La realtà perfetta, tra Maradona e la notte di San Lorenzo
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La realtà perfetta, tra Maradona e la notte di San Lorenzo Muore Diego Armando Maradona proprio mentre sotto casa mia, a San Lorenzo, va in scena una manifestazione di strada con un migliaio di persone coinvolte, in una fase di piena emergenza governata dalle restrizioni governative per il Coronavirus. In che modo la dipartita di Maradona e una manifestazione dialogano tra loro e ci forniscono chiavi di lettura del contemporaneo?
Roma, 2014 Racconto in questo modo, durante la scrittura di Gloria agli eroi del mondo di sogno (Il Saggiatore, 2014), la metafisica di Diego Armando Maradona, ultimo individuo in grado di creare un immaginario collettivo compiendo gesta reali. Maradona si erge, anzi, a vero e proprio mito fondativo: il microcosmo dell’individuo e della sua azione che si centuplica fino a diventare archetipo. In palio c’era la semifinale del Campionato del mondo. Il primo tempo era stato teso, combattuto. Era finito 0-0. Per giorni la stampa mondiale aveva lavorato sull’evento caricandolo di significati extracalcistici: la guerra delle Falkland per gli inglesi, la guerra delle Malvinas per gli argentini, era finita da soli quattro anni. Per gli inglesi il match era un’ordalia. Vincere avrebbe significato confermare le ragioni della guerra
e della Thatcher. Per gli argentini il campo da calcio diventava una seconda occasione dopo la disfatta militare, e Diego che era e si sentiva il calciatore del popolo, l’hombre de la calle, passò i tre giorni e le tre notti che precedettero il grande incontro ad assimilarne l’essenza, i motivi, le esalazioni e i preludi, per introiettare nei muscoli secondo termogenesi il desiderio di rivalsa della nazione intera e trasformarlo in più forza, in maggior elevazione, in velocità assassina. Maradona sapeva che quella ninfosi era una follia. Sapeva che la guerra è guerra, e che il calcio è una battaglia soltanto simbolica, ma nel suo intimo era necessario crederci sul serio nella permutazione, per caricarsi. Per avere stimoli centuplicati. La guerra e il calcio del resto hanno in comune il loro luogo di rappresentazione, che è l’immaginario collettivo. E lui possedeva un vantaggio. La guerra si poteva rappresentare a parole, ambigua, indecidibile nella sua astrazione e nella sua valutazione etica. La partita invece sarebbe stata trasmessa in diretta mondiale, duecento paesi collegati alla stessa ora, e i suoi gesti avrebbero sprigionato il potere magico dell’immediatezza cristallina. Era carico quando entrò in campo. Dentro di lui il mito della vendetta incalzava, cresceva come una mareggiata. Il discorso guerresco lievitava a ogni contatto duro, e ogni componente retorica si potenziava man mano che la sfida si complicava: i tre leoni sul petto, identici a quello della British Army, le maglie albine. Maradona poteva vedere il nemico negli occhi, poteva sentirne il respiro e percepirne la ferocia, come nella caccia al leone dei Lord. Tale prossimità lo caricava. Per cinquanta minuti Diego incassò colpi, provava a innescare le sue gambe corte e feline, ma c’era sempre un dettaglio avverso, una minuzia che andava storta, un difensore che in scivolata ci metteva la punta e faceva schizzare via il pallone, o una spinta che l’arbitro non scopriva, o un calcio violento che gli faceva perdere l’equilibrio. Diego a tratti sembrava soverchiato dal caos. Anche l’eroe è sempre impotente al cospetto del caos. Era dentro il campo ma a intermittenza si percepiva dal di fuori, il tempo si dileguava e lui non stava incidendo, stava tradendo la nazione. Ma provò a resistere. Sapeva di dover inseguire l’attimo baluginante, e non una costruzione del trionfo lenta e macchinosa, come la gestione di un impero. Due punizioni dal limite, di quelle che Diego prediligeva perché il punto di battuta era sul vertice sinistro, che evaporarono nel nulla. Una fu deviata dalla barriera e s’impennò, finendo in angolo. L’altra si spense fuori di mezzo metro. Occasioni gettate al vento. Anzi, se una delle due squadre sembrava favorita dal destino, be’, non era quella degli sconfitti schiacciati alle Falkland, ma proprio quella dei vincitori aguzzini. Così, quando Pumpido in uscita bassa su un filtrante all’apparenza innocuo scivolò a vuoto e perse palla, per pochissimo Peter Beardsley con il suo caschetto da Beatles non segnò un gol alla Maradona, inventandosi un tiro-cross velenoso dopo una bella finta di corpo e una veronica. E il fato che faceva? Era come se Diego, inquadrato mentre fissava il vuoto in una pausa stesse per chiedersi: e allora? Chi ha ragione? Chi crede al destino come ordine logico segreto governato da miriadi di leggi in divenire che confluiscono nell’eterno ritorno, o al contrario, chi lo percepisce come Grande Neutro Aleatorio dominato dall’astrazione, dal gioco combinatorio puro e libero? Maradona però giocava. E come ogni vero giocatore conosceva il segreto primario del gioco, e cioè che nel gioco, per chi sa giocare davvero, il caso non esiste. Lui era lì per dimostrarlo. Il gioco è la perfetta parodia della vita proprio perché della vita reale riesce a forzare l’ordine neutro e naturale delle cose, a ribaltarne le istituzioni dispiegate gerarchicamente, a rendere reversibile la linearità della parabola umana che procede da nascita a morte, abolendo il senso attraverso il rituale. In campo il rapporto tra l’uomo e la realtà è duale, agonistico. Perché esploda è sufficiente una scintilla. A Maradona riuscì l’impresa impossibile che solo il puro genio innato, inconsapevole e demoniaco, poteva consentire: riuscì a sedurre il destino, segnando di mano, incarnando così
la legge combinatoria e segreta dell’eterno ritorno. E 180 secondi dopo, non pago, riuscì a sedurre la realtà governata dalle leggi fisiche, compiendo il gesto irripetibile, la fuga solitaria dribblando tutta la squadra avversaria, come, per l’appunto, chiunque altro riesce a fare solo nei sogni infantili. Di colpo, tutti i crepuscoli entropici, tutti gli atomi che componevano la materia sembrarono muoversi in un’unica, vertiginosa direzione, come se esercitassero una sorta di attrazione violenta gli uni sugli altri, determinando un’energia predominante e ostinata, un divenire inarrestabile. Chiunque ne fu travolto. Ne fu travolto Fenwick. Girò il pallone all’indietro, dove pensava che stesse agendo indisturbato Peter Shilton in uscita, e invece trovò Diego. Ne fu travolto Shilton, perché era sicurissimo di poter sfruttare il vantaggio della statura, e con essa il maggior allungo delle sue braccia, mentre invece Diego lo anticipò. E anche Ali Bin Nasser ne fu travolto, l’arbitro tunisino, che seguiva l’azione secondo il suo universo di senso, secondo i suoi movimenti memorizzati per ergersi a giudice, e che si ritrovò, nell’attimo decisivo, in una posizione perfettamente centrale rispetto all’asse di movimento in cui Maradona colpì di mano scaraventando il pallone in rete, proprio quando il braccio proteso di Shilton incrociò il pugno, la mano de Dios. Nasser convalidò il gol. Ha visto Diego colpire di testa, non ha dubbi. Era anche lui una particella di universo governato dal destino di Diego in quel momento, non più un uomo e basta. Era appendice del destino di Diego, non poté fare altro che convalidare. Il replay, che smentì ciò che lui aveva visto nell’unica realtà, che in quanto accaduta sotto la sua giurisdizione fu la sola vera e irreversibile realtà, non poté incidere. E non doveva incidere, perché se avesse potuto incidere l’uomo avrebbe rubato a se stesso la possibilità di mettere in scena una rappresentazione perfetta della vita, che nell’irreversibilità dell’attimo racchiude tutto ciò che c’è di prezioso, di tragico, di magico, di passionale, di seducente. Di colpo, ecco l’indicazione chiara, coadiuvata, quella sì, dal replay. Nasser aveva sbagliato, ma il destino si era già compiuto. Il caso, d’improvviso, non soltanto esisteva, ma era governato da un disegno. Tutto scorre, ma tutto ritorna circolarmente. Il popolo argentino era vendicato, la guerra ingiusta era vendicata. Il sopruso era restituito al mittente secondo la legge del taglione, e dall’unico uomo al mondo col potere di farlo. Ma che allegoria perfetta della vita sarebbe, il calcio, se tutto ciò che era appena accaduto, fissato in un brandello di storia, non si fosse rimescolato tre minuti dopo? Al 54′ Maradona riuscì a sedurre la realtà ancora una volta. Il destino questa volta non c’entrò nulla, non lo aiutò. E quindi? Chi ha ragione? Il fato esiste o non esiste? Esiste, forse, solo il genio puro? Diego era un dardo. Trovò un corridoio libero a ridosso della fascia destra, e come un ago, penetrò a fondo, dove era possibile succhiare il sangue del nemico. Gravitazione improvvisa, intensiva dello spazio. Diego era la fonte di energia, era lui il nuovo principio dello spaziotempo, e la sua corsa, il suo movimento, sembravano aspirare proprio all’abolizione del tempo, che attraverso i suoi gesti implodeva nell’istante. Diego rientrò a destra, e finì per sorprendere tutti. Ma come per magia, la palla non si allontanò dal suo piede sinistro. Era un anello di saturno, un satellite dinamico governato da moti frenetici di rotazione. Alle sue spalle, Butcher si lanciò in un recupero disperato.
Diego aveva a disposizione solo un corridoio utile per proseguire la corsa, ancora a destra, tra Shilton in uscita che tendeva a coprire l’unico tiro possibile, l’eventuale diagonale rasoterra verso il palo lungo di sinistra, prima che Butcher recuperasse al massimo dello sforzo, poderoso, ansimando come un bufalo ferito. Diego dribblò anche Shilton e toccò ancora di sinistro per l’undicesima volta consecutiva, a porta vuota, celebrando l’estasi. La palla superò la linea, l’Argentina intera indossò il suo riscatto. Butcher l’attimo dopo travolse Diego ma fu troppo tardi. Elastico, furente e feroce, vincente e ormai divinizzato, Maradona si rialzò di scatto. Era un fascio di muscoli unico e totemico. Il suo genio poteva evaporare e svanire all’improvviso nascondendosi nell’esultanza spasmodica, che ormai aveva rubato la scena a ogni altra manifestazione di esistenza lo stesse circondando. Ma il genio vero non è mai ammalato di vanità. Il suo compito era lasciare di nuovo il posto all’uomo, lasciando vivo il ricordo di sé attraverso l’azione magica; ovvero l’arma con cui Maradona aveva sedotto la realtà liberandola dall’obbligo del senso, della legge fisica, e del gioco statistico. L’aveva resa, dunque, più onirica del sogno. Grazie Diego, per avermi spiegato il mondo. Roma, 2020 Leggo della notizia della morte di El Diego, proprio mentre scendo in strada per partecipare alla manifestazione in corso per la chiusura con sgombero dell’ex cinema Palazzo occupato a Roma, nel quartiere San Lorenzo, in cui abito. La mobilitazione è montata durante le ore del giorno, dopo che, già al mio risveglio, Piazza degli Ausoni (dove si trova l’ex cinema) è circondata e chiusa in tutti i suoi accessi da decine di camionette della polizia in tenuta antisommossa. Apprendo il perché da un tweet del sindaco di Roma Virginia Raggi, questo: È un misto di retorica, semplificazione e opportunismo situazionista. La retorica è quella della “legalità” contro l’occupazione di un centro sociale in un paese in cui una ineguagliabile moltitudine di esponenti della classe dirigente è indagato, in carcere, condannato o prescritto. La semplificazione, invece, è tutta nell’equiparazione surrettizia, e dunque vigliacca, di un luogo come l’ex cinema palazzo e la sede di Forza Nuova in via Taranto.
Io, vivendo il quartiere ogni giorno, so perfettamente cosa avviene all’ex cinema, che in un momento emergenziale di vita rarefatta e condizionata dalle misure anti Coronavirus funge da luogo di raccolta di cibo per le persone indigenti, spesa a domicilio per gli anziani e di aiuto a chi ne ha bisogno, oltre che da aula a cielo aperto per gli studenti che non possono accedere all’università. Poiché poi, nel magazzino social dell’era spettacolare integrata nessuna immagine può essere cancellata, in pochi minuti ecco spuntare i video e le foto del tempo in cui la Raggi, da candidata sindaco, andava a fare proselitismo all’ex cinema palazzo occupato. Avvitamenti. Contorsionismi. Siamo al feroce opportunismo. La situazione in divenire mi crea quel connubio di irritazione e senso d’impotenza che governa le vite di tutti, non appena lo sguardo si sposta dalla sfera individuale a quella pubblica. Poi però gli impegni di lavoro prendono il sopravvento. Al pomeriggio scendo le scale, mentre cerco di capire se la morte del Diego è una fake news oppure no, perché nulla è mai certo nel tempo dell’infoteinement 2.0 e del click-baiting. Normalmente le strade in cui vivo non sono presidiate dalle forze dell’ordine, e dunque dovrei percepire l’idea di un fatto nuovo, di un’apparizione o cortocircuito in grado di creare una realtà inedita. Eppure non è così, tutto appare già codificato, già vissuto. Ho già visto altre infinite volte un dispiegamento di forze dell’ordine totalmente smisurato rispetto all’obiettivo prefissato dal loro utilizzo. Perché circondare e chiudere completamente l’accesso a una piazza per moltissime ore, se non per un’esigenza spettacolare, per creare una messa in scena simbolica, che richiami altri procedimenti simbolici?
È tutto vero, Maradona è morto sul serio. In pochissimi secondi, i social obbediscono a una delle loro funzioni principali, codificare la vita e destituirla dell’autentico. La morte dei personaggi famosi è un cardine fondativo. Praticamente ogni giorno muore una star, ma più è immensa la portata del personaggio più il riflesso pavloviano s’ingigantisce. Maradona è oltre immenso, quindi richiede pose e performance social fuori dal comune. Rilanci di pose emotive rispetto agli status più rapidi, esagerazioni, carpiati tripli per parlare di sé. Sono passati dieci minuti dalla notizia ufficiale e già mi arriva in mail la proposta di acquistare un libro su Maradona. È particolarmente in voga il paragone con Dio. È tutto uguale a qualche giorno fa, quando a mancare fu Proietti. Tutto ciò che accade in questo paese è sempre uguale al codice della sua pre-narrazione, e ne ho ulteriore conferma dopo qualche minuto in strada strada. Il corteo è un codice. È identico a tutti i cortei, in tutti gli altri luoghi in cui si muovono cortei. Gli slogan, sono i soliti. A un tratto un coro si alza compatto, è “Bella ciao”. È la giornata contro la violenza sulle donne? Parte il coro “non una di meno”. Ma cosa c’entra con l’ex cinema palazzo? Niente, se la manifestazione non fosse un format. Mi sembra di assistere a ciò che Jean Baudrillard chiamava la “risoluzione anticipata” del mondo per clonazione della realtà e sterminio del reale da parte del suo doppio. Lo ha detto forte e chiaro anche Debord, ma fosse servito a qualcosa. Tutto ciò che era direttamente vissuto, si è allontanato in una rappresentazione. Sono nel gruppo e assisto, fotografo, pronto a mia volta a reiterare il codice del delitto perfetto del
reale, con una certa consapevolezza ironica da vittima designata che incontra un destino ineluttabile. La trama della manifestazione, neanche a dirlo, è un codice anch’essa. Sulle prime è pacifica, festosa, ci sono i colori, c’è il rosso delle bandiere, ci sono i fumogeni. Ma so già, con certezza, che non finirà pacifica. Una manifestazione di protesta che si chiude senza una carica, senza almeno uno scontro tra dimostranti e polizia, non è una rappresentazione completa. E infatti, a un tratto, ecco la carica della polizia sui manifestanti che di forzare la piazza e le cariche delle forze dell’ordine, il finale pre-codificato che darà il via al battage di commenti strumentali, e più o meno polarizzati, della corte dei miracoli al completo che ogni giorno si transustanzia nella società dello spettacolo. Il risultato? La cosa in sé, l’opposizione a decisione politica a garanzia non del bene della collettività ma dell’interesse economico privato in totale disarmonia ambientale (un codice trito anche questo) – sono anni che all’ex cinema Palazzo si vuole impiantare una sala Bingo e slot- machine – è cancellata, oscurata dalla sua rappresentazione fenomenica. Indietro, al tempo di Maradona, non si torna più, oggi meno che mai. Sembrano passate ere geologiche dal giorno in cui, in Argentina – Inghilterra 2-1, al genio inafferrabile e all’uomo intrepido riuscì l’atto poetico in movimento in grado di creare il nuovo.
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