LA NIGERIA IN AFRICA E LA POLITICA DELL'ITALIA - Ispi
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
LA NIGERIA IN AFRICA E LA POLITICA DELL’ITALIA A cura di Gian Paolo Calchi Novati e Marta Montanini Hanno collaborato: Alberto Brambilla Giovanni Carbone Francesco Carchedi Godwin Chukwu Elisa Meligrani Giulia Pellegrini Caterina Roggero Olabisi Shoaga Rapporto ISPI per il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Ottobre 2014
Indice Introduzione 3 Executive Summary 4 1. Una potenza alla ricerca di un ruolo 7 2. La politica del federalismo: un caso di frammentazione senza disintegrazione 13 2.1 Un sentimento nazionale in stallo 16 2.2 Gli “inconvenienti” della democrazia 17 3. Quattro repubbliche tra civili e militari 20 3.1 Il protagonismo delle forze armate 20 3.2 Le debolezze dell’ordinamento istituzionale 21 3.3 La controversia sul principio dell’alternanza 25 4. Il nuovo gigante economico dell’Africa 28 4.1 Il quadro macroeconomico 28 4.2 L’obiettivo di Vision 20:2020 31 4.3 Riforme e ostacoli 34 4.4 La funzione del settore petrolifero 35 4.5 Le riforme fiscali per sostenere gli investimenti 36 4.6 Le prospettive per i paesi terzi 37 5. Un accordo particolare con l’Unione europea 40 6. La politicizzazione dell’islam e l’emergenza Boko Haram 44 6.1 Il fondatore, Mohammed Yusuf 46 6.2 Il successore, Muhamed Shekau 47 6.3 Fazioni e tecniche di reclutamento 48 6.4 Il dibattito sull’applicazione della shari’a 50 1
Conclusioni 52 7. Le attività criminali: narcotraffico e pirateria 54 7.1 La debolezza delle élites 56 7.2 Contrasto alla pirateria: dal Golfo di Aden al Golfo di Guinea? 58 7.3 L’impatto economico del traffico di stupefacenti 59 8. Alcuni aspetti dell’immigrazione nigeriana in Italia 62 8.1 I dati di base 63 8.2 Stato civile e struttura per età 63 8.3 I permessi di soggiorno 64 8.4 Origine “etnica” 65 9. Opportunità e strategie per le imprese italiane 67 9.1 I settori trainanti 68 9.2 Una nuova fase 70 2
Introduzione La Nigeria nuova potenza economica africana e le opportunità per l’Italia La Nigeria ha recentemente affiancato al suo noto e storico potenziale demografico un rilevante peso economico. Questo nuovo status le permette di sfidare con più possibilità il Sud Africa, paese leader a livello continentale dagli anni Novanta e portavoce degli interessi africani nei rapporti con il resto del mondo. Com’è dimostrato dalle vicende attinenti all’elezione dell’ultimo presidente della Commissione dell’Unione africana, non sempre la Nigeria è riuscita ad avere la meglio sul Sud Africa, ma la coscienza della sua forza a livello economico le consente di sviluppare un attivismo politico anche internazionale che potrà dare i suoi frutti nel prossimo futuro. I vantaggi della massa d’urto assicurata dalle sue dimensioni costituiscono il collante necessario alla Nigeria per far sì che il suo sistema politico e giuridico a carattere federale resista alle spinte centrifughe da sempre in atto. Nel Rapporto si parla della Nigeria come di un caso di “frammentazione senza disintegrazione”. Le ambizioni che Abuja si pone sul piano economico sono ben rappresentate dal piano Vision 20:2020. Elaborato durante la presidenza di Obasanjo e in fase di piena attuazione sotto l’attuale amministrazione Jonathan, il piano mira a rendere la Nigeria una delle economie più forti e concorrenziali a livello mondiale entro il 2020. In ogni caso, ciò potrà accadere solo a patto che si riesca a dare una risposta efficace agli ostacoli frapposti dalla corruzione diffusa nonché dalle attività criminali organizzate come la pirateria e il narcotraffico. Ancora più importante è il rafforzamento della politica di contrasto, militare ma anche in termini politici, al ribellismo del movimento jihadista di Boko Haram, che sfrutta ai suoi fini la disaffezione di vasti strati della popolazione del Nord per una condizione di povertà e di abbandono. Il Sud gode di un grado maggiore di sviluppo e modernità che evidenzia il distacco dal Nord. Il modello è, a sua volta, percepito come una forma di alienazione rispetto all’identità fortemente segnata dall’islam che fa da sfondo alle vicende storiche della Nigeria. Delle potenzialità della Nigeria sembrano essersi accorti due paesi appartenenti al gruppo Brics: Cina e, soprattutto, Brasile. Anche l’Unione europea riconosce un ruolo di primo piano al paese, sia considerandolo in un’ottica a sé stante che nel quadro dell’Ecowas, l’organizzazione regionale dell’Africa occidentale. In questo contesto, s’inserisce l’analisi dei rapporti tra Italia e Nigeria contenuta nelle sezioni conclusive del Rapporto. Partendo dalle interazioni già esistenti tra i due paesi, comprese le potenzialità inerenti alla diaspora nigeriana sul suolo italiano, si delinea una prospettiva di attuazione delle strategie che le imprese italiane potrebbero perseguire in Nigeria, identificando i settori più propizi accanto alla presenza collaudata dell’Eni nel campo energetico. L’obiettivo è sfruttare al meglio le opportunità offerte dalla poderosa crescita economica dell’aspirante “gigante” africano. 3
Executive Summary Il QUADRO DI RIFERIMENTO: il balzo economico attualmente in atto, unito al tradizionale peso demografico, fa della Nigeria la prima potenza africana? Una nuova metodologia di valutazione ha permesso – a cominciare dal 2013 – di promuovere la Nigeria a prima economia dell’Africa, superando il Sud Africa. Alle dimensioni demografiche e geografiche la Nigeria, così, ha aggiunto anche quest’altro primato. Il volume del Pil non impedisce, però, che la Nigeria continui a presentare deficienze, anche rispetto ad altri paesi africani, circa il reddito pro capite e l’aspettativa di vita alla nascita. La Nigeria non mancherà di far pesare il “sorpasso” del Sud Africa, sia nella politica regionale sia nella politica internazionale. Per il momento, tuttavia, il Sud Africa, oltre a essere l’unico membro africano del G20, vanta la partecipazione ai Brics, consesso portavoce del Sud nella politica e nell’economia mondiale, ed è riuscito nel 2012 a far eleggere l’ex-moglie del suo presidente, Nkosazana Dlamini- Zuma, a presidente della Commissione dell’Unione africana. Non sono mancate, in effetti, disparità di giudizio e di azione fra i due “colossi” della politica africana nelle crisi continentali degli ultimi tempi. La Nigeria si è mostrata meno ostile alle intrusioni delle potenze extra-africane. La sensibilità della Nigeria alla recrudescenza della violenza originata dal jihadismo spiega la maggiore disponibilità di Abuja a collaborare con le potenze occidentali. Il federalismo continua a rappresentare il punto di forza della Nigeria, sia sullo scenario continentale sia su quello internazionale. Le alte sfere della politica e i poteri forti attivi in ambito economico sono i principali difensori del mantenimento della struttura federale dello Stato, che garantisce le diversità etniche, religiose e comunitarie. Solo così il paese può continuare a sperare di svolgere stabilmente il ruolo di leader continentale e d’interlocutore africano privilegiato della comunità internazionale. La Nigeria, dunque, dimostra una buona capacità di far fronte ai rischi di disgregazione. Gli interessi sia di carattere ideale sia di carattere economico a mantenere un grande Stato unito, benché nella pluralità, prevalgono sulle tentazioni secessionistiche di singoli stati o di grandi regioni (com’è avvenuto negli anni Sessanta da parte del Sud-Est, ribattezzato Biafra). Tornata alla democrazia rappresentativa nel 1999, la Nigeria offre uno scenario politico-istituzionale complesso, caratterizzato da molteplici frizioni interne. Il governo federale possiede ampi poteri in tema di sicurezza e di gestione della rendita petrolifera. Le autorità dei 36 stati federati hanno spesso manifestato le loro rimostranze per una redistribuzione delle risorse considerata non equa. Anche al vertice si profila una fase critica per l’eventuale ricandidatura del presidente Goodluck Jonathan alle elezioni del 2015, con poco rispetto per il principio dell’alternanza fra un presidente musulmano del Nord e uno cristiano del Sud. 4
La RINNOVATA CRESCITA ECONOMICA: quali le basi e quali le prospettive future? Il Rapporto evidenzia, settore per settore, il quadro macroeconomico nigeriano, soffermandosi in particolare sul piano di sviluppo Vision 20:2020, attraverso il quale la Nigeria aspira a diventare una delle venti economie più grandi del mondo entro il 2020. Il piano Vision 20:2020 ha l’obiettivo di favorire lo sviluppo del paese sulla base di una crescita economica sostenibile e del rafforzamento delle istituzioni democratiche. Pensata nell’ultimo periodo delle amministrazioni Obasanjo (1999-2007) con il progetto “Needs” e strutturata durante l’amministrazione Yar’Adua (2007-2010), la strategia amalgama diversi piani di sviluppo e, recentemente, è servita da base per l’innesto della Transformation Agenda dell’attuale presidente, Goodluck Jonathan. Viene, inoltre, messo in evidenza quanto l’economia nigeriana non sia più così dominata dall’estrazione del petrolio come in passato, e come in parte erroneamente si credeva. Soprattutto grazie alle riforme approvate in materia fiscale al fine di sostenere gli investimenti diretti esteri, sono emersi nuovi spazi per i players esterni di cui può approfittare anche l’Italia. Nonostante lo sviluppo economico in atto, permangono tuttavia delle criticità. L’esempio più evidente è quello della mancanza di una solida base infrastrutturale, con ripercussioni sul grado di competitività del paese. L’Unione europea, dal canto suo, ha selezionato la Nigeria come un paese prioritario, anche nella sua veste di pilastro dell’organizzazione regionale dell’Africa occidentale (Ecowas). Naturalmente, Bruxelles non sottovaluta le difficoltà e i rischi di una simile scelta. Da parte sua, la Nigeria avanza riserve sulla natura del rapporto con l’Europa, dopo l’abolizione delle preferenze di cui godevano i paesi africani, nel timore di un’eccessiva invadenza di merci europee. Gli OSTACOLI ALLA CRESCITA ECONOMICA: quale il peso effettivo della politicizzazione dell’islam e delle attività criminali in atto? La destabilizzazione diffusa in tutta la fascia settentrionale del paese dai fenomeni terroristici che fanno capo a Boko Haram accentua una divisione fra Nord e Sud che non è stata mai completamente sdrammatizzata. Il Rapporto esamina lo sviluppo storico di Boko Haram, concentrandosi sull’analisi delle due diverse leadership che ne hanno definito le caratteristiche essenziali: prima quella, più politica, del fondatore Mohammed Yusuf, poi quella, decisamente militarizzata, del successore Muhamed Shekau. Ampio spazio viene dedicato anche alle diverse fazioni interne che si sono progressivamente sviluppate, oltre che alle tecniche di proselitismo e di combattimento che Boko Haram impiega per il raggiungimento dei suoi scopi, tenendo sempre presente il dibattito interno sull’applicazione della shari’a. Sui metodi di contrasto è in atto in Nigeria e nelle stesse Forze armate un dibattito fra la soluzione strettamente militare e una strategia più articolata che cerchi di affrontare anche i motivi politici del fenomeno. 5
Il movimento travalica i confini della Nigeria e investe sempre di più il Niger e il Camerun minacciando in prospettiva anche il Ciad, principale alleato della Francia nella regione. Il Rapporto dedica, inoltre, la dovuta attenzione alle forme di criminalità organizzata più diffuse in Nigeria, molto spesso fomentate dalle élite al potere ai fini della lotta interna. La pirateria sembra aver attecchito anche nel Golfo di Guinea, dopo essersi sviluppata nella culla del Golfo di Aden. Una certa attenzione merita anche il traffico di stupefacenti in transito dai paesi di produzione ai mercati in Europa e America, piaga comune anche ad altri paesi africani. Si tratta di fenomeni che costituiscono un ostacolo ulteriore, oltre a quello del terrorismo di matrice islamica e comunque alle tensioni inter-religiose, per lo sviluppo delle attività economiche, rappresentando anche una possibile minaccia per la stabilità, la pace e la sicurezza. NIGERIA E ITALIA: dal “monopolio” del petrolio a nuove possibilità d’investimento per le imprese italiane? Non ci sono particolari motivi storici o di prossimità a favore di un rapporto privilegiato tra Italia e Nigeria. Ci sono, in compenso, molti motivi di stringente attualità che riguardano sia la geopolitica sia l’economia. Quantitativamente, la Nigeria è già un partner importante per l’Italia, ma l’Italia non figura ai primi posti nella classifica dei partner della Nigeria. Solo nel campo petrolifero spicca la presenza dell’Eni, che sta peraltro abbandonando i giacimenti on-shore per i più “sicuri” giacimenti nelle acque profonde. Il made in Italy gode di un’attrazione virtuale maggiore dei risultati fin qui conseguiti. Il formato delle nostre imprese si adatta apparentemente alle esigenze del mercato nigeriano, in rapida e tumultuosa crescita in settori come l’industria manifatturiera, l’edilizia, e in genere le infrastrutture, ecc. D’altro canto, le asperità consigliano di studiare con molta attenzione il momento e le modalità di ogni intervento. In Italia sono presenti fra 50 e 70 mila cittadini nigeriani, più o meno integrati, come dimostra il Rapporto sulla base delle statistiche quantitative e delle occupazioni. I dati sono stati analizzati tenendo conto di alcune categorie: stato civile; struttura per età; permessi di soggiorno; origine “etnica”. In passato, il governo nigeriano tentò di dare una maggiore organicità al rapporto con l’Italia attraverso la diaspora. L’iniziativa non ha sortito molto successo, ma potrebbe essere ripresa da parte italiana proprio in vista di una partnership paritaria e pluri-dimensionale con il “gigante” dell’Africa. 6
1. Una potenza alla ricerca di un ruolo Nel duello a distanza con il Sud Africa per la leadership a livello continentale la Nigeria è partita svantaggiata. Del carisma che si meritò Nelson Mandela per com’è stata vinta la lotta contro l’apartheid ha goduto di riflesso tutto il Sud Africa. Ma il Sud Africa non può competere con la Nigeria né per le dimensioni né quanto a “negrità”. La forza della Nigeria sta nei numeri, anche se il paese non ha sempre avuto con essi un buon rapporto. Per molto tempo, a fin di bene, i nigeriani preferirono non contarsi. Ogni censimento rischiava, infatti, di aprire un contenzioso perché sui numeri era stato edificato il sistema politico-istituzionale con, all’interno della Federazione, tre grandi regioni, in senso lato mono-etniche: la maggioranza nel parlamento federale rispecchiava il peso demografico e siccome nelle tre regioni agiva un partito dominante, la maggioranza e la minoranza erano decise di fatto dai censimenti. Dopo le prime diatribe si preferì l’approssimazione all’esattezza, che avrebbe potuto rimettere tutto in discussione. Il gap in termini di popolazione fra Nigeria e Sud Africa non lascia dubbi. Ciò nonostante, fu il Sud Africa e non la Nigeria a essere cooptato nel 2011 dai Bric, il “cartello” del Sud globale con Brasile, Russia, India e Cina, e per l’occasione rinominato Brics. Il Sud Africa ha meno di 50 milioni di abitanti e le sue proporzioni non sono all’altezza di quelle degli altri Stati membri. La popolazione della Nigeria è fra i 170 e i 180 milioni di abitanti, più della Russia, e potrebbe raddoppiare in 20-25 anni. Il confronto fra Nigeria e Sud Africa potrebbe riproporsi se in un Consiglio di Sicurezza dell’Onu riformato ci fosse un seggio permanente riservato a uno stato africano. La superiorità del Sud Africa trovava comunque una convalida da dati economici quali il volume del Prodotto interno lordo e la capacità di attrarre investimenti dall’estero. Il “sorpasso” da parte della Nigeria si riteneva sarebbe stato possibile solo verso il 2025-2030 e a condizione che il tasso di crescita dei due paesi restasse lo stesso (7% in Nigeria contro il 4% in Sud Africa). Nel 2014, invece, con l’adozione di criteri di valutazione diversi, dando per esempio il giusto spazio al settore delle telecomunicazioni, si è preso atto che la Nigeria già nel 2013 aveva superato di slancio il Sud Africa (510 miliardi di dollari contro i 370 del Sud Africa). Ormai anche l’economia e non solo la demografia dice Nigeria. Il reddito pro capite però è ancora tre volte più alto in Sud Africa. Anche il dato riguardante l’aspettativa di vita alla nascita, che in Nigeria è di 52 anni, stando ai dati della Banca mondiale, vede il “gigante” indietro di 10 anni rispetto al vicino e, per certi versi, rivale Ghana. Milioni di nigeriani vivono al di sotto della soglia di povertà con stime che possono andare da un minimo di 30 a un massimo del 90%, mentre il dato che si ricava spesso dalle fonti semi-ufficiali si aggira attorno al 40- 50%. Anche così, la competizione fra Nigeria e Sud Africa per il primato resta aperta. Nel 2012 il Sud Africa, deciso a imporre il proprio candidato alla testa della Commissione dell’Unione africana, ingaggiò una battaglia all’ultimo voto. La Nigeria, che non presentava un suo candidato, non voleva però concedere tale vantaggio alla potenza rivale. Nell’aria c’era anche un accordo non scritto che impegnava 7
i Grandi a non proporsi per i posti di vertice nell’UA. Fu così che la Nigeria, dimenticando i molti motivi di frizione, si accodò alla cordata francofona nel sostenere la rielezione del gabonese Jean Ping, sebbene da molte parti si ritenesse giunto il momento per un presidente espresso dall’Africa anglofona. Il candidato sudafricano aveva il vantaggio di essere una donna, ma il suo nome di famiglia non era affatto gradito alla Nigeria, trattandosi della moglie, sia pure divorziata, del presidente del Sud Africa. Nkosazana Dlamini-Zuma alla fine fu eletta il 15 luglio 2012, dopo molti scrutini, e la Nigeria dovette accettare la sconfitta. Il governo sudafricano sperò di soddisfare in un’altra sede le aspettative della Nigeria appoggiando il suo candidato, anche in questo caso una candidata, alla presidenza della Banca mondiale. Gli Stati Uniti, non erano pronti a rinunciare alla consuetudine che riserva loro quel posto, nella votazione decisiva, infatti, Ngozi Okonjo-Iweala, ministra delle Finanze della Nigeria, venne sconfitta. L’estensione geografica della Nigeria, tanto più rilevante dal momento che questo “gigante” si trova in una regione, l’Africa occidentale, molto spezzettata, fa sì che essa detenga quasi naturalmente una posizione di preminenza a livello geopolitico1. È con tutta evidenza la potenza leader dell’organizzazione regionale per l’Africa occidentale, l’Ecowas, e ha spesso forzato l’agenda di un’associazione eminentemente economica utilizzandola in operazioni di sicurezza: ciò è avvenuto in Liberia e Sierra Leone, due paesi anglofoni ancorché sui generis, perché entrambi si sono formati dall’insediamento di schiavi liberati. Non è detto che una simile sovraesposizione della Nigeria, che capitanò sia l’una sia l’altra forza d’intervento, passò indenne, ma diverso sarebbe stato se l’intervento si fosse verificato in un paese francofono. Al tempo della guerra nel Sud-Est della Nigeria, innescata dall’auto-proclamazione dell’indipendenza del Biafra con capitale Enugu, la Francia dimostrò in vario modo di voler sostenere la causa dei secessionisti (anche in chiave petrolifera) e indusse fra l’altro due governi a essa molto fedeli a riconoscere ufficialmente il Biafra: la Costa d’Avorio e il Gabon (in aggiunta a Tanzania e Zambia, che avevano altri moventi). Così, quando nel gennaio 2013 Hollande anticipò la formazione dell’“armata africana” prevista dalla risoluzione dell’Onu per far fronte alla crisi in Mali e schierò le truppe francesi con il sostegno anzitutto del Ciad, allora potrebbe aver giocato proprio l’intento di sottrarre alla Nigeria la più che probabile direzione dell’intera operazione. L’esercizio effettivo delle capacità di leadership della Nigeria sul piano africano – pensando alle politiche dell’Unione africana, ma soprattutto all’azione delle potenze sia tradizionali sia emergenti, che convergono sull’Africa – dipende essenzialmente da due questioni: l’energia e il sovversivismo di matrice islamico-radicale. In entrambe, nel bene o nel male, la Nigeria è direttamente implicata. La Nigeria uno dei grandi bacini petroliferi dell’Africa, insieme ad Angola, Sudan e forse prossimamente Mozambico, si presenterà sempre più come una zona calda dell’ormai avviato Scramble for Oil: uno scenario inquietante per uno stato che presenta di per sé «quelle condizioni d’instabilità politica, alterazione sociale e fragilità economica capaci di spinger[lo] sul declivio della violenza»2. La correlazione fra petrolio e stabilità in Nigeria è decisamente sbilanciata: una conflittualità creata e alimentata più o meno pretestuosamente dall’attività petrolifera, la principale fonte di reddito a livello di Federazione e nel contempo prova stridente di una grande ineguaglianza sociale. I benefici della rendita ne risultano oscurati. La sua redistribuzione costituisce uno dei punti dolenti delle relazioni fra gli stati e il governo federale nonché fra il potere nell’accezione onnicomprensiva e la popolazione. 1 La “balcanizzazione”, contrastata a lungo da Senghor, non trovò rimedio al momento della decolonizzazione perché la Francia mantenne ferma una frammentazione ritenuta funzionale ai suoi residui disegni di egemonia (il famoso stilema del “neo-colonialismo” è nato proprio in quel contesto). 2 A. Fabbiano, Idrocarburi e geopolitica in Africa subsahariana. Il caso della Nigeria, Conferenza di Studi africanistici, Napoli 2010. 8
Non vale in Nigeria la relativa “esternalità” del petrolio perché è cominciato solo da poco il graduale spostamento dell’esplorazione e della produzione dall’on-shore all’off-shore. Il petrolio ha trasformato ormai in una landa bituminosa una regione nevralgica come il Delta del Niger. Di recente, sono stati scoperti campi sottomarini, molto allettanti, non certo per i costi di gestione, molto alti, quanto per la sicurezza, più facile da garantire in mare che sulla terraferma benché si siano registrati attacchi anche alle piattaforme nell’oceano. La Cina ha aumentato decisamente la sua presenza in Nigeria, ma è ancora lontana dalle posizioni che si è conquistata nel settore petrolifero in alcune aree del Sudan o dell’Angola. Proprio all’inizio del 2014 un’impresa cinese ha annunciato un investimento di 10 miliardi di dollari nel settore oil and gas nello stato del Niger, suscitando molti favori in un momento in cui si assiste a un certo disinvestimento da parte di altre nazioni o compagnie. A Lagos dal 2004 esiste una Chinatown, con tanto di arco trionfale che inneggia all’amicizia fra Nigeria e Cina, ma molti negozi al dettaglio si trovano oggi in serie difficoltà economiche. Più successo fa registrare l’impegno commerciale in settori come l’high tech. Ufficialmente i cinesi residenti in Nigeria sarebbero 17 mila, ma la cifra è sicuramente sottostimata. Dal 2009 all’Università di Lagos è attivo l’Istituto Confucio. La formula “energia contro infrastrutture” su cui si fonda l’attività della Cina nel campo del petrolio fatica a imporsi in Nigeria, più interessata al trasferimento di tecnologia e soprattutto di mezzi per la sicurezza interna che le forniscono più volentieri e con più dovizia i paesi occidentali. Da qualche anno ha fatto la sua comparsa, soprattutto nel settore del gas, anche la Russia, offrendo finanziamenti e know how per lo sfruttamento e il trasporto. La produzione nel Golfo di Guinea avviene di norma attraverso joint venture con imprese straniere che si assumono l’onere delle operazioni di ricerca, estrazione e commercializzazione. Non si è estesa qui finora la tendenza nazionalizzatrice che prevale altrove. Intorno al petrolio si combatte una guerra in parte politica e in parte di pura speculazione. Il Mend (Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger) ha messo in pericolo con la guerriglia la prosecuzione delle perforazioni. Nonostante un accordo, con tregua annessa, raggiunto fra il governo e il Mend, che ha esaudito alcune delle richieste degli stati produttori e ha avviato un programma di reinserimento in attività lecite dei combattenti, la questione del Delta incombe sempre come una bomba a orologeria, compromettendo oggettivamente lo status della Federazione sul piano della politica internazionale. Qui è il Sud a rappresentare la parte di chi rivendica, accusando il Nord (in realtà un potere identificato comunque con il Nord e il ceto dominante che prospera sulla rendita) di sfruttare a suo esclusivo profitto una risorsa che si trova nel Sud e che lo ha contaminato in misura irrimediabile, tanto da equiparare lo stanziamento di una quota più alta di royalties a un risarcimento. Il quadro d’insieme può sembrare contraddittorio. Molti dirigenti del governo centrale (quasi tutti fino all’era Obasanjo) sono arrivati dal Nord, dove sono situate le città che hanno fatto la storia della statualità hausa-fulani e le Università sedi del sapere islamico. Ma sono nel Sud i centri del commercio con il mondo extra-africano e le fondamenta dell’economia di tratta dall’oil (olio di palma) all’oil (petrolio). Qui nasce, fra yoruba e igbo, il pensiero e movimento nazionale che trova origine dal modello europeo. Secondo la storiografia nigeriana fondata da J.F.A. Ajayi, il dominio europeo ha interrotto ed espropriato il processo di centralizzazione e in ultima analisi di modernizzazione ispirato dall’esperienza islamica culminata nell’impero di Sokoto. Con l’avvento del colonialismo, il fulcro del progresso politico e dello sviluppo economico si è spostato verso le regioni meridionali aprendo un contenzioso che ha avvelenato le vicende della Nigeria indipendente. Anche oggi la “modernità” viene declinata piuttosto sulla lunghezza d’onda dell’economia e della società del Sud, che è indubbiamente 9
quella più segnata anche esteriormente dall’influenza alienante del mondo coloniale-occidentale, offrendo una giustificazione apparente alla lotta e alle esasperazioni del movimento islamista. La religione è l’altro tema incendiario per la vita associata del “gigante nero”. L’azione di Boko Haram trascende ormai il quadro strettamente nazionale e proietta la Nigeria verso tematiche transnazionali. Intanto, contagia direttamente i paesi confinanti, soprattutto nella regione saheliana, e prolunga fino in Nigeria l’emergenza jihadista con le implicazioni internazionali seguite alla war on terror indetta da George W. Bush nel 2001 e proseguita con altri criteri da Barack Obama. Il bersaglio di Boko Haram più minacciato è il Camerun, dove l’attività terroristica beneficia sicuramente di vaste complicità. Il governo camerunese è corso ai ripari, creando una nuova regione militare sul confine e lanciando contemporaneamente un piano d’urgenza per sviluppare il Grande Nord. Nel Niger i jihadisti trovano rifugio dopo le incursioni, ma il paese nel suo nucleo istituzionale resiste bene. Una novità, con una possibile modifica dei rapporti di forza, sarebbe un coinvolgimento diretto del Ciad, l’alleato più prezioso per la Francia nella regione e sicuramente il paese militarmente più dotato fra i paesi francofoni adiacenti. Il capo di Boko Haram, chiunque egli sia (in settembre è stata annunciata la morte in uno scontro a fuoco che sarebbe avvenuto fra Camerun e Nigeria di Muhamed Shekau, succeduto al fondatore del movimento, Mohammed Yusuf, riprendendo una notizia affiorata più volte anche in passato senza conferme sicure), è il solo leader della galassia islamista ad aver fatto pervenire la propria solidarietà e quasi un riconoscimento al fondatore del cosiddetto Califfato creato fra Tigri ed Eufrate. Ma in Nigeria l’islam politico non è un sotto-prodotto di ciò che è avvenuto nel Grande Medio Oriente. Un impulso a rilanciare il jihadismo ottocentesco come alternativa di sistema più ancora che di governo è venuto se mai dalla rivoluzione di Khomeini. Il governo nigeriano è solito dissociarsi dalla preconcetta opposizione – propria invece del Sud Africa – alla gestione extra-africana delle crisi nazionali. Per la sua posizione geografica e per la virulenza dell’attacco di Boko Haram, la Nigeria è ovviamente più esposta alle cause in cui figuri la questione islamica. Nel 2011 non fu così intransigente come Zuma contro la guerra in Libia, che interruppe comunque i rapporti dell’Unione africana con la Nato, e contro l’intervento francese ad Abidjan per imporre la presidenza di Ouattara. Passata la prima sorpresa, anche nella vicenda del Mali ha reagito all’Operazione Serval con più collaborazione che malumore. Le autorità di Abuja hanno anche accettato di partecipare a una riunione di consultazione a Parigi con la Francia e alcuni paesi della regione saheliana per coordinare l’azione contro Boko Haram. Non si può sapere quanto l’iniziativa presa dalla Francia sia stata ben ispirata: a parte le maggiori o minori gelosie dei governi, l’interferenza di Stati terzi, e tanto più della Francia per la sensibilità dei nigeriani, diventa un’arma in più per una forza come Boko Haram che sbandiera argomenti come patriottismo e buon governo. La reazione tutta e solo “militare” dello stato alla sfida di Boko Haram è al centro del dibattito pubblico in Nigeria3. Un quinto del bilancio dello stato serve a finanziare il sistema di sicurezza. Nei comandi dell’esercito sarebbe in atto una faida fra i fautori del Security First e gli ufficiali che credono di più in una strategia politica. Il nuovo consigliere militare del presidente, il colonnello Sambo Dasuki, si propone come primo obiettivo di prendere tutte le misure opportune affinché «la nostra gente non si dedichi al terrorismo». Di per sé, l’esercito ha fama di essere un’istituzione “nazionale” al di là dell’etnia 3 ‘Sans la brutalité de l’état, nous n’en serions pas là’, questions a Marc-Antoine Pérouse de Montclos, “Jeune Afrique”, 22-28 janvier 2012, p. 28. 10
degli alti quadri, ma da molte parti viene accusato di brutalità controproducenti4. Il partito di governo e quelli di opposizione si rinfacciano a vicenda di speculare sul “pericolo Boko Haram” a fini elettorali e a spese dei civili. In Nigeria l’islam ha un posto di assoluto spicco, specialmente nel Nord, per i suoi trascorsi storici e perché pratica forme di assistenza surrogando le carenze dello stato. Nelle espressioni estreme, integralismo islamico e integralismo cristiano veicolano due concezioni opposte della società: mentre l’islam si fa interprete di una sorta di “teologia della liberazione” in soccorso dei più poveri, le Chiese pentecostali promuovono una “teologia dell’opulenza”, esaltando il capitalismo, il consumismo e l’affermazione personale. Al punto in cui è arrivata l’offensiva di una setta armata il cui nome significa “Bando alla cultura occidentale”, è la stessa idea di Nigeria a essere in bilico. Il Premio Nobel per la letteratura, Wole Soyinka, ha lanciato un grido d’allarme. Un motivo di preoccupazione in più è rappresentato dai collegamenti internazionali di Boko Haram con al-Qaida e il movimento gemello nel Maghreb (al-Qaida dans le Maghreb islamique, Aqmi) e persino con gli estremisti somali di Shabaab5. La Nigeria è uno dei membri della Trans-Saharan Counter-Terrorism Partnership creata dagli Stati Uniti, che prevede come minimo forme di collaborazione a livello di intelligence militare, nel quadro della chiamata alle armi contro l’islam politico. Una spaccatura irreparabile fra Nord e Sud, oltre a ferire a morte la Nigeria e l’intera Africa, sarebbe l’inizio di una catastrofe umanitaria: se è vero, infatti, che in maggioranza i musulmani vivono negli stati settentrionali e i cristiani negli stati del sud, l’habitat dei fedeli delle due religioni risulta abbastanza promiscuo in tutto il territorio nigeriano, con la moschea e la chiesa vicine, non solo come si è fatto di proposito nel centro della nuova capitale Abuja con intenti dimostrativi, ma anche nello stesso quartiere delle città in tumultuosa crescita e nei villaggi. La Nigeria sa che le sue mire di potenza e influenza presuppongono un cambio di profilo politico che, dopo il danno non solo d’immagine per causa dei molti generali in guanti neri, è tutt’altro che irreprensibile: un multipartitismo debole e frequenti contestazioni elettorali, la corruzione della pubblica amministrazione, la violenza inter-religiosa, ecc. In un contesto a basso o bassissimo indice di fiducia lo stile di condotta della dirigenza politico-amministrativa è determinante e in Nigeria i vertici al potere, troppo insicuri di sé per fidarsi della via della persuasione, sono portati troppo spesso a usare la forza o la frode6. Tutta la regione in cui il paese esercita un innegabile primato è attraversata del resto da spinte destabilizzanti. Almeno fino agli ultimi pogrom di Boko Haram, che ha comunque una genesi diversa dalla belligeranza diffusa nella fascia sahelo-sahariana, non si aveva notizia di sequestri o episodi di violenza di matrice qaidista in Nigeria. L’epicentro di questa guerra non dichiarata – in cui s’infiltra la criminalità comune, contrarissima agli apparati di controllo che intralciano i traffici leciti o illeciti (il contrabbando ha costituito per decenni una risorsa insostituibile per l’economia regionale) – si trova più a nord, fra Mali, Niger, Mauritania e Algeria7. La dispersione nel Sahel di uomini armati e addestrati alla guerra in fuga dalla Libia è stata un’altra fonte di violenza che ricade suo malgrado sulla Nigeria, che da soggetto diventa oggetto. 4 Lo stesso fondatore di Boko Haram, Mohamed Yusuf, è morto nel luglio 2009 mentre era detenuto nei locali della polizia (N. Norbrook, Le Nigeria est-il gouvernable?, “Jeune Afrique”, 22-28 janvier 2012, p. 24). 5 J. Herskovits, Au Nigeria, Boko Haram a le dos large, “Jeune Afrique”, 15-21 janvier 2012, p. 34. 6 L’intenzione di procedere con la forza per debellare le milizie di Boko Haram domina l’intervista al generale Owoye Andrew Azazi, allora consigliere per la sicurezza nazionale (‘We can’t go back to 1966’, “The Africa Report”, February 2012, pp. 30-33). Il riferimento al 1966 richiama i precedenti della guerra del Biafra, evocata come un incubo ricorrente in un discorso dello stesso presidente Goodluck Jonathan. 7 W. Lacher, Organized Crime and Terrorism in the Sahel, “Swp Comments”, Stiftung Wissenschaft und Politik, Berlin 2011. 11
La Nigeria ha portato a termine con relativo successo il processo di ri-costituzionalizzazione, ponendo termine al lungo periodo in cui spadroneggiavano i militari, spesso in guerra fra loro, ma le istituzioni sono ancora precarie sia nella dimensione stato federale-stati federati sia in quella musulmani- cristiani. Quest’ultima relazione si confonde per certi versi con la dualità fra il Nord e il Sud in cui, per motivi storici, ma anche per una consuetudine classificatoria al limite della semplificazione, si usa dividere la più popolosa nazione africana. In effetti, la Costituzione statuisce un’appartenenza di tipo civico, paritaria, come la vera qualificazione ai fini del godimento dei diritti8. In numerosi stati del Nord è stata adottata la legge coranica (shari’a) e questo basta a introdurre un fattore di discriminazione cui non sempre il potere centrale riesce a porre rimedio. È così che viene vissuta la disputa a proposito della possibile candidatura del presidente in carica, Goodluck Jonathan, alle prossime elezioni. Agli occhi della popolazione, Jonathan non gode di una legittimazione a tutta prova per la forzatura che oggettivamente è intervenuta rispetto all’alternanza fra un capo di stato musulmano del Nord e un capo di stato cristiano del Sud. Originario del Delta del Niger, Jonathan è a tutti gli effetti un uomo del Sud. È quasi automatico così spiegare la crisi di consenso con il disagio e l’insoddisfazione delle genti del Nord, già insofferenti per le loro condizioni di maggior povertà. Jonathan divenne vice-presidente (cristiano) nel ticket con a capo il musulmano Umaru Musa Yar’Adua che si impose nelle elezioni del 2007, ma morì quando era a metà del primo mandato. La successione di Jonathan fino al compimento del mandato avvenne in piena osservanza delle leggi e del fair play: non altrettanto può dirsi, almeno per il fair play, quando Jonathan ha chiesto e ottenuto l’investitura nel 2011 come candidato alla presidenza del suo partito, maggioritario nel paese e nel parlamento, ed è quindi stato eletto alla massima carica frustrando l’aspettativa dei musulmani per un mandato a cui credevano di aver diritto. I dubbi si moltiplicano mentre ci si avvicina al 2015. 8 Una causa costante di attriti che rischiano sempre di tingersi di tonalità religiose è il principio secondo cui la proprietà della terra nei vari stati spetta ai residenti per così dire autoctoni. 12
2. La politica del federalismo: un caso di frammentazione senza disintegrazione Il tema dell’indivisibilità e indissolubilità della Nigeria come nazione è uno degli argomenti di cui è stato formalmente vietato parlare in seno alla Conferenza nazionale, che si è svolta dal 17 marzo al 21 agosto 2014. Nonostante il divieto, questo tema continua a porsi alla base di una delle preoccupazioni politiche di maggior peso. La Nigeria, lo stato più popoloso dell’Africa e principale produttore di petrolio continentale1, racchiude in sé una società fortemente pluralistica. La popolazione nigeriana, comprendente più di 170 milioni di persone, è suddivisa quasi in egual misura fra cristiani e musulmani. Il paese è composto da più di 250 gruppi etnici e la diversità culturale è spesso considerata come il tallone d’Achille che potrebbe, in ultima analisi, causarne la disintegrazione. Ancor prima che la Nigeria divenisse indipendente nel 1960, era già stato messo in evidenza come le comunità etno-linguistiche entrate a far parte di questo nuovo stato avessero poco in comune al di là della contiguità geografica e di un periodo coloniale comune. Già nel 1947, Obafemi Awolowo, storica figura chiave del movimento d’indipendenza, aveva pubblicamente dichiarato di vedere la Nigeria non come una nazione, ma come una mera espressione geografica (citando, forse senza volere, ciò che si è detto anche dell’Italia). L’anno seguente, Alhaji Sir Abubakar Tafawa Balewa, futuro primo ministro della Nigeria, similmente, si era riferito all’unità nigeriana come a una mera invenzione britannica. Tali dichiarazioni non furono smentite e continuarono a essere veridiche anche nei quindici anni successivi all’indipendenza, quando, alla fine degli anni Sessanta, una dura guerra civile ebbe luogo e scoppiarono numerosi altri conflitti etnici, religiosi, tribali e socio-economici. Nonostante simili accadimenti, è oggi profondamente accettata l’idea che ogni tentativo di dissoluzione dell’unità dello stato sia antipatriottico e configuri il reato di alto tradimento2. Vi è, inoltre, consenso generale sul fatto che l’attuale sistema politico nigeriano lasci molto a desiderare. Solo una Conferenza nazionale sovrana poteva, dunque, costituire il forum più idoneo in cui dibattere della questione3. La Nigeria, formalmente uno stato federale, è in realtà uno stato unitario con una forte componente di decentralizzazione e una struttura politica notevolmente frammentata4. Il governo è l’istituzione preposta al consolidamento dell’unità nazionale attraverso l’integrazione dei gruppi politicamente più rilevanti, la protezione degli interessi delle minoranze, la rappresentanza proporzionale e l’autonomia segmentaria sulla base di un’organizzazione federale (definita “consociazionale”). Il governo è dunque articolato in una struttura a tre livelli: federale, statale (36 stati) e locale (774 consigli governativi locali). 1 Bbc, Nigeria Becomes Africa’s Biggest Economy, 6 April 2014. 2 C. Oji, Call for Nigeria’s Dissolution Treasonable. Ohanaeze Youths Tell Northern Counterparts, “The Nation”, 29 July 2014. 3 S. Aborisade, Senate President Backs National Conference, “Punch”, 18 September 2013. 4 D. C. Bach, Inching towards a Country without a State: Prebendalism, Violence and State Betrayal in Nigeria, in C. Clapham, J. Herbst, G. Mills (eds.), Big African States, Wits University Press, Johannesburg 2006, pp. 63-96. 13
Nonostante l’adozione di una simile struttura istituzionale, con un graduale e sempre crescente aumento del numero degli stati, fino agli attuali 36, partendo da tre grandi regioni, pensata al fine di proteggere gli interessi delle c.d. minoranze (alcune sono più numerose della popolazione di interi stati africani), i governi – sia quello federale che quelli dei 36 stati federati – rimangono essenzialmente dominati da una triade costituita dai tre gruppi geograficamente ed etnicamente prevalenti: gli hausa- fulani, gli igbo o ibo e gli yoruba. Dunque, la Nigeria va più opportunamente descritta come una federazione di differenti regioni. Essa è formata da sei principali regioni geopolitiche: il Sud-Est, il Sud- Sud, il Sud-Ovest, il Centro-Nord, il Nord-Est e il Nord-Ovest. Questa suddivisione schematica ha contribuito alla creazione di un compromesso per la ripartizione del potere e delle risorse tra le diverse élites politiche del paese, ma ha avuto scarso successo in tema di riduzione delle spaccature interne. Queste ultime ruotano attorno a variabili etniche, religiose, geografiche, socio-economiche e politiche. Esse si esprimono soprattutto attraverso la violenza localistica associata alla strumentalizzazione dell’etnicità o della religione, conducendo, a ogni occasione, a non indifferenti perdite di vite umane e di proprietà materiali. Una conseguenza correlata a tutto ciò è rappresentata dal simultaneo incremento della diffidenza reciproca e della disunità. I conflitti etnici e locali sono generalmente alimentati dalle diversità culturali e dalle differenze socio-economiche e politiche. Queste si sono talvolta fuse nel contesto dell’esacerbata discriminazione insita nella dicotomia indigeni-colonizzatori. Ai sensi della Costituzione nigeriana, gli indigeni o autoctoni, vivendo nelle loro ancestrali terre d’origine, beneficiano dei privilegi derivanti dallo ius sanguinis applicato alla terra di effettiva residenza5. Essi detengono un diritto di prelazione sulle risorse economiche, politiche e sociali associate alla cittadinanza e, in particolare, alla terra. Dall’altro lato, i coloni, gli immigrati e i discendenti degli immigrati provenienti da altre aree del paese sono ritenuti meri residenti senza diritto di cittadinanza dello stato, indipendentemente dalle modalità di assimilazione nei nuovi territori. Il fallimento nel rispetto dei costumi e delle tradizioni locali, la competizione per l’accesso e lo sfruttamento delle risorse economiche – inclusa l’acqua, le terre, i posti di lavoro, gli incarichi politici – e i conseguenti guadagni costituiscono le cause sottostanti alle tensioni tra indigeni e non indigeni. Molti conflitti presentano una dimensione religiosa. Il Nord della Nigeria è in prevalenza musulmano, mentre il Sud è principalmente cristiano. Tuttavia, vi sono delle sovrapposizioni tra le due religioni e molti insediamenti umani a religione mista. Il Sud-Est è diviso tra cristiani e musulmani. Minoranze etniche cristiane sono presenti nel Nord a maggioranza musulmana, mentre alcuni gruppi etnici e tribù si collocano a metà fra le due religioni. L’attenzione internazionale, attualmente, si concentra sull’insurrezione guidata da Boko Haram6, ma esiste una lunga storia di radicalismo islamico e di violenza nel Nord del paese. Il fondamentalismo religioso ha ottenuto una nuova spinta fra fine anni Settanta e primi anni Ottanta. Alcuni leader politici sono consapevoli della potenziale minaccia all’attuale sistema di governo rappresentata dai gruppi religiosi radicali e sono state pertanto prese alcune misure atte a prevenirne l’azione distruttiva. Dal 2000 dodici stati del Nord adottano la shari’a, il codice giuridico islamico. Ciò è accaduto alcuni mesi dopo l’avvio della Quarta Repubblica, con a capo un presidente non musulmano originario del Sud-Ovest, Obasanjo. L’imposizione della shari’a da parte dei governatori di questi dodici 5 La Sezione 318(1) della Costituzione della Repubblica Federale di Nigeria del 1999 favorisce i diritti degli indigeni, ponendosi però in contraddizione con le Sezioni 17(2) e 42 che accordano eguali diritti a ogni cittadino nigeriano, indipendentemente dal suo luogo d’origine. 6 Boko Haram è anche noto come Jama’at Ahl al-Sunna li al-Da’awat wa al-Jihad. 14
stati potrebbe essere interpretata come una strategia politica finalizzata all’acquisizione di legittimazione attraverso la delegittimazione del governo centrale. Si tratta, peraltro, di una pubblica dimostrazione della distanza che i leader del Nord intendono interporre tra loro stessi e la corruzione, l’impunità e altri atteggiamenti impopolari connessi con un governo federale allora non islamico. L’attivismo delle milizie etniche a partire dal ritorno del paese alla democrazia nel 1999 ha esacerbato la crisi della governance. C’è stata una proliferazione di gruppi militanti subnazionalisti come l’Oodua People’s Congress (negli stati yoruba del Sud-Ovest), l’Arewa Peoples’ Congress (nel Nord musulmano), il Movement for the Actualization of the Sovereign State of Biafra (nel Sud-Est) e lo Ijaw Youth Council (nella regione del Delta del Niger). Questi gruppi militanti hanno come obiettivo di cambiare le regole dell’amministrazione, ma sono stati altresì coinvolti in attacchi e contrattacchi rivolti ad altri gruppi militanti ed etnici. Queste milizie sono anche la dimostrazione e la conseguenza dell’assenza dello stato. Esse, insieme ad alcuni gruppi armati, come i Bakassi Boys e gli Egbesu Boys of Africa, forniscono servizi di sicurezza a basso costo e mezzi di risoluzione alternativa delle controversie. Mentre il governo federale formalmente considera illegali le milizie etniche, i politici le hanno spesso strumentalizzate durante le loro campagne elettorali al fine di risvegliare le rivalità interetniche e sobillare azioni violente. Simili atteggiamenti contribuiscono ulteriormente a minare l’unità nazionale e la stabilità. La distribuzione fortemente irregolare dei dividendi associati alle rendite petrolifere opera come incentivo addizionale alla frammentazione. Nel Sud la popolazione dei cinque stati ricchi di petrolio della regione del Delta del Niger patisce sofferenze spropositate a causa dell’avverso impatto ambientale derivante dall’estrazione di petrolio, sebbene poi le rendite provenienti da tale attività aiutino a sostenere l’intera nazione. Vi è il sentore, tuttavia, che i nigeriani del Nord siano economicamente molto più svantaggiati di quelli che vivono nel Sud. Il tasso di povertà nel Nord-Est (dove Boko Haram ha stabilito la sua base) è stimato al 52%, mentre si ferma soltanto al 16% nel Sud- Ovest. La ridefinizione del prodotto interno lordo (Pil) nell’aprile 2014 potrebbe aver reso la Nigeria la più grande economia africana, sebbene sia stato allo stesso tempo confermato che circa un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà7. Una delle maggiori sfide del paese è dunque questo immenso divario di ricchezza che sussiste e, addirittura, aumenta, malgrado un tasso di crescita medio del 6% nell’ultimo decennio. Ngozi Okonjo-Iweala, ministra delle Finanze (già vice-presidente della Banca mondiale e sfortunata candidata alla presidenza della stessa Banca), ha messo in evidenza il problema alla fine del 2013, stigmatizzando come il 90% dei nigeriani sia stato escluso dal fenomeno della crescita economica8. Il tasso di disoccupazione permane ad alti livelli, soprattutto per i giovani, con stime che vanno dal 38 all’80%9. Le infrastrutture di base sono sottosviluppate e, in qualche caso, neanche esistono. L’accesso ai beni sociali fondamentali, come l’acqua potabile, l’elettricità, la sicurezza e le strade, spesso dipende dalla capacità degli utenti nel saperseli procurare da sé. L’ineguaglianza economica, in più, genera risentimento e incrementa la possibilità di disordini civili, che a loro volta contribuiscono al declino economico. 7 World Bank: Only a Third of Nigerians Are Poor, Says North is Poorer, “Daily Times”, 23 July 2014. 8 F. Asu, Nigeria’s Economy Faces Danger as Inequality Rises, “Business Day”, 10 December 2013. 9 B. Bakare, Addressing Youth Employment in Nigeria, “Business Day”, 19 November 2013. 15
2.1 Un sentimento nazionale in stallo I tentativi volti a far diminuire le divisioni interne, il più delle volte, le hanno esacerbate. L’adozione del principio federalista, che mirava a incoraggiare l’unità nazionale, evitando che alcuni stati federati o gruppi etnici fossero rappresentati in maniera sproporzionata nel governo, è stata solo limitatamente coronata da successo10. La creazione di più stati federati ha permesso ai rappresentanti dei vari gruppi etnici di partecipare al governo, specialmente a livello locale, ma non sempre anche a livello statale o federale. A questi due ultimi livelli, sono state le élites dominanti in ciascuno stato a beneficiare maggiormente del sistema a quote corrispondente all’applicazione del principio federalista. Peraltro, l’applicazione del federalismo non tiene necessariamente in considerazione fattori come il merito, l’etnicità e la religione. Conseguentemente, è possibile che i membri dello stesso gruppo etnico o religioso provenienti da stati diversi rappresentino i loro rispettivi stati federati di provenienza a livello federale. L’applicazione di questo principio, inoltre, ha favorito l’inefficienza della pubblica amministrazione, poiché il merito e le qualifiche rilevanti non sempre rientrano nei criteri di selezione. L’istituzione di più stati e la progressiva estensione del principio del federalismo a un numero crescente di territori costituiscono soluzioni permeate dalla logica di creare maggiori opportunità per la redistribuzione delle risorse nazionali, ma non sono caratterizzate da azioni positive. Anzi, esse hanno contribuito alla diffusione di una maggiore competizione per l’accaparramento delle risorse, piuttosto che incentivare l’inclusività e il nation-building. Durante la Conferenza nazionale già citata, alcuni delegati hanno in realtà proposto l’istituzione di 18 nuovi stati, aggiuntivi ai 36 già esistenti, sostenendo che ciò consentirebbe una maggiore rappresentanza delle minoranze etniche. Per di più, una distribuzione paritaria di stati federati nelle sei regioni geopolitiche faciliterebbe la rotazione tra di esse per la presidenza federale. Tale proposta attesta eloquentemente l’inadeguatezza della struttura federale attuale in tema di rappresentanza delle minoranze. L’urbanizzazione e le migrazioni interne non hanno sicuramente contribuito alla costruzione di un’identità nazionale. Le città e i centri urbani, anziché costituire dei melting pots, sono piuttosto dei mosaici di diverse etnicità, culture e religioni. Più di 50 anni dopo l’indipendenza, alcune città nel Nord e nel Sud hanno ancora dei quartieri per stranieri – Sabon Gari – riservati ai nigeriani provenienti da altre zone del paese. L’identità indigena continua a frustrare ogni tentativo d’integrazione dei migranti interni, giacché a questi ultimi sono negati molti diritti legati alla cittadinanza. Spesso è loro fatto divieto di prestare servizio nella pubblica amministrazione degli stati in cui risiedono. Inoltre, non possono beneficiare del sistema di welfare locale e dei programmi di riduzione della povertà. Avere la cittadinanza di uno stato federato è ancora oggi più importante rispetto all’avere la cittadinanza nigeriana a causa della natura distributiva del sistema politico. Ogni sembianza di positiva coabitazione tra gruppi etnici diversi nelle città e nelle aree urbane degenera facilmente in rappresaglie tra differenti comunità ogniqualvolta insorge una controversia coinvolgente membri di diverse etnie o religioni. Le città sono i punti focali del subnazionalismo, giacché i migranti appartenenti a diversi gruppi etnici tendono a organizzarsi in associazioni patriottiche che scoraggiano la costruzione di un’identità nazionale. Queste associazioni assistono i migranti nell’affrontare le necessità dell’integrazione e dell’accesso alle risorse in situazioni in cui le connessioni personali costituiscono, talvolta, il possedimento di maggiore valore che un individuo possa detenere. 10 Il principio federalista è stabilito nelle Sezioni 14(3) e 16(2) della Costituzione, le quali vietano che poche persone o un singolo gruppo abbiano la predominanza sul governo e sulle risorse economiche. 16
Puoi anche leggere