L'ARTE FIORENTINA LEONARDESCA E MICHELANGIOLESCA TRA CONTINUITA' E INNOVAZIONE
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L'ARTE FIORENTINA LEONARDESCA E MICHELANGIOLESCA TRA CONTINUITA' E INNOVAZIONE NEL 1506 Leonardo e Michelangelo lasciarono Firenze, il primo per dirigersi a Milano e il secondo per recarsi a Roma, dopo essersi cimentati nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Vecchio con le due famose scene delle Battaglie di Cascina e di Anghiari, che non vennero d'altra parte mai ultimate. L'improvviso vuoto creatosi con la loro partenza e lo sconcerto suscitato dalle loro proposte, ufficializzate nei cartoni predisposti in occasione di questo straordinario confronto, indussero gli artisti fiorentini ad un periodo di riflessione e di studiosu quelli che divennero i testi capitali della maniera, sostituendo nel fare artistico l'imitazione delle opere dei mastri a quella della natura. Gli esempi di Leonardo e Michelangelo furono fortemente innovativi per la realtà artistica locale, che tuttavia dimostrò ben presto la volontà di comprendere e fare proprio il nuovo codice figurativo. Un precoce fenomeno di dissonanza rispetto alla disciplina che governava gli esempi dei contemporanei, è rappresentata dall'opera dello spagnolo Alonso Berruguete, originale interprete e tramite michelangiolesco per Rosso Fiorentino e Pontormo. Essi individuarono nelle sue proposte una possibile alternativa all'equilibrio formale dominante, da cui si sarebbero presto dissociati. Questo nuovo orientamento artistico non è però da interpretare come una ribellione al classicismo, ma uno sviluppo e un superamento delle conquiste dello stile rinascimentale maturo. Al carattere fortemente eccentrico di un periodo di sperimentazione, sullo scorcio del secondo decennio del Cinquecento, fece seguito infatti, una fase in cui gli artisti della nuova generazione fiorentina sottoposero un attento controllo le esasperazioni formali di alcuni anni prima, ponendo le basi della svolta manierista. Tale svolta fu resa possibile da una sempre maggiore consapevolezza delle proprie risorse espressive, fondate su una profonda assimilazione della lezione di Leonardo,Michelangelo e Raffaello. 1.1 Rosso Fiorentino Tra gli artisti di nuova generazione, nati sul finire del Quattrocento, Giovanni Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino(1495-1590), formatosi nella bottega di Andrea del Sarto, appare al suo esordio come la personalità più audace. Poco più che ventenne, nel 1518, diede prova della sua volontà di indipendenza rispetto ai moduli formali correnti nella pala con la Madonna e Santi per la chiesa di Santa Maria Nuova a Firenze, oggi si trova agli Uffizi, tanto estrosa da essere rifiutata dal suo stesso committente. Questa svolta è accentuata dalle spigolose sfaccettature dei volumi e soprattutto dall'espressione caricata dei volti e delle pose dei santi, che culmina nella deformità spettrale e insieme grottesca del San Gerolamo. La dichiarata relazione con il cartone di Cascina di Michelangelo, è Mosè e le figlie di Jetro (1523),suggerisce l'intenzione dell'artista di rifarsi a Michelangelo, sia pure
per portare alle estreme conseguenze gli stimoli offerti dalle soluzioni formali inaugurate dal maestro a Firenze e proposte poi nella volta della cappella Sistina. Nel presentare un groviglio di corpi dall'innaturale ostentazione anatomica, Rosso radicalizzale potenzialità manieristiche dell'estetica michelangiolesca realizzando uno spazio irreale, su cui predomina la violenza dell'azione. Sullo sfondo la sottile sensualità e la grazia delle figure femminili, prelude invece al gusto per una sofisticata eleganza, che emerse sempre più apertamente nella successiva produzione dell'artista, che divenne esplicita in una delle ultime opere fiorentine prima della sua partenza per Roma: lo Sposalizio della Vergine (1523). Non si tratta di una resa all'autorità della tradizione classica, quanto piuttosto di una ricercata e complessa interpretazione della lezione, non solo di Michelangelo, ma anche di Raffaello. 1.2 Pontormo Jacopo Carucci, detto il Pontormo(1494-1556), condivise con Rosso un'esperienza presso la bottega di Andrea del Sarto, questo potrebbe far pensare ad un'analogia di percorso artistico. Invece profonde sono le differenze tra i due. Rispetto a Rosso Fiorentino, Pontormo operò esclusivamente in ambito toscano, spesso al servizio dei Medici ritornati a Firenze nel 1512. L'occasione in cui Pontormo espresse un orientamento nuovo, fu nelle Storie di Giuseppe (1517-1518). L'originalità di questo ciclo di decorazioni è sorprendente, le movimentate e affollatissime scene di Pontormo, che caratterizzano questi pannelli di piccolo formato, si ispirano alle brulicanti composizioni offerte dal repertorio di incisioni di artisti d'oltralpe a lui affini nell'inquieta spiritualità, come Luca di Leyda e Albrecht Durer. Le soluzioni adottate dal pittore toscano, conducono però a risultati del tutto nuovi, secondo una logica estranea alla razionalità dell'impianto prospettico rinascimentale. In particolare nella scena di Giuseppe in Egitto, l'artista rappresenta simultaneamente più episodi senza rispettare alcuna gradualità spazio- temporale degli avvenimenti, attraverso una concentrazione di originalissime invenzioni, tra le quali spicca l'improbabile scala curva, che si snoda all'esterno di un edificio a pianta circolare. Sul piano dell'espressione si individuano invece, due caratteri che potrebbero apparire contraddittori: come in Rosso, accanto ad eccentriche forzature formali ai limiti del grottesco, si assiste ad una ricerca estetica di estrema raffinatezza. All'inizio degli anni venti, dopo un probabile viaggio a Roma, Pontormo ritorna a Firenze e partecipò alla maggiore impresa pittorica commissionata dai Medici in quegli anni: la decorazione della villa di Poggio a Caiano. Il programma iconografico alla cui realizzazione parteciparono anche Andrea del Sarto e Francesco Franciabigio e che fu ideato da Paolo Giovio, storico e
uomo di fiducia del cardinale Giulio dè Medici, il futuro Clemente VII, aveva lo scopo di celebrare il casato dei Medici, attraverso una serie di episodi tratto dalla storia romana. La tormentata elaborazione del tema assegnato a Pontormo è testimoniata dalle diverse soluzioni prospettate in più disegni. Ha dato infine, una libera interpretazione del tema ovidiano di Ventumno e Pomona, evitando qualsiasi richiamo alla retorica classicista e a dichiarati intenti narrativi, per fermare invece un sereno scenario di vita agreste. Ne deriva un senso di armonia e di naturalezza rarefatta, risultato della sapiente combinazione di corrispondenze di pose e di gesti con frequenti sottolineature del dato naturalistico, come nel vecchio all'estrema sinistra. 1.3 Dosso Giovanni Luteri, detto Dosso Dossi (1489 circa-1542), ferrarese e attivissimo nella sua città natale, fondamentale esperienza per lui costituiscono il cromatismo raffaellesco e il naturalismo di Tiziano. Dopo un primo contatto con l'ambiente veneziano, egli venne coinvolto dall'esperienza centro-italiana e potè confrontarsi con gli esempi romani di Raffaello e Michelangelo. In entrambi i casi, comunque la personale rielaborazione compiuta da Dosso del classicismo veneto prima e romano poi, da l'esatta misura del suo rapporto con la modernità, vissuto come occasione di stimolo per esplicare liberamente una fantasia estrosa e una brillante vena narrativa, in sintonia con il sofisticato ambiente culturale ferrarese patrocinato dalla corte degli Estensi, frequentata in quei tempi da illustri personaggi tra cui Ludovico Ariosto. A seguito dell'esperienza romana la struttura dei suoi dipinti assunse una sicurezza di impianto e una monumentalità di forme. Grazie alla sua ricchezza di immaginazione, Dosso divenne interprete di un originale filone fantastico, ben rappresentato sia sotto il profilo iconografico più propriamente pittorico dalla Maga Circe conservata a Roma nella Galleria Borghese. 1.4 Parmigianino Francesco Mazzola (1503-1540) detto il Parmigianino, a seguito del sacco di Roma abbandonò la città, riparando a Bologna, dove vi restò per quattro anni (1527-1531), durante i quali portò avanti la ricerca estetica avviata nel periodo romano. Raffinata eleganza e sottile introversione si fondevano in nuovo ideale di bellezza, che cristallizzava le immagini in una rarefatta e preziosa incorruttibilità formale. Nella non finita Madonna dal collo lungo, (1534-1540), oggi agli Uffizi, Parmigianino riformulò l'immagine umana secondo i canoni di una bellezza tanto artificiale e raffinata da configurare un punto di riferimento estetico. Così la sinuosa e allungata figura della Vergine, suscita nello spettatore l'incertezza di riconoscere la postura, in piedi oppure seduta o appoggiata ad un invisibile sostegno.
Inoltre l'ambiguo effetto di instabilità della scena, che non è facile comprendere se si svolge al chiuso o all'aperto, è rappresentato dalla non razionalizzabile rappresentazione dello spazio, in base alla quale la proporzione delle figure collocate in primo piano risultano inconciliabili con quelle situate sullo sfondo, dove si staglia l'improbabile resto di un tempio dalla fila di altissime colonne senza capitello. Poche opere d'arte come questa, segnano una bisso rispetto alle esigenze di razionalità della cultura rinascimentale. 1.4 Sebastiano del Piombo Sulla scena artistica romana postraffaellesca, si trova una personalità di origine veneziana: Sebastiano del Piombo. Questo artista inaugura un rapporto privilegiato con Michelangelo, egli se ne considerò l'erede nel ventennio dell'assenza del maestro da Roma, in una sorta di costante competizione con l'indiscussa autorità di Raffaello prima e degli esponenti della sua cerchia poi. Sebastiano Luciani (1486-1547), detto del Piombo per l'ufficio della piombatura pontificia ottenuto nel 1531, era giunto a Roma da Venezia nel 1512, chiamato da Agostino Chigi. Nella città natale egli aveva condiviso il delicato momento di passaggio dalla tradizione rappresentata da Giovanni Bellini, al nuovo orientamento formulato da Giorgione da Castelfranco. La spiccata tendenza alla monumentalità compositiva facilitò l'ingresso dell'artista nell'ambiente romano, dove al classicismo di Raffaello, preferì ben presto il modello etico offerto dagli esempi di Michelangelo. La Pietà di Viterbo(1516-1517) segnò la dichiarata adesione di Sebastiano all'orientamento michelangiolesco, ma anche l'affermazione di una propria autonomia espressiva. L'elementare geometria compositiva di questa immagine monumentale è priva di qualsiasi connotazione decorativa, giudicata superflua si fini di un'arte sacra che voleva interpretare nuovi valori morali attraverso un'aderenza al tema religioso prescelto, che non intendeva essere semplice pretesto per una divagazione culturale estetica. Anche il paesaggio, a cui Sebastiano assegnò frequentemente un'importante funzione, memore della sua educazione veneziana, è testimone del sentimento di profonda religiosità che permea l'intera immagine, attraverso le livide note cromatiche dai toni cupi, che si accendono nei rari bagliori dello sfondo. Nella Roma clementina, con la morte di Raffaello e la partenza di Giulio Romano per Mantova, Sebastiano non ebbe rivali nel campo della ritrattistica, un genere in cui egli affermò una sorta di realismo morale, non dissimile a quanto aveva espresso nella pittura sacra. L'artista aderisce al raffinato ed esclusivo clima culturale della corte pontificia., esemplificato nelle contemporanee pale sacre di Rosso e Parmigianino. Negli anni che seguirono il sacco di Roma, Sebastiano riaffermò nella pittura sacra quelle esigenze di pietà e di austerità che taluni ambienti mostrarono di recepire
prima della loro ufficializzazione, avvenuta in occasione del Concilio di Trento.
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