Israele procede con una nuova colonia a Gerusalemme prima della presidenza Biden

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Israele procede con una nuova
colonia a Gerusalemme prima
della presidenza Biden
15 novembre 2020 MiddleEastEye and agencies

Voci critiche segnalano che le autorità stanno deliberatamente
pubblicando bandi per costruire a Givat Hamatos prima che Trump
lasci la Casa Bianca

Israele è andato avanti con il progetto di costruzione di una nuova colonia nella
Gerusalemme est occupata, ha affermato domenica un gruppo di monitoraggio,
avvertendo che questi sforzi sono stati incrementati prima che il presidente
Donald Trump lasci la Casa Bianca a gennaio.

L’amministrazione Trump ha infranto una prassi decennale bipartisan non
opponendosi all’attività coloniale israeliana a Gerusalemme est e nella
Cisgiordania occupate. Il presidente eletto Joe Biden ha affermato che la sua
amministrazione ripristinerà la politica USA di opposizione alle colonie, che sono
illegali in base al diritto internazionale e che molti governi considerano un
ostacolo alla pace.

Nel dicembre 2017 l’amministrazione Trump ha rotto con la comunità
internazionale ed ha riconosciuto l’intera città di Gerusalemme come capitale di
Israele. Nel novembre 2019 ha affermato che non avrebbe più considerato le
colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come una violazione del diritto
internazionale, ancora una volta andando contro l’ampio consenso diplomatico.

L’attuale Segretario di Stato Mike Pompeo visiterà nei prossimi giorni una colonia
israeliana illegale nella Cisgiordania palestinese e sulle Alture del Golan siriane,
compiendo la prima visita di un segretario di Stato USA nelle zone occupate
palestinesi e siriane. In particolare si recherà a Psagot Winery, che a febbraio ha
intitolato un vino in suo onore.

L’ultima iniziativa ha visto l’Autorità Israeliana per la Terra emettere bandi di
costruzione a Givat Hamatos, un’area attualmente disabitata di Gerusalemme est,
vicina al quartiere a maggioranza palestinese di Beit Safafa.

A febbraio il Primo Ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu ha
annunciato l’approvazione di 3.000 abitazioni nell’area.

Ha detto che 2.000 sarebbero state destinate ad ebrei e 1.000 a residenti
palestinesi di Beit Safafa.

La settimana scorsa l’Autorità (israeliana) per la Terra ha emesso bandi per la
costruzione di oltre 1,200 unità per la maggior parte residenziali a Givat
Hamatos.

Ir Amim, un’organizzazione israeliana della società civile che monitora le colonie
a Gerusalemme e che domenica ha richiamato l’attenzione sui bandi ha avvertito
che i prossimi due mesi che precedono il cambio a Washington DC “saranno un
periodo critico”.

“Pensiamo che Israele cercherà di sfruttare questo tempo per portare avanti dei
passi che l’amministrazione entrante potrebbe ostacolare”, ha affermato in una
dichiarazione, sottolineando che la scadenza del bando sarà il 18 gennaio 2021,
due giorni prima dell’insediamento di Biden.

Ir Amim ha ribadito la preoccupazione che la costruzione di una colonia a Givat
Hamatos sarebbe un colpo devastante ad una possibile risoluzione
dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi, in quanto isolerebbe
Gerusalemme est dalla città cisgiordana di Betlemme, interrompendo la
continuità territoriale di un futuro Stato palestinese con Gerusalemme est come
capitale nel contesto di una soluzione di due Stati.

“Se realizzata, Givat Hamatos diventerebbe la prima nuova colonia a
Gerusalemme est in 20 anni”, ha detto l’organizzazione in una dichiarazione.

Nabil Abu Rudeina, un portavoce del presidente dell’Autorità Nazionale
Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas, ha detto che i bandi per Givat Hamatos
rappresentano un tentativo di Israele “di uccidere la soluzione di due Stati
sostenuta a livello internazionale”.

I critici della soluzione dei due Stati sostengono che non sia più percorribile a
causa della continua colonizzazione israeliana, che vede circa 400.000 coloni che
vivono in Cisgiordania sotto la legge israeliana che utilizza sistemi educativi e di
trasporto separati, in ciò che esperti giuridici sostengono configuri una politica di
apartheid.

I bandi per Gerusalemme est fanno seguito all’approvazione, la settimana scorsa,
di 96 nuove abitazioni per coloni a Gerusalemme est nel quartiere di Ramat
Shlomo.

L’approvazione di costruzioni di colonie a Ramat Shlomo nel 2010 aveva
provocato un grave contrasto tra Netanyahu e l’ex presidente USA Barack Obama
e l’allora vicepresidente Biden.

Israele ha preso il controllo di Gerusalemme est nel corso della guerra dei sei
giorni del 1967, prima di annetterla con una mossa non riconosciuta dalla
maggior parte della comunità internazionale.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

L’ANP deve chiarire il proprio
concetto di ‘negoziati’ nella
Palestina abbandonata

Ramona Wadi

14 novembre 2020, Palestine Chronicle

L’ “accordo del secolo” promosso dagli USA potrebbe essere accantonato quando a
gennaio si insedierà il presidente eletto Joe Biden, ma le sue ripercussioni non
saranno necessariamente una maledizione per l’amministrazione entrante. Proprio
come il presidente uscente Donald Trump ha utilizzato decenni di politica estera
internazionale e USA per fare una serie di concessioni a Israele, lo stesso
succederà quando Biden riporterà gli USA all’ovile del consenso per la soluzione
dei due Stati.

Trump ha lasciato in eredità al popolo palestinese un disastro che la comunità
internazionale ha allegramente ignorato, limitandosi a mettere in ridicolo la sua
inadeguatezza.

Prevedibilmente, l’Autorità Nazionale Palestinese è finita dritta dentro la trappola:
ha rifiutato — giustamente — di negoziare con gli USA, ma ha erroneamente
rappresentato una comunità internazionale, nel suo complesso, alleata. Gli accordi
di normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi, mediati dagli USA e approvati da
parecchi leader, hanno messo a nudo la farsa del “supporto” internazionale alla
Palestina.

Gli USA hanno preso una via diretta che ha ribaltato decenni di diplomazia basata
sulla soluzione dei due Stati, in base alla propria agenda e hanno portato l’oggetto
delle trattative a un nuovo livello. Che l’ANP lo ammetta o no, il panorama politico
è cambiato e la “soluzione” dei due Stati è ora offuscata dagli intrighi USA-Israele
sotto Trump.

Il portavoce Nabil Abu Rudeineh ha dimostrato che l’ANP non sembra rendersene
conto. “I leader palestinesi sono pronti a ritornare ai negoziati [con Israele], o
basandosi sulla legittimità internazionale o ripartendo dal punto dove si erano
bloccati o puntando al rispetto israeliano di tutti gli accordi firmati,” ha dichiarato.
A parte il fatto che Israele non ha interesse a impegnarsi in alcun accordo, firmato
o no, Abu Rudeineh sta dimenticando quello che è successo nel frattempo, dalle
trattative interrotte ai piani di annessione rimandati, ma non cancellati, che hanno
fatto seguito alla normalizzazione.

L’ANP ovvierà a questa discrepanza? O sta aspettando un ritorno agli accordi
mediati dagli USA travestiti dal compromesso dei due Stati, senza essere ritenuta
responsabile per aver ignorato i cambiamenti della Palestina sotto Trump e per i
suoi regali a Israele?

La soluzione dei due Stati è morta e sepolta e tutti lo sanno. Israele è arrivato allo
stadio dell’annessione con scarsa opposizione internazionale e quindi l’ANP deve
spiegare qual è la sua idea di negoziato, dalla sua attuale posizione senza
speranza nella Palestina abbandonata e frammentata che la comunità
internazionale ha contribuito a creare.
Gli accordi di normalizzazione sono stati ben accolti dal resto del mondo; dopo
tutto Trump ha usato una forma di diplomazia che l’Onu ha perfezionato fin dal
riconoscimento dello Stato di Israele. Fin dal suo insediamento, la comunità
internazionale non ha fatto nulla per opporsi alle politiche USA che hanno
accelerato la colonizzazione della Palestina da parte di Israele.

Il mondo ha osservato, criticato e condannato, assecondando l’ANP e Mahmoud
Abbas con conferenze di pace internazionali e risoluzioni che non hanno portato a
nulla. Il motivo dell’accondiscendenza dell’Onu è che gli USA non hanno mai
operato in opposizione ai piani della comunità internazionale per la Palestina.

La soluzione dei due Stati è un eufemismo per coprire decenni di attesa,
diligentemente praticata dall’ANP, e mantenere l’illusione di legittimità, finanziata
dalla comunità internazionale. Forse l’ANP dovrebbe chiarire se, con il termine
“negoziati, si riferisce a un altro periodo di umiliazioni per poi ricevere poche
briciole gettate dalla comunità internazionale. Con Washington ora riaccolta nel
consesso internazionale dopo la missione compiuta a favore di Israele per conto
dell’Onu, la Palestina si trova sull’orlo del precipizio.

Ramona Wadi è una cronista per il Middle East Monitor dove originalmente ha
pubblicato questo articolo, con cui ora contribuisce al Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

Dopo Trump non basta ripristinare
la “normale” politica statunitense
sulla Palestina
Omar Baddar

13 novembre 2020 – 972mag

Biden può essere un convinto filo-israeliano, ma gli attivisti e i
rappresentanti progressisti possono spingere ad una politica estera
che rispetti i diritti dei palestinesi.

La sconfitta di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi la scorsa
settimana ha generato un collettivo sospiro di sollievo fra i progressisti e le
comunità vulnerabili negli Stati Uniti e in tutto il mondo, compresi i palestinesi e
coloro che lottano per i diritti dei palestinesi. Il motivo è ovvio: la politica di
Trump su Palestina / Israele era guidata dalla sua simpatia per l’autoritarismo e
dal desiderio di assecondare la base evangelica di estrema destra. Di
conseguenza, era gestita da ideologi incompetenti come Jared Kushner e David
Friedman, che hanno abbozzato un tentativo fallito di liquidare una volta per tutte
la lotta palestinese per la libertà.

Tale fallimento, tuttavia, non ha lasciato indenni i palestinesi, che negli ultimi
quattro anni hanno subito danni devastanti e senza precedenti, tra cui la chiusura
della missione diplomatica palestinese a Washington, il riconoscimento di
Gerusalemme come capitale di Israele, l’approvazione dei piani di annessione e la
fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA [agenzia delle Nazioni Unite per i
profughi palestinesi, ndtr.] e agli ospedali palestinesi. Ma al di là dell’innegabile
riduzione del danno che ci sarà con questo cambiamento dell’amministrazione
statunitense, quali sono le prospettive per la libertà dei palestinesi nell’era Biden?

Il presidente eletto Joe Biden fa parte di una problematica tendenza della politica
degli Stati Uniti su Palestina / Israele, che a parole appoggia l’indipendenza
palestinese ma in pratica sostiene Israele nella negazione di quella libertà
attraverso finanziamenti militari illimitati e protezione diplomatica. Anche in
questa ultima stagione elettorale, quando l’ala progressista del Partito
Democratico chiedeva chiaramente di riconoscere le responsabilità di Israele,
Biden si è distinto come il candidato che ha respinto con più veemenza qualsiasi
discorso sul condizionare gli aiuti militari a Israele al rispetto dei diritti umani
palestinesi.

In breve, la politica di Biden probabilmente promuoverà ancora una volta la vuota
farsa dei “negoziati di pace”, semplicemente chiedendo a Israele di rispettare i
diritti dei palestinesi ben sapendo che non lo farà, per poi fornirgli le armi con cui
le forze israeliane brutalizzano i palestinesi. Se Biden si atterrà a questo
approccio crudele e controproducente, per i palestinesi la transizione da Trump a
Biden sarà come passare dalla padella alla brace.
Per decenni, il problema della politica statunitense in Palestina è stata la
discrepanza – o l’ipocrisia, per dirla più chiaramente – tra il dire e il fare. Se la
politica dichiarata è di promuovere l’indipendenza dei palestinesi, perché gli Stati
Uniti stanno in realtà sostenendo l’occupazione e l’oppressione?

Donald Trump ha posto fine a questa ipocrisia, ma nella direzione sbagliata: la
sua politica è stata di favorire l’oppressione. Ora che l’approccio degli Stati Uniti
sta per tornare alla “normalità”, ciò di cui abbiamo bisogno è risolvere l’ipocrisia
nella giusta direzione e cambiare radicalmente l’azione politica. Allora, come la
mettiamo con Biden?

La sfida principale con Biden è che, come si suol dire, “non si possono insegnare
nuovi trucchi a un vecchio cane”. Come la vicepresidente eletta Kamala Harris,
Biden ha trascorso la sua carriera politica flirtando con l’AIPAC [American Israel
Public Affairs Committee, la più potente lobby americana di sostegno a Israele,
ndtr.] e assecondando i gruppi filo-israeliani, ribadendo l’idea che Israele sia al di
sopra di ogni colpa.

Ci vorrà quindi un grosso sforzo per convincere Biden a riesaminare i suoi
profondi pregiudizi sul tema, e per fargli riconoscere quanto l’opinione pubblica
tra gli elettori del Partito Democratico si sia spostata in merito a Palestina /
Israele. Dopo tutto, il 64% dei Democratici sostiene la riduzione degli aiuti militari
a Israele a causa delle sue violazioni dei diritti umani. È vero che i gruppi di
pressione israeliani continuano a esercitare un significativo potere finanziario su
candidati e politici, ma affermare che Israele dovrebbe essere chiamato a
rispondere di come utilizza la sbalorditiva cifra di 38 miliardi di dollari che riceve
ogni dieci anni dagli Stati Uniti non è più impopolare.

Per fortuna, la narrazione progressista sulla Palestina, che giudica le ingiustizie
dell’occupazione e dell’apartheid israeliani per quello che sono e chiede alla
politica statunitense un approccio più etico sta guadagnando un’inedita forza
negli Stati Uniti. Le cose stanno cambiando a Washington, dalla presentazione di
progetti di legge da parte delle parlamentari Betty McCollum e Alexandria
Ocasio-Cortez per limitare la complicità degli Stati Uniti nell’aggressione
israeliana ai palestinesi, alla sconfitta di sostenitori filo-israeliani come Eliot
Engel da parte di nuovi eletti progressisti come Jamaal Bowman [il preside di
scuola media che ha sconfitto Engel, presidente della commissione Affari Esteri
della Camera, nelle primarie democratiche di New York, ndtr.] Il 117° Congresso
avrà anche un maggior numero di membri in carica che parlano apertamente dei
diritti dei palestinesi.

Questa ondata di rappresentanti progressisti può spingere l’amministrazione
Biden a cambiare la politica degli Stati Uniti su Palestina / Israele. Ma potrà farlo
solo se continuiamo a costruire un variegato movimento di base che si allei con
altre lotte progressiste nel paese e che renda socialmente e politicamente
inaccettabile il fatto di essere “progressisti tranne che sulla Palestina” (PEP).

Vale anche la pena riflettere sul ruolo della leadership palestinese nella
Cisgiordania occupata, che si è fatta in quattro per accogliere le richieste degli
Stati Uniti negli ultimi 30 anni nella speranza di avvicinarsi gradualmente
all’indipendenza palestinese. Dopo decenni di fallimento, questo approccio è
insostenibile. La leadership palestinese deve cambiare, deve diventare più
democratica e smettere di reprimere e soffocare il dissenso. Fondamentalmente,
deve smetterla di stare a guardare in attesa che gli Stati Uniti procurino la libertà
ai palestinesi. In qualità di leader, è loro compito cercare giustizia attraverso ogni
possibile via, comprese le istituzioni internazionali e la Corte Penale
Internazionale, indipendentemente dalle obiezioni degli Stati Uniti.

In definitiva, tuttavia, il compito di porre fine alla complicità degli Stati Uniti con
l’oppressione israeliana dei palestinesi grava sulle spalle di coloro che vivono
negli Stati Uniti, e dobbiamo continuare a impegnarci su questo compito. Facendo
crescere una campagna multiforme di pressione progressista dal basso, che a sua
volta influenzi il dibattito politico, la copertura mediatica e il comportamento dei
responsabili politici, il consenso sul cieco sostegno degli Stati Uniti a Israele può
davvero incrinarsi. Questa crepa renderà possibile una politica estera più giusta
ed etica che sostenga – o almeno smetta di ostacolare – la ricerca della libertà da
parte dei palestinesi.

Omar Baddar è un analista politico palestinese-americano che risiede a Washington, DC. È
stato vicedirettore dell’Arab American Institute [organizzazione che si occupa di difendere gli
interessi degli statunitensi di origine araba, ndtr.] (AAI) e direttore esecutivo dell’American
Arab Anti-Discrimination Committee [associazione che lotta contro le discriminazioni a danno
della comunità arabo-americana, ndtr.] del Massachusetts.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)
L’UE ignora la sentenza della
Corte sul diritto a boicottare
Israele
David Cronin

29 ottobre 2020 – Electronic Intifada

La brama di Donald Trump di compiacere Israele è stata oscena ma divertente.

Talvolta è stato impossibile non vedere, con un insieme di orrore e diletto, come
un presidente facesse a pezzi le convenzioni della diplomazia.

Nel 2017 Trump ha ammesso che non gli importa se ci sarà una soluzione a uno o
due Stati, facendo questa insulsa osservazione: “Mi piace quella che piace ad
entrambe le parti.”

L’anno seguente si è vantato di aver ridotto il costo dello spostamento
dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Non importa che Trump usi le
risoluzioni ONU come carta igienica, ha ancora un occhio di riguardo per le
transazioni immobiliari.

E ora Trump ha messo in dubbio che Joe Biden avrebbe potuto mediato un
accordo di “normalizzazione” tra Israele e il Sudan. Così come lo ha spacciato
come un trionfo per la pace, Trump ha cercato (in questo caso senza successo) di
tirare qualche cazzotto a “Sleepy Joe” [Sonnolento Joe, nomignolo spregiativo con
cui Trump chiama Biden, ndtr.].

Parzialità

Per ragioni puramente egoistiche spero che i decisori politici dell’UE si esibiscano
in alcune delle bravate di Trump. Mentre lui mi fa ridacchiare, il loro
comportamento mi ha fatto diventare un incorreggibile brontolone.
La scorsa settimana è stato riportato che Frontex, l’agenzia dell’UE per il
controllo dei confini, sta collaborando con l’industria bellica israeliana. L’agenzia
ha concesso un totale complessivo di 118 milioni di dollari al principale
esportatore israeliano di armi, Elbit System, e a un consorzio tra Israel Aerospace
Industries [principale industria aeronautica israeliana, di proprietà statale, ndtr.]
e alla multinazionale Airbus.

Aerei da guerra testati sui palestinesi verranno molto probabilmente utilizzati per
contribuire a bloccare i rifugiati che raggiungono le coste europee, anche se
questo è un dettaglio che vi sarebbe sfuggito se aveste letto l’articolo di The
Guardian su questi contratti.

L’evidente parzialità delle autorità e dei media nei confronti di Israele rende il
boicottaggio dei suoi prodotti ed istituzioni ancora più impellente. Il problema è
che queste autorità stanno attivamente cercando di compromettere il
boicottaggio.

Durante l’estate ho inviato una protesta a Margaritis Schinas, vicepresidente
della Commissione Europea. La mia denuncia si concentrava su un discorso poco
pubblicizzato ma significativo fatto da Schinas nel 2019, in cui ha affermato che
“l’antisemitismo ha molte forme, passando dall’antisionismo alla negazione e
distorsione dell’Olocausto, da un commento discriminatorio verso un collega sul
posto di lavoro a gravi minacce alla vita di una persona.”

Ho chiesto che Schinas spiegasse perché stava equiparando il sionismo,
un’ideologia politica sviluppata alla fine del XIX secolo, all’ebraismo, una religione
molto più antica. Gli ho ricordato che il sionismo è stato utilizzato negli anni ’40
come pretesto per una espropriazione di massa dei palestinesi e che oggi è alla
base di un sistema razzista contro i palestinesi.

Libertà di espressione

Inoltre ho informato Schinas di come, da quando è stato fatto il suo discorso, la
Corte Europea per i Diritti dell’Uomo abbia emesso un’importante sentenza. Nel
suo verdetto, pronunciato nel giugno di quest’anno, la Corte ha esplicitamente
difeso i diritti degli attivisti che chiedono il boicottaggio di Israele.

La Corte ha persino affermato che il discorso relativo al boicottaggio di Israele
richiede “una notevole protezione”.
Ho obiettato che, se il verdetto della Corte viene preso seriamente, allora le
critiche all’ideologia dello Stato di Israele, il sionismo, devono essere considerate
come protette dal diritto alla libertà di espressione.

Schinas non ha risposto di persona alla mia protesta. Ha incaricato Katharina von
Schnurbein, la coordinatrice dell’UE contro l’antisemitismo, di farlo.

Von Schnurbein, che ha calunniato gli attivisti del movimento per il boicottaggio
di Israele, non ha di fatto affrontato i punti da me sollevati. La sua lettera non fa
alcuna menzione alla sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani.

Al contrario ha fatto riferimento a come l’ UE si basi sulla definizione di
antisemitismo approvata dalla International Holocaust Remembrance Alliance
[Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione
intergovernativa, ndtr.]. Ha omesso il fatto che la definizione è stata
concretamente stilata da organizzazioni della lobby filo-israeliana e che esse la
utilizzano per cercare di proteggere Israele dal rendere conto del proprio operato.

Von Schnurbein ha anche segnalato un sondaggio del 2018 pubblicato dalla
Fundamental Rights Agency [Agenzia per i Diritti Fondamentali, agenzia europea
che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] dell’UE. Nelle sue parole,
“l’inchiesta evidenzia che l’antisemitismo legato a Israele è la forma più diffusa di
discriminazione e maltrattamenti antisemiti subiti dagli ebrei europei.”

Indipendentemente da quello che pensa von Schnurbein, i sondaggi di opinione
non sono di fatto un sostituto delle sentenze di un tribunale.

L’UE si prepara a inserire nella propria legislazione la Convenzione Europea per i
Diritti Umani.

La Corte Europea per i Diritti Umani, che è separata dall’Unione Europea,
sovrintende al rispetto di quella convenzione. Se i rappresentanti dell’UE pensano
davvero quello che dicono riguardo al desiderio di rispettare una convenzione sui
diritti umani, allora devono rispettare le sentenze della Corte.

I risultati di un sondaggio non forniscono loro una scusa per ignorare le sentenze
che non gli piacciono.

Promuovere l’ignoranza
Oltretutto l’obiettività del gruppo che ha condotto l’inchiesta del 2018 è dubbia.

Il direttore del progetto era Jonathan Boyd, dell’Institute for Jewish Policy
Research [Istituto per la Ricerca Politica Ebraica], con sede a Londra. Boyd è un
petulante sostenitore di Israele, che non fa alcuna distinzione tra sionismo ed
ebraismo.

Nel suo editoriale su The Jewish Chronicle [settimanale ebraico inglese
filoisraeliano, ndtr.] Boyd ha riflettuto su come inculcare devozione per Israele nei
giovani ebrei. Lo scorso anno, prima delle elezioni politiche in Gran Bretagna, ha
affermato che il partito Laburista aveva un grave problema con il fanatismo anti-
ebraico, benché ciò sia stato inventato per danneggiare l’allora segreteria di
Jeremy Corbyn.

Detto questo, la ricerca del 2018 non dovrebbe essere ignorata.

Una delle sue conclusioni è stata che il 43% degli ebrei che vi hanno preso parte
riteneva di essere incolpato continuamente o frequentemente per le azioni di
Israele. Un altro 36% riteneva di esserlo stato occasionalmente.

Qui c’è un chiaro messaggio: l’oppressione israeliana contro i palestinesi può
anche danneggiare gli ebrei europei.

Se le autorità dell’UE fossero davvero così preoccupate dell’antisemitismo come
pretendono di essere, allora farebbero pressioni su Israele in modo che ponga fine
ai soprusi e tutti potrebbero tirare un sospiro di sollievo.

Potrebbero abbinare questo lavoro con la crescente consapevolezza su come gli
ebrei del resto del mondo non debbano essere considerati responsabili di quello
che fa Israele.

Allo stato attuale, le autorità dell’UE si comportano in modo esattamente opposto.

Comprando le armi di Israele, come Frontex ha appena fatto, rendendo
economicamente conveniente l’oppressione, contribuendo pertanto a che essa
continui. E considerando il sionismo indistinguibile dall’ebraismo, stanno
promuovendo l’ignoranza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)
Buone notizie da Washington:
l’AIPAC e Israele stanno perdendo
consensi tra i democratici
progressisti
Ramzy Baroud

14 luglio 2020 – Middle East Monitor

Mentre l’amministrazione USA del presidente Donald Trump rimane irremovibile
nel suo appoggio ad Israele, la dirigenza democratica di sempre continua ad
utilizzare un linguaggio subdolo, il tipo di “ambiguità strategica” che offre pieno
sostegno ad Israele e nient’altro che vuote promesse per la Palestina e la pace.

Le politiche di Trump su Israele e Palestina sono state dannose, culminate con il
vergognoso e iniquo “accordo del secolo”, e la sua amministrazione rimane
largamente impegnata a favore della tendenza verso una crescente vicinanza tra
il gruppo dirigente repubblicano e il campo di destra israeliano del primo ministro
Benjamin Netanyahu.

Le opinioni della leadership democratica, rappresentata dal probabile sfidante
democratico nelle prossime elezioni di novembre, Joe Biden, sono ancora quelle di
un’epoca di fanatismo, quando l’amore incondizionato dei democratici per Israele
era pari a quello dei repubblicani. Si può affermare con sicurezza che quei giorni
stanno volgendo al termine, in quanto successivi sondaggi di opinione stanno
ribadendo un cambiamento di panorama politico a Washington.

Una volta l’élite politica americana, le cui politiche differivano su molte questioni,
concordava senza riserve su un unico argomento di politica estera: l’amore e
l’appoggio ciechi e incondizionati del loro Paese per Israele. In quei giorni
l’influente gruppo lobbystico filo-israeliano, l’American Israel Public Affairs
Committee [Comitato per gli Affari Pubblici Americani e Israeliani] (AIPAC),
faceva il bello e il cattivo tempo, regnando incontrastato sul Congresso USA e
decidendo praticamente da solo il destino di parlamentari in base al fatto che
appoggiassero o meno Israele.

Anche se è troppo presto per affermare che “quei tempi sono finiti”, a giudicare
dal discorso politico su Palestina e Israele notevolmente mutato, i molti sondaggi
di opinione e i successi elettorali di candidati contrari all’occupazione israeliana
in elezioni nazionali e locali, si è obbligati a dire che la salda presa dell’AIPAC
sulla politica estera USA si sta finalmente allentando.

Tale affermazione può sembrare prematura, considerando la parzialità senza
precedenti dell’attuale amministrazione a favore di Israele – l’illegale
spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, il rifiuto del
“diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi e il sostegno dell’amministrazione al
progetto israeliano di annettere illegalmente parti della Cisgiordania, e via di
seguito.

Tuttavia si deve fare una distinzione tra l’appoggio a Israele tra chi governa, la
sempre più isolata cricca di politicanti, e il sentimento generale di un Paese che,
nonostante le numerose violazioni della democrazia negli ultimi anni, è ancora in
qualche modo democratico.

Il 25 giugno un incredibile numero di circa 200 parlamentari democratici,
compresi alcuni dei più strenui sostenitori di Israele, ha chiesto in una lettera a
Netanyahu e ad altri importanti politici israeliani di annullare il progetto di
annettere illegalmente circa il 30% della Cisgiordania.

“Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione riguardo all’intenzione dichiarata
di procedere con una qualunque annessione unilaterale di territori della
Cisgiordania, e invitiamo il vostro governo a riconsiderare il progetto di attuarla,”
afferma fra l’altro la lettera.

Mentre il linguaggio della lettera è lungi dall’essere etichettabile come
“minaccioso”, il fatto che sia stata firmata da fedelissimi alleati di Israele come i
parlamentari della Florida Tedo Deutch e dell’Illinois Brad Schneider la dice
lunga sul cambiamento di discorso su Israele tra i vertici centristi e persino
conservatori del partito Democratico. Tra i firmatari ci sono anche figure
importanti dell’establishment democratico, come la congressista Debbie
Wasserman Schultz e il capo della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti,
Steny Hoyer.

Altrettanto importante è il fatto che l’influenza della generazione più giovane e
progressista dei politici democratici continui a spostare i confini del discorso del
partito su Israele, grazie al lavoro instancabile della parlamentare Alexandria
Ocasio-Cortez e dei suoi colleghi. Insieme a decine di rappresentanti democratici,
il 30 giugno Ocasio-Cortez ha inviato un’altra lettera, questa volta al segretario di
Stato USA, Mike Pompeo.

A differenza della prima, la seconda lettera è decisa e molto audace: “Se il
governo israeliano dovesse continuare lungo questo cammino (dell’annessione),
lavoreremo per garantire il mancato riconoscimento dei territori annessi così
come porteremo avanti leggi che condizionino i finanziamenti militari USA di 3.8
miliardi di dollari a Israele per assicurare che i contribuenti USA non stiano
appoggiando in alcun modo l’annessione,” dice tra l’altro la lettera.

Si immagini se queste esatte parole fossero state utilizzate dai rappresentanti
democratici nel luglio 1980, quando il parlamento israeliano annesse illegalmente
Gerusalemme est con un atto che era – e rimane – contrario alle leggi
internazionali. Il destino di quei politici sarebbe stato simile a quello di altri che
osarono opporsi, col rischio di perdere il proprio seggio al Congresso, ossia di
fatto tutta la loro carriera politica in una volta.

Ma i tempi sono cambiati. È veramente inconsueto, e consolante, vedere l’AIPAC
affannarsi a spegnere i molti focolai accesi dalle nuove voci radicali tra i
democratici.

La ragione per cui non è più facile per la lobby filo-israeliana conservare la sua
pluridecennale egemonia sul Congresso è che quelli come Ocasio-Cortez sono
anche loro risultato del cambiamento generazionale e probabilmente irreversibile
che è avvenuto tra i democratici nel corso degli anni.

La tendenza alla polarizzazione dell’opinione pubblica americana riguardo a
Israele risale a vent’anni fa, quando gli americani iniziarono a considerare il
proprio supporto a Israele in base a linee di partito. Sondaggi più recenti
suggeriscono che questa polarizzazione sia in aumento. Un sondaggio di opinione
della Pew [gruppo di esperti statunitensi che si occupano di inchieste ed analisi
socio-politiche, ndtr.] pubblicato nel 2016 ha mostrato che tra i repubblicani la
simpatia per Israele era passato a un inaudito 74%, mentre tra i democratici era
scesa al 33%.

Inoltre, per la prima volta nella storia, tra i democratici l’appoggio a Israele e ai
palestinesi era praticamente diviso in parti uguali: rispettivamente il 33% e il
31%. Era il periodo in cui abbiamo iniziato a vedere inusuali prime pagine dei
principali mezzi di informazione come “Perché i democratici stanno
abbandonando Israele?”

Questo “abbandono” è continuato senza sosta, come hanno indicato sondaggi più
recenti. Nel gennaio 2018 un’altra inchiesta di Pew ha dimostrato che l’appoggio
dei democrati a Israele si è ridotto al 27%. Non solo la base democratica si sta
allontanando da Israele in seguito alla crescente consapevolezza dei continui
crimini israeliani e della violenta occupazione in Palestina: anche i giovani ebrei
stanno facendo altrettanto.

Le mutate opinioni su Israele tra i giovani ebrei americani stanno finalmente
dando frutti, fino al punto che nell’aprile 2019 i dati di Pew hanno concluso che
nel loro complesso probabilmente gli ebrei americani sono ancor più (42%) dei
cristiani ad affermare che il presidente Trump stia “favorendo troppo gli
israeliani.”

Mentre molti democratici al Congresso sono sempre più in sintonia con le opinioni
dei loro elettori, quelli che comandano, come Biden, rimangono caparbiamente
legati a programmi che sono promossi dall’AIPAC e dal resto della vecchia
guardia.

La buona notizia da Washington è che, nonostante l’attuale appoggio di Trump a
Israele, un graduale ma durevole cambiamento strutturale continua ad avvenire
tra i sostenitori del partito Democratico ovunque in tutto il Paese. Una ancor più
sorprendente notizia è che la tradizionale roccaforte di Israele nelle comunità
ebraiche del Paese sta vacillando, e molto rapidamente.

Mentre l’AIPAC probabilmente continuerà ad utilizzare e improvvisare vecchie
tattiche per difendere gli interessi di Israele nel Congresso USA, la cosiddetta
“potente lobby” probabilmente non riuscirà a riportare indietro il tempo. Anzi,
l’epoca del totale dominio di Israele sul Congresso USA è probabilmente finita, e,
si spera, questa volta per sempre.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono
necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

La responsabile UE per la lotta
all’antisemitismo non ha l’incarico
di ripetere a pappagallo le
menzogne di Israele
David Cronin

2 giugno 2020 – Electronic Intifada

Katharina von Schnurbein, ccordinatrice dell’Unione europea contro
l’antisemitismo, si è confrontata con le sfide poste dal confinamento di COVID-19.

Non potendo coltivare di persona i rapporti con i lobbisti filo-israeliani, si è invece
mantenuta in contatto con loro online.

Sembra che da quando nel dicembre 2015 è stata nominata all’attuale carica, von
Schnurbein abbia mantenuto buoni rapporti con i sostenitori di Israele. Ma, come
funzionaria pubblica, è questo che prevede il suo mandato?

Dopo molte insistenze, ho finalmente ottenuto il mansionario redatto per von
Schnurbein dall’amministrazione UE.

Il documento – che delinea i suoi principali compiti e responsabilità – non nomina
Israele nemmeno una volta.

L’omissione è strana visto che vi sono forti ragioni per sospettare che la carica di
von Schnurbein sia stata creata con l’unico obiettivo – o almeno l’obiettivo
principale – di compiacere Israele e i suoi sostenitori.

L’idea stessa che l’UE nominasse un coordinatore contro l’antisemitismo è stata
proposta durante un evento ospitato dal Ministero degli Esteri israeliano all’inizio
del 2015.

Mentalità distorta

La descrizione del lavoro di Von Schnurbein la impegna a “collaborare
strettamente con la comunità ebraica” e ad avvisare i responsabili politici dell’UE
delle preoccupazioni di quella comunità.

L’espressione “comunità ebraica” non è sinonimo di Israele.

Anzi, ritenere “comunità ebraica” sinonimo di Israele sarebbe antisemita.
Considererebbe gli ebrei europei responsabili dell’oppressione dei palestinesi da
parte di Israele.

E se la burocrazia di Bruxelles utilizza effettivamente i termini “comunità ebraica”
e “Israele” come intercambiabili, allora è colpevole dello stesso pensiero distorto
che pervade l’élite americana.

Sia Joe Biden che Donald Trump hanno lasciato intendere che gli ebrei negli Stati
Uniti siano indistinguibili da Israele.

Ma le comunità ebraiche non sono monolitiche, da nessuna delle due sponde
dell’Atlantico.

Gli ebrei in Europa hanno una vasta gamma di opinioni su Israele, ma von
Schnurbein e i suoi colleghi cercano di alterare questa realtà. Gli ebrei critici di
Israele e della sua ideologia di stato sionista sono stati esclusi dalle deliberazioni
dell’UE sull’antisemitismo.

Von Schnurbein lavora nel dipartimento di giustizia della Commissione europea –
l’esecutivo dell’UE. Il suo lavoro è presumibilmente regolato da una carta dei
diritti.

Quella carta difende il diritto di avere ed esprimere opinioni e idee “senza
interferenze da parte dell’autorità pubblica”.

Lungi dal rispettare questo diritto, von Schnurbein ha cercato di mettere sotto
controllo le opinioni critiche su Israele.

Una menzogna oltraggiosa

Ha mosso accuse false e calunniose contro attivisti della solidarietà con i
palestinesi, in particolare quelli che spronano a boicottaggio, disinvestimento e
sanzioni.

L’anno scorso, all’incontro inaugurale a Bruxelles, von Schnurbein ha parlato di
uno “studio” del governo israeliano sul movimento BDS.

Nelle sue dichiarazioni, ha accusato gli attivisti del BDS di aver criticato il
cantante Matisyahu perché è ebreo. Una menzogna oltraggiosa.

La verità è che Matisyahu è stato condannato dagli attivisti perché ha raccolto
fondi per l’esercito israeliano e ha plaudito ad un attacco contro la flottiglia in
viaggio verso Gaza, non per la sua religione o etnia.

E nel 2018 von Schnurbein ha disatteso la neutralità politica richiesta ai
dipendenti pubblici dell’UE per ripetere a pappagallo gli argomenti della lobby
israeliana, calunniando un membro eletto al Parlamento europeo come
antisemita.

La parlamentare aveva presentato un evento con un oratore palestinese,
nonostante le obiezioni dei gruppi di pressione israeliani.

Lo statuto del personale dell’UE proibisce ai suoi funzionari di seguire le
istruzioni emanate da governi esteri.

Ripetendo macchinalmente bugie architettate da Israele e dalla sua rete di
sostenitori, von Schnurbein ha infranto quella regola.

Come può uscirne indenne? La spiegazione più plausibile è che goda del sostegno
della gerarchia dell’UE.

Per quasi cinque anni von Schnurbein sarebbe stata tenuta a rispondere a Vera
Jourova, membro ceco della Commissione europea. Jourova ha calunniato il
movimento di solidarietà palestinese, usando termini estremamente simili, se non
identici, a quelli di von Schnurbein.

È dal 2018 che cercavo di ottenere il mansionario del lavoro di von Schnurbein.
Quando ho presentato la mia prima richiesta in base alla libertà di informazione,
la Commissione europea ha rifiutato di rilasciare il documento.

Alla fine, tuttavia, ha consentito a farlo – dopo che ho sottoposto la questione al
difensore civico dell’UE, organismo formale di difesa del cittadino.

Sostenevo che quel mansionario avrebbe dovuto essere reso disponibile per
valutare se von Schnurbein fosse stata ufficialmente incaricata di perseguire un
programma a favore di Israele.

La risposta della Commissione europea alla questione dimostra disprezzo per la
democrazia.

Ursula von der Leyen, presidentessa della Commissione, rispose che era compito
della gerarchia dell’UE giudicare il lavoro di von Schnurbein. L’opinione pubblica,
sottintendeva von der Leyen, non deve occuparsi di simili questioni.

Significativamente la Commissione europea non ha cercato di negare che von
Schnurbein persegua quelli che sembrano essere gli interessi di Israele.

Potrebbe esserci una prova più evidente di così?

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

Il nuovo governo israeliano è
pronto per un’annessione a luglio
– e i leader palestinesi giurano di
opporvisi
Philip Weiss

20 Aprile 2020 Mondoweiss
Oggi ci sono grandi novità da Israele. Benny Gantz, l’uomo che per tre elezioni ha
cercato di archiviare Netanyahu, si è arreso. Benjamin Netanyahu sarà primo
ministro per i prossimi 18 mesi, durante i quali ci sarà il processo per corruzione;
dopo di ciò Gantz diventerà primo ministro e l’accordo sulla divisione del potere
prevede l’OK a partire da luglio per l’annessione di grandi parti della Cisgiordania
occupata.

Barak Ravid dell’israeliana Channel 13 [canale della televisione israeliana, ndtr.]
spiega l’accordo sull’annessione. La politica israeliana è semplicemente troppo a
destra perché Gantz potesse mantenere la posizione. Questo è il “lascito” di
Netanyahu e deve essere implementato mentre Trump è al potere:

“L’accordo di coalizione tra Netanyahu e Gantz dice che Netanyahu può portare
‘le intese con l’amministrazione Trump’ sull’annessione di parti della Cisgiordania
a una discussione di governo e a un voto o del governo o in parlamento a partire
dal 1 luglio … Il desiderio di Netanyahu di annettere la Valle del Giordano e altre
parti della Cisgiordania occupata è stato uno dei principali punti critici nei
negoziati sul nuovo governo. Gantz ha rinunciato alla sua pretesa di avere potere
di veto su qualsiasi decisione di annessione.”

Secondo l’accordo, Netanyahu e Gantz lavoreranno “in pieno accordo con gli Stati
Uniti” per quanto riguarda il piano di Trump, incluso il punto di mappare quali
parti in Cisgiordania gli Stati Uniti sono pronti a riconoscere come parte di
Israele.

Netanyahu considera l’annessione di parti della Cisgiordania la sua principale
eredità. Secondo i suoi collaboratori, vuole realizzarla abbastanza presto nel
timore che alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti Trump possa perdere e con
Joe Biden alla Casa Bianca la mossa sia resa impossibile…

L’accordo ha suscitato grida angosciate da parte dei sionisti liberali, e
probabilmente resisterà all’opposizione dei principali politici palestinesi della
Lista Unita. Aida Touma-Sliman [giornalista e politica arabo-israeliana, ndtr.]
scrive:

“Il prossimo governo israeliano sarà pericolosamente di destra. Gantz è sceso in
campo sperando di sostituire Netanyahu e ha finito per rafforzare la politica
razzista e antidemocratica di quest’ultimo. Faremo opposizione a questo governo
di annessione – durante la crisi di Covid e dopo.”
I politici palestinesi sono stati i grandi vincitori delle ultime elezioni, e sono
rafforzati dalle ultime notizie. Ayman Odeh, responsabile della Lista Unita, scrive
su Twitter [in ebraico, traduzione automatica]:

“La resa di Gantz è uno schiaffo in faccia ai cittadini recatisi ripetutamente alle
urne per estromettere Netanyahu. Gantz non ha avuto abbastanza coraggio per
vincere e ha scelto di legalizzare l’annessione, il razzismo e la corruzione.”

Ahmad Tibi, deputato della Lista Unita e medico:

“Blu e bianco [il partito di Gantz] ha sventolato la bandiera bianca. Si è arreso a
tutti i dettami politici (l’annessione a luglio) e nella sfera civile si è arreso alla
legge dello Stato Nazionale, alla legge di Kaminitz [che limita i permessi di
costruzione palestinesi] … Vediamo nella lotta contro un governo di 52 ministri e
vice ministri una sfida e una missione. Avverto la sconfitta di milioni di cittadini
che volevano il cambiamento.”

L’annessione interessa circa il 30 % della Cisgiordania, compresi la valle del
Giordano e gli insediamenti ebraici di oltre 620.000 coloni.

Il lobbista israeliano Martin Indyk afferma che Trump si schiererà con
l’annessione per soddisfare la destra americana cristiana:

“Coronavirus o no … questo è molto chiaro: Trump darà il via libera
all’annessione per assicurarsi la base evangelica alle elezioni.”

Indyk esclude la Florida dal gioco di Trump: gli elettori ebrei potrebbero essere
cruciali in quello stato altalenante.

L’opinione diffusa è che questo accordo sarà un test per le organizzazioni liberali
sioniste negli Stati Uniti, se si opporranno all’annessione ora e coinvolgeranno i
politici democratici contro di essa. Si noti che la scorsa settimana tale iniziativa
ha portato 11 deputati a scrivere una lettera di opposizione all’annessione. Non
esattamente una marea. Ma J Street [gruppo liberale statunitense filoisraeliano
per la pace e la democrazia, ndtr.] ha recentemente appoggiato Joe Biden che ha
accolto con favore il sostegno; è certo che prenderà posizione contro l’annessione.

Le organizzazioni liberali sioniste dovranno lavorare con i politici palestinesi se
mirano a bloccare l’annessione.
Tamara Cofman Wittes, che sostiene Israele, dichiara di sperare che gli eventi in
campo non sposteranno nulla verso un governo Biden …

“L’approvazione di Trump non mette fine alla questione. Il riconoscimento
presidenziale delle rivendicazioni territoriali è una cosa che dipende dalle
decisioni dell’esecutivo e può essere immediatamente annullata da una nuova
amministrazione.”

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

Come la questione israelo-
palestinese è arrivata al cuore
della politica USA
Alex Kane

22 novembre 2019 – +972

Un acceso dibattito su Israele e Palestina sta diventando centrale
nella politica USA e non vi sono segnali che si stia spegnendo.

L’ultima volta che vi sono state delle primarie aperte del partito democratico,
Hillary Clinton e Barack Obama si sono scontrati su tutto, dalla guerra in Iraq
all’assistenza sanitaria, alla razza. Cioè su tutto tranne che su Israele.

Le critiche a Israele, nel corso della campagna elettorale 2007-2008 si sono
limitate a candidati marginali. In un dibattito del 2007 sulla radio nazionale, Mike
Gravel, il polemico ex senatore dell’Alaska che non ha mai avuto consensi
superiori al 3%, ha chiesto perché fosse un problema che l’Iran finanziasse Hamas
e Hezbollah, mentre gli Stati Uniti finanziano Israele.

Quella è stata una delle rare eccezioni rispetto alla linea standard filoisraeliana
diffusa durante il periodo delle primarie – e il candidato che l’ha fatto non era
esattamente una star. Gravel non ha ottenuto nemmeno un delegato. Mentre
Clinton e Obama davano debitamente voce all’appoggio ad Israele durante la
campagna, le relazioni tra USA ed Israele non occupavano un posto centrale nella
corsa alle primarie democratiche

Dieci anni dopo, il dibattito su Israele è radicalmente cambiato. Adesso sta
occupando la scena principale della politica americana – la corsa alla presidenza –
e le aule del Congresso.

Il senatore Bernie Sanders, che è dato terzo nei sondaggi come prossimo
candidato democratico alla presidenza, ha detto ripetutamente di desiderare che
gli USA diminuiscano gli aiuti militari ad Israele per porre fine all’iniquo
trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Pete Buttigieg, il sindaco
dell’Indiana accreditato al quarto posto, ha detto che i contribuenti statunitensi
non dovrebbero pagare il conto di un’annessione israeliana della Cisgiordania. La
senatrice Elizabeth Warren, che sta lottando per il primo posto con Joe Biden, è
stata meno esplicita sui suoi programmi riguardo ad Israele/Palestina. Però ha
parlato della necessità di porre termine all’occupazione israeliana e a ottobre ha
detto di essere disposta a condizionare l’aiuto militare USA ad Israele. Quanto a
Biden, è il solo a dichiarare che condizionare l’aiuto militare USA ad Israele
sarebbe “assolutamente vergognoso”.

Intanto un nuovo gruppo di progressisti, guidati dalle deputate Ilhan Omar e
Rashida Tlaib, sta allargando il dibattito al Congresso sull’alleanza USA-Israele,
chiedendo limitazioni agli aiuti militari USA e accogliendo le tattiche di
boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come strumenti per cambiare lo status
quo sul terreno.

“C’è una crescente apertura e volontà di parlare in modo molto più approfondito e
molto più imparziale riguardo alla realtà del conflitto israelo-palestinese”, ha
detto Logan Bayroff, portavoce di ‘J Street’, il gruppo di pressione ebreo-
americano filoisraeliano. “Si è aperto uno spazio molto più ampio negli ultimi 10
anni e soprattutto negli ultimi quattro, sotto l’amministrazione Trump.”

Questa evoluzione non è casuale. Il netto cambiamento nel dibattito statunitense
su Israele e Palestina è il risultato di cambiamenti da tempo in gestazione
nell’ideologia del partito, di una serie di clamorosi eventi in Israele e negli USA e
della tenace organizzazione condotta da palestinesi americani che ha messo a
profitto queste tendenze. Il risultato di tutto ciò? Un vivace dibattito sul futuro
delle relazioni tra USA e Israele che non mostra segni di spegnersi.

Lo Stato ebraico non è estraneo alle politiche di Washington. Anche prima che il
Presidente Harry Truman riconoscesse Israele nel 1948, gli ebrei americani
stavano al Campidoglio, facendo pressione su Truman perché appoggiasse la
trasformazione della Palestina, allora a maggioranza araba, in uno Stato ebraico.

Durante molti dei 70 anni trascorsi da allora, la discussione su Israele a
Washington si è incentrata su come meglio proteggere lo Stato ebraico dai suoi
ostili vicini.

Vi sono state occasionali interruzioni dello status quo. All’inizio degli anni ’80 il
Presidente Ronald Reagan ha sospeso l’invio di aerei da combattimento ad Israele
dopo il bombardamento di un reattore nucleare iracheno ed ha proibito
l’esportazione di bombe a grappolo dopo che Israele le ha sganciate sul Libano
durante la prima guerra israeliana in quel Paese. Nel 1992 il Presidente George
H. W. Bush ha rifiutato di approvare la concessione di crediti a Israele finché non
avesse smesso di costruire colonie su terra palestinese in Cisgiordania e a Gaza.

Questi occasionali cambiamenti nella posizione politica americana riguardo a
Israele non hanno comunque compromesso l’alleanza di ferro tra USA ed Israele.
E alla fine queste fratture nella discussione sullo status quo si sono spente.

Tuttavia la polarizzazione della politica di Washington negli ultimi anni ha aperto
la strada all’attuale contrapposizione su Israele. Il partito repubblicano è
diventato più bianco, più vecchio e più ricco. L’influenza dei cristiani evangelici di
destra sul GOP [il partito repubblicano, ndtr.] è notevolmente aumentata,
spingendo molto a destra la politica del partito repubblicano su Israele. Il partito
democratico ha fatto maggior affidamento sulla gente di colore, sui giovani, sui
laici e sulle minoranze religiose. I sostenitori di entrambi i partiti si sono
coalizzati intorno a due visioni profondamente diverse su come l’America
dovrebbe comportarsi nel mondo. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno
provvisoriamente unito la dirigenza democratica e quella repubblicana per
promuovere la guerra all’Iraq, ma negli ambienti progressisti il sentimento contro
la guerra era forte. E con esso, vi era maggior attenzione verso la questione
palestinese, benché la Palestina a volte costituisse un argomento divisivo. Alcuni
progressisti non volevano collegare la Palestina all’Iraq, mentre quelli più
schierati a sinistra le vedevano come questioni interconnesse.

“Hanno incominciato a mettere in rapporto ciò che avveniva all’interno del Paese
e ciò che avveniva in Israele, perché Israele stava facendo quel collegamento
all’interno della sua campagna di hasbara (propaganda)”, ha detto Zaha Hassan,
una ricercatrice ospite al ‘Carnegie Endowment for International Peace’
[organizzazione no profit, che ha come missione la promozione della pace e la
cooperazione fra le Nazioni, ndtr.]. “Dicevano che la resistenza palestinese nei
territori occupati non era diversa dai movimenti islamici estremisti in Medio
Oriente. I liberal e i progressisti negli Stati Uniti hanno incominciato a chiedersi
se i valori sostenuti dal loro movimento potessero coerentemente continuare ad
appoggiare Israele senza prendere in considerazione i diritti umani dei
palestinesi.”

Era normale, nelle proteste contro la guerra in Iraq, vedere le bandiere
palestinesi, sentire lo slogan “Dall’Iraq alla Palestina, l’occupazione è un
crimine!”. Il legame tra la lotta contro l’imperialismo USA e la Palestina ricordava
la fine degli anni ’60, quando i militanti del Black Power proposero una
prospettiva internazionalista che collegava la lotta dei neri negli USA alle lotte
anticoloniali in tutto il mondo, compresa la Palestina. Nell’era post 11 settembre,
come alla fine degli anni ’60, le divisioni nelle strade riguardo a Israele-Palestina
non si sono tradotte in una rottura nel consenso di Washington su Israele. Invece
si è dovuti arrivare agli anni di Obama perché lo scetticismo su Israele giungesse
al cuore del dibattito nel distretto di Washington.

L’elezione alla presidenza di Barack Obama è giunta come uno shock in un Paese
abituato ad avere un bianco insediato alla Casa Bianca. Egli ha anche promesso di
chiudere con le guerre dell’era Bush e di ricucire le relazioni con il mondo arabo e
musulmano dopo l’11 settembre, una promessa che ha cercato di onorare
compiendo la sua prima visita oltremare in Medio Oriente. Là, ha promesso una
nuova era nella politica USA.

Una delle aree di quella nuova politica era Israele-Palestina. Dopo essersi
insediato nel gennaio 2009, egli [Obama] ha telefonato al presidente dell’Autorità
Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas prima che al primo ministro israeliano
Ehud Olmert, che presto avrebbe lasciato l’incarico per uno scandalo, sostituito
da Benjamin Netanyahu. Nel suo viaggio in Medio Oriente, Obama non è atterrato
in Israele, ma al Cairo, dove ha criticato la violenza palestinese, ma ha chiesto a
Israele che smettesse di costruire colonie e che affrontasse la crisi umanitaria di
Gaza.

Snobbato da Netanyahu, il cui governo ha continuato a costruire colonie
israeliane, Obama non ha mai dato seguito alle sue richieste con dei fatti. Ma
l’appello di Obama per un congelamento delle colonie, accanto alla fredda
risposta di Netanyahu, ha gettato le basi per quella che sarebbe diventata una
relazione avvelenata tra Obama e Netanyahu.

Queste tensioni hanno raggiunto un picco nel 2013 con il dibattito sull’accordo
nucleare iraniano. La decisione di Obama di negoziare un accordo con l’Iran ha
fatto venire un colpo a Netanyahu ed ai suoi alleati repubblicani. Ai loro occhi,
l’accordo avrebbe consentito all’Iran di entrare nell’economia globale senza fare
niente per limitare i suoi finanziamenti a gruppi di militanti ostili alla politica USA
nella regione. Per Netanyahu, avrebbe anche compromesso il ruolo dell’Iran come
elemento di distrazione dalla questione palestinese.

Il partito Repubblicano ha invitato Netanyahu a tenere un discorso al Congresso
per cercare di impedire l’accordo. Questo ha provocato un impressionante scontro
politico tra Obama, lo storico presidente amato dalla base del suo partito, da un
lato, e il partito Repubblicano ed Israele dall’altro, accentuando la
contrapposizione riguardo allo Stato ebraico.

“I repubblicani pensavano che Netanyahu fosse il leader più importante al mondo
in quel momento – persino più di Reagan. È diventato una star, come se fosse il
guru del partito repubblicano”, ha detto Shibley Telhami, docente all’università
del Maryland e professore associato ospite presso la ‘Brookings Institution’
[importante gruppo di ricerca americano indipendente, ndtr.]. Per i democratici
era l’esatto opposto. Ciò ha avuto un grande impatto.”

Telhami, un sondaggista, ha osservato queste ripercussioni in una inchiesta che
ha condotto nel dicembre 2015: i sondaggi contrari a Netanyahu tra i democratici
sono saliti dal 22% al 34%. Il 13% dei repubblicani non vedeva di buon’occhio il
leader israeliano, mentre il 51% gli era favorevole.

Quando Netanyahu è arrivato a Washington nel marzo 2015 per opporsi
all’accordo con l’Iran, 58 democratici e indipendenti alleati dei democratici hanno
boicottato il suo intervento.
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