L'EUROPA E LA CRISI ECONOMICA GLOBALE - Difesa

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L'EUROPA E LA CRISI ECONOMICA GLOBALE - Difesa
L’EUROPA E LA CRISI
                              ECONOMICA GLOBALE
                                   Alessandro Gambini e Matteo Pignatti

L       a crisi che colpisce l’economia globale si è rivelata nel 2007 a
        causa del triplice shock avvenuto nel settore immobiliare (crisi
        dei mutui subprime negli Stati Uniti), nella finanza (crollo dei
mercati borsistici, a partire da quello statunitense, esposto in modo
insostenibile proprio sui subprime) e nel mercato delle materie prime
(soprattutto energetiche, petrolio in primis). La crisi ha manifesta-
to i suoi effetti sull’economia reale a partire dall’inizio del 2008 con
una recessione aggravata dalla tempesta finanziaria legata al crack di
Lehman Brothers, verificatosi il 15 settembre 2008, che ha diffuso il
panico e la sfiducia in ogni angolo reale e finanziario del globo.
Gli effetti proseguono tuttora. Dopo quasi un biennio 2008-09
caratterizzato dal crollo del PIL in numerosi paesi del mon-
do, soprattutto nei paesi avanzati, l’uscita dalla crisi e la ripre-
sa economica, peraltro lenta e alquanto disomogenea, è stata
messa in discussione dalla nuova ondata di incertezza indotta
dai timori per la sostenibilità dei debiti sovrani europei, spe-
cialmente dei paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e
Spagna). L’epicentro della crisi ha dunque attraversato l’Atlan-
tico, collocandosi oggi nel cuore dell’Europa. Dalle istituzioni
europee devono quindi partire le risposte politiche necessarie
per la sua soluzione.
L’indecisione e la mancanza di coordinamento nella gestione
della crisi all’interno dell’Unione europea hanno reso per lunghi
mesi la fine della moneta unica una minaccia reale, peraltro non
ancora completamente eliminata, nonostante la maggior risolu-
tezza messa in campo a partire dal giugno 2012 dai governi na-
zionali e dalla Banca Centrale Europea (BCE). Sono due i mec-
canismi di salvaguardia attualmente in funzione: l’istituto ESM

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     (European Stability Mechanism) gestisce un fondo di salvataggio
     dei paesi che non riescono più a collocare i titoli pubblici sul
     mercato primario, come accade alla Grecia; il programma OMT
     (Outright Monetary Transaction) costituisce il vero scudo anti-spre-
     ad, perché permette alla Banca Centrale Europea di sostenere,
     attraverso l’acquisto illimitato sul mercato secondario, le quota-
     zioni dei titoli dei paesi in difficoltà ma con politiche di bilancio
     virtuose. L’autorità monetaria europea ha così dimostrato di es-
     sere pronta a fare “tutto quello che è necessario”, utilizzando le
     parole del presidente Mario Draghi, per scongiurare un evento
     che avrebbe conseguenze economiche sociali e politiche gravis-
     sime, non solo in Europa.

     Tuttavia, la strada è ancora in salita per l’Eurozona su cui soffiano
     di nuovo venti di recessione. La domanda interna è fortemente
     penalizzata dalla riduzione del potere d’acquisto delle famiglie,
     dall’alto livello del debito privato e pubblico e dalle politiche fisca-
     li restrittive introdotte nella quasi totalità dei paesi; la simultaneità
     delle contrazioni all’interno del mercato unico moltiplica l’effetto

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finale, via caduta della domanda estera. Le tensioni e le incertezze
accumulate con il progressivo e grave peggioramento della crisi
dei debiti sovrani si sono tradotte nel calo della fiducia delle fami-
glie e delle imprese, su cui pesa pure la contrazione dell’erogazio-
ne del credito da parte delle banche.
La crescita si è bloccata a partire dalla seconda metà del 2011 e il PIL
in media d’anno è atteso ridursi nel 2012 e nel 2013, ritornando a cre-
scere solo nel 2014. Per l’Eurozona a partire dalla prima recessione
del 2008-09 si è realizzata una crescita a due velocità: più elevata nei
paesi finora relativamente al riparo dalla crisi del debito; quasi nulla, e
poi decisamente negativa, in quelli dove più austere sono state le mi-
sure fiscali varate per ridurre il deficit pubblico e maggiore è risultato
l’aumento dei tassi di interesse, nella fattispecie i paesi PIIGS.

          L’Eurozona nell’economia globale post-crisi

La crisi finanziaria ed economica globale è esplosa in un mondo che
già dai primi anni Novanta si stava muovendo verso un riequilibrio
economico, finanziario e industriale a favore dei paesi emergenti.
Il riequilibrio verso una “nuova economia globale” si stava deline-
ando già da tempo e la crisi ha contribuito ad accelerare la transizio-
ne facendo esplodere alcuni squilibri strutturali già esistenti a livello
globale, sintetizzati da una parte dal deficit di bilancia commerciale
degli Stati Uniti e dall’altra dall’avanzo delle economie emergenti

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     che concentravano le loro esportazioni sul mercato americano, in
     primis l’economia cinese.
     Negli ultimi vent’anni il baricentro dello sviluppo economico glo-
     bale si è nettamente, e forse definitivamente, spostato dai paesi
     avanzati verso quelli paesi emergenti, specialmente asiatici. Ne-
     gli anni Novanta i paesi avanzati hanno contribuito in media al
     56,6% della crescita del PIL mondiale; il contributo dell’Eurozona
     essendo pari al 12,5%, circa la metà di quello degli Stati Uniti. Ne-
     gli anni Duemila fino all’inizio della crisi i contributi delle forze in
     campo si sono capovolti: gli emergenti hanno contribuito ai due
     terzi della crescita globale e il loro apporto dovrebbe, secondo
     le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI), salire anco-
     ra, fino ad arrivare all’80% nel decennio 2020-2029. La Cina da
     sola contribuirà alla crescita del PIL mondiale più di tutti i paesi
     avanzati; l’apporto dell’Eurozona alla crescita globale è diminuito
     all’8,4% del periodo 2000-8 ed è previsto scendere a poco più del
     4% nei prossimi vent’anni.
     Tutto ciò ha cambiato i pesi e i rapporti di forza, economici e poli-
     tici, sullo scacchiere mondiale. In termini di quota sul PIL globale
     (a parità di potere di acquisto), infatti, nel 2012 gli emergenti rap-
     presentano già il 49,8% e, secondo le proiezioni del FMI e di Glo-
     bal Insight, nel decennio 2020-29 peseranno in media più del 60%.
     L’Eurozona che produceva poco meno del 20% del PIL mondiale
     negli anni Novanta, vedrà la sua quota pressappoco dimezzata nel
     decennio 2020-29 ed è stata “superata” dalla principale economia
     emergente, la Cina, nel 2011.
     Lo spostamento del peso economico si riflette anche nella ricompo-
     sizione dei flussi commerciali, con un evidente ridimensionamento
     del ruolo di Europa e Stati Uniti. Ancora nel 2005 queste due aree
     attivavano quasi il 60% delle importazioni mondiali (21,5% Stati
     Uniti e 38,4% Europa); nel 2011 il loro peso era già sceso al 50%.
     Nello stesso intervallo di tempo la quota dell’Asia emergente è sali-
     ta di 5,4 punti percentuali (al 21,8%).
     Una simile tendenza sta radicalmente modificando la geografia in-
     dustriale e manifatturiera mondiale. Dal 2000 è accelerata la conver-

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genza delle economie emergenti a quelle avanzate nella produzione
manifatturiera, anche in conseguenza della crisi che ha solamente
rallentato la dinamica della produzione manifatturiera degli emer-
genti, non quella dell’Asia emergente il cui output industriale è cre-
sciuto del 177,7% dal 2000 al 2011 e del 59,9% dal 2007 al 2011.
Nello stesso periodo la produzione manifatturiera dell’Eurozona è
cresciuta solo del 2,4%, e nel 2011 è stata più bassa del 7,8% rispet-
to al 2007. Il peso dell’Eurozona sulla produzione manifatturiera
globale è sceso dal 21,0% del 2000 al 18,5% del 2011, appena al di
sopra di quello della Cina (20,9%), che è oggi il primo produtto-
re nazionale nel mondo e che nel 2000 rappresentava solamente il
8,3% dell’output manifatturiero mondiale.

         I disequilibri interni e le sfide dell’Eurozona

Dinamiche divergenti non caratterizzano solo l’economia globale,
ma percorrono al proprio interno la stessa Eurozona. Tra le princi-
pali economie, solo quella tedesca è cresciuta anche durante la crisi,
dello 0,7% reale medio annuo dal 2007 al 2011; nello stesso perio-
do, il PIL spagnolo è diminuito dello 0,7% medio, quello italiano
dell’1,1%. Insieme a quella francese, queste economie rappresenta-
no più di tre quarti del PIL dell’Eurozona.
Lo squilibrio è ben sintetizzato dai conti con l’estero dei vari
paesi: positivi per la locomotiva tedesca, che viene alimentata
dalla forza delle sue esportazioni, e negativi per le altre prin-
cipali economie europee. Nel primo decennio 2000 Francia,
Italia e Spagna hanno peggiorato il loro saldo corrente con
l’estero e hanno contribuito a rafforzare il surplus della Ger-
mania, che nel 2007 ha raggiunto il suo massimo superando
il 7% del PIL. Secondo le previsioni del FMI per il 2012, il
surplus tedesco, pari al 5,2% del PIL nazionale, sarà maggiore,
in valore assoluto, della somma dei deficit italiano, spagnolo e
francese. La posizione netta verso l’estero riassume la storia
dei saldi correnti: nel 2011 la Germania aveva una posizione
netta positiva (era in credito verso il resto del mondo) superio-

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     re al 32% del PIL, contro le posizioni debitorie nette di Francia
     (-15,9%), Italia (-20,6%) e Spagna (-92,5%).
     Questa divergenza riflette il guadagno di competitività del sistema pae-
     se tedesco nei confronti dei partner europei, che in un regime di mone-
     ta unica non può ovviamente essere controbilanciato da aggiustamenti
     del tasso di cambio. Recentemente i paesi periferici europei hanno sì
     migliorato il loro saldo corrente, ma soprattutto grazie alla debolezza
     della loro domanda interna, che ne ha ridotto le importazioni.
     Permane invece il ritardo accumulato nel tempo in termini di CLUP
     (costo del lavoro per unità di prodotto), che rappresenta l’incidenza
     del costo del lavoro sui costi di produzione unitari e, quindi, nella
     formazione dei prezzi e dei margini aziendali. Dal 2005 al 2011 il
     CLUP è cresciuto del 13,2% cumulato in Italia, dell’11,0% in Spa-
     gna, del 10,7% in Francia e solo del 5,2% in Germania. La migliore
     performance tedesca è stata ottenuta grazie sia alla crescita della
     produttività del lavoro sia a una politica di moderazione salariale.
     Al contrario, la controprestazione italiana è dovuta al ristagno del-
     la produttività: nel settore manifatturiero solo +6,5% dal 2000 al
     2011, contro il +29,6% in Germania; addirittura -1,8% nei servizi
     (+7,6% in Germania).
     Quali sono i fattori strutturali che determinano la competitività dei
     paesi, la produttività del lavoro e quindi la potenzialità di crescita
     nel lungo periodo? Su tutti la capacità di innovare, determinata dalla
     spesa in ricerca e sviluppo (R&S), dall’istruzione e dalla formazione
     della forza lavoro. Qui risiedono i divari da colmare da parte dei
     paesi periferici e gli obiettivi più ambiziosi da raggiungere per l’Eu-
     ropa nel suo complesso.
     La Commissione Europea ha opportunamente messo questi temi al
     centro della strategia Europa 2020, che mira a coordinare gli sforzi
     dei singoli paesi tesi a uscire velocemente dalla crisi, creando un’e-
     conomia più competitiva e con una maggiore occupazione.
     All’interno di questa strategia, i paesi dell’Unione Europea hanno
     individuato target da raggiungere nel 2020 per la spesa in R&S pari
     al 3% del PIL per la Francia, la Germania e la Spagna, ma solo
     all’1,53% del PIL per l’Italia. Tra i primi tre paesi, la Germania è

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vicina all’obiettivo (2,82% nel 2010), seguita dalla Francia (2,25%)
e, a distanza, dalla Spagna (1,39%).
Anche il livello di istruzione della popolazione differisce fortemen-
te tra i paesi. L’Italia conquista il poco invidiabile primato della mi-
nore percentuale di laureati, pari a circa un quinto tra i 25-34enni
(dati 2010). I giovani francesi e spagnoli hanno fatto molto meglio,
raggiungendo la laurea nel 43% e nel 39% dei casi, rispettivamente.
In Germania la percentuale dei laureati si ferma al 26%, a causa di
un sistema educativo che limita l’accesso ad alcuni corsi universitari
e privilegia altre forme di diploma, dove infatti i tedeschi primeggia-
no: 86% i diplomati, contro l’84% in Francia, il 71% in Italia e solo
il 65% in Spagna. Tuttavia, anche le eccellenze all’interno dell’Eu-
rozona sono distanti dal top mondiale, rappresentato dalla Corea
del Sud: 65% di giovani laureati e 98% di giovani diplomati. Anche
Giappone, Canada e Russia si collocano sopra il 50% di laureati e il
90% di diplomati.
Il numero di abbandoni scolatici conferma il ritardo spagnolo
(26,5% dei 18-24 nel 2011, pur in calo di 5 punti dal 2008) e, in
misura minore, dell’Italia (18,2%), rispetto al 12% dei francesi e
all’11,5% dei tedeschi. Per l’Italia e soprattutto la Spagna è ancora
lontano l’obiettivo del 10% fissato dalla Strategia Europa 2020.
Infine, l’eterogeneità tra le principali economie europee si manifesta
in modo evidente anche nell’offerta da parte delle imprese di corsi
di formazione professionale ai propri dipendenti. Da una parte si
posizionano Francia (74% delle imprese) e Germania (69%), dall’al-
tra Spagna (47%) e soprattutto Italia (32%).
La strada della crescita passa necessariamente attraverso riforme
che colmino questi gap. È una strada lunga e tortuosa, perché oc-
corre tempo affinché esse abbiano effetti reali. Al contrario, nel
breve periodo la crisi comporta un allargamento dei divari, per l’au-
mento della disoccupazione e la caduta degli investimenti in R&S,
concentrata nei paesi periferici, e che rappresentano occasioni perse
e perdite di competenze.
In questo senso è particolarmente dannoso il fenomeno dei giova-
ni che non studiano né entrano nel mondo del lavoro, i cosiddetti

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     NEET (Neither in Employment nor in Education and Training), sia dal
     punto di vista sociale sia per il potenziale produttivo del paese, per-
     ché determinano una perdita di capitale umano molto difficilmente
     recuperabile. Il fenomeno è in crescita durante la crisi: la percen-
     tuale di giovani NEET (tra i 18 e i 24 anni) nell’UE-27 è salita
     dal 13,9% nel 2008 al 16,7% nel 2011. Investe addirittura circa un
     quarto dei giovani in Italia (25,2%) e in Spagna (23,1). La quota è
     minore in Francia (15,9%) e soprattutto in Germania (10,2%), dove
     è addirittura diminuita di 1,9 punti percentuali dal 2009 al 2011, in
     controtendenza con il resto dell’UE-27.
     Per questi motivi, una politica di soli tagli fiscali, operati contem-
     poraneamente in tutti i paesi dell’Eurozona a eccezione della Ger-
     mania, ha l’effetto di avvitare i paesi periferici nella recessione e di
     coinvolgere poi nella frenata anche i paesi core. Con il rischio para-
     dossale di un peggioramento degli stessi conti pubblici. È necessa-
     ria una visione più ampia, a lungo termine. Serve un cambio di rotta
     della politica europea che consenta di spalmare su un periodo più
     lungo il rientro dei debiti pubblici. Un segnale positivo in questo
     senso è la revisione dell’obiettivo sul deficit del Portogallo per gli
     anni 2012 (dal 4,5% del PIL al 5,0%) e 2013 (dal 3,0% al 4,5%). Allo
     stesso tempo, l’Unione europea non deve tagliare adesso il proprio
     bilancio, perché anzi ha la capacità di reperire sui mercati risorse fi-
     nanziarie consistenti, che non pesino sui bilanci nazionali, da poter
     utilizzare in modo anticiclico per la realizzazione di grandi progetti
     di investimento in infrastrutture e in ricerca e innovazione.
     Le politiche improntate al rigore sono necessarie, ma vanno im-
     plementate con interventi strutturali e tagli alla spesa pubblica che
     permangano nel tempo, in modo da non comprimere ulteriormente
     la domanda privata rispetto a quanto già fanno le forze che agisco-
     no in senso recessivo: lo sgonfiamento delle bolle immobiliari, la
     riduzione della leva dei sistemi bancari, e l’aggiustamento dei bilanci
     familiari. Questo tipo di interventi sono anzi in grado di stimolare la
     domanda, via maggiore fiducia di imprese e famiglie.
     La sostenibilità dei debiti pubblici dipende, in ultima analisi, dal
     potenziale di crescita. In questo senso, il rigore fiscale e le riforme

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strutturali sono complementari e si sostengono a vicenda.
In un’ottica di più lungo respiro spetta dunque alla politica pilotare
l’Europa verso cambiamenti istituzionali come l’unione bancaria e
l’unione di bilancio che comportano ulteriori cessioni formali di
sovranità nazionale, oltre alla cessione della politica monetaria alla
BCE nel 1999 e alle cessioni di fatto di sovranità nelle politiche
di bilancio che i paesi meno virtuosi hanno dovuto accettare negli
ultimi tre anni per essere sostenuti nella lotta contro gli attacchi
speculativi ai propri debiti pubblici.
Sono questi passaggi fondamentali verso la costituzione degli Stati
Uniti d’Europa, che sono necessari per evitare che l’Italia e tutti i
singoli stati europei diventino delle pedine ininfluenti nella scac-
chiera mondiale, costituendo l’unica forma di Europa che può resi-
stere nel lungo periodo alla concorrenza dei paesi con dimensioni
geografiche, demografiche, economiche e finanziarie continentali
che saranno leader del mondo nel 21mo secolo: Cina, India, oltre
ancora ovviamente gli Stati Uniti d’America.

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