La cucina dei Papi di Giacomo A. Dente Storico e giornalista
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SPECIALE VITERBO “Se si congedassero il Papa, i Cardinali, i Vescovi e i loro uffici, gli ambasciatori dei Principi e la folla di gente che vive a loro spese… che cosa accadrebbe di Roma?” Il pensiero è di Erasmo da Rotterdam, ma l’immagine è una veritiera sintesi di una città e di una corte dove l’intreccio tra culto della bellezza, edonismo e difesa della fede cattolica hanno trovato tra rinascimento e barocco una straordinaria, irripetibile sintesi. 55
SPECIALE VITERBO L usso, magnificenza, ricerca esasperata dell’estetica furono infatti sempre valori pri- mari alla corte dei Papi. Una “politica” peraltro facilitata dal breve di Nicola IV (1288-1292), il quale aveva assegnato ai Cardinali quasi metà degli introiti della Santa Sede. Basti, in questo senso, rivedere le pagine di De Cardinalatu (1510) dell’uma- nista Paolo Cortesi (Roma, 1465-Castel Cortese-San Gimignano 1510), secondo il quale il reddito medio di ogni membro del Sacro Collegio si aggirava intorno ai 16mila ducati, una vera e propria fortuna se paragonata all’emolumento previsto dalla Repubblica di Ve- nezia per i suoi ambasciatori, il quale ammontava a soli 1800 ducati. Le fonti sulla vita gastronomica romana sono molteplici e si intrecciano con la storia stes- sa della città, così come i repertori che raccontano della ghiottoneria di Papi e Cardinali. Basti pensare a Martino IV (Simon Le Bon, Pontefice dal 1281 al 1285), citato tra i golo- si da Dante nel Canto XXIX del Purgatorio col lapidario …purgo per digiuno/le anguille di Bolsena e la Vernaccia. Sull’argomento è preciso Jacopo della Lana, commentatore tre- centesco dell’Alighieri che, a proposito di questo Papa, scrisse “fu molto vizioso della go- la e per le altre ghiottonerie nel mangiare ch’elli usava, faceva tòrre l’anguille dal lago di Bolsena e quelle faceva annegare e morire nel vino della vernaccia, poi fatte arrosto le man- giava ed era tanto sollecito a quel boccone che continuo ne volea e facevale curare ed an- negare nella sua camera”. Non a caso Cristoforo Landino, precettore di Lorenzo de Medi- ci, Marsilio Ficino ed Angelo Poliziano non ebbe dubbi nello scrivere che Martino era morto “di grassezza e di indigestione”. Ben altra sofisticata raffinatezza caratterizzò quasi duecento anni dopo la tavola di Mar- tino V (Oddone Colonna, Pontefice dal 1417 al 1431), il Papa legato al ritorno della Se- de di Pietro da Avignone a Roma. Presso la Curia pontificia operò infatti Giovanni Boc- kenheym, un ecclesiastico di origine tedesca, autore di un Registro di cucina, che rappre- senta uno straordinario strumento di conoscenza sulla tavola dell’epoca. Nelle LXXIV ri- cette scritte in latino maccheronico si trova confermato l’uso abbondante delle spezie, l’in- clinazione ai contrasti dolci-forti (non va dimenticato che, come il garum, la salsa di pe- sce dei romani, o il ketchup dei nostri tempi globalizzati, nel medioevo erano quasi on- nipresente l’agresto, una salsa di uva acerba, componente a sua volta della preziosa ca- melina, nella quale entravano anche chiodi di garofano, mollica di pane, mandorle, e cannella), insieme all’abitudine igienica di sottoporre le carni a preventiva bollitura, pri- ma di procedere a preparazioni più elaborate. Ma l’altra peculiarità di questo singolare libro di cucina consiste nella scelta del suo autore di raccomandare le diverse ricette alle varie categorie di dignitari che popolavano la Curia (ogni ricetta si conclude così con un A fronte Giorgio Vasari et erit bonum pro…). Così per i principi e dignitari abbiamo una minestra di mandorle e (1511-1574), Cena spezie in brodo di gallina, oppure un piatto di fagiano bollito coperto di un brodo denso in casa di San Gregorio. di latte di mandorle, zucchero, zenzero e fiori di mandorlo. Il maiale bollito servito con Bologna, Pinacoteca uova crude, zafferano, cipolla ed aceto era “pro nobilibus villanis” (i nobili di campa- Nazionale. gna), mentre per i cortigiani e le loro mogli era una sorta di torta di erbe aromatiche – ru- Alle pagine precedenti ta, maggiorana, salvia – impastate con formaggio fresco, zucchero, uva passa, zafferano, Rutilio Manetti zenzero, e ricoperta di altro zucchero e pinoli prima di essere servita. Ma c’è anche una (1571-1639), Martino V in processione con ricetta (la L) “pro meretricibus”, di latte di madorle allo spiedo, ottenuto con l’accorgi- la statua di San Rocco. mento di farlo assorbire da una spugna vegetale prima che il fuoco lo abbia rappreso. Siena, Oratorio All’ingenuo testo del Bockenheym si contrappone lo straordinario De onesta voluptate et va- di San Rocco. 57
Bicci di Lorenzo (1373-1452), Martino V consacra la chiesa di Sant’Egidio. Firenze, Sant’Egidio. Bartolomeo Sacchi detto il Platina, De honesta voluptate et valetudine, Cividale del Friuli, Feraert van der Leye, 1480. Genova, Civica Biblioteca Berio. Sezione di Conservazione e Raccolta Locale, Fondo Canevari, m.r. XI.2.25. Nelle pagine aperte del prezioso volume, indicazioni culinarie. Nella pagina a fronte, il frontespizio. 58
letudine stampato a Roma nel 1474, opera del cremonese Bartolomeo Sacchi, detto il Plati- SPECIALE VITERBO na, erudito latinista e membro dell’Accademia Romana fondata da Pomponio Leto. Inviso a Paolo II, il gaudente Pietro Barbo, che arrivò a farlo imprigionare, sotto il suo successore Sisto IV fu invece nominato prefetto della Biblioteca Vaticana. In questo humus di erudi- zione umanistica nasce la sua opera, articolata in 10 libri e 417 capitoli, un’opera dove dà precetti di salute, di cultura alimentare e di civiltà della tavola. In un secolo nel quale i mi- gliori ingegni hanno avuto l’ardire di emulare i sommi latini, almeno in un settore, quello della cucina, gli umanisti del suo tempo hanno saputo superare la dottrina dei Varrone, dei Columella e dei Celio Apicio: questa la premessa del Platina, insieme al principio, derivato dalla rilettura neoplatonica di epicureo, per il quale il piacere è somma espressione di un perfetto equilibrio tra mente e corpo. Il corpus delle ricette è preso integralmente dal Libro de arte coquinaria del 1460, opera del Maestro Martino da Como, cuoco del camerlengo e patriarca di Aquileia presso la Curia romana. Ma non si tratta di una semplice parafrasi, per- ché il Platina sviluppa qui un complesso trattato, destinato a diventare un primo credibile corpus di cucina italiana, unito a digressioni storiche, morali e salutistiche, oltre che uno straordinario successo, come dimostrano le numerose edizioni dell’opera, in Italia, ma an- che in Francia, Svizzera e Germania. Così, insieme al capretto in aglio, alla “polenta, volgar- mente detta migliaccio”, seguono riflessioni sulla perfezione del servizio di mensa. Alla ter- za portata (capitolo CCCCXV) l’autore suggerisce di concludere con un po’ di formaggio stagionato, atto a “sigillare lo stomaco, a modo che le esalazioni non salgano alla testa e al cervello”. Ma il Platina ricorda anche che “ i commensali più raffinati mangiano anice e co- riandolo avvolto nello zucchero, preso come medicamento della bocca e della testa; quelli che hanno minori pretese si accontentano del finocchio. Tutti mangiano castagne, che han- no una natura fredda e secca”. Quanto ai vini la preferenza è il Trebbiano di Toscana, carat- Lucio Fontana terizzato da “nobiltà e squisitezza”, mentre non mancano stravaganti consigli pratici, legati (1899-1968), Martino V. Vaticano, Collezione alle conoscenze dell’epoca, come quello di mangiare zenzero contro i morsi degli animali d’Arte Religiosa velenosi, o di ungersi la testa di grasso d’orso per scongiurare la caduta dei capelli. Moderna. 59
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