concerne sempre la sfera economica pur travalicandola. E’ la tesi secondo cui l’Italia – e più precisamente l’economia italiana – sarebbe comunque troppo piccola per affrontare la sfida dell’Italexit. A questa tesi se ne
affianca un’altra, quella secondo cui l’Italia si troverebbe politicamente più “sola”. Ora, a parte il fatto che pensando all’UE a dominanza tedesca non può non venirci in mente il detto “meglio soli che male accompagnati”, perché questa preoccupazione? Uscendo dall’euro l’Italia mica dichiarerebbe guerra a qualcuno, semplicemente (cosa che oggi non fa) difenderebbe i propri legittimi interessi. Certo che ci sarebbero anche turbolenze politiche – sarebbe assurdo sostenere il contrario -, ma alla fine gli attuali partner economici non avrebbero molto interesse a farci una guerra prolungata. Le sanzioni, poi, sono un’arma a doppio taglio. In ogni caso il mondo è grande, e quello al di fuori dei confini dell’UE è in espansione. In realtà la tesi di un’Italia “troppo piccola” non fa neppure i conti con le conseguenze della crisi della globalizzazione. Naturalmente, ed è normale che sia così, in materia esistono diverse opinioni, ma è difficile negare l’evidenza dell’accrescersi delle misure protezionistiche in tutto il mondo, così come quella della tendenza alla riduzione della quota del commercio estero sul Pil mondiale. E’ giusto, tuttavia, prendere questo argomento sul serio. Intanto bisogna rilevare che quella italiana rimane pur sempre una
delle più importanti economie del mondo. E se oggi lo è un po’ meno del passato lo si deve anche (certo, non esclusivamente) all’euro. Ed è un’economia che comprende un’industria manifatturiera che, nonostante gli effetti micidiali della crisi, in Europa resta seconda solo alla Germania. Ora, è pacifico che uno scioglimento concordato dell’eurozona sarebbe preferibile ad un’uscita unilaterale. Peccato che il primo scenario sia poco probabile. Ed è altresì pacifico che meglio sarebbe affrontare il dopo-Italexit in stretta alleanza con altri paesi. Ma non si può mettere il carro davanti ai buoi, dato che la costruzione di nuove alleanze e/o di nuove aree macro-economiche (non però di nuove aree valutarie) dipende dalle scelte politiche dei vari paesi. Scelte che deriveranno da tanti fattori e che di sicuro non possiamo disegnare oggi a tavolino. Lo scenario da considerarsi come quello di gran lunga più probabile è dunque l’Italexit, e questo ci riporta appunto al tema delle “dimensioni” dell’Italia. In proposito l’opinione di chi scrive è molto semplice: riguardo alla scelta di tornare alla moneta nazionale più che le dimensioni contano i fondamentali dell’economia. Ma se questi ultimi sono messi in discussione proprio dall’appartenenza alla
moneta unica è chiaro che la decisione è di fatto obbligata. Se sulla questione delle “dimensioni” le opinioni sono le più disparate, l’unico modo di orientarci è quello di guardarci attorno. Di esaminare cioè la realtà. Limitandoci all’Europa si possono osservare diversi paesi membri dell’UE che, pur avendone i requisiti, si guardano bene dall’entrare nell’euro. E’ questo il caso della Polonia, ma ancora più significativo è quanto accaduto di recente con la decisione della Repubblica Ceca di sganciare la propria valuta nazionale – la corona – dall’euro. L’aggancio, in vigore da tre anni, avrebbe dovuto essere il primo passo verso un futuro ingresso nell’eurozona. Adesso il passo c’è stato, ma nella direzione opposta di quella sperata dai partigiani della moneta unica. [16] Da notare che subito dopo lo sganciamento la corona si è rivalutata rispetto all’euro. Eppure la Repubblica Ceca ha un sesto della popolazione ed un ottavo del Pil dell’Italia. Non solo. Pare che nella stessa direzione di Praga – quella dello sganciamento – voglia muoversi l’ancor più piccola Danimarca, la cui moneta è legata da sempre all’euro. Rimanendo ancora in Europa, ma uscendo dall’UE, come non
considerare i casi di due piccoli paesi come la Svizzera e la Norvegia? Da sempre, i sostenitori della tesi avversa ci fanno notare che questi potrebbero essere solo dei casi particolari. Ma il fatto che questi “casi particolari” stiano però aumentando vorrà pur dire qualcosa. Come qualcosa di ancora più importante ci dice la banale osservazione – questa francamente inconfutabile – di come (indipendentemente dalle dimensioni) tutti i paesi europei non-euro abbiano retto molto meglio alla crisi rispetto a quelli con la moneta unica. Ma il tema delle “dimensioni” non può essere ovviamente solo europeo. Prendiamo il caso di un paese simile all’Italia (in termini di popolazione e di Pil), anche se più piccolo: la Corea del Sud. Questo paese fa forse parte di una qualche unione monetaria? Ovviamente no. Ma con la sua moneta nazionale (lo won) continua a tenere ritmi di crescita annua superiori al 3%. Tuttavia la Corea del Sud non è un’eccezione, bensì la regola, dato che nel mondo non ci sono altri “euri” in vista. E questo è un punto dirimente. Infatti, se la spinta alla creazione di macro-aree monetarie vi fosse davvero, nei cinque continenti dovremmo assistere ad un pullulare di iniziative in tal senso. Ma così non è. In nessun angolo del pianeta, dalla lontana Oceania all’arretrata
Africa, dalla tumultuosa Asia alla speranzosa America Latina, nulla si muove in quella direzione. L’euro, a vent’anni dalla sua nascita, non ha nessun fratello con cui giocare. Ci sarà pure una ragione. Evidentemente le dimensioni contano quando si parla di un’azienda, o di una filiera produttiva. Diverso è il discorso quando si tratta dell’economia di un paese e della sua moneta. Brevi conclusioni Questo articolo non ha certo lo scopo di negare i problemi dell’Italexit. Questi problemi ci sono, e sarebbe assurdo affermare il contrario. Ma si tratta comunque di problemi gestibili. Insomma, dall'”Hotel California” dell’euro si può uscire, eccome. Del resto, l’alternativa sarebbe solo quella dell’incancrenimento della crisi, con i suoi terribili aspetti sociali che conosciamo. Il problema che si pone è semmai un altro: quale sarà la gestione del passaggio dall’euro alla nuova lira? La risposta a questa domanda dipende dal governo che – ci auguriamo quanto prima – si troverà ad affrontare concretamente la questione. Chi scrive crede in un governo popolare d’emergenza, frutto di una larga alleanza di tipo costituzionale (una sorta di Cln), che prenda in mano le redini dell’Italia in questo decisivo frangente.
E’ importante che questo governo abbia a cuore il futuro del Paese, e in particolare gli interessi e i bisogni delle classi popolari. Anche per questo l’uscita dalla moneta unica dovrà essere accompagnata da un programma di misure urgenti (dalla nazionalizzazione del sistema bancario ad un piano per il lavoro) che rappresentino una decisiva svolta rispetto ai disastri prodotti dal sistema neoliberista. Sistema che i meccanismi dell’euro vorrebbero rendere eterno. * Questo saggio venne originariamente pubblicato sulla rivista IL PONTE nel numero di maggio-giugno 2017. NOTE (1) https://ilmanifesto.it/le-conseguenze-di-unuscita-dalleuro/ (2) http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/06/euro-draghi-la-mone ta-unica-e-irrevocabile-la-questione-delluscita-non-e- contemplata-dal-trattato/3371615/ (3) http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/06-03-2017/index.shtml (4) http://www.ofce.sciences-po.fr/pdf/dtravail/WP2016-31.pdf (5)http://www.repubblica.it/economia/2017/02/09/news/germania_bilancia_commerciale_al_top _e_nel_2016_l_export_vola_a_1207_miliardi-157902113/ (6) http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/mondo/2017-02-27/cinque-luoghi-comuni-n o-euro-sfatare-112318.shtml?uuid=AEwoNIe (7)http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/commercio_internazionale/osservator io_commercio_internazionale/statistiche_import_export/interscambio.pdf
(8) La Repubblica del 12 settembre 1993 (9) «Vademecum: perché il nostro paese deve uscire dall’euro? Come può riprendersi la sua sovranità», a cura del Coordinamento nazionale Sinistra contro l’euro. (10) https://www.pressreader.com/italy/il-sole-24-ore/20130328/281560878248490 (11) https://it.wikipedia.org/wiki/Lex_monetae (12) http://www.altalex.com/documents/news/2015/01/08/delle-obbligazioni-in-generale (13) http://goofynomics.blogspot.it/2012/09/a-rata-der-mutuo.html (14) http://vocidallestero.it/2017/03/23/sapir-lex-monetae-e-diritto-europeo/ (15) http://temi.repubblica.it/micromega-online/tutti-i-conti-delli talexit-nessuna-catastrofe-se-litalia-uscisse- dalleuro/#_ftnref9 (16) https://www.sollevazione.it/2017/04/czexit-la-repubblica-ceca-si-sgancia.html
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