LA NIGERIA IN AFRICA E LA POLITICA DELL'ITALIA - Ispi

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LA NIGERIA IN AFRICA E LA POLITICA DELL'ITALIA - Ispi
LA NIGERIA IN AFRICA E
LA POLITICA DELL’ITALIA
       A cura di Gian Paolo Calchi Novati e Marta Montanini

                                Hanno collaborato:

                                 Alberto Brambilla
                                Giovanni Carbone
                                Francesco Carchedi
                                 Godwin Chukwu
                                  Elisa Meligrani
                                  Giulia Pellegrini
                                 Caterina Roggero
                                  Olabisi Shoaga

Rapporto ISPI per il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

                                    Ottobre 2014
LA NIGERIA IN AFRICA E LA POLITICA DELL'ITALIA - Ispi
Indice

Introduzione                                                                      3

Executive Summary                                                                 4

1. Una potenza alla ricerca di un ruolo                                           7

2. La politica del federalismo: un caso di frammentazione senza disintegrazione   13

   2.1 Un sentimento nazionale in stallo                                          16

   2.2 Gli “inconvenienti” della democrazia                                       17

3. Quattro repubbliche tra civili e militari                                      20

   3.1 Il protagonismo delle forze armate                                         20

   3.2 Le debolezze dell’ordinamento istituzionale                                21

   3.3 La controversia sul principio dell’alternanza                              25

4. Il nuovo gigante economico dell’Africa                                         28

   4.1 Il quadro macroeconomico                                                   28

   4.2 L’obiettivo di Vision 20:2020                                              31

   4.3 Riforme e ostacoli                                                         34

   4.4 La funzione del settore petrolifero                                        35

   4.5 Le riforme fiscali per sostenere gli investimenti                          36

   4.6 Le prospettive per i paesi terzi                                           37

5. Un accordo particolare con l’Unione europea                                    40

6. La politicizzazione dell’islam e l’emergenza Boko Haram                        44

   6.1 Il fondatore, Mohammed Yusuf                                               46

   6.2 Il successore, Muhamed Shekau                                              47

   6.3 Fazioni e tecniche di reclutamento                                         48

   6.4 Il dibattito sull’applicazione della shari’a                               50

                                                       1
Conclusioni                                                           52

7. Le attività criminali: narcotraffico e pirateria                      54

   7.1 La debolezza delle élites                                         56

   7.2 Contrasto alla pirateria: dal Golfo di Aden al Golfo di Guinea?   58

   7.3 L’impatto economico del traffico di stupefacenti                  59

8. Alcuni aspetti dell’immigrazione nigeriana in Italia                  62

   8.1 I dati di base                                                    63

   8.2 Stato civile e struttura per età                                  63

   8.3 I permessi di soggiorno                                           64

   8.4 Origine “etnica”                                                  65

9. Opportunità e strategie per le imprese italiane                       67

   9.1 I settori trainanti                                               68

   9.2 Una nuova fase                                                    70

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Introduzione

La Nigeria nuova potenza economica africana e le opportunità per l’Italia
La Nigeria ha recentemente affiancato al suo noto e storico potenziale demografico un rilevante peso
economico. Questo nuovo status le permette di sfidare con più possibilità il Sud Africa, paese leader a
livello continentale dagli anni Novanta e portavoce degli interessi africani nei rapporti con il resto del
mondo. Com’è dimostrato dalle vicende attinenti all’elezione dell’ultimo presidente della Commissione
dell’Unione africana, non sempre la Nigeria è riuscita ad avere la meglio sul Sud Africa, ma la coscienza
della sua forza a livello economico le consente di sviluppare un attivismo politico anche internazionale
che potrà dare i suoi frutti nel prossimo futuro.
I vantaggi della massa d’urto assicurata dalle sue dimensioni costituiscono il collante necessario alla
Nigeria per far sì che il suo sistema politico e giuridico a carattere federale resista alle spinte centrifughe
da sempre in atto. Nel Rapporto si parla della Nigeria come di un caso di “frammentazione senza
disintegrazione”.
Le ambizioni che Abuja si pone sul piano economico sono ben rappresentate dal piano Vision 20:2020.
Elaborato durante la presidenza di Obasanjo e in fase di piena attuazione sotto l’attuale
amministrazione Jonathan, il piano mira a rendere la Nigeria una delle economie più forti e
concorrenziali a livello mondiale entro il 2020.
In ogni caso, ciò potrà accadere solo a patto che si riesca a dare una risposta efficace agli ostacoli
frapposti dalla corruzione diffusa nonché dalle attività criminali organizzate come la pirateria e il
narcotraffico.
Ancora più importante è il rafforzamento della politica di contrasto, militare ma anche in termini
politici, al ribellismo del movimento jihadista di Boko Haram, che sfrutta ai suoi fini la disaffezione di
vasti strati della popolazione del Nord per una condizione di povertà e di abbandono. Il Sud gode di un
grado maggiore di sviluppo e modernità che evidenzia il distacco dal Nord. Il modello è, a sua volta,
percepito come una forma di alienazione rispetto all’identità fortemente segnata dall’islam che fa da
sfondo alle vicende storiche della Nigeria.
Delle potenzialità della Nigeria sembrano essersi accorti due paesi appartenenti al gruppo Brics: Cina e,
soprattutto, Brasile. Anche l’Unione europea riconosce un ruolo di primo piano al paese, sia
considerandolo in un’ottica a sé stante che nel quadro dell’Ecowas, l’organizzazione regionale
dell’Africa occidentale.
In questo contesto, s’inserisce l’analisi dei rapporti tra Italia e Nigeria contenuta nelle sezioni conclusive
del Rapporto. Partendo dalle interazioni già esistenti tra i due paesi, comprese le potenzialità inerenti
alla diaspora nigeriana sul suolo italiano, si delinea una prospettiva di attuazione delle strategie che le
imprese italiane potrebbero perseguire in Nigeria, identificando i settori più propizi accanto alla
presenza collaudata dell’Eni nel campo energetico. L’obiettivo è sfruttare al meglio le opportunità
offerte dalla poderosa crescita economica dell’aspirante “gigante” africano.

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Executive Summary

Il QUADRO DI RIFERIMENTO: il balzo economico attualmente in atto, unito al tradizionale peso demografico, fa
della Nigeria la prima potenza africana?
Una nuova metodologia di valutazione ha permesso – a cominciare dal 2013 – di promuovere la
Nigeria a prima economia dell’Africa, superando il Sud Africa. Alle dimensioni demografiche e
geografiche la Nigeria, così, ha aggiunto anche quest’altro primato. Il volume del Pil non impedisce,
però, che la Nigeria continui a presentare deficienze, anche rispetto ad altri paesi africani, circa il reddito
pro capite e l’aspettativa di vita alla nascita.
La Nigeria non mancherà di far pesare il “sorpasso” del Sud Africa, sia nella politica regionale sia nella
politica internazionale. Per il momento, tuttavia, il Sud Africa, oltre a essere l’unico membro africano
del G20, vanta la partecipazione ai Brics, consesso portavoce del Sud nella politica e nell’economia
mondiale, ed è riuscito nel 2012 a far eleggere l’ex-moglie del suo presidente, Nkosazana Dlamini-
Zuma, a presidente della Commissione dell’Unione africana.
Non sono mancate, in effetti, disparità di giudizio e di azione fra i due “colossi” della politica africana
nelle crisi continentali degli ultimi tempi. La Nigeria si è mostrata meno ostile alle intrusioni delle
potenze extra-africane. La sensibilità della Nigeria alla recrudescenza della violenza originata dal
jihadismo spiega la maggiore disponibilità di Abuja a collaborare con le potenze occidentali.
Il federalismo continua a rappresentare il punto di forza della Nigeria, sia sullo scenario continentale sia
su quello internazionale. Le alte sfere della politica e i poteri forti attivi in ambito economico sono i
principali difensori del mantenimento della struttura federale dello Stato, che garantisce le diversità
etniche, religiose e comunitarie. Solo così il paese può continuare a sperare di svolgere stabilmente il
ruolo di leader continentale e d’interlocutore africano privilegiato della comunità internazionale.
La Nigeria, dunque, dimostra una buona capacità di far fronte ai rischi di disgregazione. Gli interessi sia
di carattere ideale sia di carattere economico a mantenere un grande Stato unito, benché nella pluralità,
prevalgono sulle tentazioni secessionistiche di singoli stati o di grandi regioni (com’è avvenuto negli
anni Sessanta da parte del Sud-Est, ribattezzato Biafra).
Tornata alla democrazia rappresentativa nel 1999, la Nigeria offre uno scenario politico-istituzionale
complesso, caratterizzato da molteplici frizioni interne.
Il governo federale possiede ampi poteri in tema di sicurezza e di gestione della rendita petrolifera. Le
autorità dei 36 stati federati hanno spesso manifestato le loro rimostranze per una redistribuzione delle
risorse considerata non equa.
Anche al vertice si profila una fase critica per l’eventuale ricandidatura del presidente Goodluck
Jonathan alle elezioni del 2015, con poco rispetto per il principio dell’alternanza fra un presidente
musulmano del Nord e uno cristiano del Sud.

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La RINNOVATA CRESCITA ECONOMICA: quali le basi e quali le prospettive future?
Il Rapporto evidenzia, settore per settore, il quadro macroeconomico nigeriano, soffermandosi in
particolare sul piano di sviluppo Vision 20:2020, attraverso il quale la Nigeria aspira a diventare una
delle venti economie più grandi del mondo entro il 2020.
Il piano Vision 20:2020 ha l’obiettivo di favorire lo sviluppo del paese sulla base di una crescita
economica sostenibile e del rafforzamento delle istituzioni democratiche. Pensata nell’ultimo periodo
delle amministrazioni Obasanjo (1999-2007) con il progetto “Needs” e strutturata durante
l’amministrazione Yar’Adua (2007-2010), la strategia amalgama diversi piani di sviluppo e,
recentemente, è servita da base per l’innesto della Transformation Agenda dell’attuale presidente,
Goodluck Jonathan.
Viene, inoltre, messo in evidenza quanto l’economia nigeriana non sia più così dominata dall’estrazione
del petrolio come in passato, e come in parte erroneamente si credeva. Soprattutto grazie alle riforme
approvate in materia fiscale al fine di sostenere gli investimenti diretti esteri, sono emersi nuovi spazi
per i players esterni di cui può approfittare anche l’Italia.
Nonostante lo sviluppo economico in atto, permangono tuttavia delle criticità. L’esempio più evidente
è quello della mancanza di una solida base infrastrutturale, con ripercussioni sul grado di competitività
del paese.
L’Unione europea, dal canto suo, ha selezionato la Nigeria come un paese prioritario, anche nella sua
veste di pilastro dell’organizzazione regionale dell’Africa occidentale (Ecowas). Naturalmente, Bruxelles
non sottovaluta le difficoltà e i rischi di una simile scelta.
Da parte sua, la Nigeria avanza riserve sulla natura del rapporto con l’Europa, dopo l’abolizione delle
preferenze di cui godevano i paesi africani, nel timore di un’eccessiva invadenza di merci europee.

Gli OSTACOLI ALLA CRESCITA ECONOMICA: quale il peso effettivo della politicizzazione dell’islam e
delle attività criminali in atto?
La destabilizzazione diffusa in tutta la fascia settentrionale del paese dai fenomeni terroristici che fanno
capo a Boko Haram accentua una divisione fra Nord e Sud che non è stata mai completamente
sdrammatizzata.
Il Rapporto esamina lo sviluppo storico di Boko Haram, concentrandosi sull’analisi delle due diverse
leadership che ne hanno definito le caratteristiche essenziali: prima quella, più politica, del fondatore
Mohammed Yusuf, poi quella, decisamente militarizzata, del successore Muhamed Shekau.
Ampio spazio viene dedicato anche alle diverse fazioni interne che si sono progressivamente sviluppate,
oltre che alle tecniche di proselitismo e di combattimento che Boko Haram impiega per il
raggiungimento dei suoi scopi, tenendo sempre presente il dibattito interno sull’applicazione della
shari’a.
Sui metodi di contrasto è in atto in Nigeria e nelle stesse Forze armate un dibattito fra la soluzione
strettamente militare e una strategia più articolata che cerchi di affrontare anche i motivi politici del
fenomeno.

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Il movimento travalica i confini della Nigeria e investe sempre di più il Niger e il Camerun minacciando
in prospettiva anche il Ciad, principale alleato della Francia nella regione.
Il Rapporto dedica, inoltre, la dovuta attenzione alle forme di criminalità organizzata più diffuse in
Nigeria, molto spesso fomentate dalle élite al potere ai fini della lotta interna. La pirateria sembra aver
attecchito anche nel Golfo di Guinea, dopo essersi sviluppata nella culla del Golfo di Aden. Una certa
attenzione merita anche il traffico di stupefacenti in transito dai paesi di produzione ai mercati in
Europa e America, piaga comune anche ad altri paesi africani.
Si tratta di fenomeni che costituiscono un ostacolo ulteriore, oltre a quello del terrorismo di matrice
islamica e comunque alle tensioni inter-religiose, per lo sviluppo delle attività economiche,
rappresentando anche una possibile minaccia per la stabilità, la pace e la sicurezza.

NIGERIA E ITALIA: dal “monopolio” del petrolio a nuove possibilità d’investimento per le imprese italiane?
Non ci sono particolari motivi storici o di prossimità a favore di un rapporto privilegiato tra Italia e
Nigeria. Ci sono, in compenso, molti motivi di stringente attualità che riguardano sia la geopolitica sia
l’economia.
Quantitativamente, la Nigeria è già un partner importante per l’Italia, ma l’Italia non figura ai primi
posti nella classifica dei partner della Nigeria. Solo nel campo petrolifero spicca la presenza dell’Eni, che
sta peraltro abbandonando i giacimenti on-shore per i più “sicuri” giacimenti nelle acque profonde.
Il made in Italy gode di un’attrazione virtuale maggiore dei risultati fin qui conseguiti. Il formato delle
nostre imprese si adatta apparentemente alle esigenze del mercato nigeriano, in rapida e tumultuosa
crescita in settori come l’industria manifatturiera, l’edilizia, e in genere le infrastrutture, ecc. D’altro
canto, le asperità consigliano di studiare con molta attenzione il momento e le modalità di ogni
intervento.
In Italia sono presenti fra 50 e 70 mila cittadini nigeriani, più o meno integrati, come dimostra il
Rapporto sulla base delle statistiche quantitative e delle occupazioni. I dati sono stati analizzati tenendo
conto di alcune categorie: stato civile; struttura per età; permessi di soggiorno; origine “etnica”. In
passato, il governo nigeriano tentò di dare una maggiore organicità al rapporto con l’Italia attraverso la
diaspora. L’iniziativa non ha sortito molto successo, ma potrebbe essere ripresa da parte italiana proprio
in vista di una partnership paritaria e pluri-dimensionale con il “gigante” dell’Africa.

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1. Una potenza alla ricerca di un ruolo

Nel duello a distanza con il Sud Africa per la leadership a livello continentale la Nigeria è partita
svantaggiata. Del carisma che si meritò Nelson Mandela per com’è stata vinta la lotta contro l’apartheid
ha goduto di riflesso tutto il Sud Africa. Ma il Sud Africa non può competere con la Nigeria né per le
dimensioni né quanto a “negrità”. La forza della Nigeria sta nei numeri, anche se il paese non ha
sempre avuto con essi un buon rapporto. Per molto tempo, a fin di bene, i nigeriani preferirono non
contarsi. Ogni censimento rischiava, infatti, di aprire un contenzioso perché sui numeri era stato
edificato il sistema politico-istituzionale con, all’interno della Federazione, tre grandi regioni, in senso
lato mono-etniche: la maggioranza nel parlamento federale rispecchiava il peso demografico e siccome
nelle tre regioni agiva un partito dominante, la maggioranza e la minoranza erano decise di fatto dai
censimenti. Dopo le prime diatribe si preferì l’approssimazione all’esattezza, che avrebbe potuto
rimettere tutto in discussione.
         Il gap in termini di popolazione fra Nigeria e Sud Africa non lascia dubbi. Ciò nonostante, fu il
Sud Africa e non la Nigeria a essere cooptato nel 2011 dai Bric, il “cartello” del Sud globale con Brasile,
Russia, India e Cina, e per l’occasione rinominato Brics. Il Sud Africa ha meno di 50 milioni di abitanti
e le sue proporzioni non sono all’altezza di quelle degli altri Stati membri. La popolazione della Nigeria
è fra i 170 e i 180 milioni di abitanti, più della Russia, e potrebbe raddoppiare in 20-25 anni. Il
confronto fra Nigeria e Sud Africa potrebbe riproporsi se in un Consiglio di Sicurezza dell’Onu
riformato ci fosse un seggio permanente riservato a uno stato africano.
         La superiorità del Sud Africa trovava comunque una convalida da dati economici quali il volume
del Prodotto interno lordo e la capacità di attrarre investimenti dall’estero. Il “sorpasso” da parte della
Nigeria si riteneva sarebbe stato possibile solo verso il 2025-2030 e a condizione che il tasso di crescita
dei due paesi restasse lo stesso (7% in Nigeria contro il 4% in Sud Africa). Nel 2014, invece, con
l’adozione di criteri di valutazione diversi, dando per esempio il giusto spazio al settore delle
telecomunicazioni, si è preso atto che la Nigeria già nel 2013 aveva superato di slancio il Sud Africa
(510 miliardi di dollari contro i 370 del Sud Africa). Ormai anche l’economia e non solo la demografia
dice Nigeria. Il reddito pro capite però è ancora tre volte più alto in Sud Africa. Anche il dato riguardante
l’aspettativa di vita alla nascita, che in Nigeria è di 52 anni, stando ai dati della Banca mondiale, vede il
“gigante” indietro di 10 anni rispetto al vicino e, per certi versi, rivale Ghana. Milioni di nigeriani
vivono al di sotto della soglia di povertà con stime che possono andare da un minimo di 30 a un
massimo del 90%, mentre il dato che si ricava spesso dalle fonti semi-ufficiali si aggira attorno al 40-
50%.
         Anche così, la competizione fra Nigeria e Sud Africa per il primato resta aperta. Nel 2012 il Sud
Africa, deciso a imporre il proprio candidato alla testa della Commissione dell’Unione africana, ingaggiò
una battaglia all’ultimo voto. La Nigeria, che non presentava un suo candidato, non voleva però
concedere tale vantaggio alla potenza rivale. Nell’aria c’era anche un accordo non scritto che impegnava

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i Grandi a non proporsi per i posti di vertice nell’UA. Fu così che la Nigeria, dimenticando i molti
motivi di frizione, si accodò alla cordata francofona nel sostenere la rielezione del gabonese Jean Ping,
sebbene da molte parti si ritenesse giunto il momento per un presidente espresso dall’Africa anglofona.
         Il candidato sudafricano aveva il vantaggio di essere una donna, ma il suo nome di famiglia
non era affatto gradito alla Nigeria, trattandosi della moglie, sia pure divorziata, del presidente del Sud
Africa. Nkosazana Dlamini-Zuma alla fine fu eletta il 15 luglio 2012, dopo molti scrutini, e la Nigeria
dovette accettare la sconfitta. Il governo sudafricano sperò di soddisfare in un’altra sede le aspettative
della Nigeria appoggiando il suo candidato, anche in questo caso una candidata, alla presidenza della
Banca mondiale. Gli Stati Uniti, non erano pronti a rinunciare alla consuetudine che riserva loro quel
posto, nella votazione decisiva, infatti, Ngozi Okonjo-Iweala, ministra delle Finanze della Nigeria,
venne sconfitta.
         L’estensione geografica della Nigeria, tanto più rilevante dal momento che questo “gigante” si
trova in una regione, l’Africa occidentale, molto spezzettata, fa sì che essa detenga quasi naturalmente
una posizione di preminenza a livello geopolitico1. È con tutta evidenza la potenza leader
dell’organizzazione regionale per l’Africa occidentale, l’Ecowas, e ha spesso forzato l’agenda di
un’associazione eminentemente economica utilizzandola in operazioni di sicurezza: ciò è avvenuto in
Liberia e Sierra Leone, due paesi anglofoni ancorché sui generis, perché entrambi si sono formati
dall’insediamento di schiavi liberati. Non è detto che una simile sovraesposizione della Nigeria, che
capitanò sia l’una sia l’altra forza d’intervento, passò indenne, ma diverso sarebbe stato se l’intervento si
fosse verificato in un paese francofono. Al tempo della guerra nel Sud-Est della Nigeria, innescata
dall’auto-proclamazione dell’indipendenza del Biafra con capitale Enugu, la Francia dimostrò in vario
modo di voler sostenere la causa dei secessionisti (anche in chiave petrolifera) e indusse fra l’altro due
governi a essa molto fedeli a riconoscere ufficialmente il Biafra: la Costa d’Avorio e il Gabon (in
aggiunta a Tanzania e Zambia, che avevano altri moventi). Così, quando nel gennaio 2013 Hollande
anticipò la formazione dell’“armata africana” prevista dalla risoluzione dell’Onu per far fronte alla crisi
in Mali e schierò le truppe francesi con il sostegno anzitutto del Ciad, allora potrebbe aver giocato
proprio l’intento di sottrarre alla Nigeria la più che probabile direzione dell’intera operazione.
         L’esercizio effettivo delle capacità di leadership della Nigeria sul piano africano – pensando alle
politiche dell’Unione africana, ma soprattutto all’azione delle potenze sia tradizionali sia emergenti, che
convergono sull’Africa – dipende essenzialmente da due questioni: l’energia e il sovversivismo di
matrice islamico-radicale. In entrambe, nel bene o nel male, la Nigeria è direttamente implicata.
         La Nigeria uno dei grandi bacini petroliferi dell’Africa, insieme ad Angola, Sudan e forse
prossimamente Mozambico, si presenterà sempre più come una zona calda dell’ormai avviato Scramble
for Oil: uno scenario inquietante per uno stato che presenta di per sé «quelle condizioni d’instabilità
politica, alterazione sociale e fragilità economica capaci di spinger[lo] sul declivio della violenza»2. La
correlazione fra petrolio e stabilità in Nigeria è decisamente sbilanciata: una conflittualità creata e
alimentata più o meno pretestuosamente dall’attività petrolifera, la principale fonte di reddito a livello di
Federazione e nel contempo prova stridente di una grande ineguaglianza sociale. I benefici della rendita
ne risultano oscurati. La sua redistribuzione costituisce uno dei punti dolenti delle relazioni fra gli stati e
il governo federale nonché fra il potere nell’accezione onnicomprensiva e la popolazione.

1 La “balcanizzazione”, contrastata a lungo da Senghor, non trovò rimedio al momento della decolonizzazione perché la
Francia mantenne ferma una frammentazione ritenuta funzionale ai suoi residui disegni di egemonia (il famoso stilema del
“neo-colonialismo” è nato proprio in quel contesto).
2 A. Fabbiano, Idrocarburi e geopolitica in Africa subsahariana. Il caso della Nigeria, Conferenza di Studi africanistici, Napoli 2010.

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Non vale in Nigeria la relativa “esternalità” del petrolio perché è cominciato solo da poco il
graduale spostamento dell’esplorazione e della produzione dall’on-shore all’off-shore. Il petrolio ha
trasformato ormai in una landa bituminosa una regione nevralgica come il Delta del Niger. Di recente,
sono stati scoperti campi sottomarini, molto allettanti, non certo per i costi di gestione, molto alti,
quanto per la sicurezza, più facile da garantire in mare che sulla terraferma benché si siano registrati
attacchi anche alle piattaforme nell’oceano.
          La Cina ha aumentato decisamente la sua presenza in Nigeria, ma è ancora lontana dalle
posizioni che si è conquistata nel settore petrolifero in alcune aree del Sudan o dell’Angola. Proprio
all’inizio del 2014 un’impresa cinese ha annunciato un investimento di 10 miliardi di dollari nel settore
oil and gas nello stato del Niger, suscitando molti favori in un momento in cui si assiste a un certo
disinvestimento da parte di altre nazioni o compagnie. A Lagos dal 2004 esiste una Chinatown, con
tanto di arco trionfale che inneggia all’amicizia fra Nigeria e Cina, ma molti negozi al dettaglio si
trovano oggi in serie difficoltà economiche. Più successo fa registrare l’impegno commerciale in settori
come l’high tech. Ufficialmente i cinesi residenti in Nigeria sarebbero 17 mila, ma la cifra è sicuramente
sottostimata. Dal 2009 all’Università di Lagos è attivo l’Istituto Confucio.
          La formula “energia contro infrastrutture” su cui si fonda l’attività della Cina nel campo del
petrolio fatica a imporsi in Nigeria, più interessata al trasferimento di tecnologia e soprattutto di mezzi
per la sicurezza interna che le forniscono più volentieri e con più dovizia i paesi occidentali. Da qualche
anno ha fatto la sua comparsa, soprattutto nel settore del gas, anche la Russia, offrendo finanziamenti e
know how per lo sfruttamento e il trasporto. La produzione nel Golfo di Guinea avviene di norma
attraverso joint venture con imprese straniere che si assumono l’onere delle operazioni di ricerca,
estrazione e commercializzazione. Non si è estesa qui finora la tendenza nazionalizzatrice che prevale
altrove.
          Intorno al petrolio si combatte una guerra in parte politica e in parte di pura speculazione. Il
Mend (Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger) ha messo in pericolo con la guerriglia la
prosecuzione delle perforazioni. Nonostante un accordo, con tregua annessa, raggiunto fra il governo e
il Mend, che ha esaudito alcune delle richieste degli stati produttori e ha avviato un programma di
reinserimento in attività lecite dei combattenti, la questione del Delta incombe sempre come una
bomba a orologeria, compromettendo oggettivamente lo status della Federazione sul piano della politica
internazionale. Qui è il Sud a rappresentare la parte di chi rivendica, accusando il Nord (in realtà un
potere identificato comunque con il Nord e il ceto dominante che prospera sulla rendita) di sfruttare a
suo esclusivo profitto una risorsa che si trova nel Sud e che lo ha contaminato in misura irrimediabile,
tanto da equiparare lo stanziamento di una quota più alta di royalties a un risarcimento.
          Il quadro d’insieme può sembrare contraddittorio. Molti dirigenti del governo centrale (quasi
tutti fino all’era Obasanjo) sono arrivati dal Nord, dove sono situate le città che hanno fatto la storia
della statualità hausa-fulani e le Università sedi del sapere islamico. Ma sono nel Sud i centri del
commercio con il mondo extra-africano e le fondamenta dell’economia di tratta dall’oil (olio di palma)
all’oil (petrolio). Qui nasce, fra yoruba e igbo, il pensiero e movimento nazionale che trova origine dal
modello europeo. Secondo la storiografia nigeriana fondata da J.F.A. Ajayi, il dominio europeo ha
interrotto ed espropriato il processo di centralizzazione e in ultima analisi di modernizzazione ispirato
dall’esperienza islamica culminata nell’impero di Sokoto. Con l’avvento del colonialismo, il fulcro del
progresso politico e dello sviluppo economico si è spostato verso le regioni meridionali aprendo un
contenzioso che ha avvelenato le vicende della Nigeria indipendente. Anche oggi la “modernità” viene
declinata piuttosto sulla lunghezza d’onda dell’economia e della società del Sud, che è indubbiamente

                                                    9
quella più segnata anche esteriormente dall’influenza alienante del mondo coloniale-occidentale,
offrendo una giustificazione apparente alla lotta e alle esasperazioni del movimento islamista.
        La religione è l’altro tema incendiario per la vita associata del “gigante nero”. L’azione di Boko
Haram trascende ormai il quadro strettamente nazionale e proietta la Nigeria verso tematiche
transnazionali. Intanto, contagia direttamente i paesi confinanti, soprattutto nella regione saheliana, e
prolunga fino in Nigeria l’emergenza jihadista con le implicazioni internazionali seguite alla war on terror
indetta da George W. Bush nel 2001 e proseguita con altri criteri da Barack Obama. Il bersaglio di
Boko Haram più minacciato è il Camerun, dove l’attività terroristica beneficia sicuramente di vaste
complicità. Il governo camerunese è corso ai ripari, creando una nuova regione militare sul confine e
lanciando contemporaneamente un piano d’urgenza per sviluppare il Grande Nord. Nel Niger i jihadisti
trovano rifugio dopo le incursioni, ma il paese nel suo nucleo istituzionale resiste bene. Una novità, con
una possibile modifica dei rapporti di forza, sarebbe un coinvolgimento diretto del Ciad, l’alleato più
prezioso per la Francia nella regione e sicuramente il paese militarmente più dotato fra i paesi
francofoni adiacenti.
        Il capo di Boko Haram, chiunque egli sia (in settembre è stata annunciata la morte in uno
scontro a fuoco che sarebbe avvenuto fra Camerun e Nigeria di Muhamed Shekau, succeduto al
fondatore del movimento, Mohammed Yusuf, riprendendo una notizia affiorata più volte anche in
passato senza conferme sicure), è il solo leader della galassia islamista ad aver fatto pervenire la propria
solidarietà e quasi un riconoscimento al fondatore del cosiddetto Califfato creato fra Tigri ed Eufrate.
Ma in Nigeria l’islam politico non è un sotto-prodotto di ciò che è avvenuto nel Grande Medio Oriente.
Un impulso a rilanciare il jihadismo ottocentesco come alternativa di sistema più ancora che di governo
è venuto se mai dalla rivoluzione di Khomeini.
        Il governo nigeriano è solito dissociarsi dalla preconcetta opposizione – propria invece del Sud
Africa – alla gestione extra-africana delle crisi nazionali. Per la sua posizione geografica e per la
virulenza dell’attacco di Boko Haram, la Nigeria è ovviamente più esposta alle cause in cui figuri la
questione islamica. Nel 2011 non fu così intransigente come Zuma contro la guerra in Libia, che
interruppe comunque i rapporti dell’Unione africana con la Nato, e contro l’intervento francese ad
Abidjan per imporre la presidenza di Ouattara. Passata la prima sorpresa, anche nella vicenda del Mali
ha reagito all’Operazione Serval con più collaborazione che malumore. Le autorità di Abuja hanno
anche accettato di partecipare a una riunione di consultazione a Parigi con la Francia e alcuni paesi della
regione saheliana per coordinare l’azione contro Boko Haram. Non si può sapere quanto l’iniziativa
presa dalla Francia sia stata ben ispirata: a parte le maggiori o minori gelosie dei governi, l’interferenza
di Stati terzi, e tanto più della Francia per la sensibilità dei nigeriani, diventa un’arma in più per una
forza come Boko Haram che sbandiera argomenti come patriottismo e buon governo.
        La reazione tutta e solo “militare” dello stato alla sfida di Boko Haram è al centro del dibattito
pubblico in Nigeria3. Un quinto del bilancio dello stato serve a finanziare il sistema di sicurezza. Nei
comandi dell’esercito sarebbe in atto una faida fra i fautori del Security First e gli ufficiali che credono di
più in una strategia politica. Il nuovo consigliere militare del presidente, il colonnello Sambo Dasuki, si
propone come primo obiettivo di prendere tutte le misure opportune affinché «la nostra gente non si
dedichi al terrorismo». Di per sé, l’esercito ha fama di essere un’istituzione “nazionale” al di là dell’etnia

3 ‘Sans la brutalité de l’état, nous n’en serions pas là’, questions a Marc-Antoine Pérouse de Montclos, “Jeune Afrique”, 22-28
janvier 2012, p. 28.

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degli alti quadri, ma da molte parti viene accusato di brutalità controproducenti4. Il partito di governo e
quelli di opposizione si rinfacciano a vicenda di speculare sul “pericolo Boko Haram” a fini elettorali e a
spese dei civili.
         In Nigeria l’islam ha un posto di assoluto spicco, specialmente nel Nord, per i suoi trascorsi
storici e perché pratica forme di assistenza surrogando le carenze dello stato. Nelle espressioni estreme,
integralismo islamico e integralismo cristiano veicolano due concezioni opposte della società: mentre
l’islam si fa interprete di una sorta di “teologia della liberazione” in soccorso dei più poveri, le Chiese
pentecostali promuovono una “teologia dell’opulenza”, esaltando il capitalismo, il consumismo e
l’affermazione personale. Al punto in cui è arrivata l’offensiva di una setta armata il cui nome significa
“Bando alla cultura occidentale”, è la stessa idea di Nigeria a essere in bilico. Il Premio Nobel per la
letteratura, Wole Soyinka, ha lanciato un grido d’allarme. Un motivo di preoccupazione in più è
rappresentato dai collegamenti internazionali di Boko Haram con al-Qaida e il movimento gemello nel
Maghreb (al-Qaida dans le Maghreb islamique, Aqmi) e persino con gli estremisti somali di Shabaab5.
La Nigeria è uno dei membri della Trans-Saharan Counter-Terrorism Partnership creata dagli Stati
Uniti, che prevede come minimo forme di collaborazione a livello di intelligence militare, nel quadro della
chiamata alle armi contro l’islam politico.
         Una spaccatura irreparabile fra Nord e Sud, oltre a ferire a morte la Nigeria e l’intera Africa,
sarebbe l’inizio di una catastrofe umanitaria: se è vero, infatti, che in maggioranza i musulmani vivono
negli stati settentrionali e i cristiani negli stati del sud, l’habitat dei fedeli delle due religioni risulta
abbastanza promiscuo in tutto il territorio nigeriano, con la moschea e la chiesa vicine, non solo come
si è fatto di proposito nel centro della nuova capitale Abuja con intenti dimostrativi, ma anche nello
stesso quartiere delle città in tumultuosa crescita e nei villaggi.
         La Nigeria sa che le sue mire di potenza e influenza presuppongono un cambio di profilo
politico che, dopo il danno non solo d’immagine per causa dei molti generali in guanti neri, è tutt’altro
che irreprensibile: un multipartitismo debole e frequenti contestazioni elettorali, la corruzione della
pubblica amministrazione, la violenza inter-religiosa, ecc. In un contesto a basso o bassissimo indice di
fiducia lo stile di condotta della dirigenza politico-amministrativa è determinante e in Nigeria i vertici al
potere, troppo insicuri di sé per fidarsi della via della persuasione, sono portati troppo spesso a usare la
forza o la frode6. Tutta la regione in cui il paese esercita un innegabile primato è attraversata del resto da
spinte destabilizzanti. Almeno fino agli ultimi pogrom di Boko Haram, che ha comunque una genesi
diversa dalla belligeranza diffusa nella fascia sahelo-sahariana, non si aveva notizia di sequestri o episodi
di violenza di matrice qaidista in Nigeria. L’epicentro di questa guerra non dichiarata – in cui s’infiltra la
criminalità comune, contrarissima agli apparati di controllo che intralciano i traffici leciti o illeciti (il
contrabbando ha costituito per decenni una risorsa insostituibile per l’economia regionale) – si trova
più a nord, fra Mali, Niger, Mauritania e Algeria7. La dispersione nel Sahel di uomini armati e addestrati
alla guerra in fuga dalla Libia è stata un’altra fonte di violenza che ricade suo malgrado sulla Nigeria, che
da soggetto diventa oggetto.

4 Lo stesso fondatore di Boko Haram, Mohamed Yusuf, è morto nel luglio 2009 mentre era detenuto nei locali della polizia

(N. Norbrook, Le Nigeria est-il gouvernable?, “Jeune Afrique”, 22-28 janvier 2012, p. 24).
5 J. Herskovits, Au Nigeria, Boko Haram a le dos large, “Jeune Afrique”, 15-21 janvier 2012, p. 34.
6 L’intenzione di procedere con la forza per debellare le milizie di Boko Haram domina l’intervista al generale Owoye

Andrew Azazi, allora consigliere per la sicurezza nazionale (‘We can’t go back to 1966’, “The Africa Report”, February 2012,
pp. 30-33). Il riferimento al 1966 richiama i precedenti della guerra del Biafra, evocata come un incubo ricorrente in un
discorso dello stesso presidente Goodluck Jonathan.
7 W. Lacher, Organized Crime and Terrorism in the Sahel, “Swp Comments”, Stiftung Wissenschaft und Politik, Berlin 2011.

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La Nigeria ha portato a termine con relativo successo il processo di ri-costituzionalizzazione,
ponendo termine al lungo periodo in cui spadroneggiavano i militari, spesso in guerra fra loro, ma le
istituzioni sono ancora precarie sia nella dimensione stato federale-stati federati sia in quella musulmani-
cristiani. Quest’ultima relazione si confonde per certi versi con la dualità fra il Nord e il Sud in cui, per
motivi storici, ma anche per una consuetudine classificatoria al limite della semplificazione, si usa
dividere la più popolosa nazione africana. In effetti, la Costituzione statuisce un’appartenenza di tipo
civico, paritaria, come la vera qualificazione ai fini del godimento dei diritti8. In numerosi stati del Nord
è stata adottata la legge coranica (shari’a) e questo basta a introdurre un fattore di discriminazione cui
non sempre il potere centrale riesce a porre rimedio.
         È così che viene vissuta la disputa a proposito della possibile candidatura del presidente in
carica, Goodluck Jonathan, alle prossime elezioni. Agli occhi della popolazione, Jonathan non gode di
una legittimazione a tutta prova per la forzatura che oggettivamente è intervenuta rispetto all’alternanza
fra un capo di stato musulmano del Nord e un capo di stato cristiano del Sud. Originario del Delta del
Niger, Jonathan è a tutti gli effetti un uomo del Sud. È quasi automatico così spiegare la crisi di
consenso con il disagio e l’insoddisfazione delle genti del Nord, già insofferenti per le loro condizioni di
maggior povertà. Jonathan divenne vice-presidente (cristiano) nel ticket con a capo il musulmano Umaru
Musa Yar’Adua che si impose nelle elezioni del 2007, ma morì quando era a metà del primo mandato.
La successione di Jonathan fino al compimento del mandato avvenne in piena osservanza delle leggi e
del fair play: non altrettanto può dirsi, almeno per il fair play, quando Jonathan ha chiesto e ottenuto
l’investitura nel 2011 come candidato alla presidenza del suo partito, maggioritario nel paese e nel
parlamento, ed è quindi stato eletto alla massima carica frustrando l’aspettativa dei musulmani per un
mandato a cui credevano di aver diritto. I dubbi si moltiplicano mentre ci si avvicina al 2015.

8 Una causa costante di attriti che rischiano sempre di tingersi di tonalità religiose è il principio secondo cui la proprietà della
terra nei vari stati spetta ai residenti per così dire autoctoni.

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2. La politica del federalismo: un caso di frammentazione senza
disintegrazione

Il tema dell’indivisibilità e indissolubilità della Nigeria come nazione è uno degli argomenti di cui è stato
formalmente vietato parlare in seno alla Conferenza nazionale, che si è svolta dal 17 marzo al 21 agosto
2014. Nonostante il divieto, questo tema continua a porsi alla base di una delle preoccupazioni politiche
di maggior peso. La Nigeria, lo stato più popoloso dell’Africa e principale produttore di petrolio
continentale1, racchiude in sé una società fortemente pluralistica. La popolazione nigeriana,
comprendente più di 170 milioni di persone, è suddivisa quasi in egual misura fra cristiani e musulmani.
Il paese è composto da più di 250 gruppi etnici e la diversità culturale è spesso considerata come il
tallone d’Achille che potrebbe, in ultima analisi, causarne la disintegrazione.
          Ancor prima che la Nigeria divenisse indipendente nel 1960, era già stato messo in evidenza
come le comunità etno-linguistiche entrate a far parte di questo nuovo stato avessero poco in comune
al di là della contiguità geografica e di un periodo coloniale comune. Già nel 1947, Obafemi Awolowo,
storica figura chiave del movimento d’indipendenza, aveva pubblicamente dichiarato di vedere la
Nigeria non come una nazione, ma come una mera espressione geografica (citando, forse senza volere,
ciò che si è detto anche dell’Italia). L’anno seguente, Alhaji Sir Abubakar Tafawa Balewa, futuro primo
ministro della Nigeria, similmente, si era riferito all’unità nigeriana come a una mera invenzione
britannica.
          Tali dichiarazioni non furono smentite e continuarono a essere veridiche anche nei quindici
anni successivi all’indipendenza, quando, alla fine degli anni Sessanta, una dura guerra civile ebbe luogo
e scoppiarono numerosi altri conflitti etnici, religiosi, tribali e socio-economici. Nonostante simili
accadimenti, è oggi profondamente accettata l’idea che ogni tentativo di dissoluzione dell’unità dello
stato sia antipatriottico e configuri il reato di alto tradimento2. Vi è, inoltre, consenso generale sul fatto
che l’attuale sistema politico nigeriano lasci molto a desiderare. Solo una Conferenza nazionale sovrana
poteva, dunque, costituire il forum più idoneo in cui dibattere della questione3.
          La Nigeria, formalmente uno stato federale, è in realtà uno stato unitario con una forte
componente di decentralizzazione e una struttura politica notevolmente frammentata4. Il governo è
l’istituzione preposta al consolidamento dell’unità nazionale attraverso l’integrazione dei gruppi
politicamente più rilevanti, la protezione degli interessi delle minoranze, la rappresentanza
proporzionale e l’autonomia segmentaria sulla base di un’organizzazione federale (definita
“consociazionale”). Il governo è dunque articolato in una struttura a tre livelli: federale, statale (36 stati)
e locale (774 consigli governativi locali).

1 Bbc, Nigeria Becomes Africa’s Biggest Economy, 6 April 2014.
2 C. Oji, Call for Nigeria’s Dissolution Treasonable. Ohanaeze Youths Tell Northern Counterparts, “The Nation”, 29 July 2014.
3 S. Aborisade, Senate President Backs National Conference, “Punch”, 18 September 2013.
4 D. C. Bach, Inching towards a Country without a State: Prebendalism, Violence and State Betrayal in Nigeria, in C. Clapham, J. Herbst,

G. Mills (eds.), Big African States, Wits University Press, Johannesburg 2006, pp. 63-96.

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Nonostante l’adozione di una simile struttura istituzionale, con un graduale e sempre crescente
aumento del numero degli stati, fino agli attuali 36, partendo da tre grandi regioni, pensata al fine di
proteggere gli interessi delle c.d. minoranze (alcune sono più numerose della popolazione di interi stati
africani), i governi – sia quello federale che quelli dei 36 stati federati – rimangono essenzialmente
dominati da una triade costituita dai tre gruppi geograficamente ed etnicamente prevalenti: gli hausa-
fulani, gli igbo o ibo e gli yoruba. Dunque, la Nigeria va più opportunamente descritta come una
federazione di differenti regioni. Essa è formata da sei principali regioni geopolitiche: il Sud-Est, il Sud-
Sud, il Sud-Ovest, il Centro-Nord, il Nord-Est e il Nord-Ovest.
         Questa suddivisione schematica ha contribuito alla creazione di un compromesso per la
ripartizione del potere e delle risorse tra le diverse élites politiche del paese, ma ha avuto scarso successo
in tema di riduzione delle spaccature interne. Queste ultime ruotano attorno a variabili etniche,
religiose, geografiche, socio-economiche e politiche. Esse si esprimono soprattutto attraverso la
violenza localistica associata alla strumentalizzazione dell’etnicità o della religione, conducendo, a ogni
occasione, a non indifferenti perdite di vite umane e di proprietà materiali. Una conseguenza correlata a
tutto ciò è rappresentata dal simultaneo incremento della diffidenza reciproca e della disunità.
         I conflitti etnici e locali sono generalmente alimentati dalle diversità culturali e dalle differenze
socio-economiche e politiche. Queste si sono talvolta fuse nel contesto dell’esacerbata discriminazione
insita nella dicotomia indigeni-colonizzatori. Ai sensi della Costituzione nigeriana, gli indigeni o
autoctoni, vivendo nelle loro ancestrali terre d’origine, beneficiano dei privilegi derivanti dallo ius
sanguinis applicato alla terra di effettiva residenza5. Essi detengono un diritto di prelazione sulle risorse
economiche, politiche e sociali associate alla cittadinanza e, in particolare, alla terra. Dall’altro lato, i
coloni, gli immigrati e i discendenti degli immigrati provenienti da altre aree del paese sono ritenuti meri
residenti senza diritto di cittadinanza dello stato, indipendentemente dalle modalità di assimilazione nei
nuovi territori. Il fallimento nel rispetto dei costumi e delle tradizioni locali, la competizione per
l’accesso e lo sfruttamento delle risorse economiche – inclusa l’acqua, le terre, i posti di lavoro, gli
incarichi politici – e i conseguenti guadagni costituiscono le cause sottostanti alle tensioni tra indigeni e
non indigeni.
         Molti conflitti presentano una dimensione religiosa. Il Nord della Nigeria è in prevalenza
musulmano, mentre il Sud è principalmente cristiano. Tuttavia, vi sono delle sovrapposizioni tra le due
religioni e molti insediamenti umani a religione mista. Il Sud-Est è diviso tra cristiani e musulmani.
Minoranze etniche cristiane sono presenti nel Nord a maggioranza musulmana, mentre alcuni gruppi
etnici e tribù si collocano a metà fra le due religioni. L’attenzione internazionale, attualmente, si
concentra sull’insurrezione guidata da Boko Haram6, ma esiste una lunga storia di radicalismo islamico e
di violenza nel Nord del paese. Il fondamentalismo religioso ha ottenuto una nuova spinta fra fine anni
Settanta e primi anni Ottanta.
         Alcuni leader politici sono consapevoli della potenziale minaccia all’attuale sistema di governo
rappresentata dai gruppi religiosi radicali e sono state pertanto prese alcune misure atte a prevenirne
l’azione distruttiva. Dal 2000 dodici stati del Nord adottano la shari’a, il codice giuridico islamico. Ciò è
accaduto alcuni mesi dopo l’avvio della Quarta Repubblica, con a capo un presidente non musulmano
originario del Sud-Ovest, Obasanjo. L’imposizione della shari’a da parte dei governatori di questi dodici

5 La Sezione 318(1) della Costituzione della Repubblica Federale di Nigeria del 1999 favorisce i diritti degli indigeni,
ponendosi però in contraddizione con le Sezioni 17(2) e 42 che accordano eguali diritti a ogni cittadino nigeriano,
indipendentemente dal suo luogo d’origine.
6 Boko Haram è anche noto come Jama’at Ahl al-Sunna li al-Da’awat wa al-Jihad.

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stati potrebbe essere interpretata come una strategia politica finalizzata all’acquisizione di legittimazione
attraverso la delegittimazione del governo centrale. Si tratta, peraltro, di una pubblica dimostrazione
della distanza che i leader del Nord intendono interporre tra loro stessi e la corruzione, l’impunità e altri
atteggiamenti impopolari connessi con un governo federale allora non islamico.
         L’attivismo delle milizie etniche a partire dal ritorno del paese alla democrazia nel 1999 ha
esacerbato la crisi della governance. C’è stata una proliferazione di gruppi militanti subnazionalisti come
l’Oodua People’s Congress (negli stati yoruba del Sud-Ovest), l’Arewa Peoples’ Congress (nel Nord
musulmano), il Movement for the Actualization of the Sovereign State of Biafra (nel Sud-Est) e lo Ijaw
Youth Council (nella regione del Delta del Niger). Questi gruppi militanti hanno come obiettivo di
cambiare le regole dell’amministrazione, ma sono stati altresì coinvolti in attacchi e contrattacchi rivolti
ad altri gruppi militanti ed etnici.
         Queste milizie sono anche la dimostrazione e la conseguenza dell’assenza dello stato. Esse,
insieme ad alcuni gruppi armati, come i Bakassi Boys e gli Egbesu Boys of Africa, forniscono servizi di
sicurezza a basso costo e mezzi di risoluzione alternativa delle controversie. Mentre il governo federale
formalmente considera illegali le milizie etniche, i politici le hanno spesso strumentalizzate durante le
loro campagne elettorali al fine di risvegliare le rivalità interetniche e sobillare azioni violente. Simili
atteggiamenti contribuiscono ulteriormente a minare l’unità nazionale e la stabilità.
         La distribuzione fortemente irregolare dei dividendi associati alle rendite petrolifere opera come
incentivo addizionale alla frammentazione. Nel Sud la popolazione dei cinque stati ricchi di petrolio
della regione del Delta del Niger patisce sofferenze spropositate a causa dell’avverso impatto
ambientale derivante dall’estrazione di petrolio, sebbene poi le rendite provenienti da tale attività
aiutino a sostenere l’intera nazione. Vi è il sentore, tuttavia, che i nigeriani del Nord siano
economicamente molto più svantaggiati di quelli che vivono nel Sud. Il tasso di povertà nel Nord-Est
(dove Boko Haram ha stabilito la sua base) è stimato al 52%, mentre si ferma soltanto al 16% nel Sud-
Ovest.
         La ridefinizione del prodotto interno lordo (Pil) nell’aprile 2014 potrebbe aver reso la Nigeria la
più grande economia africana, sebbene sia stato allo stesso tempo confermato che circa un terzo della
popolazione vive al di sotto della soglia di povertà7. Una delle maggiori sfide del paese è dunque questo
immenso divario di ricchezza che sussiste e, addirittura, aumenta, malgrado un tasso di crescita medio
del 6% nell’ultimo decennio. Ngozi Okonjo-Iweala, ministra delle Finanze (già vice-presidente della
Banca mondiale e sfortunata candidata alla presidenza della stessa Banca), ha messo in evidenza il
problema alla fine del 2013, stigmatizzando come il 90% dei nigeriani sia stato escluso dal fenomeno
della crescita economica8.
         Il tasso di disoccupazione permane ad alti livelli, soprattutto per i giovani, con stime che vanno
dal 38 all’80%9. Le infrastrutture di base sono sottosviluppate e, in qualche caso, neanche esistono.
L’accesso ai beni sociali fondamentali, come l’acqua potabile, l’elettricità, la sicurezza e le strade, spesso
dipende dalla capacità degli utenti nel saperseli procurare da sé. L’ineguaglianza economica, in più,
genera risentimento e incrementa la possibilità di disordini civili, che a loro volta contribuiscono al
declino economico.

7 World Bank: Only a Third of Nigerians Are Poor, Says North is Poorer, “Daily Times”, 23 July 2014.
8 F. Asu, Nigeria’s Economy Faces Danger as Inequality Rises, “Business Day”, 10 December 2013.
9 B. Bakare, Addressing Youth Employment in Nigeria, “Business Day”, 19 November 2013.

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2.1 Un sentimento nazionale in stallo
I tentativi volti a far diminuire le divisioni interne, il più delle volte, le hanno esacerbate. L’adozione del
principio federalista, che mirava a incoraggiare l’unità nazionale, evitando che alcuni stati federati o
gruppi etnici fossero rappresentati in maniera sproporzionata nel governo, è stata solo limitatamente
coronata da successo10. La creazione di più stati federati ha permesso ai rappresentanti dei vari gruppi
etnici di partecipare al governo, specialmente a livello locale, ma non sempre anche a livello statale o
federale.
         A questi due ultimi livelli, sono state le élites dominanti in ciascuno stato a beneficiare
maggiormente del sistema a quote corrispondente all’applicazione del principio federalista. Peraltro,
l’applicazione del federalismo non tiene necessariamente in considerazione fattori come il merito,
l’etnicità e la religione. Conseguentemente, è possibile che i membri dello stesso gruppo etnico o
religioso provenienti da stati diversi rappresentino i loro rispettivi stati federati di provenienza a livello
federale. L’applicazione di questo principio, inoltre, ha favorito l’inefficienza della pubblica
amministrazione, poiché il merito e le qualifiche rilevanti non sempre rientrano nei criteri di selezione.
         L’istituzione di più stati e la progressiva estensione del principio del federalismo a un numero
crescente di territori costituiscono soluzioni permeate dalla logica di creare maggiori opportunità per la
redistribuzione delle risorse nazionali, ma non sono caratterizzate da azioni positive. Anzi, esse hanno
contribuito alla diffusione di una maggiore competizione per l’accaparramento delle risorse, piuttosto
che incentivare l’inclusività e il nation-building. Durante la Conferenza nazionale già citata, alcuni delegati
hanno in realtà proposto l’istituzione di 18 nuovi stati, aggiuntivi ai 36 già esistenti, sostenendo che ciò
consentirebbe una maggiore rappresentanza delle minoranze etniche. Per di più, una distribuzione
paritaria di stati federati nelle sei regioni geopolitiche faciliterebbe la rotazione tra di esse per la
presidenza federale. Tale proposta attesta eloquentemente l’inadeguatezza della struttura federale attuale
in tema di rappresentanza delle minoranze.
         L’urbanizzazione e le migrazioni interne non hanno sicuramente contribuito alla costruzione di
un’identità nazionale. Le città e i centri urbani, anziché costituire dei melting pots, sono piuttosto dei
mosaici di diverse etnicità, culture e religioni. Più di 50 anni dopo l’indipendenza, alcune città nel Nord
e nel Sud hanno ancora dei quartieri per stranieri – Sabon Gari – riservati ai nigeriani provenienti da
altre zone del paese. L’identità indigena continua a frustrare ogni tentativo d’integrazione dei migranti
interni, giacché a questi ultimi sono negati molti diritti legati alla cittadinanza. Spesso è loro fatto divieto
di prestare servizio nella pubblica amministrazione degli stati in cui risiedono. Inoltre, non possono
beneficiare del sistema di welfare locale e dei programmi di riduzione della povertà. Avere la cittadinanza
di uno stato federato è ancora oggi più importante rispetto all’avere la cittadinanza nigeriana a causa
della natura distributiva del sistema politico.
         Ogni sembianza di positiva coabitazione tra gruppi etnici diversi nelle città e nelle aree urbane
degenera facilmente in rappresaglie tra differenti comunità ogniqualvolta insorge una controversia
coinvolgente membri di diverse etnie o religioni. Le città sono i punti focali del subnazionalismo,
giacché i migranti appartenenti a diversi gruppi etnici tendono a organizzarsi in associazioni patriottiche
che scoraggiano la costruzione di un’identità nazionale. Queste associazioni assistono i migranti
nell’affrontare le necessità dell’integrazione e dell’accesso alle risorse in situazioni in cui le connessioni
personali costituiscono, talvolta, il possedimento di maggiore valore che un individuo possa detenere.

10 Il principio federalista è stabilito nelle Sezioni 14(3) e 16(2) della Costituzione, le quali vietano che poche persone o un

singolo gruppo abbiano la predominanza sul governo e sulle risorse economiche.

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