Jobs Act: le tutele crescenti contro il licenziamento per i neo-assunti

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Prof. Avv. Enrico Barraco
Professore a contratto Università di Padova
Prof. Andrea Sitzia
Professore aggregato Università di Padova
Avv. Nadia Moretti
Avv. Silvia Rizzato
Dott. Giulio De Luca

Jobs Act: le tutele crescenti contro il licenziamento per i neo-assunti
Enrico Barraco, Barraco Studio legale lavoro

Il Consiglio dei Ministri, nell’ambito della seduta del 24 dicembre 2014, ha approvato uno “schema” di
decreto legislativo avente ad oggetto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge delega n. 183 del 2014.
I principi e criteri direttivi fissati dal Parlamento in materia, a differenza di altre parti della delega la
cui formulazione è talmente ampia e ricomprensiva da sfiorare la vera e propria genericità, sono
piuttosto chiari e di pronta interpretazione: il Governo è delegato ad adottare una disciplina che
contenga la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele
crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la
possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo
economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai
licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato,
nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento” (art. 1, comma 7, lettera c)
della legge n. 183 del 2014).
Le stelle polari della delega possono essere dunque così sintetizzate:
      limitazione del contratto a tutele crescenti ai soli neo-assunti;
      istituzione, come nuova regola sanzionatoria, di una indennità meramente economica
       contro i licenziamenti ingiustificati; in particolare, esclusione tranchant della tutela reale per i
       licenziamenti economici, da intendersi in senso ampio (e quindi ricomprensivi sia di quelli
       individuali per giustificato motivo oggettivo che di quelli collettivi per riduzione di personale);
      previsione di un meccanismo di computo dell’indennità risarcitoria da licenziamento
       ingiustificato tarato su un parametro rigido e (verrebbe da dire) aritmetico, ossia l’anzianità di
       servizio del lavoratore, con ogni esclusione di valutazioni discrezionali da parte del singolo
       Giudice; un risarcimento, dunque, uguale per tutti e a tutte le latitudini a parità di anzianità di
       servizio, senza alcuna possibilità di temperamenti o inasprimenti giudiziali;
      espresso confinamento della tutela reale (la classica reintegrazione) al rango di vera e propria
       eccezione, applicabile ai soli licenziamenti nulli e discriminatori e a fattispecie specifiche (e
       quindi in numero assai ridotto) di licenziamento disciplinare non giustificato.
Ora il procedimento legislativo impone un passaggio alle Commissioni Lavoro della Camera e del
Senato, con possibili interventi modificativi in corso d’opera.

Campo di applicazione

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Il concreto raggio d’azione dello schema di decreto è in realtà molto meno ambizioso della pomposa
dichiarazione di intenti che la rubrica di legge porta con sé (appunto “contratto di lavoro a tempo
indeterminato a tutele crescenti”), in quanto lo stesso schema riconosce con estrema franchezza come
la disciplina si esaurisca nel dettare un “regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo”
dedicato ai neo-assunti (la disciplina, in altre parole, riguarda la sola flessibilità in uscita, senza alcuna
peculiarità in ordine alle modalità di assunzione e al profilo gestionale).
Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti non è quindi una nuova tipologia contrattuale,
ma un contratto a tempo indeterminato assolutamente standard, caratterizzato soltanto da un diverso
regime sanzionatorio del licenziamento.
In quest’ottica l’espressione “tutele crescenti” – oltre che intrisa di ampia retorica – pare dunque anche
“falsante” (Carinci) in quanto sembrerebbe suggerire una sequenza temporale che dalla sanzione
meramente economica conduca alla reintegrazione, dopo la prima fase di gestazione del rapporto di
lavoro; in realtà così non è perché lo svolgimento continuativo del rapporto è idoneo soltanto – come
vedremo – ad incrementare il quantum risarcitorio, ma non vi è alcun point break che consenta lo spin off
dalla tutela obbligatoria alla tutela reale.
La disciplina si applica soltanto ai neo-assunti (dirigenti esclusi). Per neo-assunti il decreto intende: (i)
i dipendenti (operai, impiegati, quadri) assunti con contratto a tempo indeterminato a decorrere dalla
data di entrata in vigore del decreto (banalmente ricordiamo, per amore di chiarezza, che essendo
ancora di fronte ad uno “schema” e non ad un testo di legge pubblicato in Gazzetta Ufficiale, per i
dipendenti assunti da inizio anno alla data odierna valgono ovviamente le norme precedenti); (ii) i
dipendenti (anche se assunti precedentemente a tale data) il cui datore di lavoro superi la fatidica soglia
dei 15 addetti a mezzo di assunzioni a tempo indeterminato effettuate successivamente all’entrata in
vigore del decreto.
Questa seconda specificazione, pur comprensibile dal punto di vista della ratio legislativa che è quella di
incentivare la crescita delle imprese italiane togliendo loro lo spauracchio (e in alcuni casi anche l’alibi)
del vecchio art. 18 St. lav., non è però forse del tutto in linea con la delega che – come visto sopra – si
riferisce specificamente alle sole “nuove assunzioni”. Qui invece si stabilisce che i vecchi assunti, per il
caso in cui il loro datore di lavoro superi l’asticella fatidica dei 15 addetti, non accederanno mai all’art.
18 St. lav., ma solo alla tutela crescente di cui al decreto in commento. Sul punto è evidente lo spazio
per una possibile censura in ordine all’eccesso di delega in cui è incorso l’esecutivo.
Il regime speciale dovrebbe valere anche per i lavoratori che, ingaggiati con contratto a termine, a
seguito dell’entrata in vigore vengano assunti ex novo a tempo indeterminato.
Il mercato del lavoro esce così decisamente frastagliato in quanto avremmo una disciplina
sanzionatoria del licenziamento illegittimo decisamente “balcanizzata” e suddivisa per “gruppi” di
lavoratori (con tutti i dubbi che ciò comporta sulla legittimità costituzionale ex art. 3 della Carta, in
quanto il principio di eguaglianza ne esce quantomeno compresso dato che avremo colleghi dello stesso
ufficio che, a parità di livello e mansioni, godranno di regimi fortemente differenziati in ordine alla
tutela contro il licenziamento illegittimo e ciò in base all’elemento, del tutto estrinseco e casuale, della
data di assunzione): neo-assunti delle grandi imprese, neo-assunti delle piccole imprese e delle
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organizzazioni di tendenza, vecchi-assunti delle grandi imprese, vecchi-assunti delle piccole imprese,
vecchi-assunti delle organizzazioni di tendenza.
Il rimprovero mosso da più parti all’attuale mercato del lavoro è, come noto, la violenta polarizzazione
tra insiders e outsiders. Con la nuova normativa rischiamo però di avere un’ulteriore frantumazione tra
insiders di “serie A” (i vecchi assunti e, curiosamente, i neo assunti delle organizzazioni di tendenza) e
insiders di “serie B” (i neo assunti), con una disposizione – l’art. 18 St. lav. – sostanzialmente ad
esaurimento in quanto di applicazione oramai limitata agli insiders di serie A.
Accanto all’esclusione esplicita dei lavoratori già occupati, sembra certa anche quella (implicita) dei
dipendenti pubblici privatizzati (nello stesso senso Carinci; contra Ichino), non tanto per una
considerazione di stretto diritto (la norma moltiplicatrice di cui all’art. 2, comma 2, d. lgs. n. 165 del
2001 deporrebbe nel senso dell’estensione a dire il vero), quanto per un argomento logico (o, se
vogliamo, più banalmente “empirico”): è in esame in questi giorni un provvedimento normativo
riguardante la pubblica amministrazione e inter alia il regime di tutela in caso di licenziamento
illegittimo.
Curiosamente non viene prevista una disciplina ad hoc per quei lavoratori, evidentemente key workers, che
pur avendo la stabilità di un posto di lavoro a tempo indeterminato assistito dall’art. 18 St. lav. (in
quanto dipendenti di una grande azienda) decidano di mettersi in gioco cambiando impiego: è mai
possibile che tali lavoratori, presso la nuova azienda, vengano considerati neo-assunti con abbattimento
del loro exit package in caso di licenziamento? Vi è il rischio, se non viene prevista una deroga, di
ingessare sul punto il mercato del lavoro. Tale lacuna normativa apre d’altro canto un interessante
spazio nei confronti delle pattuizioni individuali, in quanto verosimilmente i soggetti contrattualmente
forti cercheranno di ottenere congrue garanzie (clausola di prolungamento del preavviso; clausola di
stabilità minima garantita) al fine di procedere al “cambio di maglia”. La deroga migliorativa potrà
dunque essere attuata dall’autonomia individuale, senza necessità di scomodare gli accordi di prossimità.
Andremo ora a passare in rassegna le tutele per i neo assunti.

Minimo comune denominatore per grandi e piccole aziende: tutela reale piena per i
licenziamenti nulli

Una prima garanzia è universale e concerne i neo-assunti delle grandi e piccole aziende: viene prevista
l’applicazione della tradizionale tutela reale in caso di licenziamento discriminatorio, orale ovvero
riconducibile alle altre ipotesi di nullità previste dalla legge.
Le ipotesi paiono essere le stesse tracciate dal comma 1 dell’art. 18 St. lav. e quindi:
     licenziamento discriminatorio;
     licenziamento contiguo al matrimonio (intimato, cioè, nel periodo che va dalla richiesta di
         pubblicazioni del matrimonio sino ad un anno dopo la celebrazione dello stesso; in maniera
         assai discutibile Trib. Milano 3 giugno 2014, superando arbitrariamente la lettera della legge che
         menziona soltanto le “lavoratrici”, ha esteso la tutela anche al coniuge di sesso maschile);
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     licenziamento nel periodo di interdizione per maternità (dal momento del concepimento sino
      ad un anno di età del bambino; in caso di fecondazione artificiale il divieto opera dal momento
      del trasferimento degli ovuli fecondati nell’utero della lavoratrice; il divieto di licenziamento,
      dall’inizio dell’astensione sino al compimento di un anno di età del bambino, si applica anche al
      padre lavoratore che si astenga dal lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio in mancanza
      della madre per morte, grave infermità, abbandono, affidamento esclusivo al padre);
     licenziamento per motivo illecito determinante, come ad esempio il licenziamento per
      ritorsione;
     licenziamento da considerarsi nullo per violazione di norma di legge (ad es. intimato prima del
      trasferimento d’azienda seguito da immediata riassunzione del licenziato da parte
      dell’acquirente, in frode alle garanzie di cui all’art. 2112 cod. civ.);
     licenziamento orale.
La perfetta sovrapponibilità tra la nuova disposizione e l’art. 18, comma 1, St. lav. potrebbe essere
discussa in quanto il Jobs Act menziona i soli casi di nullità “espressamente previsti dalla legge” mettendo
non poco in crisi i casi di nullità virtuale (portando il ragionamento alle sue estreme conseguenze Treu
perviene alla conclusione, peraltro discutibile, che motivi talora addotti in passato per sostenere la
nullità del licenziamento, e quindi la reintegrazione, come ad esempio la frode alla legge, non siano più
idonei allo scopo a fronte della nuova disciplina).
Il neo-assunto, a prescindere dalle dimensioni dell’organico del proprio datore di lavoro, ha ancora
diritto in tali casi alla reintegrazione in servizio e al risarcimento del danno parametrato alle retribuzioni
perdute dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione (con il minimo di cinque
mensilità), oltre all’integrale ricostruzione del periodo contributivo. Rimane altresì, in capo al solo
lavoratore, la possibilità di chiedere l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Vengono poi fatte alcune precisazioni, in linea con il primo livello di tutela di cui all’art. 18, commi 1-3,
St. lav.
La prima consiste nella immediata estinzione del rapporto al momento della richiesta
dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Viene poi previsto che tale indennità non è soggetta a contribuzione previdenziale e che la richiesta
deve avvenire entro 30 giorni dal deposito della sentenza o dall’invito a riprendere servizio, se anteriore.
Secondariamente viene espressamente prevista la detrazione dal risarcimento del danno del c.d.
aliunde perceptum, ossia di quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività
lavorative.
Viene viceversa esclusa, a causa del disvalore insito nel licenziamento discriminatorio, la detrazione
del c.d. aliunde percipiendum, ossia di quanto il lavoratore avrebbe potuto guadagnare attivandosi
con l’ordinaria diligenza nella ricerca di una nuova occupazione.
La reintegrazione piena viene dunque conservata per sanzionare vizi gravissimi del licenziamento, tutto
sommato scarsamente ricorrenti nella pratica.
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Una disciplina sostanzialmente identica vale anche per i dirigenti neo-assunti e ciò non tanto in virtù
del decreto in commento (che, anzi, espressamente li esclude dal proprio campo di applicazione),
quanto in virtù dell’art. 18, commi 1-3, St. lav.: norma quest’ultima destinata ad applicarsi alla categoria
dei dirigenti senza distinzione tra vecchi e nuovi assunti.
Lo schema di decreto precisa poi che la tutela reale piena è destinata ad applicarsi a fronte
dell’accertamento dei predetti vizi, “indipendentemente dal motivo formalmente addotto”: prevale
quindi, ma non poteva essere altrimenti, la causale effettiva di licenziamento a prescindere da quella
formalmente allegata dal datore di lavoro.
Circa i licenziamenti discriminatori si confida sul fatto che la giurisprudenza ribadisca con chiarezza
alcuni punti fermi della precedente elaborazione:
      il licenziamento discriminatorio è solo quello intimato per uno dei fattori indicati
       tassativamente dalla legge (ragioni sindacali, politiche, religiose, razziali, etniche, nazionali, di
       lingua, di età, di sesso e di infezione da HIV);
      ogni altra differenza per ragioni atipiche, anche se arbitrarie, non è discriminazione in senso
       tecnico (il principio è stato scandito in maniera chiara e condivisibile da Trib. Venezia 26 marzo
       2013, secondo cui “resta nell’ambito del licenziamento ingiustificato quello che è frutto di mero
       arbitrio, affetto da pretestuosità”: per il passaggio alla fattispecie del licenziamento
       discriminatorio “è necessario un quid pluris”);
      l’onere della prova della discriminazione, così come del motivo illecito, grava sul lavoratore;
      il motivo illecito rileva solo se è l’unico determinante; l’accertata giustificazione del licenziamento
       ne esclude per definizione il motivo illecito;
      l’equazione motivo inesistente  motivo occulto  motivo discriminatorio, che molti
       lavoratori provano a sostenere, è inaccettabile (Vallebona) perché il decreto in commento (così
       come l’art. 18 St. lav.) prevede un’apposita disciplina per i casi di licenziamento ingiustificato,
       anche per i casi in cui il datore di lavoro abbia “torto marcio” perché il fatto su cui il
       licenziamento si fonda addirittura non sussiste. In altre parole: il licenziamento potrà anche essere
       palesemente ingiustificato, potrà anche essere palesemente pretestuoso, ma ciò non può
       comportare alcuna presunzione di discriminazione: quest’ultima può sussistere, ma dovrà
       provarla il lavoratore (salve le agevolazioni probatorie previste specificamente in alcuni settori
       normativi).

       L’onere della prova della discriminazione incombe al lavoratore ma … attenzione alla redazione della
       lettera!

       Trib. Padova 15 gennaio 2014
       Una lavoratrice viene licenziata durante la fruizione di congedo parentale frazionato; l’azienda la licenzia a causa della
       persistente “volontà di non rientrare al lavoro a normale regime di orario dopo il godimento dei periodi di maternità tutelati dalla
       legge”. Il giudice ha rilevato che “la lettera di licenziamento costituisca di per sé la prova della natura discriminatoria del
       licenziamento”, con conseguente ordine di reintegrazione in servizio della lavoratrice (dipendente di azienda sotto i 15
       dipendenti).
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       Trib. Milano 11 febbraio 2013
       Una dirigente di alto livello (Regional Business Manager) informa l’azienda, in via riservata, di aver contratto una
       patologia non curabile.
       L’azienda la licenzia adducendo inter alia la seguente motivazione: “i problemi di salute che ha stanno ostacolando il pieno
       esercizio delle sue funzioni da diversi mesi”.
       Il giudice ha ritenuto documentale il carattere discriminatorio del licenziamento, con conseguente ordine di
       reintegrazione della dirigente.

       Trib. Venezia 16 luglio 2013
       Una dipendente di uno Studio professionale viene licenziata due giorni dopo la scadenza del termine annuale a tutela
       della lavoratrice madre, asseritamente per “ragioni di riorganizzazione dello Studio”.
       Il Giudice “per la tempistica dei fatti e la mancata prova della riorganizzazione ritiene insussistenti le ragioni oggettive e per converso ne
       presume la discriminatorietà”.

Licenziamento ingiustificato: per i neo-assunti delle grandi imprese tutela solo economica (la
svolta, rispetto al passato, è netta)

Per il caso in cui il licenziamento non sia nullo, ma (semplicemente) ingiustificato viene prevista come
regola una tutela meramente economica. Se infatti non sussiste la giusta causa o il giustificato
motivo (soggettivo o oggettivo) addotti dal datore, il recesso rimane efficace e pertanto il Giudice
dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento.
Il datore viene condannato al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione pari a 2
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di anzianità di servizio, con il
minimo di 4 mensilità e il massimo di 24.
Identica sanzione è prevista per i licenziamenti collettivi (art. 10 decreto), tanto per le violazioni
procedurali quanto per la violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 della legge n. 223 del 1991 (qui
la distinzione tra vecchi e neo assunti è dirompente in quanto i primi, in caso di violazione dei criteri di
scelta, fruiscono ancora della reintegrazione).
In materia di licenziamenti collettivi si registra una violenta distonia tra i dirigenti e le altre categorie di
lavoratori subordinati: per questi ultimi vi è la descritta tutela crescente, per i dirigenti un’indennità tra
le 12 e le 24 mensilità (così come previsto dall’art. 16 della legge n. 161 del 2014 che – malamente
recependo i principi espressi da Corte Giust. 13 febbraio 2014 – ha introdotto per i dirigenti non solo la
procedura di informazione e consultazione sindacale, come era lecito attendersi, ma anche una
disciplina sanzionatoria speciale). Ad un dirigente basta quindi lavorare pochi mesi per poi fruire
dell’anzidetta, energica tutela nel caso di coinvolgimento in un licenziamento collettivo viziato sotto il
profilo procedurale o di violazione dei criteri di scelta.
La reintegrazione è dunque sempre esclusa per i licenziamenti economici (sia individuali per
motivo oggettivo sia collettivi).

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Licenziamento disciplinare: un unico caso di reintegazione (depotenziata)

Per i licenziamenti disciplinari, a fronte della generalizzazione della tutela economica, residua
un’unica ipotesi di tutela reale: si tratta del caso in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del
fatto contestato al lavoratore.
Quest’ultimo, in tal caso, avrà diritto alla riammissione in servizio e al risarcimento del danno
commisurato alle retribuzioni perdute, con il tetto massimo delle 12 mensilità.
Si parla in questi casi di tutela sì reale, ma depotenziata in quanto permane la reintegrazione nel posto
di lavoro, ma si assiste ad una drastica riduzione delle conseguenze risarcitorie (cfr. la disposizione
“parallela” di cui all’art. 18, comma 4, St. lav.).
Rispetto alla reintegrazione piena infatti:
      il risarcimento del danno viene ancora parametrato alle retribuzioni perdute, ma è esclusa la
       penale minima di 5 mensilità e (soprattutto) l’indennità non può superare il tetto massimo
       delle 12 mensilità della retribuzione globale di fatto; la durata del processo superiore all’anno
       va quindi a danno del lavoratore che d’ora in poi sarà interessato non più alle lungaggini volte a
       lucrare, ma ad una rapida definizione del procedimento;
      opera la detrazione non solo dell’aliunde perceptum, ma anche di “quanto il lavoratore avrebbe
       potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro” (la detrazione di questa componente
       potrebbe essere più incisiva di quella del tradizionale aliunde percipiendum, che nell’attuale contesto
       di crisi non viene normalmente fatto oggetto di specifica indagine da parte dei Giudici).
Il legislatore recepisce pressoché alla lettera il recentissimo insegnamento della Suprema Corte (Cass. 6
novembre 2014, n. 23669), secondo cui “Il nuovo articolo 18 (così come riformato dalla c.d. legge Fornero) ha
tenuto distinta dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una
distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla
verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si
risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per
valutazioni discrezionali; conseguentemente esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione
attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”.
Il decreto, ponendosi in linea di continuità con la Suprema Corte, stabilisce che il fatto di cui si discute
è solo quello materiale, restando “estranea ogni valutazione circa la sproporzione del
licenziamento”; per il caso in cui il fatto sia sussistente, ma insufficiente a fondare il licenziamento,
dunque, non opera la reintegrazione, ma solo la sanzione economica anzidetta.
Insussistenza del fatto contestato significa che l’accusa rivolta al lavoratore non è risultata non vera in
punto di fatto: ad es. non c’è stato alcun furto di materiale aziendale oppure il furto in azienda c’è stato,
ma non lo ha commesso il lavoratore (cfr. Trib. Venezia 7 agosto 2013 che ha ritenuto insussistente il
fatto nella seguente fattispecie: al lavoratore era stato contestato di aver partecipato ad una rissa,
l’istruttoria giudiziale aveva viceversa evidenziato semplicemente un violento diverbio verbale; Trib. Venezia
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6 luglio 2013 ha parimenti ritenuto insussistente il fatto nel caso seguente: rifiuto opposto da un
autotrasportatore all’ordine datoriale di caricare un automezzo, giudicato legittimo a fronte delle
limitazioni al sollevamento di carichi impartite a tutela del lavoratore per problemi di salute).
Il legislatore intende così porre fine alla battaglia interpretativa tra i sostenitori della tesi del fatto
“materiale” e quelli del fatto “giuridico”.
I primi (fatto materiale) fanno principalmente leva sulla dizione letterale impiegata dalla riforma
Fornero nel riscrivere il comma 4 dell’art. 18 St. lav. che, prevedendo la condanna del datore di lavoro
alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro solo laddove il fatto a quest’ultimo contestato non
sussista, non può evidentemente che riferirsi a una ben determinata condotta, individuabile con
immediatezza nella sua materiale esteriorità. Ai fini dell’accertamento circa la sussistenza del fatto
contestato, quindi, è sufficiente la verifica del suo solo nucleo sostanziale, privo di qualsiasi
connotazione soggettiva.
Tale tesi appare senza dubbio suggestiva in quanto valorizza appieno la ratio ispiratrice della riforma. Se
infatti, questa ha avuto l’obiettivo – e, secondo alcuni, anche il merito – di prevedere diversi livelli di
sanzioni ciascuno dei quali parametrato al grado di disvalore della condotta datoriale, allora
necessariamente la tutela reintegratoria deve essere prevista in funzione del maggior grado di gravità
della illegittimità del licenziamento intimato da parte datoriale rispetto all’ingiustificatezza semplice
sanzionata con una mera indennità economica. Ma per poter affermare in capo al comportamento del
datore di lavoro una certa gravità “qualificata”, non si può pretendere dal medesimo una valutazione
estesa che tenga conto anche dei profili soggettivi inerenti la colpevolezza del lavoratore. In altre parole,
il comportamento del datore di lavoro che abbia intimato un licenziamento disciplinare contestando un
fatto insussistente, è più grave proprio perché basato su una valutazione di carattere esclusivamente
fenomenologico e dunque di maggiore semplicità ed immediatezza (il fatto c’è stato veramente, o no? È
stato compiuto proprio dal lavoratore licenziando, o no?).
Se, invece, nell’espressione “insussistenza del fatto contestato” fosse ricompresa anche la valutazione di
elementi estrinseci ed ulteriori rispetto alla mera condotta materiale del lavoratore, di elementi cioè
soggettivi e psicologici inerenti alla colpevolezza del lavoratore, spesso sfuggenti nella loro
individuazione, non si vede dove sarebbe la maggior gravità della condotta datoriale che, per ipotesi,
abbia operato una valutazione censurata dal giudice.
Altra parte della dottrina aderisce invece a una nozione “giuridica” di fatto contestato, nella quale
rientrano, da un lato, la circostanza che si tratti di un comportamento qualificabile come
inadempimento contrattuale e, dall’altro lato, i profili soggettivi della condotta, cioè l’intenzionalità, la
colpevolezza e la relativa intensità.
Varie sono le proposte ricostruttive poste alla base di tale teorica.
Si sostiene, in primo luogo, che ai fini dell’individuazione della sanzione corretta, si debba prendere in
considerazione non qualsiasi comportamento, bensì “quello la cui insussistenza determina la mancanza
di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo” . Il comportamento del lavoratore, oltre a sussistere,
deve costituire giusta causa di licenziamento, e quindi necessita della presenza di una certa gravità, di

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una specifica volontà e finalità del lavoratore, e della proporzionalità tra la condotta e la sanzione
irrogata.
Come si vede, trattasi di un’opinione del tutto in linea con il diffuso indirizzo giurisprudenziale
precedente alla riforma che, in materia di licenziamento intimato per furto in azienda di un bene di
modico valore, reputava il recesso ingiustificato in quanto sproporzionato, e conseguentemente
ordinava all’imprenditore la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Nel senso del fatto giuridico si è orientato il Tribunale di Bologna nella ormai celebre ordinanza
del 15 ottobre 2012 , la quale prende posizione su una vicenda in cui il lavoratore, responsabile del
controllo qualità dell’azienda, scrive al superiore gerarchico una e-mail dal seguente contenuto: “Parlare
di pianificazione in questa azienda è come parlare di psicologia con un maiale, nessuno ha il minimo
sentore di cosa voglia dire pianificare una minima attività”. Il fatto di insubordinazione al superiore era
documentato, incontestato, pacificamente sussistente, ma ciò non è bastato a evitare al datore di lavoro
di subire l’ordine di reintegrare in servizio il lavoratore. Il Tribunale, infatti, ha fatto propria la tesi
secondo cui “la norma in questione, parlando di fatto, fa necessariamente riferimento al c.d. Fatto
Giuridico, inteso come il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e della
sua componente inerente l’elemento soggettivo. Non può, infatti, ritenersi che l’espressione
“insussistenza del fatto contestato” utilizzata dal legislatore facesse riferimento al solo fatto materiale,
posto che tale interpretazione sarebbe palesemente in violazione del principi generali dell’ordinamento
civilistico, relativi alla diligenza e alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo, posto che
potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato, anche a
comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o
addirittura privi dell’elemento della cosciente volontà dell’azione”. L’ordinanza in esame fa leva sulla
lieve intensità della colpa, a suo dire derivante dall’inesistenza di precedenti disciplinari in capo al
lavoratore e, in particolare, dalla situazione di difficoltà psicologica del lavoratore derivante dallo stress
cui era sottoposto, nonché dalla particolare ironia con cui gli era stato rivolto l’ordine di pianificazione
dell’attività da parte del superiore.
L’ordinanza del Tribunale di Bologna è stata confermata in fase di opposizione (sentenza del Tribunale
di Bologna del 17 gennaio 2013), nonché in fase di reclamo con la sentenza della Corte d’Appello di
Bologna del 23 aprile 2013.
A fronte della descritta querelle (fatto esclusivamente materiale / fatto globalmente inteso, ivi inclusa la
componente soggettiva), si può tentare una sintesi che tenga conto degli elementi di bontà apportati da
ciascuna.
Da un lato, la lettera del decreto è chiara: la reintegrazione spetta soltanto nel caso di dimostrata
insussistenza “del fatto materiale contestato” al lavoratore. Dall’altro non bisogna però dimenticare
che l’art. 3 del decreto non ridefinisce le fattispecie, rimanendo tributario nei confronti dell’art. 2119
cod. civ. in ordine alla nozione di giusta causa e all’art. 3 l. 604 del 1966 in ordine al giustificato motivo
soggettivo: quindi il lavoratore dovrà aver sempre commesso un fatto “che non consenta la
prosecuzione, anche provvisoria del rapporto” o, rispettivamente, “un notevole inadempimento degli
obblighi contrattuali”.
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Quindi ad escludere la reintegrazione non pare sufficiente la sussistenza di un qualsivoglia fatto
materiale, perché altrimenti anche un singolo (ma vero) ritardo di pochi minuti potrebbe essere indice
di giustificatezza del licenziamento. Il fatto deve innanzitutto essere anche imputabile: non lo è, ad
esempio, un ritardo causato da forza maggiore (chiusura dell’autostrada per neve o nebbia) oppure il
furto commesso da un magazziniere affetto da cleptomania (cfr. la giurisprudenza penale sul
riconoscimento della cleptomania come vizio di mente ex art. 88 c.p.).
Il fatto quindi deve sicuramente sussistere nella sua materialità, essere imputabile e – come ulteriore
condizione - configurare altresì un inadempimento, altrimenti potendo il datore di lavoro arrivare a
licenziare per un fatto sì sussistente nel suo profilo materiale, ma di privo di qualsiasi connotazione in
termini di antigiuridicità (es. uno starnuto non gradito al datore di lavoro).
Del resto, l’art. 1455 cod. civ. dispone che “il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una
delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra”.
Quelli accennati saranno sicuramente argomento di discussione nelle aule dei Tribunali in quanto il
legislatore ha espressamente espunto dall’accertamento sul fatto il giudizio di proporzionalità, ma non
quello di imputabilità o addirittura il profilo inerente l’esame dell’elemento psicologico del lavoratore.
La reintegrazione viene altresì conservata nel caso di licenziamento intimato per (asserita) inidoneità
psico-fisica del lavoratore in realtà insussistente.
Si ritiene, anche se non espressamente previsto, che il lavoratore ricorrente in giudizio possa comunque
chiedere al giudice di accertare la natura disciplinare del recesso, indipendentemente dalla causale
economica asseritamente utilizzata dal datore di lavoro.
Rispetto ai vecchi-assunti, viceversa, non viene conservata l’ipotesi della reintegrazione per il caso in cui
il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero
dei codici disciplinari applicabili (art. 18, comma 4).
La soppressione di tale inciso è importante; infatti la previsione negoziale che ricolleghi ad un
determinato fatto solo una sanzione conservativa si ritiene continui a vincolare il Giudice, trattandosi di
una condizione di miglior favore fatta espressamente salva dalla legge (art. 12 legge n. 604 del 1966). In
una prospettiva pratica ed operativa pare infatti difficile pensare ad un Giudice che mandi assolto un
datore di lavoro per un fatto che il contratto collettivo (vigente ed applicabile), ancorché precedente alla
nuova norma in commento, preveda soltanto una sanzione conservativa. E’ verosimile pensare ad un
Giudice del lavoro che riconosca la legittimità del licenziamento per un singolo giorno di assenza
ingiustificata, quando il contratto collettivo preveda che i giorni debbano essere almeno tre (o quattro)
per uscire dall’alveo delle sanzioni conservative? Certamente no; sulla conseguente sanzione è però
lecito dubitare (reintegrazione o indennità economica) visto che il fatto materiale sussiste ed è anche
antigiuridico, però il recesso datoriale viola la disciplina collettiva. Questo passaggio è pericoloso in
quanto potrebbe indurre alcune aziende, per avere mano maggiormente libera in materia di
licenziamenti, ad uscire dal sistema della contrattazione collettiva nazionale.
Da ultimo, l’unico caso sopravvissuto di tutela reale porta con sé un dubbio di natura processuale; il
legislatore ne prevede l’applicabilità nelle ipotesi “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio

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l’insussistenza del fatto materiale”, sembrando addossare al lavoratore uno specifico onere della prova
sul punto.
In realtà, si ritiene che l’infelice formulazione letterale non sia idonea a superare l’art. 5 della legge n.
604 del 1966 (secondo cui incombe sul datore di lavoro provare la giustificatezza del licenziamento:
nello stesso senso Treu; contra Carinci), se non altro perché altrimenti la norma sarebbe censurabile per
evidente eccesso di delega. La legge n. 183 del 2014, infatti, non fa alcuna menzione del profilo
attinente l’onere della prova.

Vizi formali e procedurali: sanzione annacquata

Il legislatore, in piena linea di continuità con il trend legislativo inaugurato dalla legge Fornero, ha scelto
di alleggerire ulteriormente le sanzioni conseguenti alle violazioni di carattere formale/procedurale
del licenziamento.
Ora in caso di violazione della procedura disciplinare di cui all’art. 7 St. lav. o di violazione dell’obbligo
di motivazione contestuale al licenziamento scritto, è prevista una tutela indennitaria di importo pari
ad una mensilità per ogni anno di servizio, con il minimo di 2 e il massimo di 12 mensilità. Da
notare che anche qui l’unico criterio di quantificazione è dato dall’anzianità di servizio (mentre per i
vecchi assunti vi è una valutazione discrezionale da parte del Giudice, tarata “in relazione alla gravità
della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro”: cfr. art. 18, comma 6, St. lav.).
Sulla scia della già richiamata sentenza di Cassazione (6 novembre 2014, n. 23669) è da ritenere che “il
requisito della immediatezza della contestazione … rientri tra le regole procedurali”;
conseguentemente, l’eventuale tardività della contestazione viene sanzionata da questo blando livello di
tutela economica (nello stesso senso Ichino).
Diverso è il caso in cui via sia “la violazione del requisito di tempestività (del licenziamento, n.d.s.), che
viene considerata elemento costitutivo del diritto di recesso”, precisa la Suprema Corte; pertanto nel
caso in cui il datore di lavoro esaurite le esigenze difensive del procedimento disciplinare (contestazione
scritta, rispetto del termine a difesa, audizione assistita se richiesta) non provveda a chiudere lo stesso
con il licenziamento in tempi congrui (solitamente fissati dalla medesima contrattazione collettiva),
subirà non la presente (blanda) sanzione per vizi procedurali ma la sanzione crescente dalle 4 alle 24
mensilità prevista per il licenziamento disciplinare privo di giusta causa/giustificato motivo.
La sanzione per vizio procedurale è molto blanda e verrebbe quasi da dire che invita a bypassare le
norme su forma e procedura di licenziamento. In realtà non è così perché resta salva la possibilità per il
lavoratore di chiedere al giudice di accertare che, oltre al vizio di forma, vi è anche un difetto di
giustificazione con l’applicazione del tipo di tutela previsto a seconda della gravità di quel difetto. La
norma richiede una specifica “domanda” del lavoratore che si ritiene debba essere calata già nel ricorso
introduttivo.

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Licenziamento ingiustificato: la tutela per i neo-assunti delle piccole imprese

Per le imprese sino a 15 dipendenti la tutela per i neo-assunti è così sintetizzabile:
       licenziamento ingiustificato: indennità pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con il
        minimo di 2 e il massimo di 6 mensilità (rispetto alla “classica” tutela obbligatoria, dunque,
        si registra una piccola riduzione del minimo che passa da 2,5 a 2 mensilità); la reintegrazione è
        sempre e comunque esclusa, anche nel caso di licenziamento disciplinare per fatto insussistente;
       violazione formale/procedurale: in caso di omissione della motivazione contestuale al
        licenziamento scritto o di violazione del procedimento disciplinare di cui all’art. 7 St. lav., si
        applica una sanzione meramente economica di importo pari a mezza mensilità per ogni anno
        di servizio, con il minimo di 1 e il massimo di 6 mensilità.

Regole di computo dell’indennità risarcitoria

Circa il computo delle indennità risarcitorie sopra viste, il legislatore opera le seguenti precisazioni:
     il moltiplicatore da prendere a riferimento è “l’ultima retribuzione globale di fatto”;
     per i lavoratori impiegati in un’attività soggetta a cambio di appalto (evidentemente con
         passaggio diretto al nuovo appaltatore), l’anzianità si computa tenuto conto di tutti gli spezzoni
         lavorativi effettuati;
     le indennità, per le frazioni di anno di anzianità di servizio, vengono riproprozionate; le frazioni
         di mese uguale o superiori a 15 giorni si computano come mese intero.
     le indennità non sono assoggettate a contribuzione previdenziale, ma – a differenza delle
         statuizioni parallele di cui all’art. 18 St. lav. – non si specifica espressamente il carattere
         onnicomprensivo delle stesse, con il possibile rischio di incertezza relativo alla proponibilità o
         meno di domande risarcitorie connesse all’intervenuto recesso datoriale (es. danno alla salute
         consistente nella depressione causata da un licenziamento in tronco?).

Gli incentivi alla monetizzazione deflattiva del licenziamento per i neo-assunti

E’ indubbio che lo schema di decreto delegato ambisca a soluzioni amichevoli delle controversie.
Tale obiettivo viene perseguito attraverso diversi strumenti:
1.     il datore di lavoro, entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, può effettuare in sede
       protetta (sede sindacale, Dtl, sedi di certificazione, collegio di conciliazione e arbitrato ex art.
       412 quater c.p.c.) un’offerta conciliativa pari ad una mensilità per ogni anno di servizio, con il
       minimo di 2 e il massimo di 18 mensilità; l’incentivo sta nel fatto che tale importo non è
       soggetto ad imposizione fiscale né ad imposizione contributiva e tale esenzione potrebbe
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         favorire non di poco la trattativa tra le parti; la molla psicologica per il lavoratore potrebbe
         essere data dall’immediatezza del pagamento, che deve essere fatta con assegno circolare da
         consegnare immediatamente; ovviamente trovandosi in sede protetta le parti possono
         approfittare dell’occasione per dirimere qualsiasi ulteriore pendenza inerente o conseguente
         all’intercorso rapporto di lavoro (pervenendo il datore di lavoro all’agognato carattere
         “tombale” dell’accordo);
2.       inoltre c’è uno strumento meno appariscente, ma altrettanto incentivante, sia pur in forma
         larvata e potremmo dire quasi maliziosa. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nelle
         grandi aziende non dovrà più essere preceduto dal tentativo di conciliazione preventivo in Dtl
         (che rimane, ad esaurimento, per i vecchi assunti) e per le cause di licenziamento intentate dai
         neo-assunti non si applica il rito Fornero: i lavoratori, dunque, non potendo fruire del
         tentativo bonario precedente al licenziamento (che sino ad ora ha dato buona prova di sé,
         portando a numerose conciliazioni) e, una volta che questo sia stato intimato, dell’anzidetta
         corsia processuale accelerata, potrebbero essere indotti ad una conciliazione a buon mercato
         anziché attendere i tempi (lunghi) del processo “ordinario” del lavoro (in gergo: pochi,
         maledetti ma subito!).

Organizzazioni di tendenza “normalizzate”

Finisce per le organizzazioni di tendenza (i.e. i “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza
fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”,
ad esempio partiti politici, sindacati etc) il regime agevolante sino ad ora vigente (i.e. l’esclusione
dell’art. 18 St. lav.).
Per i neo-assunti si applicherà la tutela sopra vista, tarata sulle dimensioni dell’organico. Qui si crea
un effetto paradossale perché l’effetto penalizzante si appunta sui vecchi-assunti delle grandi
organizzazioni di tendenza: essi continueranno a fruire della blanda tutela obbligatoria (indennità tra le
2,5 e le 6 mensilità), i neo-assunti della più sostanziosa tutela crescente che può arrivare sino alle 24
mensilità dopo 12 anni di servizio.
Qualche problema potrebbe darlo la generalizzata applicazione della tutela contro il licenziamento
discriminatorio, ma tutto sommato la criticità pare risolvibile alla stregua dei principi precedenti: il
licenziamento del dipendente per incompatibilità ideologica dovrebbe ritenersi tuttora giustificato (ad
esempio il caso del funzionario sindacale che esprima apertamente il proprio dissenso rispetto alla linea
ideologica della O.S. di appartenenza), mentre negli altri casi di nullità varrà la tutela sopra vista.
Analogamente al fine di determinare la giustificatezza o meno del recesso datoriale dovrebbe valere la
distinzione tradizionale tra mansioni di tendenza (cioè direttamente collegate alle finalità del datore di
lavoro) e mansioni neutre (ad esempio, diverso è il caso in cui ad esprimere il proprio convincimento
ateo in una scuola cattolica sia l’insegnante di filosofia o l’addetta alle pulizie).

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Le ipotesi non previste

Lo schema di decreto delegato, pur avendone l’ambizione, non copre tutte le possibili ipotesi di
illegittimità del licenziamento, non dettando ad esempio alcuna disciplina con riferimento al caso del
licenziamento per asserito sforamento del comporto in realtà non ancora superato.
In tale ipotesi è da ritenere, non senza qualche difficoltà (in quanto siamo di fronte ad una fattispecie
speciale che trova il suo fondamento normativo nell’art. 2110 cod. civ. e non nell’art. 3 della legge n.
604 del 1966), che si applichi il regime connesso alla ingiustificatezza per carenza del motivo
oggettivo previsto dal decreto in commento (in questo senso Ichino); in tal senso si potrebbe utilizzare
lo strumento di cui all’art. 12 delle preleggi che prevede, in caso di vuoto normativo, l’applicazione alle
disposizioni che regolano “casi simili o materie analoghe”.
Il decreto non menziona lo scarso rendimento, come era stato proposto in un primo tempo. Sulla
medesima fattispecie “anfibia”, pertanto, si riproporrà il tradizionale dubbio circa la collocabilità della
stessa all’interno del motivo economico o viceversa disciplinare (dubbi sulla fattispecie che ovviamente
hanno una ricaduta operativa sulla procedura da seguire per l’intimazione del recesso).

La revoca del licenziamento

Il decreto conferma anche per i neo assunti la possibilità di revoca del licenziamento introdotta tre anni
fa dalla riforma Fornero (cfr. art. 18, comma 10, St. lav. nuovo testo).
La “revoca del licenziamento” può essere effettuata “entro il termine di 15 giorni dalla
comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo”.
In tal caso “il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità”, spettando al
lavoratore soltanto la retribuzione per il periodo compreso tra il licenziamento e la revoca, ma con
espressa esclusione di qualsiasi sanzione connessa al licenziamento.
La revoca non è più una mera proposta del datore di lavoro, ma è un vero e proprio potere del datore
che non necessita di accettazione da parte del lavoratore.
A fronte di una revoca tempestiva il lavoratore, salva la retribuzione del periodo indicato, non ha diritto
ad alcuna tutela e quindi nemmeno all’indennità sostitutiva della reintegrazione.
Il legislatore dopo aver dettato tale condivisibile disciplina tace sulle concrete modalità di esercizio
della revoca stessa.
Quanto alla forma, pur non essendo espressamente prevista, non paiono esservi dubbi sul fatto che
debba essere scritta, trattandosi di negozio collegato al licenziamento per il quale è prescritta tale forma.
La domanda è però un’altra: che succede nel caso in cui il lavoratore, dopo la revoca tempestiva del
licenziamento, non riprenda servizio? Si ritiene che il datore di lavoro nella stessa lettera con cui
comunica la revoca debba assegnare al lavoratore un termine congruo per il rientro in servizio. A
fronte dell’assenza ingiustificata per un certo lasso di tempo il datore potrà procedere sul piano
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disciplinare sino al licenziamento. Non sono invece configurabili dimissioni o risoluzione consensuale
per fatti concludenti in quanto per tali atti è ormai necessaria la forma scritta, oltretutto appesantita
dalle nuove procedure.
Essa si applica con certezza anche alle piccole imprese in quanto prevista dall’art. 5 del decreto la cui
applicazione è sganciata dai requisiti dimensionali dell’azienda.
Scontata, infine, pare l’applicabilità dell’istituto ai licenziamenti collettivi, che anzi parrebbero il terreno
di più fertile utilizzo dell’istituto, specie per il caso in cui un datore di lavoro si accorga
tempestivamente di un vizio attinente la procedura.

Generalizzazione della tutela economica e decorrenza della prescrizione

Come noto, secondo la giurisprudenza tradizionale, la prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore
decorre anche durante il rapporto di lavoro solo nei rapporti dotati di stabilità in quanto il
lavoratore, potendo contare sulla eliminazione degli effetti del licenziamento ingiustificato, non
dovrebbe avere alcun timore reverenziale a far valere i suoi diritti nei confronti del datore di lavoro già
in corso di rapporto. Ecco che allora, prima della riforma del 2012, si riteneva che la prescrizione nelle
piccole aziende decorresse soltanto a far data dalla cessazione del rapporto, nelle grandi (cui si applicava
il vecchio e monolitico art. 18, volto a prevedere l’unitaria sanzione della reintegra) già in corso di
rapporto.
A fronte del nuovo regime di tutela per i neo assunti non pare possa ancora sostenersi il decorso della
prescrizione in corso di rapporto, in quanto anche nelle grandi aziende il rapporto tutela reale/tutela
obbligatoria è oramai un rapporto di eccezione/regola come nelle piccole aziende.
In attesa quindi di una nuova ricostruzione da parte della Consulta o di un intervento di interpretazione
autentica da parte del legislatore, si ritiene che per i neo assunti la prescrizione è destinata a correre
soltanto dalla cessazione del rapporto sia nelle piccole che nelle grandi aziende.

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