L'EBRAISMO AMERICANO E I - CONIUGI TRUMP di F.f - sollevazione
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L’EBRAISMO AMERICANO E I CONIUGI TRUMP di F.f. Capire quanto sta accadendo negli Stati Uniti, in particolare comprendere cosa sia davvero il trumpismo, è ovviamente di vitale importanza. Malgrado dissentiamo con la visione e le posizioni dell’autore, pubblichiamo l’articolo poiché aiuta a comprendere il carattere della battaglia alle porte di decisive elezioni presidenziali. La tesi dell’autore (apparentemente corroborata dalla decisione di Trump di nominare la cattolica conservatrice Coney Barret alla Corte suprema) è forte. Essa implica che con il trumpismo sarebbe avvenuta una svolta epocale nella storia degli Stati Uniti: una nuova élite cattolico conservatrice avrebbe soppiantato ai vertici del potere la tradizionale élite WASP (bianca, anglosassone e protestante). Daniel Greenberg è l’analista che maggiormente si è soffermato sulla posizione della comunità ebraica americana verso
l’amministrazione Trump. I dati di Greenberg sono sicuramente oggettivi e precisi, assai meno il suo metodo. Greenberg trascura, come poi tenteremo di chiarire, la natura religiosa della scissione interna della comunità ebraica di fronte alla rivoluzione conservativa e sovranista di Trump e non spiega per quale motivo gli ebrei progressisti e globalisti statunitensi siano, come correttamente ci spiega, i più grandi nemici del trumpismo. Da almeno un anno si sarebbe diffusa tra le comunità ebraiche progressiste la convinzione che sia Donald Trump sia Melania Trump siano cattolici tradizionalisti, non evangelici come si credeva. La lotta senza sosta di Donald Trump, probabilmente unica nella storia americana, sulla questione dei valori “non negoziabili” ed etici confermerebbe la effettiva appartenenza del trumpismo al fronte cattolico internazionale. Trump è stato, non a caso, il primo presidente americano nella storia ad aver parlato a una marcia pro-Vita, nel corso di tweet e discorsi in materia ha rivendicato alla sua presidenza l’onore morale di aver salvato centinaia di migliaia, se non più, di bambini dal “satanismo infanticida” dell’abortismo di Stato che i regimi e le ideologie di scuola globalista e progressista promuoverebbero. Sarebbe monitorato, in egual maniera, il comportamento religioso di Melania Knavs, inizialmente considerata da organi dell’ebraismo progressista come cristiana di rito orientale, ora invece considerata, grazie alle rivelazioni di una ex collaboratrice liquidata dallo staff della First Lady, una cattolica praticante e conservatrice, radicalmente antiprogressista e fiera delle sue radici slave. Secondo il ricercatore Michael Matt, Melania sarebbe sin da giovane una cattolica tradizionalista. Il presidente Donald Trump ha annunciato mercoledì 23 settembre 2020 la sua intenzione di firmare un ordine esecutivo sulla protezione di tutti i bambini nati vivi, un piano chiamato Born Alive Abortion Survivors Protection Act, un disegno di legge che
dovrebbe essere approvato dal Congresso. Nel raduno annuale di “preghiera Cattolica Nazionale”, Trump ha detto che difenderà sempre il sacro diritto alla vita equiparando Stato abortista a satanismo globalista. “Oggi annuncio che firmerò l’ordine esecutivo Born Alive per garantire che tutti i preziosi bambini nati vivi, indipendentemente dalle circostanze, ricevano le cure mediche che meritano”, ha detto Trump. “Questo è il nostro sacrosanto dovere morale di cristiani e Conservatori” ha ribadito. La presidenza Trump, del resto, si è distinta più di ogni altra nella lotta alla pedofilia. Sotto particolare osservazione è anche la rivista tradizionalista “Renmant”, che in un recente passato, per voce di Sonnier e Ferrara, invitò Trump a fare chiarezza sulla “falsa elezione” di Bergoglio, che altro non sarebbe stata, a detta dei conservatori della Destra cattolica, che un colpo di stato, una vera e propria “Primavera cattolica” in grado di arrestare il nuovo corso tradizionalista che Benedetto XVI stava praticando mandando in frantumi la eversiva rivoluzione conciliare. Se si volesse, in base a questi dati, connettere il trumpismo ad una precedente tradizione presidenziale statunitense, più che al jacksonismo, ci si dovrebbe piuttosto riferire alla presidenza cattolica di John Kennedy, conclusasi con lo storico e tragico omicidio del 22 novembre 1963. Peraltro la vicenda della famiglia Kennedy negli Usa è costellata di strane morti e di una scia di sangue senza fine. Che non vi sia spazio, nelle élite statunitensi, per esponenti cattolici di rilievo e che il Deep State veda proprio nel cattolicesimo politico conservatore il primo nemico è un sospetto che autorevoli membri della famiglia Kennedy hanno anche di recente avanzato, alzando il tiro contro il Deep State a guida Rotschild-Rockfeller, politicamente di frangia elitista rappresentata storicamente dalla Sinistra progressista e illuminista. Tornando alla preziosa statistica di Greenberg, ben sette
ebrei americani su dieci sarebbero ostili a Trump, in modo particolare nel Midwest (75%), nell’Ovest (64%), nel Nordest (63%) e nel Sud (61%). Il 56 % degli ebrei americani è assolutamente sfavorevole a Trump, lo considera esplicitamente un fascista e il dato è sorprendente se lo si confronta con il numericamente inferiore 42% di americani bianchi che esprime verso il presidente americano il medesimo giudizio. Con i protestanti neri (78%) e con i buddhisti (65%) la comunità ebraica sarebbe la più avversa a Trump. Non è un caso che la crisi globale Covid 19 e la tentata Rivoluzione Colorata negli USA abbiano accelerato il processo in atto di scissione internazionale su base ideologico-sociale tra tradizionalisti e progressisti. Contemporaneamente all’inizio della tentata Rivoluzione Colorata Statunitense, ben 600 pesanti organizzazioni del giudaismo progressista americano scendono in campo contro Trump, fornendo il loro totale sostegno ai rivoluzionari colorati (BLM, Antifa, Lgtbq, organizzazioni proaborto, chiesa di satana). Il 9 agosto 2020 è addirittura la influentissima organizzazione massonica ebraica B’nai B’rith a contestare direttamente l’amministrazione Trump per la decisione di quest’ultimo di nominare Douglas Macgregor ambasciatore a Berlino. Macgregor aveva affermato riguardo alla Germania che il complesso di colpa del popolo tedesco sarebbe innaturale e malato, che non sarebbe tedesco l’unico genocidio della storia ma ve ne sono stati molti altri, che tale complesso di colpa sarebbe una malattia indotta finalizzata all’annientamento della cultura cristiana europea e all’islamizzazione dell’Europa, riguardo agli USA aveva invece sostenuto che i “neocon” sarebbero stati una élite della Sinistra radicale ebraica globalista che avrebbe controllato l’America trascinandola, tramite Clinton- Bush-Obama, in guerre suicide che avrebbero fatto esclusivamente gli interessi politici e economici di Al Qaida e dell’Islam. David Harris, Ceo di American Jewish Committe e Jonhatan Greenblatt, ceo di Anti-Defamation League, spingono affinchè Trump rimuova, appena insediato, il nuovo
ambasciatore. Dall’altro lato, abbiamo però negli Usa un ebraismo ortodosso differenzialista che non ha mire globaliste di alcun genere e che è schierato su tutta la linea con il presidente Trump: Chabad Lubavitch, di ascendenza chassidica, che ha il suo quartier generale a Kingston Avenue, ha manifestato la propria contrapposizione netta e radicale ai BLM e Antifa rioters. Sarebbe solo parzialmente giusto legare il filotrumpismo di Chabad Lubavitch alla posizione della Casa Bianca verso Israele; il movimento chassidico Satmar, antisionista come i Naturei Karta, sostiene egualmente Donald Trump “come fronte d’attacco all’ebraismo globalista di Sinistra radicale….”. Va infine considerato, in merito, che il presidente russo Putin è anch’egli molto vicino al movimento Chabad Lubavitch, di cui apprezza, a differenza dell’utopismo rivoluzionario dell’ebraismo messianico già tragicamente sperimentato dal popolo russo sulla propria carne, il conservatorismo differenzialistico e equilibrato: il mistico ebreo Yehuda Krinsky, influente rappresentante del movimento, ha sinceramente espresso la propria devozione verso Vladimir Putin, considerato da lui un autentico e coraggioso nemico del globalismo rivoluzionario colorato massonico e messianico. Conservatorismo antiprogressista evangelico, ebraico, cattolico, anglicano, cristiano-ortodosso e anche islamico, perché no…?, potrebbero fare fronte comune contro la Rivoluzione Colorata Globale contro-religiosa e antireligiosa, abortista, gender, nichilista messa in moto, secondo la loro teoria, dai Rotschild? E’ questo il nodo strategico centrale del secolo presente, almeno per quanto concerne il blocco euro-occidentale. Vi fosse un autentico fronte sovranista in Europa, dovrebbe vedere nell’islamico conservatore o nell’evangelico antiabortista e conservatore legittimi e potenziali alleati, non avversari. Il tema, assai vasto, ci porterebbe chiaramente fuori dal senso del presente articolo
ERDOGAN: L’ULTIMO LEONE DELL’ISLAM di F.f. Riceviamo e pubblichiamo Il nuovo ottomanesimo nella nuova fase strategica Cercheremo di inquadrare le due grandi linee strategiche dell’erdoganismo senza trascendere nell’antierdoganismo ma tanto meno nel filoerdoganismo; la nostra prioritaria volontà è quella di superare la classica interpretazione della Sinistra radicale, laicista, progressista e globalistica, che fa di Erdogan un campione del fascismo in salsa islamica. Tenteremo di separare il giusto dall’errato, in base a una concezione dottrinaria anzitutto antiglobalista, antiscientista e antilaicista. Il miglior modo per non
comprendere la cosiddetta “Turchia nera”, la Turchia profonda, è proprio quella di leggerla con la lente deformante del globalismo laicista di sinistra. Va premesso che la Sinistra rivoluzionaria turca, nelle sue varie fazioni, ha sempre sostenuto esplicitamente il “Derin Devlet”, lo Stato profondo kemalista e globalista e ha rappresentato il kemalismo come un evento storico progressivo nella storia della Turchia moderna. Questo è sostanzialmente avvenuto anche in piena guerra fredda; i neokemalisti della NATO erano giudicati, mutadis mutandis, come qui i vecchi partigiani giudicavano i nuovi quadri del PCI, “compagni che sbagliano”. Il giudizio di consistenti componenti della Sinistra rivoluzionaria curda verso il kemalismo non poteva essere e non può essere, evidentemente, dello stesso tono, in quanto Kemal e i suoi sterminarono quando poterono i curdi, in omaggio ad un nazionalismo regionale anti-imperiale, di radice alevita, che praticava senza scrupoli la pulizia etnica. Ma, si tenga bene in mente, la Sinistra radicale curda contesta il kemalismo su base etnica, non sul piano della visione del mondo, che fu di fatto la medesima tra progressisti curdi e progressisti rivoluzionari kemalisti. Cosa fu in sostanza il kemalismo? Fu il “risorgimento” turco. Disse Dostoevski che il cavourismo laicista e machiavellico, creando con il supporto strategico franco-inglese, la piccola Nazione italiana subalterna all’Occidente protestante e massonico, annientò l’italianismo universale che aveva in Roma eterna il proprio centro. Fu la morte dell’Italia, secondo il grande pensatore russo. Kemal Ataturk fu in sintesi il Cavour turco: come quest’ultimo, utilitarista puro, fu un eterodosso religioso, Kemal e i suoi radicalizzarono l’eterodossia alevita, trasformandola in teologia politica laicista, tentando
astrattamente di cancellare secoli di pratica imperiale ottomana. E’ ora fondamentale comprendere una cosa. Il kemalismo lesse la storia ottomana come una parodia. L’ottomanesimo non si identificava affatto con l’Islam, come Kemal volle far credere. L’ideologia kemalista descrisse l’impero come una sorta di versione premoderna dell’Arabia Saudita, ma ciò non stava né in cielo né in terra. Sin dalle origini gli ottomani si consideravano una potenza europea, il periodo teocratico fu infatti una breve fase nella storia ottomana. Gli ottomani si occidentalizzarono al punto che, alla fine dell’800, sotto ‘Abd ul-Hamid II, l’impero garantì istruzione alle donne, si dotò di tribunali laici e insegnò ai sudditi, tra i quali il giovane Ataturk, a tenere la religione fuori dalla vita pubblica. Il kemalismo fu così, a differenza di quanto la Sinistra rivoluzionaria turca e il globalismo occidentale sostengono, un fenomeno di continuità storica e politica con l’ottomanesimo, in un contesto globale in cui si affermava ad Oriente quasi ovunque l’ateismo di stato, ad Occidente il laicismo scientifico agnostico e nichilista. Ad Ataturk interessava abbattere, come detto, la cultura imperiale, affermando un nazionalismo panturanico; ma la visione del mondo di Ataturk era il laicismo progressista, neo-illuminista, come è tipico delle élite globaliste. La generazione islamica, che darà vita all’AKP, fu duramente perseguitata nel regime kemalista o neokemalista, la religione era illuministicamente degradata a “affare privato”. L’astuzia da politico decisionista di Erdogan, dopo un lungo e faticoso cammino, porta prima alla delegittimazione politica dei militari mercenari dello Stato Profondo e della NATO, poi a una politica democratica di massa fondata sulla re-
islamizzazione strategica della società. Il “nuovo Sultano” recupera dell’ottomanesimo quei momenti storici, rarissimi, in cui l’Islam fu centrale. Il suo è però più un “nuovo ottomanesimo” che un mero neo-ottomanesimo, come abbiamo già cercato di spiegare. Vladimir Putin, Mahmoud Ahmadinejad e Erdogan sono gli unici statisti che hanno opposto, e stanno opponendo, una convinta Ideocrazia conservatrice al globalismo progressista-nichilista e laicista controideocratico. Rimane il grande punto interrogativo sul primo ministro israeliano Bibi Netanyahu, che sembra veramente rivoltarsi ogni giorno di più al Deep State. Ma, arrivando al punto, è veramente Recep Tayyip Erdogan un fascista islamico? Formalmente sì, si colloca oggettivamente, usando parametri storici italiani, tra una DC di destra ultraconservatrice antiprogressista e in parte antiliberale (Pella, Andreotti, Tambroni, De Carolis) fondata sulla volontà di rappresentare il ceto medio e un fascismo di stato vero e proprio. Erdogan ricerca un consenso attivo di massa, mobilita la gioventù, il suo Partito Giustizia e Sviluppo è un movimento di giovani ragazzi e giovani ragazze quotidianamente presenti sulle piazze della provincia e delle metropoli, negli ultimi anni tra i milioni di nuovi iscritti all’AKP il 65% tra questi ha meno di 25 anni. Il “nuovo Sultano” ha i suoi guerrieri e i suoi potenziali martiri sul campo, pronti a entrare in azione. La base sociale erdoganista è rappresentata dalla piccola e media impresa e da quella sterminata “Turchia nera“ in perenne lotta con la “Turchia bianca” dell’elite globalista e occidentalista. Sostanzialmente, però, il mito politico dell’erdoganismo diverge enormemente dal fascismo storico e anche da possibili soluzione integraliste religiose come il franchismo spagnolo o come il fascismo romeno ortodosso degli anni ‘30. Il mito
politico di Erdogan è la pura trascendenza senza alcuna macchia di eretica immanenza. “Una Turchia che marcia sulla via di Allah è una Turchia che non ha ostacoli sulla via dell’ascesa mondiale”, è il leiv motiv dell’erdoganismo di stato. Più Bin Laden che Mussolini. Inoltre, ogni nostro giudizio sarebbe fuori luogo, o astratto, verso questo statista di razza che nel giro di pochi anni ha dotato la Turchia di un peso strategico che compete con quello di Usa, Cina, Russia. E’ oggi, di certo, uno stretto alleato di Angela Merkel. Ma sino a pochi anni fa era alleato di Obama, in funzione antirussa. Avremmo poi veduto come si sarebbe concluso quel rapporto. Devoto sommamente alla pura trascendenza muhammadiana, è anche maestro di Realpolitik come quasi nessun altro nel contesto attuale. Lo si chiami però come vorrebbe essere chiamato, per onestà, anche qualora si sia suoi avversari: un piccolo e leale leone dell’Islam. L’erdoganismo ha mostrato, nei fatti, che la re-islamizzazione dal basso è più forte e affascinante, per milioni e milioni di giovani, di ogni nichilismo progressista e globalista. Di questo dobbiamo dare a Erdogan il merito storico. Se sul piano dei valori è di certo un conservatore o controrivoluzionario su quello politico è un rivoluzionario puro. STATI UNITI: DISUGUAGLIANZE
SOCIALI ED ELEZIONI di Jaehee Choi e James Galbraith Le relazioni tra crescita della disuguaglianza economica e risultati del voto nelle elezioni presidenziali sono analizzate in un nuovo studio a livello dei singoli stati degli Usa negli ultimi vent’anni. Cattive notizie in arrivo per i democratici. Le relazioni tra crescita della disuguaglianza economica e risultati del voto nelle elezioni presidenziali sono analizzate in un nuovo studio a livello dei singoli stati degli Usa negli ultimi vent’anni. Cattive notizie in arrivo per i democratici. La crescente disuguaglianza economica negli Stati Uniti è strettamente legata all’elevata concentrazione della proprietà del capitale, in particolare patrimoni immobiliari e azioni delle imprese, e all’aumento del prezzo di tali attività negli
ultimi decenni. Questi fenomeni a loro volta sono strettamente legati alla trasformazione strutturale dell’economia Usa negli ultimi cinquant’anni, in particolare il declino dell’industria manifatturiera con lavoratori sindacalizzati nel Midwest, l’ascesa della finanza sulla costa orientale del paese e delle attività ad alta tecnologia – soprattutto i settori legati alle tecnologie dell’informazione e all’aerospaziale – sulla costa occidentale. A livello nazionale, questo processo ha avuto due effetti principali sulla vita politica americana. Uno è l’ascesa degli oligarchi e dei loro sostenitori, in particolare nel Partito Democratico, inizialmente nell’era di Clinton, al punto che oggi i miliardari contestano apertamente la nomina del partito alla Presidenza. Gli oligarchi hanno dominato a lungo il Partito Repubblicano, e così la politica americana è diventata in larga misura una contesa tra miliardari di diverso tipo, con la mediazione di altri miliardari che controllano i principali media, sia tradizionali che social. Ciò è ovvio per qualsiasi osservatore. Molto meno ovvio è stato l’effetto delle nuove disuguaglianze americane sull’esito delle elezioni presidenziali. Il peculiare contesto istituzionale di quelle elezioni è che sono indirette, condotte attraverso un Collegio elettorale – il sistema di delegati che vota per il Presidente del paese – suddiviso approssimativamente in base alla popolazione ed eletto Stato per Stato, per lo più con un sistema maggioritario: chi prende più voti, ottiene tutti i delegati dello Stato. Se da un lato la crescente disuguaglianza a livello nazionale non ha avuto un chiaro effetto sul voto popolare ai due principali partiti, abbiamo dimostrato in un nuovo studio che nelle elezioni più combattute a partire dal 1992, le crescenti disuguaglianze all’interno degli Stati americani sono state un fattore decisivo nel determinare i risultati Stato per Stato, l’esito nel Collegio elettorale, e quindi la presidenza.
La logica di questa dinamica è nella base economica dei due grandi partiti americani. Un tempo i democratici erano un’alleanza multirazziale di lavoratori del Nord e bianchi del Sud nell’era del razzismo istituzionalizzato. Sono diventati poi una coalizione di abitanti benestanti delle città, per lo più professionisti e impiegati, e minoranze a basso reddito, sia nere che ispaniche. Il partito quindi in linea di massima prevale nelle due estremità della distribuzione del reddito, la più alta e la più bassa. I repubblicani, anche se sempre dominati dai ‘super-ricchi’ del paese, hanno ora la loro base elettorale nelle aree suburbane, nelle città minori e nelle aree rurali, in gran parte bianche e, in generale, con una posizione centrale nella distribuzione del reddito. Il nostro approccio a quest’analisi si basa sulle tecniche sviluppate per misurare la disuguaglianza all’interno dei paesi, utilizzando dati settoriali su salari e occupazione, e applicati per oltre vent’anni nell’Inequality Project dell’Università del Texas. L’adattamento di queste tecniche ai dati sugli Stati Uniti ci ha permesso di sviluppare buone stime sul cambiamento della disuguaglianza all’interno degli Stati federali su base annua dal 1969 fino al 2014 e successivamente. Precedentemente, le misure della disuguaglianza all’interno degli Stati erano disponibili solo per gli anni prima del 2000 su base decennale, poiché molti Stati sono troppo piccoli per consentire al tradizionale Current Population Survey di fornire stime affidabili della disuguaglianza. Siamo stati così in grado di valutare la relazione tra le mutevoli disuguaglianze economiche dopo il 1969 in ciascuno Stato e i risultati del relativo Collegio Elettorale per tutte le elezioni di questo secolo, in particolare 2000, 2004, 2012 e 2016. Fino agli anni ’80, la disuguaglianza all’interno degli Stati americani era generalmente maggiore nel profondo Sud, e rifletteva il divario razziale, il sottosviluppo economico e l’eredità della schiavitù nelle piantagioni. Negli anni più
recenti, il luogo della crescita maggiore delle disparità si è spostato a Nord e a Ovest. La California, un esempio importante, un tempo era principalmente bianca e suburbana, e sosteneva in modo stabile i repubblicani, da Nixon a Reagan. Oggi è una scacchiera di ricchezza tecnologica, ispano- americani e immigrati a basso reddito, tutti solidamente democratici. Le nostre misure annuali sulla disuguaglianza in ogni Stato americano mostrano che i maggiori aumenti dal 1989 al 2014 si sono verificati in California, New York, Connecticut, New Jersey, Maryland, Nevada, Rhode Island, Massachusetts, Hawaii, New Hampshire, Washington, Illinois e nel distretto della Columbia. Tutti questi Stati hanno votato per Hillary Clinton nel 2016. E dei venti Stati con il minor aumento della disuguaglianza, tutti tranne due (New Mexico e Minnesota) hanno votato per Donald Trump, mentre nel caso del Minnesota il margine per Hillary Clinton è stato di un mero 1,2%. Questa chiara relazione può far prevedere gli sviluppi in corso nella politica americana. Gli Stati dell’Upper Midwest, decisivi per l’elezione di Trump nel 2016 – Michigan, Pennsylvania e Wisconsin – si stanno allontanando dalla loro tradizionale fedeltà democratica, man mano che le loro città decadono, la loro popolazione lavoratrice declina, le minoranze invecchiano. Nel 2016 l’esito in questi Stati è stato molto combattuto e nel 2020 potrebbero essere vinti dai Democratici con un piccolo cambiamento nell’opinione pubblica generale, ma nei prossimi anni saranno sempre più difficili da conquistare o mantenere per i candidati democratici. Al contrario, nel Sud e nel Sud-Ovest, e in particolare in Arizona, Texas e Georgia, le città e le popolazioni non bianche stanno crescendo rispetto alle zone suburbane e rurali. L’Arizona potrebbe passare ai democratici (come già la California e il Nevada) già nel 2020; il Texas e la Georgia sono più lontani da questo ribaltamento e soggetti a estese campagne di limitazione del numero degli elettori (una vera e
propria voter suppression) volte a scoraggiare il voto delle minoranze e a prolungare il dominio repubblicano. Ma i dati demografici sono inesorabili e quegli ostacoli cadranno con il tempo. L’attuale dilemma per i democratici è che l’era di Roosevelt è finita da tempo e al tempo stesso la coalizione di Clinton non è più sufficiente, logorata dalla de-industrializzazione e dalla perdita di peso del sindacato – mentre la transizione del Sud non è ancora matura. Quindi i democratici nel 2020 hanno di fronte a sè la scelta tra tentare di recuperare l’Upper Midwest da un lato o lavorare per accelerare la nascita di un Sud democratico dall’altro. Ciascuna strategia è legata a politiche specifiche, in particolare per quanto riguarda gli scambi commerciali, le infrastrutture e i cambiamenti climatici, che possono non funzionare per i problemi dell’altra regione. E non vi è alcuna garanzia che le politiche e le promesse elettorali del 2020 – e eventualmente realizzate in caso di vittoria democratica – siano ancora appropriati per il 2024 e oltre. È possibile, naturalmente, che le elezioni del 2020 saranno decise da altre questioni, come i gravi temi della guerra e della pace, o forse le profonde divisioni dell’opinione pubblica sul presidente in carica, Donald Trump. È anche possibile – sebbene lo riteniamo molto improbabile – che una crisi economica o una recessione possano sopraggiungere e decidere il risultato. Ma nel caso in cui il mondo sopravviva alla burrascosa apertura dell’attuale anno elettorale e l’economia americana continui nella sua crescita lenta ma costante, la cosa più probabile è che le linee di divisione del 2016 si formino di nuovo, e che le elezioni siano combattute sullo stesso terreno. In tal caso, possiamo prevedere che i risultati siano coerenti con quelli degli ultimi anni, con il Sud un po’ più conteso dai democratici rispetto al passato e il Midwest un po’ più difficile da conquistare per loro. Come nel 2016, un vantaggio democratico
nel voto popolare complessivo potrebbe di nuovo rivelarsi inutile, perché nel sistema americano le elezioni presidenziali sono combattute e decise negli Stati contendibili – e questi non sono né i più egualitari né i più diseguali. * Fonte: sbilanciamoci.info **Quest’articolo appare anche sulla rivista Intereconomics, www.intereconomics.eu. James Galbraith e Jaehee Choi fanno parte dell’University of Texas Inequality Project alla LBJ School of Public Affairs dell’Università del Texas ad Austin. U.S.A. VERSO UNA GURRA CIVILE? di Robert Garner*
Il 2 giugno scorso vi avevo inviato le mie riflessioni sull’ondata di rivolte dopo l’assassinio di George Floyd a Minneapolis. Mi spiegavo l’estensione e la radicalità delle sommosse anche alla luce della durissima “lotta in seno al vertice del capitalismo americano”. Vi dicevo che “mai c’era stata negli USA una simile spietata lotta intestina. Una divisione che attraversa non solo la cupola del regime, ma tutti i suoi segmenti, i diverso comparti statuali”. Da allora le rivolte, a macchia di leopardo non sono mai cessate, tra una tregua e l’altra i due fronti di strada hanno continuato a darsi battaglia, usando le pause per meglio organizzarsi. Al contempo, in vista di elezioni presidenziali, lo scontro in seno alla classe dominante, lo scontro tra la frazione trumpiana e quella anti-trumpiana si è approfondito. Sarebbe un errore pensare che tra la lotta di strada e quella nel palazzo non ci sia una correlazione. Nella mia lettera così concludevo: «Non è una tempesta in un bicchiere d’acqua, non andrà a finire a baci e abbracci. Siamo seduti sopra un vulcano. Non dimenticate che l’evento più profondo che ha segnato in modo indelebile la storia degli Stati Uniti, non è stata la Guerra d’Indipendenza del XVIII secolo bensì la cruenta guerra civile di quello successivo. Tra le due armate c’è adesso solo una guerra a bassa intensità. Chi può escludere che si trasformi in guerra civile…» L’ennesimo omicidio a sangue freddo dell’afro-americano Jacob Blake da parte di un poliziotto, avvenuto a Kenosha, una cittadina sobborgo della grande Chicago (e se prendono fuoco le periferie di Chicago…) ha riacceso la miccia della rivolta. Il fatto davvero nuovo questa volta è l’ufficiale e cruenta entrata in scena di pattuglie di vigilantes bianchi, vere e proprie milizie paramilitari, armate in un doppio senso:
ideologicamente perché composte da estremisti suprematisti bianchi, di fatto perché dispongono di armi d’assalto d’ogni tipo. Così ci spieghiamo l’assassinio, da parte dello studente Kyle Rittenhouse di due manifestanti. Li ha ammazzati con un fucile automatico Ar-15 (lo stesso che venne usato dal suprematista Nikolas Cruz per massacrare 17 persone innocenti nella strage di San Valentino in Florida nel 2018). Non era solo ma faceva parte di un gruppo paramilitare di estrema destra. Negli ultimi mesi ne sono sorti tantissimi in giro per gli Stati Uniti. Si raccolgono in un fronte denominato “Blue Lives Matter” [le vite dei poliziotti contano, NdT], e non nascondo di essere tutti filo-Trump. Trump, va detto, a più riprese ha tentato di prender la distanze da questi miliziani, ma con scarso successo. Non è un segreto per nessuno che questo “Blue Lives Matter”, fondato da poliziotti in pensione, arruoli anche quelli in servizio e che goda di ampie simpatie nella Guardia nazionale e negli altri corpi armati statunitensi. Del resto, a conferma della radicalizzazione razzista e suprematista nei corpi di polizia statali e nell’esercito federale, non ci sono solo diversi sondaggi ma diverse inchieste del Congresso, che tutte confermano come la polarizzazione sociale e ideologica razziale abbia permeato a fondo gli apparati repressivi dello Stato. Per concludere. Temo che una grande tempesta sia in arrivo. Penso che siamo già dentro una guerra civile a bassa intensità, che si protrarrà fino alle elezioni presidenziali di novembre. C’è chi sostiene che svolte le elezioni tutto tornerà come prima. Non penso affatto. La crisi economica e sociale, anche a causa del Virus, è drammatica. E’ la crisi profonda del capitalismo americano il vero carburante che alimenta l’attuale scontro. Che si manifesti nuovamente come scontro razziale non deve trarre in inganno. La questione razziale è certo importante, ma lo è ancora più perché funge da potente catalizzatore sociale e ideologico.
Azzardo un pronostico: chiunque sia il vincitore della presidenziali, Biden o Trump, dopo le elezioni l’incendio potrebbe diventare generale per cui, dalla bassa intensità , ci si incammininerà verso una guerra civile dispiegata. * traduzione a cura della Redazione LA VERITÀ IN BIELORUSSIA di A. Vinco *sullo stesso tema: BIELORUSSIA. SOSTENERE LUKASHENKO? di Serguei Novikov Secondo la stampa italiana mainstream (quindi anche quella della sinistra globalista), Putin non vedrebbe l’ora di dare
avvio ad una lunga e permanente esercitazione militare in terra bielorussa, che sia così da monito ad ogni futura insorgenza nello spazio vicino. In realtà, sia nella crisi di Minsk sia nella vicenda Navalny, ciò che sta emergendo è la forte e centrale trazione diplomatica e non militaristica esercitata dal Cremlino, di contro ai propositi ben più aggressivi che la Cancelliera (Kanzler) di Berlino e il rappresentante dell’UE, Josep Borrell, stanno manifestando. Questi ultimi, probabilmente già certi che i Dem, fanatici russofobi anticristiani, tornino alla Casa Bianca per ridare finalmente avvio a una lunga stagione di fuoco e tensione nello spazio euro-russo assicurando alla Kanzler Frau Merkel e alla moribonda Deutsche Bank il tanto sospirato e dirimente Drang Nach Osten, sognano infatti una nuova Rivoluzione Arancione o di velluto che però, spiace per loro…, non c’è, né ci sarà. Lo scenario bielorusso è ben diverso da quello dell’Euromaidan. Non andrebbe dimenticato che in tempi recenti Lukashenko si era distinto per una strategia di chiara dissimulazione geoeconomica e geostrategica verso Mosca, aprendo su tutta la linea a Pechino: in ballo non ci sono solo i due miliardi di dollari che Xi aveva messo sul piatto per la “perla della Silk Road Economic Belt”, un parco di futuristica avanguardia tecnologica che la Cina avrebbe “donato” a Minsk, ma c’è soprattutto una vera e propria linea strategica filoeuropea e filocinese, portata avanti da Lukashenko negli ultimi tempi, non gradita a Mosca. Del resto, la stampa russa da tempo sottolineava come Minsk, che aveva iniziato a importare petrolio occidentale mediante la Lituania, si era anche messa a disposizione di Xi Jinping per costruire un percorso di oleodotti alternativo a quello di
Gazprom, su cui Pechino è costretta obtorto collo per ora a contare. Il pesantissimo arresto, dello scorso luglio, di decine di volontari russi di ritorno dall’Africa, dove si erano recati per sostenere l’offensiva dell’Esercito Nazionale Libico di Haftar, operato inspiegabilmente dal presidente bielorusso avrebbe dovuto dire qualcosa alla stampa italiana, ma pare non aver detto nulla. Va del resto precisato che il più grande partner economico della Bielorussia rimane comunque la Federazione russa con circa il 40% dello scambio. La via bielorussa, quindi, difficilmente anche su questo versante si potrà eccessivamente rappresentare, anche in un futuro più o meno prossimo, come eterodiretta da Berlino o da Pechino. Dmitry Peskov, di contro ai propositi bellicosi di UE e Berlino ed in parte dello stesso presidente bielorusso, ha gelato, proprio due giorni fa, la controparte di Minsk con autentica doccia fredda precisando che Mosca, allo stato attuale, non vede motivi per un interventismo militare diretto in Bielorussia. Allo stesso tempo, ha segnalato che non sarà tollerata alcuna interferenza dei mercenari “Rivoluzionari” del Deep State euroatlantico sul modello ucraino. Ma anche tale prospettiva pare assai aleatoria e parlare di Maidan bielorusso sarebbe forzato; lo stesso ministro degli esteri russo Lavrov si è guardato bene dallo sposare su tutta la linea la retorica del presidente bielorusso precisando che le elezioni si sono svolte a Minsk “in modo non ideale” e le iniziali proteste di massa sono state patriottiche. Non a caso è atterrato in queste ore in Bielorussia Dragomir Karic, console serbo di lungo corso, che sta trattando per una uscita indolore di scena del presidente bielorusso. La stessa Lituania ha risposto all’approccio diplomatico di Mosca, ripudiando le fughe in avanti “rivoluzionarie” su cui ha invece scommesso Berlino: il governo di Vilnius ha
immediatamente detto di non riconoscere la Tikhanovskaya, che pur si trova in Lituania, come presidente. Sia comunque chiaro che la stessa Tikhanovskaya rimanda a figure che in un modo o nell’altro risponderebbero in ultima istanza al capitalismo di stato moscovita o a Gazprom. Al tempo stesso, però, va assolutamente dato il grande merito storico a Lukashenko di aver rifiutato, nello scorso gennaio, centinaia di milioni di dollari offertigli da OMS e FMI nel caso in cui avesse imposto il lockdown in Bielorussia. Quali conclusioni trarre da un quadro così caotico e mutevole? Anzitutto che la stampa globalista italiana, russofobica nel dna, prende come al solito lucciole per lanterne e i sovranisti, “russofili di destra”, quasi in un strano gioco di coppia, ne seguono le indicazioni, per arrivare a posizioni solo apparentemente differenti. Globalismo di sinistra e sovranismo di destra costituiscono anche in tal caso i classici due volti della stessa moneta. Immaginare un asse Pechino-Mosca è pura fantasia, come è pura fantasia immaginare l’interferenza russa nella competizione elettorale statunitense. Mosca non può avere alleati strategici, per storia e conformazione geografica. Ci torneremo su, se vi sarà modo, anche in relazione al contesto italiano. In secondo luogo l’opposizione a Lukhashenko non è affatto, in larga maggioranza, russofoba e antiputinista. Tutt’altro. Quando iniziarono le prime rivolte contro i risultati elettorali, va ricordato, decine di combattenti patrioti della Federazione russa erano, contro ogni logica, detenuti nelle prigioni militari di Minsk e in Bielorussia lo sapevano tutti. In terzo luogo, infine, va collegata la decisione del presidente Putin di lasciare trasportare il malato Navalny in un ospedale tedesco con l’approccio assolutamente diplomatico riservato alla crisi bielorussa: siamo ancora in una fase
assolutamente interlocutoria, tutta tatticistica, in vista del risultato elettorale del Novembre americano. Solo la Cancelliera, come è spesso avvenuto nella storia dello stato maggiore germanico, confonde la strategia con la fase tattica. Ben più diplomatico e assennato l’Eliseo francese, non a caso. E lo stesso Presidente del Consiglio Conte, per quante critiche gli si possano rivolgere su altri piani, non ha giocato male le sue carte geopolitiche. L’UE, meraviglioso esperimento di pace, ha bisogno di guerre e continue Rivoluzioni Colorate per la propria sopravvivenza, da Belgrado ‘99 ad Ucraina 2014 gli esempi non mancano: per questo l’élite euro-germanica è gemellata con il clan russofobo e bellicista dei Dem e dei neocons statunitensi e per questo non possiamo considerare Conte un integrazionista euro-germanico. Quattro anni di sostanziale pacifismo trumpiano, più vicino di quanto si creda alla Presidenza del Consiglio di Roma, hanno non a caso azzerato il peso internazionale della economicistica e mercantilistica UE condannandola a una stato di insipienza politica. Infine, l’approccio diplomatico del Cremlino, con le fiamme alle porte di casa, può anche sembrare eccessivamente moderato; ma è questa una regolarità e una costante della storia russa. Nei momenti immediatamente precedenti a una probabile, per quanto non ancora certa allo stato attuale, pianificazione di grande aggressione strategica contro la Russia, il Cremlino ha sempre concentrato al massimo le forze al proprio interno evitando inutile dispendio di energie.
BIELORUSSIA: SOSTENERE LUKASHENKO? di Sergeui A. Novikov Le elezioni svoltesi in Bielorussia hanno registrato una schiacciante vittoria per Lukashenko ed una secca sconfitta per i suoi avversari filo-occidentali. Abbiamo chiesto ad uno dei più cari amici russi il suo punto di vista. In quanto parte del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) il Partito Comunista Operaio Russo ha un’organizzazione comunista in Bielorussia. Essi criticano fortemente Lukashenko come fondatore e pilastro del capitalismo di stato bielorusso, il quale non ha niente a che fare con il socialismo affatto. Tuttavia, nel dibattito tra la sinistra bielorussa prima delle elezioni per decidere
se votare contro tutti i candidati, oppure sostenere Lukashenko, i nostri compagni hanno optato per quest’ultima opzione. Il motivo principale è che essi non vogliono un nuovo Maidan (il rovesciamento politico a Kiev nel febbraio 2014) che condurrebbe la Bielorussia a far parte della NATO, nonché ad un’ampia privatizzazione del settore statale e tagli allo stato sociale. Per quanto riguarda i manifestanti anti-Lukashenko, ci sono elementi dell’élite ed elementi popolari. Ci sono, tra i manifestanti, molte persone assolutamente sincere, che sono scontente della burocrazia di Lukashenko e della crescente mancanza di democrazia, ma ci sono anche elementi dell’élite, che strumentalizzano questi giusti sentimenti per i loro fini. Va precisato che questi ultimi non sono così radicali come in Ucraina, ma sono tutti molto molto pro-occidentali e pro-americani. Come sappiamo, il capitalismo di stato molto spesso si difende in modo molto brutale. Tutti ricordiamo (e non dobbiamo dimenticare) quel che accadde in Cina nel 1989. Non è un caso che i primi a congratularsi con Lukashenko per la sua cosiddetta vittoria sono state proprio le autorità cinesi. Ed è qui che io vedo il problema principale. Intendo la quastione del “male minore”. Nella sinistra rivoluzionaria, c’è chi sostiene che, dal momento che nessuna delle due parti in Bielorussia ha qualcosa a che fare con il socialismo, allora non dovrebbe nemmeno porsi la domanda su chi sostenere, perché tutti gli sforzi e tutte le energie politiche dovrebbero essere concentrate sull’alternativa socialista. Di più, essi dicono, se uno è socialista, la cosa principale da fare è denunciare con forza entrambe le parti e la loro
politica procapitalista, per quanto diversa essa spossa essere. La cosa principale, essi dicono, è che siccome il socialismo può essere raggiunto solo da una rivoluzione violenta, la cosa più auspicabile è la situazione che aggrava tutte le contraddizioni capitalistiche così da suscitare la lotta proletaria, proveniente dal basso, piuttosto che agire per il ripristino del socialismo dall’alto o di limitarsi alla difesa minimale di alcuni dei suoi elementi. Tuttavia, l’esempio dell’Ucraina mostra che i liberali e i nazionalisti escogitano la loro cosiddetta decomunistizzazione. Come risultato, molte persone di sinistra hanno lasciato l’Ucraina dopo il febbraio 2014 e sono dovute scappare in Russia chiedendo l’asilo politico. I servizi segreti dell’Ucraina controllano e monitorano strettamente tutti i comunisti attivi e le persone di sinistra, apertamente sospettati di collaborazione con Mosca. Inoltre, l’amministrazione ucraina, prima Poroshenko e ora Zelensky, hanno distrutto completamente l’industria ucraina e l’agricoltura. Basti dire che da quest’anno l’Ucraina ha iniziato ad importare pomodori dalla Turchia. Nessuno poteva nemmeno immaginare queata cosa, anche solo due o tre anni fa, visto che la terra in Ucraina è molto fertile e di solito esportavano prodotti agricoli piuttosto che importarli. Ora Zelenskyj ha imposto una completa privatizzazione delle terre. Il risultato è che la classe operaia e la classe contadina sono state completamente fatte a pezzi. Gli scioperi sono pochissimi e anche se ce ne sono, sono piuttosto spontanei e spesso falliscono. Così, a prima vista, lo spostamento filoamericano dell’Ucraina ha portato all’emarginazione di ogni movimento comunista e di sinistra. Lo stesso in Russia, dove Putin ha celebrato la sua vittoria lo scorso luglio dopo il referendum sulle cosiddette modifiche costituzionali, dove il punto principale era quello che può rivendicare alla presidenza ancora per due mandati di 6 anni
ciascuno. Quando ho provato a denunciare questa frode politica, ho sentito molte persone pronte a sostenere Putin a qualsiasi costo perché loro non voglio tornare agli anni ’90, cioè al capitalismo iniziale, molto brutale e pro-americano. Alcuni di loro hanno addirittura affermato che sono orgogliosi, che Putin non si arrende nella sua battaglia contro il mondo dell’imperialismo. E, naturalmente, tutti questi sentimenti sono stati motivati dalla paura di un Maidan in Russia. Adesso si fa molta fatica a dimostrare che Putin è anch’egli un liberale e che non c’è una grande differenza tra lui e i suoi avversari filoamericani. Per quanto riguarda la Bielorussia, i comunisti bielorussi, per quanto mi riguarda, fanno troppo affidamento su Lukashenko. Per quanto concerne la disputa territoriale tra Bielorussia e Federazione Russa, non mi pare sia una questione davvero importante, tale che possa provocare una pericolosa crescita del nazionalismo. L’economia bielorussa è strettamente associata con quella russa, molto più profondamente di quanto non fosse stato con l’Ucraina. Non si creda che l’eventuale sconfitta di Lukashenko trasformerà l’Ucraina in un nuovo fantoccio degli Stati Uniti come è successo all’Ucraina. Io spero che i nostri compagni bielorussi capiscano la necessità di concentrarsi sul movimento operaio e sulla lotta di classe invece di concetrarsi nel sostenere il cosiddetto “male minore”. Ma mi rendo conto che questa soluzione rischia di essere astratta, facile da difendere in teoria, ma molto più difficile da mettere in pratica. Basti dire che se sei contro Lukashenko, precipiti immediatamente nel campo di una minoranza molto marginalizzata e proliberale. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, penso che la vittoria di Lukashenko alle elezioni sia stata un pò truccata, ma in realtà avrebbe vinto comunque. Forse non avrà ottenuto
l’80%, ma il 60 o anche il 55, si. E sebbene a molte persone in Bielorussia non piaccia Lukashenko, meno ancora piacciono i suoi 4 avversari. A proposito, uno degli oligarchi russi ha affermato il mese scorso, che se per difendere Putin è necessario privare del diritto di voto i giovani russi, quelli che non sanno e nemmeno vogliono sapere cosa accadeva negli anni ’90, allora che lo si faccia per evitare nuove difficoltà e instabilità. Egli ha poi rettificato l’affermazione, ma è piuttosto interessante come esempio per capire il dilemma: se qualcun altro sale al Cremlino, perderemo la relativa stabilità e persino un po ‘di benessere: chi è disposto a tanto per avere la democrazia? Per concludere, penso che i nostri compagni bielorussi abbiano commesso un errore nel sostenere Lukashenko. Questo non è tuttavia un grave errore. Può essere corretto se correttamente compreso, anche se sono ben consapevole che l’opzione giusta per la lotta di classe e per la campagna antiimperialista contro UE e USA e contro gli imperialismi russo e cinese è davvero molto difficile da perseguire. Può costare molte vittime e marginalizzare ancora di più il partito, ma è l’unica opzione che guardi al futuro, e non invece al passato. LA RIVOLUZIONE COLORATA CONTRO PUTIN PARTE DALLA SIBERIA? di F. F.
Riceviamo e pubblichiamo. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza nell’Estremo Oriente russo per il terzo sabato consecutivo per l’ultimo raduno in un movimento di protesta senza precedenti che sta guadagnando slancio e sta prendendo una piega contro il Cremlino. Entrando ora nella loro terza settimana, le proteste nella regione di Chabarovsk al confine con la Cina sono iniziate dopo l’arresto del governatore Sergei Furgal, accusato per aver commissionato tre omicidi nel 2004 e 2005. Questa settimana il movimento di protesta è stato stimolato dalla decisione del Cremlino di martedì di sostituire Furgal con un nuovo governatore che non ha mai vissuto nella regione. Eletto in una vittoria a sorpresa nel 2018 a seguito di un voto di protesta, Furgal è diventato rapidamente il cosiddetto “governatore popolare”. La sua diffusa popolarità è cresciuta dopo che ha fatto diverse mosse populiste una volta in carica e ha aiutato il suo Partito liberale democratico della Russia (LDPR), di destra radicale, a prendere il controllo della città di Khabarovsk e dei parlamenti regionali l’anno
successivo. Dopo essere stato arrestato e portato a Mosca il 9 luglio, circa 40.000 persone sono scese in strada nella città principale di Khabarovsk, a circa 6.100 chilometri a est della capitale russa. Da allora ci sono stati raduni, con manifestazioni principali che si svolgono il sabato. Sabato scorso, le stime hanno messo i numeri totali a circa 50.000 in una città con una popolazione di 600.000. Nell’ultimo sabato, i giornalisti che hanno riportato le news delle proteste sin dall’inizio hanno affermato che il rally della giornata è stato di gran lunga il più grande, anche se le stime sono variate notevolmente. Mentre i canali dei social media a favore dell’opposizione hanno collocato il totale a circa 90.000, le autorità di Khabarovsk hanno affermato che 6.500 persone hanno partecipato al rally. Il movimento di protesta non ha leader e la polizia aveva sino a giorni fa lasciato sempre libertà di manifestazione in quanto si tratta di una protesta pacifica, non violenta. Ma dopo che il presidente Vladimir Putin ha nominato Mikhail Degtyaryov (sempre in forza al LDPR) governatore ad interim per sostituire Furgal lunedì, il tono delle manifestazioni è cambiato questa settimana, assumendo un chiaro intento insurrezionale. Al centro del movimento di protesta c’è la richiesta che il processo dell’ex governatore Sergei Furgal sulle accuse di omicidio venga tenuto a Khabarovsk. Per prima cosa il nuovo governatore ha rifiutato l’invito a incontrare i manifestanti, che avevano chiesto di ascoltare le loro preoccupazioni e le loro richieste. Sabato, i manifestanti si sono incontrati nel loro solito luogo di ritrovo in Piazza Lenin, di fronte all’edificio dell’amministrazione regionale nel centro della città, prima di partire per una marcia di due ore in un clima festoso. La musica risuonava da macchine parcheggiate, i manifestanti distribuivano snack e acqua, e macchine di passaggio e autobus pubblici suonavano il clacson per il supporto.
Mentre i manifestanti camminavano, i loro canti includevano “Furgal era la nostra scelta”, “Il Cremlino non è nazionalista né patriota”. All’inizio di questa settimana, il Primo Ministro Mikhail Mishusti ha promesso di stanziare 1,3 trilioni di rubli ($ 18,2 milioni) in finanziamenti federali per la regione, secondo Degtyaryov. “Le proteste sono diventate molto più radicali”, ha detto l’analista politico Alexander Kynev, che ha partecipato alla manifestazione di sabato. “Puoi sentire che l’attenzione è rivolta al presidente.” Ciò potrebbe comportare problemi per il movimento lungo la strada. Già questa settimana, dopo che Degtyaryov è stato nominato alla carica, ci sono stati segnali che le autorità potrebbero iniziare a reprimere. Lo scorso giovedì la polizia ha accusato due manifestanti di organizzare raduni non autorizzati. Secondo la legge russa, le manifestazioni devono essere concordate in anticipo con le autorità, che non hanno approvato nessuno dei raduni di Khabarovsk.
Sempre lo scorso sabato, a Mosca, il leader della Sinistra radicale antifascista Udalzov, nel corso di una manifestazione non autorizzata ha parlato arringando i suoi di “colonialismo fascista moscovita” nei confronti di Chabarovsk e della Siberia. Il quadro è ora chiaro: a) manifestazione spontanea di protesta (Chabarovsk) a causa di un errore politico del presidente VVP che rimuove un ottimo governatore della destra populista, Furgal; b) immediata influenza con i suoi agenti da parte di una non meglio precisata potenza straniera, come dichiara D. Peskov (analista vicino al presidente), per disarcionare il putinismo Conservatore e precipitare i russi nel nuovo abisso progressista lgtb+; c) obiettivo strategico finale di Rivoluzione anti-putiniana che sappia portare nel medesimo fronte il nazionalismo
spontaneo filorusso con il sovversivismo colorato della sinistra radicale. Quale potenza internazionale può avere interesse al separatismo siberiano dal “fascismo di Mosca”? Con ogni logica probabilità, la Cina globalista tatticamente alleata su tutta la linea al Deep State angloamericano e alla Deep Church romana. Si iniziano già a vedere gli effetti della Rivoluzione Democratica globale Biden, pacifista, antifascista, antirazzista, egualitaria, progressista. Il mondo lo sta sperimentando nelle sue carni lacerate e smembrate: dal Covid 19 alle furiose e selvagge violenze anticristiane e sataniche negli USA. Mosca è l’obiettivo strategico finale della congrega anticristiana e russofoba della Sinistra liberal globalista. La Russia ha già sperimentato troppe inutili, catastrofiste Rivoluzioni Colorate nella sua storia. Non vi dovrà e non vi potrà essere spazio per un’altra catastrofe russa. LE VERITÀ SULLA RIVOLTA DI BELGRADO di Goran Kadijević
Riceviamo e volentieri pubblichiamo. Sulla rivolta in atto a Belgrado contro il governo di Aleksandar Vucic (leader del cosiddetto Partito Progressista Serbo) viene detto e scritto in Italia tutto e il contrario di tutto. L’attuale ribellione popolare non è un fulmine a ciel sereno; essa sale sulle spalle delle proteste politicamante trasversali dell’inverno scorso scattate per condannare la politica di capitolazione sulla questione del Kosovo-Metohja. Tra le tante sciocchezze, abbiamo ad esempio letto che i rivoltosi contestavano il governo per la sua scelta di ammorbidire la quarantena. Niente di più grottesco. Come ben spiega questo reportage le radici della sollevazione sono ben più profonde ed i motivi politici ben diversi. Malgrado noi si sia lontani dalle opinioni politiche dell’autore (riconducibili ad un nazionalismo serbo-ortodosso radicale) abbiamo tradotto e pubblichiamo la sua corrispondenza poiché getta un diverso ma illuminante fascio di luce su quello che bolle in pentola in Serbia, ovvero nel cuore stesso dell’area balcanica.
Non è del resto esatto che la rivolta in corso abbia, come scrive il corrispondente, un univoco segno. Essa raccoglie, per quanto quella nazionalistica sia quella dominante, diverse correnti d’opinione contrarie al governo. * * * I mezzi di informazione occidentali dipingono l’attuale rivolta serba come una sollevazione causata per lo più dalle bugie del Governo Vucic sui dati del contagio. Ciò è falso. La rivolta serba contro la biosorveglianza totalitaria globalista e progressistica dell’elite del Deep State ha avuto inizio nel momento stesso in cui il progressista Vucic impose mesi fa il cosiddetto lock down all’intera Serbia. La rivolta serba, essendo una rivolta politica conservatrice, non è iniziata una settimana fa, ma mesi fa. Bosko Obradovic, guida carismatica dell’Opposizione nazionalista serba, occupando per due settimane di sciopero della fame i gradini di fronte alla Camera dell’Assemblea Nazionale, era di fatto il primo uomo politico della storia contemporanea, ben prima del presidente statunitense Donald Trump, ben prima del presidente Bolsonaro, ben prima dell’irruzione sulla scena del BLM e di antifa americani e ben prima delle varie voci di scienziati alternativi al progressismo totalitario sanitario, a contestare la Rivoluzione colorata planetaria in atto. E’ tipico del nazionalismo Serbo precorrere i fatti e le grandi tendenze storiche: Gavrilo Princip Draza Mihajlovic Ratko Mladic, guerrieri puri andati al martirio per essere stati troppo in anticipo sui tempi, strateghi politici, prima che militari, antagonisti totali, irriducibili, ai rivoluzionari colorati della loro epoca, hanno perso, sono stati demonizzati nella memoria eterna di più generazioni ma hanno però aperto una nuova epoca storica e spirituale come veri e propri eroi cosmici. Il mondo dopo di loro è stato completamente differente dal
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