Kohlhaas, il cerchio spezzato
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Kohlhaas, il cerchio spezzato Successo per Marco Baliani splendido interprete del racconto di Von Kleist, ospite del cartellone di teatro civile del massimo cittadino Di Gemma Criscuoli Se pensate a un’immagine che evochi l’idea di giustizia, sarà molto probabilmente un cerchio a venirvi in mente. Ma cosa accade quando il cerchio è spezzato, calpestato, vilipeso? Amara e vitale riflessione sui meccanismi ambigui e rovinosi innescati dal sopruso, Kohlhaas di Marco Baliani, proposto alla Sala Pasolini per la regia di Maria Maglietta, non dimostra i suoi trent’anni e l’interprete, narratore appassionato e appassionante, dedica oggi come ieri la pièce “ai compagni che negli anni Settanta si fecero giustizieri per un ideale di giustizia”. La Germania del XVI secolo (che rivive nel racconto di Von Kleist da cui la rappresentazione è tratta) non è poi così distante dall’Italia degli anni di piombo: in entrambi i contesti il sistema esiste per umiliare e stritolare il Kohlhaas di turno, che sogna un pacifico equilibrio aperto anche agli animali, preziosi perché oggetto di cura e d’amore, un cerchio in cui basti essere se stessi. Il protagonista è, infatti, un allevatore di cavalli, orgoglioso di due morelli, che un barone riduce pelle e ossa, facendo anche picchiare un servo, solo per il piacere di imporre il suo potere. Quando l’uomo vedrà morire sua moglie per una fatalità legata agli avvenimenti e, pur di vendicarsi, devasterà intere città alla testa di sbandati, si comprenderà come la giustizia sia una moneta falsa, un inganno che muta forma a seconda degli interessi in gioco. Coincide con la violenza e il doppiogiochismo dell’imperatore, l’ambizione del principe di Sassonia, l’egocentrismo dello stesso allevatore, che, sacrificando tutto alla propria ossessione, finisce col parlare lo stesso linguaggio del suo acerrimo nemico. Perfino il sant’uomo che aiuta Kohlhaas sulla via del ravvedimento è
funzionale allo status quo, in cui nulla deve turbare la distanza tra chi comanda e chi subisce. Un’ironia crudele percorre il racconto, che Baliani vivifica con una gestualità e un linguaggio talmente concreti e intensi da far vivere la storia in tutta la sua immediatezza. Colui che ha osato ribellarsi è utile alla repressione, perché la legittima e gli improvvisi tentativi del principe di liberarlo, per chiarire l’esito di una profezia, dimostrano come l’egoismo sia la sola legge che gli esseri umani sono disposti a difendere. Eppure esiste un modo per sottrarsi a questo copione stantio. Kohlhaas farà la scelta giusta anche se gli costerà la vita, lasciando di sé un ricordo che oscurerà i potenti. In questo mondo arido, la giustizia è un miraggio. Inseguirla è l’unica occasione per non essere vittime o carnefici o, peggio ancora, indistinguibili tra le une e gli altri. Osteria ‘O povero pesce: il sorriso del mare Nostrum Abbiamo incontrato Iolanda ‘Iole’ Cernera e Cristian Citro, nel loro spazio eno-gastronomico di Bellizzi. “La nostra mission è quella di proporre al cliente un prodotto freschissimo, ‘a miglio zero’, pescato dai gozzi e dalle paranze che navigano i mari del Golfo di Salerno”. Di Gaetano Del Gaiso Che il comune di Bellizzi, in provincia di Salerno, stia, nel corso del tempo, acquisendo sempre maggior prestigio e visibilità all’interno dello scenario eno-gastronomico della provincia, questo è un fatto assolutamente noto. Quel che è
meno noto, in effetti, è tutto ciò che riguarda i protagonisti di questa vera e propria rivoluzione culinaria che sta investendo ‘questa via di passaggio’ fra i ben più estesi e popolosi agglomerati urbani di Battipaglia e Pontecagnano- Faiano. Ed è proprio per questo motivo che oggi voglio condurvi alla scoperta di uno dei luoghi dove potrete gustare alcune tra le migliori preparazioni a base di pesce della provincia di Salerno, servite in un posto dove la condivisione di un pasto avviene non soltanto attraverso l’affinità d’intenti che riguarda coloro i quali decidono di sedersi a tavola e gustare una deliziosa parmigiana di melanzane e pesce palamita, o, piuttosto, una croccante e sfiziosa frittura di totanetti affogata nel succo di limone o, ancora, un ben più ‘spartano’ piatto di spaghetti e telline, ma anche attraverso la cieca e assoluta fedeltà che i due principali propulsori di questo interessantissimo ed entusiasmante progetto, Iolanda ‘Iole’ Cernera e Cristian Citro, riservano a questa loro creatura, l’osteria ‘O povero pesce’, nata allo scopo di conferire maggiore spazialità all’offerta gastronomica di Bellizzi e creare un vero e proprio punto di riferimento per la cucina di pesce in un luogo dove altrimenti, a questa, era riservata un’attenzione superficiale e inconsistente. GdG: Quando e come nasce ‘O povero pesce’? I. e C.: ‘O’ povero pesce’ nasce ben quattro anni fa, a seguito di tutte quelle esperienze eno-gastronomiche di cui ci siamo volontariamente resi protagonisti nel corso della nostra vita, al fine di racimolare quanta più esperienza e quante più informazioni possibile sul trattamento della materia, che è il pesce, appunto, e sulla trasformazione di questa stessa in piatti esaltanti da poter servire ai nostri clienti. In origine, ‘O’ povero pesce’, nasce come realtà ibrida, che riunisse, sotto il vessillo di un unico brand, due contingenze ben distinte, una pescheria e un’osteria, legate, chiaramente, da un principio di co-dipendenza che rendesse questo nostro progetto ben più che un semplice tentativo di
imposizione sul mercato eno-gastronomico di Salerno e della sua provincia, ma un vero e proprio punto di riferimento per l’acquisto e la consumazione di un prodotto che necessita, forse ancora più della carne, di attenzioni feroci nei riguardi non soltanto della sua provenienza, ma anche della sua freschezza. Purtroppo, però, dopo appena quattro mesi di vita, ci siamo trovati costretti a sacrificare questa idea e concentrarci, in maniera pedissequa sull’osteria. GdG: Quale è il filo conduttore del vostro progetto? I. e C.: La nostra mission è quella di proporre al cliente un prodotto freschissimo, ‘a miglio zero’, pescato dai gozzi e dalle paranze che navigano i mari del Golfo di Salerno, di cui ci riforniamo, giorno dopo giorno, attraverso un unico canale di cui abbiamo imparato, in questi quattro anni di attività (cinque, questa estate) a fidarci ciecamente, poiché latore di quell’esperienza necessaria a valutare oculatamente la qualità di quel pescato che diverrà poi il principio attorno a cui ruota l’economia di questa nostra realtà, che è la pescheria ‘O’Tarallaro’ di Salerno. E’ proprio per questo motivo che il nostro menù non è mai uguale a sé stesso, proprio in funzione del fatto che il pescato è sempre diverso. Il format dell’osteria, inoltre, ci consente di proporre alla nostra clientela un prodotto che, altrove, magari, richiede una spesa d’acquisto anche piuttosto elevata, ma che qui serviamo a un prezzo più che accessibile, seppur trattandolo con il medesimo rispetto e riguardo di un ristorante stellato. Un piatto, per quanto assemblato da mani esperte e con ingredienti d’eccellenza, deve non soltanto soddisfare il palato di chi ne fruisce, ma anche tutti gli altri sensi: primo fra tutti la vista. GdG: Quali pesci trattate nel vostro ristorante e come questi vengono trattati e presentati, poi, al cliente? I. e C.: Per abbattere i costi dei nostri piatti, chiaramente, il tipo di pesce che trattiamo è un pesce che è per
definizione ‘povero’: pesce porco, pesce bandiera, mangia- alici, palamita, aguglie, alici, barracuda, polpo, cannolicchi, vongole veraci, telline, pesci, molluschi e frutti di mare che appartengono alle nostre acque e che si prestano, davvero, alle preparazioni più disparate, dal battuto, allo spaghetto, alla grigliata, alla frittura. Tutte preparazioni che consigliamo di consumare in abbinamento a vini che perlopiù provengono dalla ‘Tenuta San Salvatore’ di Capaccio, da ‘Casa d’Ambra’ di Ischia e dalla ‘Casa Vinicola Del Gaudio’ di Castellammare di Stabia. Tutte preparazioni confezionate dalle abilissime e giovanissime mani dello Chef Serena Salerno, classe 1993, il cui servizio, per noi, è ben più che motivo d’orgoglio, non soltanto per il suo brillante curriculum (Serena è stata Chef presso ‘La locanda dei Feudi’ di Filetta, ‘La Casa Rossa’ di San Mango Piemonte, ‘Terzo Tempo Village’ di San Mango Piemonte e ‘Tenuta Vannulo’ di Capaccio e attendente a corsi di perfezionamento organizzati da figure di spicco dello scenario culinario italiano quali lo Chef Gennaro Esposito e presso ristoranti stellati quale l’Oasis Sapori Antichi’ di Vallesaccarda), ma anche perché in lei abbiamo ritrovato un esperto artigiano che conferisse una propria identità ai nostri piatti, pur non alterandone l’essenza in maniera drastica, traumatizzando il palato di quella porzione di clientela che nel corso del tempo siamo riusciti a fidelizzare col nostro prodotto. GdG: Avete un piatto del cuore, un piatto che preparate non appena vi capita la possibilità di farlo? I. e C.: Il nostro menù, proprio come ti anticipavamo poc’anzi, varia al variare del pescato disponibile ed è per questo che non possiamo dire di avere un vero e proprio piatto principe. Seppure ritroviamo un piacevole e lussurioso conforto in questa tagliata di seppia con cuore di carciofo bianco pestano che stai assaggiando in questo momento che, unitamente alla genovese di palamita è forse la preparazione a cui siamo più affezionati.
Al via “Moovart Co-Expo Firenze 2020”. Martedì la presentazione ufficiale Da Liverpool a Firenze: il mese di marzo si apre all’insegna dell’arte contemporanea. Si terrà il prossimo martedì 3 marzo alle ore 13, presso la Sala della musica della Fondazione “Franco Zeffirelli”, nel cuore del capoluogo toscano, la conferenza stampa di presentazione di Moovart Co-Expo Firenze 2020. L’iniziativa porta la firma della Fondazione “Amedeo Modigliani”, realtà di ricerca scientifica nata con l’intento di promuovere tutelare l’opera dell’omonimo pittore toscano. Tra i numerosi progetti della Fondazione spicca “Moovart“, con l’intento di promuovere e valorizzare a livello internazionale nuovi artisti emergenti. Siederanno al tavolo dei relatori: Pippo Zeffirelli, presidente della Fondazione “Franco Zeffirelli”; Cristina Giachi, vicesindaco del comune di Firenze; Fabrizio Checchi, presidente della Fondazione “Amedeo Modigliani”; Greta Garcia Hernandez, direttore del dipartimento di restauro di arte moderna e contemporanea dell’Istituto Valenziano di conservazione.
Esorcizzare la Morte A Mutaverso Teatro, tra risate e malinconia, “La Vecchia”, della Compagnia Artisti Drama, ospite questa sera e domani alle ore 21 del Piccolo Teatro del Giullare Di OLGA CHIEFFI “Carte, cavall’ e ddonne fànno chello che vvònno” recita un vecchio adagio napoletano e chi non ricorda Carmen che legge la sorte nel III atto del capolavoro di Georges Bizet “Voyons, que j’essaie à mon tour. Carreau, pique…la mort !J’ai bien lu…moi d’abord. Ensuite lui…pour tous les deux la mort !En vain pour éviter les réponses amères, en vain tu mêleras; cela ne sert à rien, les cartes sont sincères et ne mentiront pas! Dans le livre d’en haut si ta page est heureuse, mêle et coupe sans peur, la carte sous tes doigts se tournera joyeuse, t’annonçant le bonheur. Mais si tu dois mourir, si le mot redoutable est écrit par le sort, recommence vingt fois, la carte impitoyable répétera : la mort! Encor! encor! Toujours la mort!”. “La vecchia”, la comare secca, l’arcano, principe dei tarocchi ,sarà protagonista questa sera e domani, sul palcoscenico del Piccolo Teatro del Giullare, alle ore 21. E’ “La vecchia” il secondo tassello della cosiddetta trilogia del tavolino, composta da “La vita ha un dente d’oro” e “Gin Gin” perché i personaggi di queste pièce siedono intorno a un tavolino, cercando di esorcizzare la morte parlando della vita con leggerezza. La stagione Mutaverso, per mano di Vincenzo Albano, ci regala in questa V edizione l’incontro con la scrittura di Rita Frongia, che dirige in scena Marco Manchisi e Stefano Vercelli, una produzione della compagnia Artisti Drama Due attori e un tavolino, il comico, un copione che istiga all’improvvisazione, un cadavere, luci discrete, musiche assenti. Gli attori, seduti a un tavolino, tentano di sconfiggere la morte. Un rigattiere legge i tarocchi a un poeta. Il poeta, che vorrebbe essere Rimbaud, consulta il mago per conoscere l’origine del dolore che gli contorce lo stomaco
a ogni risveglio. Ovviamente chi ha davanti non ne conosce le ragioni, va a tentoni, fa finta di saperne in profondo le ragioni. Le carte parlano attraverso la voce del mago, rivelano scenari, prevedono sparizioni, richiedono un rito magico. Ma sarà poi finalmente lo stesso poeta a capire le motivazioni, abbandonando l’imbroglione davanti alla carta ferale: La Vecchia, l’arcano maggiore, il 13, la morte. La Morte, infatti, è uno dei Tarocchi più temuti per l’ovvio significato che tanto ovvio non è. Difatti questa carta non si riferisce, nella maggioranza dei casi, a una morte fisica ma a un processo di cambiamento profondo o alla fine di qualcosa. Quando esce in una lettura si riferisce al bisogno di abbandonare vecchie abitudini, vecchi schemi, vecchi modi di fare che sono ormai controproducenti per una qualsivoglia evoluzione. Quindi, indica un forte mutamento interiore o la necessità che questo avvenga. L’aspetto positivo della Morte interiore è che essa è seguita dalla Rinascita e, quindi, rappresenta la prova, in senso lato, iniziatica, superando la quale possiamo giungere a una nuova condizione di vita più conforme alla nostra essenza. Una tragedia , l’uscita della Vecchia, solleverà il poeta dal dolore dell’anima. Una commedia malincomica in cui le risate si mescolano alla malinconia, portando ad un confronto schietto sull’esistenza. La ricetta del nutrizionista: Ravioli all’asparago preludio di primavera Di Angelo Persico L’asparago (dal greco aspharagos, a sua volta dal persiano
asparag, ossia germoglio) è una pianta appartenente alla famiglia delle liliacee. La sua storia si perde nei tempi, tanto che fu coltivato dagli antichi Egizi, ed è stato trovato raffigurato su alcuni antichi reperti grafici. Furono poi i Romani che dal 200 a.c. cominciarono a coltivare gli asparagi, usandoli dapprima a scopo puramente medicinale e curativo e poi come cibo, per via delle loro preziose qualità organolettiche. Fu poi nella Francia del XV secolo che cominciò una più fiorente coltivazione di questa pianta, la quale si diffuse così in Inghilterra e, attraverso i coloni nel Nord America. L’asparago possiede molte interessanti caratteristiche benefiche per il nostro organismo. Prima fra tutte è la sua ormai nota proprietà diuretica. Inoltre sono ricchi di fibra alimentare e quindi adatti a prevenire la stipsi; contengono poche proteine e pochissimi glucidi, per lo più semplici. Nulli o quasi, risultano i lipidi. Mentre notevoli sono i sali minerali, specialmente il potassio. Fra le vitamine spiccano, la vitamina C e i carotenoidi (pro-vit. A). Va precisato, tuttavia, che sulle proprietà degli asparagi, vige ancora un acceso dibattito. Se per molti il fatto che essi stimolino la filtrazione renale rappresenterebbe un vantaggio, per molti altri invece costituirebbe un fattore negativo, tanto da sconsigliare gli asparagi nella dieta nel nefropatico. Inoltre, a causa dell’elevata concentrazione purinica, gli asparagi costituiscono un alimento da evitare in caso di gotta o iperuricemia. Oggi proponiamo una ricetta gustosa, dal sapore rustico e deciso, adatta anche ai vegetariani,Di seguito la ricetta (Ingredienti per 2 persone): 1) Versare la farina di semola di grano duro (200g), salare quanto basta e aggiungere dell’acqua tiepida, in modo da far si che la farina si amalgami. Quindi impastarla fino al raggiungimento di un composto solido ed omogeneo. Lasciar riposare l’impasto. 2) Lavare accuratamente gli asparagi, asciugarli e tagliarli finemente prestando attenzione ad eliminare le parti più dure dei gambi. Setacciare la ricotta vaccina (200g) e aggiungerla agli asparagi già tagliati. Aggiungere anche aglio e
prezzemolo finemente tritati, e un pizzico di pepe. 3) Dal panetto tirare una sfoglia sottile, porre un po’ del composto di asparagi e ricotta a piccoli mucchietti. Fare un’altra sfoglia e coprire con questa la sfoglia già farcita. Con le dita pigiare sui contorni, eliminando l’aria e con la rotella tagliapasta eliminare gli eccessi. 4) Cuocerli in abbondante acqua e condirli con un semplice sugo di pomodoro e pecorino grattugiato. Alla ricerca del suono con Giuseppe Laterza La X edizione del “Viaggio col sassofono” è stato inaugurato dal sax alto della Banda musicale dell’Aeronautica Militare, il quale ha concluso la sua masterclass donando un saggio dei Tableaux de Provence della compositrice Paule Maurice e del concerto di Albinoni insieme a Luigi Cioffi. Di Olga Chieffi I due giorni nel segno del sassofono con Giuseppe Laterza, sax alto della Banda musicale dell’Aeronautica Militare, hanno inaugurato la X edizione dei corsi di Alto perfezionamento ideati da Luigi Cioffi, ospiti dell’oratorio della Parrocchia di San Francesco d’Assisi in Campigliano di San Cipriano Picentino, grazie all’ospitalità di Don Flavio Manzo. Cinquantatré allievi hanno potuto incontrare, sia i maestri “stabili” Massimo Mazzoni, Lucy Derosier e Marco Gerboni, che Giuseppe Laterza, il quale ha affidato ai ragazzi il suo bagaglio di esperienze e studi, i nove anni al Conservatorio Superiore di Parigi, racchiusi nel suo manuale di tecnica “Suono e tecnica del sassofono” edito dalle edizioni Empateia,
oggi ancora unicamente in formato e-book. Sette capitoli vanno a comporre un percorso legato in primis alla ricerca del suono, della rotondità, alla perfezione d’intonazione di tutti i possibili intervalli, scale, arpeggi, controllo assoluto, articolazione, che sono il pane quotidiano un po’ per tutti gli strumenti a fiato. Gli allievi sono stati invitati a leggere qualche pagina, certo non semplice, in modo da porsi all’inseguimento del “suono più bello”, in primis imparando ad ascoltarsi. Ma niente di noioso sotto cui aggobbire, poiché l’intero volume è dinamico e fa partecipare con precise richieste, in prima persona l’esecutore, il quale deve ricavare i diversi esercizi da cellule musicali che dovranno essere sviluppate in tutte le tonalità. Senza accorgersi l’allievo andrà così ad approcciare anche passaggi particolari della letteratura classica e il grande repertorio dedicato a questo strumento. La domenica è stata sigillata da una breve esibizione, che ci ha condotto lietamente all’atteso momento conviviale. L’ensemble di “Viaggio col sassofono”, composto da Domenico Luciano e Carmelo Bettini al soprano; Vincenzo Tisi, Gaetano Amoroso, Gaia Schiavone e Rosina Naddeo, al sax alto; Nicola De Giacomo, Alessandro D’Abbrusco, e Raffaele Saviello al sax tenore; Michele D’ Auria e Luca Isernia sax baritono, con Luigi Cioffi sax basso, diretto da Massimo Mazzoni, ha donato il IV e il III tempo di Tableaux de Provence, una suite programmatica composta da Paule Maurice tra il 1948 e il 1955 per sassofono contralto e orchestra, un lavoro dedicato ad uno dei capiscuola dello strumento Marcel Mule. I movimenti descrivono la cultura e lo scenario della Provenza, dove le famiglie dei Mule e di Maurice con suo marito, il compositore Pierre Lantier, trascorrevano delle vacanze insieme. Al sax altro Giuseppe Laterza ha rivelato la sua idea di suono, una vera e proprio mise en voix, nel “Dis Alyscamps l’amo soupire” un brano meditativo ispirato alla necropoli romana di Arles, celebrata anche da Van Gogh e flou alla francese ne’ “La boumiano” che evoca il carattere esotico e stravagante dei pellegrinaggi gitani a Saintes-Maries de la Mer, nella Camargue. Finale italiano con l’allegro del concerto per due
oboi di Tomaso Albinoni, ove protagonisti assoluti sono stati i due sassofoni soprano di Giuseppe Laterza e Luigi Cioffi. Perfezione strutturale, esuberanza ritmica e felicità di idee melodiche caratterizzano queste pagine che sono state rese con grande naturalezza e vitalità. Appuntamento il 14 e il 15 marzo per un occhio sulle ance, imboccature e nuovi accessori Vandoren. Kohlhaas compie trent’anni Questa sera, alle ore 21, la storica pièce portata in giro da Marco Baliani sarà ospite del cartellone di teatro contemporaneo della Sala Pasolini Di OLGA CHIEFFI Torna a Salerno Marco Baliani e lo fa con uno spettacolo cult che ha debuttato nel 1990, “Kohlhaas” la rilettura di un racconto di Heinrich von Kleist nella riduzione dello stesso attore e Remo Rostagno per la regia Maria Maglietta, una produzione di Trickster Teatro ospite domani sera, con inizio alle ore 21, del palcoscenico della Sala Pasolini, gemma della sezione di teatro civile del massimo cittadino. “Lungo le rive dell’Havel viveva, intorno alla metà del sedicesimo secolo, un mercante di cavalli di nome Michele Kohlhaas, …uno degli uomini più giusti ma anche più terribili del suo tempo”. La laconicità con cui Kleist nell’incipit definisce Michele Kohlhaas, contiene già quella che è la cifra dell’intero racconto: la compresenza di opposti che non si escludono ma convivono generando un’ambivalenza apparentemente contraddittoria, in realtà forsennatamente coerente. Kleist prende spunto da un reale fatto di cronaca avvenuto nel sedicesimo secolo in Germania. Lo eleva e lo trasfigura in una
lezione universale sulla giustizia, drammatizzando come fosse una sua personale richiesta di diritto e dovere quel che dovrebbe essere proprio della comunità. Ma qui, purtroppo, il torto diventa diritto, come quasi sempre accade nelle questioni legali in cui prevalgono i meccanismi di potere della classe politica dominante. Lo scritto di Kleist non ha paragoni per struttura e contenuti nella letteratura tedesca. Il racconto narra la vicenda di Michael Kohlhaas, uomo probo e giusto che per il sopruso di un nobile si vede requisire, o meglio, rubare ingiustamente, dei cavalli. A questo punto scatta la sua sete di giustizia che genera accadimenti tortuosi e fatali, portando il poveretto a una ribellione feroce: si fa bandito e per vendetta, a sua volta, genera nuove ingiustizie e lutti. Il dramma si conclude tragicamente, il povero Kohlhaas viene giustiziato. Ma il riconoscimento del diritto e della legge degli uomini ci lascia con l’amaro in bocca. Si susseguono quindi nel racconto tre stadi: il sopruso che genera la sete di giustizia di Kohlhaas, la svolta tragica che suscita nel protagonista la drammaticità del dolore e che genererà, a sua volta, la sua sete di vendetta, l’irrompere di catene di eventi via via sempre più irrazionali, che introducono nella vicenda una dimensione fatale di cui sarà al tempo stesso interprete e vittima. Ed è proprio questo passaggio che trasforma la vicenda da un accadimento di ordinaria prepotenza e di abuso di potere in una storia di ordinaria follia che è il segreto e al tempo stesso la sovraeccitata potenza di questo racconto. Perché se la profanazione del diritto subita da Kohlhaas è per intero dentro la logica del suddito su cui si può infierire bellamente e, quindi, dentro una logica in sé corrotta e basata sulla manipolazione della verità, la profanazione del diritto che, nella sua reazione, attuerà il protagonista, è al contrario tutta dentro una logica di autoinvestitura per rimettere ordine e giustizia nel mondo, come se egli fosse in preda ad una fede da affermare e ad un’idea e a un compito di pulizia e di verità da realizzare. E, non a caso, Kleist attribuirà a Kohlhaas le vesti e la furia di un Angelo
sterminatore: “L’ angelo del Giudizio piomba così giù dal cielo” scriverà Kleist riferendosi all’apparire di Michele nel castello di Venceslao di Tronka, il nobile che gli ha prima requisito e, poi, utilizzato, sfiancandoli e trasformandoli in due esangui ronzini i suoi due morelli, che Kohlhaas aveva dovuto lasciare in pegno presso il castello, per motivi rivelatisi poi delle “angherie illegali”. Kohlhaas è la storia di un sopruso che, non risolto attraverso le vie del diritto, genera una spirale di violenze sempre più incontrollabili, ma sempre in nome di un ideale di giustizia naturale e terrena, fino a che il conflitto generatore dell’intera vicenda, cos’è la giustizia e fino a che punto in nome della giustizia si può diventare giustizieri, non si risolve tragicamente lasciando intorno alla figura del protagonista una ambigua aura di possibile eroe del suo tempo. Le domande morali che la vicenda solleva e lascia sospese, si trasformano in uno strumento per parlare degli anni ’70, per parlare di quei conflitti in cui la generazione del ’68, in nome di un superiore ideale di giustizia sociale, arrivò a insanguinare piazze e città. Pasticceria Bassano: non solo “chiacchiere” Alle famose frappe laziali, il patron Vincenzo rilancia con i “bocconcini” alla crema Chantilly e le celebrate castagnole con uva sultanina e vari aromi dall’alchermes al limone Di Olga Chieffi Carnevale è uno di quei momenti dell’anno pieno di colore e di allegria, lo stesso periodo in cui, passando dalle pasticcerie e dai panifici, si rimane catturati dal profumo
delle prelibatezze dolci tipiche di questa festa, castagnole, chiacchiere, ciambelle sono ricette diffuse in tutta Italia. Ricordiamo, Lorenzo de’ Medici, introdotto come spettatore della sua celebre “canzone dei confortini” o bericuocoli i pasticcini che le maschere offrono, cantando, alle Madonne fiorentine spettatrici. “Berricuocoli, donne, e confortini! se ne volete, i nostri son de’ fini. Non bisogna insegnar come si fanno, ch’è tempo perso, e ’l tempo è pur gran danno; e chi lo perde, come molte fanno, convien che facci poi de’ pentolini. Quando ’gli è ’l tempo vostro, fate fatti, e non pensate a impedimenti o imbratti: chi non ha il modo, dal vicin l’accatti; e’ preston l’un all’altro i buon’ vicini.”Molti dolci sono lievitati, altri no, ma qui al meridione sono quasi tutti sono fritti, perché il Carnevale resta la festa della trasgressione, del travestimento, del canto, del double entendre, espressioni dello spirito pagano, per il quale, allo stesso modo in cui il seme che sta “al di sotto” deve venire fuori, “al di sopra”, alla luce, tutto ciò che è inferiore diventa temporaneamente superiore, ovvero, il momento della sovversione rituale, della degradazione temporanea dei “potentes”, della prescritta esplosione degli istinti. La tradizione dei dolci di carnevale è molto ricca e per avere lumi su di essa abbiamo varcato la soglia della storica Pasticceria Bassano, che insiste sul corso Giuseppe Garibaldi di Salerno. Sulla soglia ci ha accolto il patron Vincenzo, erede dei segreti del padre Raffaele, il quale nel 1947 fondò l’azienda di famiglia con la Signora Maria in via Dogana Vecchia nel centro storico di Salerno. Poi il cambio di sede nel 1960. “Da sessant’anni che festeggerò quest’anno – ha rivelato Vincenzo – non ho inteso cambiare gli arredi degli spazi. L’arte dolciaria è fatta di tradizione e noi l’omaggiamo anche attraverso il ricordo e la denuncia del tempo.”. Esiste un legame stretto tra il pensiero filosofico dell’esistenza e della ragione umane e il sapere del progettare-costruire, entrambe hanno un comune, e fondamentale riferimento, lo spazio. Noi uomini della fine ereditiamo il concetto di spazio come extensio, con esso Cartesio pensava lo
spazio quale pienezza e continuità della materia e quindi quale medium del movimento, del tendere avanti a sé, quale sinonimo dell’amplificazione. E’ giusto questa l’essenza della scelta di Vincenzo. La pasticceria rappresenta quel tòpos, il dove, che, localizzando, determina una cosa come cosa-per- l’uomo, che diventa condizione dell’esistenza, punto di riferimento dell’esperienza, che consente la progettualità e l’attuazione, assumendo la caratteristica comunicativa o sociale di “luogo familiare”, mentre la familiarità del luogo ha assunto il tratto di condizione necessaria di ogni progettualità, il segno, che diventa di-segno, archè, principio. “Così la tradizione continua con Mario che è a capo del laboratorio, e i pasticcieri storici, Mimmo Sabato, Vincenzo Florio ai quali si è aggiunto Mario Aloisi. Al banco vendita, invece si alternano Rossella Ventre e Loredana Forte”. La pasticceria Bassano è nota per il suo millefoglie profumato e fragrante, il cioccolato insuperabile e fluido dei profiteroles, con il suo segreto fatto di rum, i semifreddi, gli apollini. Stavolta però, la festa è in corso e in preparazione ci sono i dolci del carnevale. “Le più richieste naturalmente sono le chiacchiere – afferma col suo dire affettuoso Vincenzo – Si cucinavano già all’epoca romana nel periodo di quaresima, la tradizione le ha poi portate fino ai giorni nostri e di regione in regione cambiano il loro nome ma la bontà rimane ovunque la stessa, un impasto di uova, zucchero e farina fritto e spolverato di zucchero a velo. Le radici di questi dolci, così come i tanti nomi, risalgono all’Impero Romano, nel cui periodo si segnala già la presenza dei frictilia, un impasto realizzato con farina e uova, modellato poi in striscette con i bordi seghettati e immerso nello strutto primo di essere fritto. Veniva consumato per lo più in inverno, proprio per la sua caratteristica di fornire calore ai commensali, ma anche perché era in questo periodo che vi erano importanti feste pagane, quali i Saturnali. Apicio, uno dei più raffinati buongustai dei tempi antichi, descrive così la preparazione delle chiacchiere nel suo “De re coquinaria”: “Frittelle a base di uova e farina di farro
tagliate a bocconcini, fritte nello strutto e poi tuffate nel miele”. Noi qui al Sud le avviciniamo al sanguinaccio che originariamente veniva preparato con il sangue di maiale, e oggi giorno bisogna accontentarsi della versione preparata con il cioccolato fondente e profumata di cannella”. “Alle chiacchiere seguono le castagnole, delle “praline” di bontà zuccherate che hanno origini abbastanza antiche. Le prime testimonianze risalgono al 1692, attraverso le ricette di Latini, cuoco della casa reale Angioina, dunque anche partenopea, e le ritroviamo anche con il Nascia, nel 1648, il cuoco della Casa dei Farnese. Un altro manoscritto dove viene menzionato questo gustoso sfizio risale al ‘700 e trovato da Italo Arieti negli Archivi di Stato della città di Viterbo per poi giungere ai più moderni ricettari ottocenteschi. Un impasto di farina, uova e burro, rigorosamente fritto, che io arricchisco con uva sultanina e vari aromi, ad esempio l’alchermes, con cui acquisiscono quel colore rosato o il limone. La nostra specialità sono i “bocconcini” ripieni con crema chantilly e oso dire che la nostra è una signora crema chantilly!”. Invenzione, creatività, tradizione da settantatrè anni, la pasticceria Bassano, un modo per fare i conti col proprio passato per continuare ad essere il sogno di se stessi. Ristorante Capo D’Orso: “Il miracolo” di una “fusion” unica: tradizione e futuro
dell’ arte culinaria Di Giulia Iannone Quando il cibo e la cucina campana, hanno come ingredienti amore, passione, memoria, contaminazione, storie di famiglia, magia del territorio della costa amalfitana nasce un vero e proprio”miracolo”. Ce ne parla Luigi “Gigino” , uno dei fratelli Ferrara, che gestisce il Ristorante capo D’orso ed il Faro di Capo D’orso di Maiori. Una dedica speciale per questo racconto a mamma Pasqualina Come nasce il ristorante Capo D’Orso? “ Mio nonno è stato emigrante negli Stati Uniti, dal 1920 al 1935. Tornò in Italia dagli Stati Uniti con una discreta fortuna, comprò la montagna, quindi il Capo D’Orso, qui a Maiori, ed una macchina, la famosissima per l’epoca, auto Balilla. Fino al 1948 lui è stato autista di Piazza – non amava definirsi taxista – al ristorante non fu fatto ancora nulla. Nel 1949 iniziarono i lavori, prima costruendo il terrazzo e poi, costruendo una piccola parte. Al tempo cucinavano mia nonna Anna e mia zia Pia. Poi se n’è occupato mio padre, Bonaventura, e mia madre Pasqualina, cilentana d’origine, che ha sempre portato avanti la tradizione della pasta fatta a mano, mio padre si recava nel cilento a comprare i prosciutti e fu lì che conobbe mia madre! “ Che tipo di cucina presentavano alla clientela del tempo ? “ Una cucina semplicissima e familiare” Poi l’evoluzione rispetto a quella gestione iniziale, siete voi fratelli? “ Lo ha gestito mio madre fino al 1996, e da allora ad oggi, noi figli Ferrara, io, stesso insieme a Pierfranco e Pio. Pierfranco, che aveva già una passione speciale per la cucina,
ha continuato a coltivarla con grande entusiasmo, fino a trasformarla in un lavoro, che ha fruttato il conseguimento della fatidica stella Michelin nel 2005. Dopo una esperienza in Costa Azzurra, Pierfranco aveva deciso di tornare a cucinare da noi a Capo D’orso ed è rimasto con noi circa 13 anni ma, proprio di recente, ha deciso a 50 anni di rimettersi in gioco, con nuove sfide e con voglia di fare, tornando in Francia di nuovo con la moglie Piera. Ha lasciato qui, a Capo D’Orso, un suo valido e giovane allievo che è stato anche suo secondo chef, il quale sta portando avanti, con il proprio talento, gli insegnamenti e la linea di pensiero del suo maestro ed ha mantenuto la stella quest’anno. Il suo nome è Francesco Sodano di Somma Vesuviana.” Gigino e Pio Ferrara, di cosa si occupano ? “ Io sto al front desk della reception e tra le altre svariate cose di cui mi occupo, provvedo alla gestione delle camere perché qualche anno fa rilevammo una struttura che è a 200 metri dal ristorante e si chiama Tenuta Solomita e si compone di quattro camere. Pio è sommelier professionista, si occupa dei vini ed ovviamente della parte commerciale dei matrimoni. Ci sono anche due figli di Pio che già lavorano con noi. “ Oggi quali sono i piatti più significativi che possiamo gustare al Ristorante “Il Faro di Capo D’Orso”? “Noi adesso abbiamo due ristoranti nella stessa location. Uno è quello premiato con la stella Michelin, appunto il “Faro di Capo D’orso”, la cui filosofia è quella di partire dal prodotto d’eccellenza locale e da materie prime di altissima qualità del nostro territorio, fa cucina raffinata, creativa, innovativa, fantasiosa, con qualche contaminazione dall’estero. Posso citare piatti tipo “Tra la costiera e l’Oman: risotto al limone nero capperi fermentati e bottarga in cera d’api” oppure, ad esempio un antipasto “ricciola marinata, crema di foie gras, miso, capperi di salina e sentori di sfusato amalfinato”. Il suo nome è stato ispirato
dal faro militare che si trova al di sotto della galleria di Maiori, faro ancora attivo che dovrebbe diventare un ecomuseo gestito dal WWF e dovrebbe andare di pari passo con l’idea di creare a mare l’oasi naturale. L’altro ristorante, invece, si chiama “Capo D’Orso Eventi” e ivi organizziamo cerimonie di ogni genere. Si tratta della zona terrazzo, sulla quale a pranzo, quando non sono programmati eventi, presentiamo la cucina tradizionale della nostra regione e della divina costa, quindi, piatti che tutti conosciamo e ci aspettiamo di mangiare in costiera amalfitana, tanto cari all’immaginario collettivo, tipo scialatielli ai frutti di mare o la frittura di pesce. I piatti della nostra tradizione locale e di mare” Come accolgono i clienti locali e stranieri questi due tipi di cucine o filosofie gastronomiche? “Una parte della clientela locale ama realmente le sperimentazioni e quindi frequenta con piacere ed attesa il ristorante “Il faro” e, ovviamente, gli stranieri che sono numerosi, orientati dalle guide tipo Michelin e Gambero Rosso, amano pranzare sul terrazzo e mangiare un piatto veloce e più tradizionale. Approfittano di questa sosta, godendo sia del cibo che della spettacolare vista sul mare. “ Una frase o una battuta finale, che ci dia il sentimento che anima e caratterizza Capo D’Orso? “La continuità familiare è la colonna portante di questo Ristorante: siamo partiti dal nonno emigrante, il testimone è passato a mio padre, poi noi figli , ora, ci sono all’opera già i miei nipoti. Siamo ed assistiamo all’avvento della quarta generazione tra tradizione, innovazione, passione per la ristorazione, per questi luoghi, il mare, la nostra divina costiera, noi siamo dei fortunati e baciati da Dio perché abbiamo avuto un nonno lungimirante che ha creato “il miracolo”, pensando di investire la sua piccola fortuna in questo stralcio di costa rocciosa a picco sul mare tra delfini e capodogli e natura selvaggia. Qui nel 1948 Roberto
Rossellini ha girato l’inizio dell’episodio “Il miracolo” del film “L’amore” con Anna Magnani e Federico Fellini che era al tempo una comparsa. C’è tutto dentro anche nella nostra cucina e nel nostro modo di accogliere i clienti: amore e miracolo. Per tanti anni, abbiamo anche dedicato un piatto a queste emozioni e sentimenti, “la zuppetta il miracolo” che è stata in menù per tantissimi anni”. Il difficile cammino di Anna Cappelli Buon concorso di pubblico al Moa di Eboli per la rilettura dell’opera di Annibale Ruccello da parte di una magnetica Annamaria Troisi Di Gaetano Del Gaiso “Inizio dal cuore o dal cervello?”. A poco più di trent’anni dalla scomparsa dell’antropologo e drammaturgo napoletano Annibale Ruccello, deceduto tragicamente all’età di soli trentasei anni, la sua più fragile e migliore creatura, Anna Cappelli, torna a parlare e a far parlare di se attraverso il pregevole lavoro di adattamento dell’opera omonima dell’autore campano realizzato da un’ispiratissima e commovente Annamaria Troisi, ragionando su quella porzione di umanità la cui esistenza è governata e definita dalla violenza, dall’ignoranza e da quella patina di densa oscurità che viene a generarsi nella dissennatezza della superstizione e della precarietà mentale propri di una società che sembra non voler concedere emancipazione a una donna il cui unico desidero è proprio quello di affrancarsi del suo status di donna ipso facto, creatura dipendente e poco avvezza all’autosufficienza,
alla costante ricerca di quella presunta stabilità emotiva che possa riunire i tasselli di un percorso esistenziale composto da rinunce, dinieghi, sacrifici e compromessi. Tutti conosciamo Anna. Tutti riscopriamo in Anna quella parte di noi che forse più detestiamo e cerchiamo di soffocare, quella più fragile, insicura, terrorizzata dal confronto a cui deve necessariamente sottoporsi con la sig.ra Tavernini di turno, rappresentazione allegorica degli occhi vigili ma al contempo distanti di una società che sentenzia e lascia soli, che accuratamente frolla e insaporisce la carni dei suoi individui più fragili e mansueti, cuocendone poi le fibre nel lento fuoco dell’ossessione e della depressione, alimentandone la fiamma con illusioni fugaci e relazioni unidirezionali e annichilenti, quale quella che Anna intrattiene con il ragioniere Tonino Scarpa. La perentoria troncatura di questa relazione, infine, altro non rappresenta che il nadir del declino psico-fisico della giovane donna, che si tramuta, a sua volta, in quella stessa bestia che è la società da cui ella stessa proviene ed è modellata, pronta a riservare il suo corpo a un ultimo, oscuro sacrificio di sangue che ne definirà, per un tempo non meglio specificato, il modo di vivere e reagire ai vapori tossici di un’esistenza asfissiante. La performance della Troisi si presenta in un momento della mia vita in cui l’instabilità e l’amorfismo rappresentano i principali pivot attorno a cui flette il mio divenire. L’ho sentita dentro, l’ho sentita mia, l’ho percepita nella sua nuda integralità, e non credo che vorrò sbrigarla in maniera veloce e distratta così come si fa con un caffè bevuto al bar prima di dare inizio a una giornata. La preziosa scelta di Luigi Nobile si è riconfermata quale meravigliosa arca di esperienze memorabili grazie anche allo staff del Museom of Operation Avalanche di Eboli.
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