Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare: un'introduzione critica

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Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009, pagg. 395-429                          GruppoMontepaschi

      Invecchiamento della popolazione, mercato
     del lavoro e welfare: un’introduzione critica*
                                     SERGIO CESARATTO**
    This paper introduces the main topics discussed by the various contributions
    to this special issue of the journal on the impact of the ageing process on the
    labour market, pensions, health, long term care, and genders. After a quick
    look at the ageing process at the global level, the paper considers the impact
    of ageing on the labour market, in theory and in practice, with a particular
    concern for Italy. It then critically illustrates the two main pension reforms
    endeavoured in Italy in view of the ageing process. First the paper illustrates
    the various obstacles to the creation of a fully funded scheme and critically
    weigh up the attempt to set it up done in Italy in 2007 by employing the TFR
    (severance pay). The transformation of the Italian pay-as-you-go scheme in
    1992-1995 from a defined benefit in a notional defined contribution scheme
    is appraised next. The paper concludes by viewing the ageing problem as a
    political issue regarding income distribution among social groups and not
    one of inter-generational conflict.
                                                        (J.E.L.: B51, H55, J11, J21)

Premessa
    Nei prossimi decenni il pianeta si troverà progressivamente a fronteggia-
re il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione. Ciò non deve far
dimenticare che la popolazione mondiale è destinata nel prossimo secolo
ancora a crescere in maniera drammatica: dai 6,5 miliardi di individui attua-
li verso un ordine di 9/10 miliardi a fine secolo, secondo la previsione cen-
trale delle Nazioni Unite (NU). Quelli demografici si aggiungono agli altri
grandi problemi dell’umanità, le disuguaglianze, i cambiamenti climatici, i
conflitti. L’invecchiamento della popolazione ha in prima istanza più a che
vedere con il calo della natalità, e solo in seconda con l’aumento delle spe-
ranze di vita. Entrambi sono eventi positivi: il calo della natalità in quanto fa
presagire un limite, sebbene ancora lontano, all’accrescimento della popola-

* Articolo approvato nel mese di agosto 2009.
** Dipartimento di Economia politica, Università degli studi di Siena. E-mail: Cesaratto@unisi.it.
Questa introduzione si basa su una lunga serie di lavori dell’autore, debitamente citati nel testo, sui temi
qui in discussione.
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zione; l’aumento delle speranze di vita può difficilmente essere giudicato
negativamente. Come tutti i grandi problemi dell’umanità, l’invecchiamento
sarebbe in via di principio affrontabile in via razionale, ma come ben sappia-
mo ciò accade solo raramente in quanto la soluzione di questo, come degli
altri problemi sopra menzionati, implica una redistribuzione delle risorse su
cui non v’è consenso all’interno dei Paesi e fra Paesi.
    L’Italia è fra i Paesi dove il processo di invecchiamento è più avanzato,
ma questo fatto sembrerebbe affrontato nel dibattito politico-economico più
in negativo – come problema di frenare la spesa – che in positivo, come sfida
a costruire una società che, tenuto conto della sua nuova struttura demografi-
ca, coniughi efficienza con giustizia sociale nel mercato del lavoro, sistema
pensionistico, sanità e welfare, fra i generi. I contributi a questo numero di
Studi e Note di Economia intendono concorrere, in una vitale pluralità di
vedute, a un dibattito costruttivo in questa seconda direzione. Questa intro-
duzione ha il compito di delineare la problematica complessiva entro cui essi
si collocano.

1. I mutamenti demografici globali
    Semplificando, appare assodato che nel corso della propria storia – in un
momento che possiamo in prima approssimazione associare all’inizio dello
sviluppo economico moderno – tutti i Paesi cominciano ad attraversare una
fase di calo della mortalità infantile seguita da un calo progressivo della nata-
lità. Le speranze di vita in età infantile si accrescono, mentre solo più recen-
temente nei Paesi più sviluppati esse si estendono alle età più avanzate, in
seguito ai progressi della medicina. Questo fenomeno è denominato dai
demografi “transizione demografica” (TD), o “prima transizione demografi-
ca” per distinguerla dalla più recente e controversa “seconda transizione
demografica”1. Le diverse aree del globo si distinguono per lo stadio a cui la
TD è giunta (v. Cesaratto 2005, cap.8; 2006b; 2006c; 2006g):
    La TD è cominciata per prima nei Paesi più sviluppati sin dal secolo XIX2.
Ovunque il tasso di fertilità totale – il numero medio di figli per donna – si è

1  La seconda TD riguarderebbe la crisi della famiglia tradizionale, con possibili effetti negativi sulla ferti-
lità. I critici della seconda transizione demografica segnalano tuttavia come nel nord Europa la crisi della
famiglia tradizionale si associ a una più elevata fertilità, all’opposto dei Paesi mediterranei, suggerendo che
siano altri fattori a incidere negativamente sulla natalità (v. Vienna Yearbook of Population Research, 2004).
2 Il fenomeno del baby-boom è un episodio di ripresa della fertilità nell’ambito del trend decrescente della
TD. Rimane tuttavia a testimoniare le sorprese che gli andamenti demografici possono presentare.
Secondo la “ipotesi di Easterlin” (Easterlin 1968, Macunovich 1998, 2002), il baby-boom fu il risultato
dell’ingresso nel mercato del lavoro nel primo dopoguerra di una coorte di giovani lavoratori maschi rela-
tivamente ristretta, e con limitate aspirazioni economiche – avendo vissuto le proprie esperienze famigliari
nella depressione degli anni Trenta (Easterlin, 1987, p. 83). Secondo questo autore la crescita della doman-
da aggregata nel dopoguerra avrebbe positivamente influito sul reddito di quella generazione (Easterlin,
1968, p. 11). L’ottimismo delle aspettative avrebbe positivamente influenzato le scelte riproduttive. Il
baby-boom avrebbe generato a sua volta forti investimenti nello sviluppo di opere di urbanizzazione, sti-
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collocato o è sceso sotto 2,1, il cosiddetto tasso di sostituzione (replacement
rate) al quale la popolazione rimane costante. In aggiunta, il miglioramento
delle condizioni sanitarie, degli stili di vita e, più recentemente, il progresso
in campo medico – per esempio in campo cardiologico – hanno determinato
un progressivo allungamento delle speranze di vita. Vi sono, tuttavia, impor-
tanti differenze fra Paesi:
(i) in taluni di questi la TD ha raggiunto uno stadio assai avanzato con un
tasso di fertilità sceso a livelli assai bassi: è questo il caso di Italia, Spagna,
Giappone, Germania e dei Paesi dell’est europeo;
(ii) in altri Paesi europei, come Francia, Regno Unito, Paesi scandinavi, il
tasso di fertilità si colloca non troppo al di sotto del tasso di sostituzione;
(iii) negli Stati Uniti, Canada, Oceania, il tasso di fertilità si colloca appros-
simativamente al livello del tasso di sostituzione.
    Queste differenze implicano che il processo di invecchiamento della
popolazione, pur comune, non si presenta con la medesima intensità. Le
migrazioni non sono ritenute tali da arrestare o persino ridimensionare
sostanzialmente i fenomeni di invecchiamento, sebbene naturalmente contri-
buiscano marginalmente ad attenuarli, a meno che assumano proporzioni
enormi (UN 2001; Cesaratto 2006g, sez. 3; Bloom et al., 2009, p. 18). Le
ripercussioni politiche favorevoli ai partiti più conservatori sono invece
significative. Con riguardo ai Paesi meno sviluppati si può notare come:
(iv) numerose economie emergenti sono in uno stadio avanzato della transi-
zione demografica, in particolare la Cina;
(v) le economie in ritardo sono quelle dove la transizione demografica è più
lenta, sebbene sia in genere avviata.
    Le implicazioni del processo di invecchiamento sono molteplici, dagli
effetti sul mercato del lavoro a quelli sulla sostenibilità dei sistemi pensioni-
stici. Evidentemente tali problemi non si pongono nella medesima maniera
nelle diverse aree. Nei Paesi meno sviluppati il calo della mortalità infantile
con tassi di fertilità ancora relativamente elevati comporta un’abbondanza di
forze di lavoro giovani, il cosiddetto “bonus demografico”, o “finestra demo-
grafica”. In Paesi emergenti dove, come in Cina, la TD è a uno stadio avan-
zato, forze di lavoro giovani sono rese comunque disponibili per il settore
moderno da un ampio settore arretrato dell’economia. Per i Paesi più avan-
zati, in cui gli effetti della “finestra demografica” e del baby-boom si vanno
esaurendo, si paventa invece la prospettiva di una “scarsità di lavoro” (labour
shortage) che, secondo l’opinione prevalente, oltre a incidere direttamente
sui tassi di crescita metterebbe anche in difficoltà i sistemi pensionistici pub-
blici a ripartizione. Cosa suggerisce la teoria economica al riguardo?

2. Popolazione e sviluppo economico
   In un celebre passo dell’Introduzione a Per la critica dell’economia poli-
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tica Marx (1859, p. 1161) suggerisce che per quanto possa sembrare natura-
le per l’analisi economica cominciare dalla popolazione, questo ci portereb-
be solo ad una “rappresentazione caotica dell’insieme”. Si tratta invece di
risalire dapprima a rappresentazioni economiche astratte più semplici per poi
“intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare di nuovo alla
popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un
insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e rela-
zioni”.
    Cosa ci suggeriscono dunque le relazioni “astratte” della teoria economi-
ca a proposito della relazione fra popolazione e sviluppo economico? Siamo
di fronte a due impostazioni (Cesaratto 2005, cap. 8; 2006g). La prima è
basata sulla tradizionale teoria marginalista, mentre la seconda risale agli
economisti classici (con la significativa eccezione di Malthus), a Marx e a
Kalecki. Semplificando molto, mentre in quest’ultima è la domanda di lavo-
ro a generare la propria offerta, nella teoria tradizionale è la domanda di lavo-
ro ad adeguarsi all’offerta, data una sufficiente flessibilità del salario reale.

    2.1. L’impostazione neoclassica
    Per fissare le idee consideriamo la seguente equazione derivata dall’equa-
zione fondamentale del modello di crescita di Solow (Cutler et al., 1990,
p.17):
c p = α[ f ( k ) − nk ]                                           [1]
dove c p = C / P rappresenta il consumo pro-capite medio dell’intera popo-
lazione, α = N P è il rapporto fra occupati e popolazione, n è il saggio di

mine f (k ) − nk rappresenta, com’è noto, ciò che rimane del prodotto per
crescita delle forze di lavoro, e k è il rapporto medio capitale-lavoro. Il ter-

occupato una volta sottratto ciò che necessita per assegnare ai nuovi lavora-
tori la dotazione media di capitale3. Si osservi che il termine α aumenta (o
diminuisce) quando il tasso di crescita della forza lavoro n è superiore (infe-
riore) al tasso di crescita della popolazione p, dunque a seconda del segno di
n – p.
    Sulla base dell’equazione [1] un valore di n relativamente elevato, quale
si è verificato negli anni successivi al baby boom nei Paesi industrializzati

molando a sua volta la domanda aggregata (Easterlin 1968, p. 12). La combinazione di tali circostanze non
si riprodusse nel corso degli anni Sessanta e successivamente. Anche Barba (2008, pp. 86-90) mette in luce
l’influenza negativa sulla natalità in Italia in seguito ai mutamenti recenti nella distribuzione del reddito a
sfavore delle classi lavoratrici.
3 La derivazione dal modello di Solow è la seguente: l’equazione sf(k) = nk+∆k / dt esprime, com’è noto,
l’idea che l’offerta di risparmio per occupato, trascurando il rimpiazzo del capitale logorato, può esser
destinata a dotare i nuovi lavoratori del rapporto medio capitale-lavoro (capital-widening), e ad accresce-
re la dotazione media di capitale (capital-deepening). Nell’equilibrio di ‘steady state’ ∆k / dt=0, e dunque
sf(k)=nk. Sottraendo f(k) da entrambi i lati si ottiene: c = f(k) – nk, dove c = C/N è il consumo pro-capi-
te dei lavoratori. Moltiplicando entrambi i lati per N/P si ottiene C/P = N/P [f(k)- nk] cioè la [1].
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare...             399

oppure si può verificare in seguito alla “finestra demografica” nei Paesi in via
di sviluppo, ha due effetti contrastanti sui consumi pro-capite attraverso sia
un aumento di α che di nk. In altri termini, mentre da un lato si accresce la
quota di lavoratori sul totale della popolazione aumentando il reddito pro-
capite, dall’altro aumenta la quota di risparmio da destinarsi ad attrezzare i
nuovi lavoratori della dotazione media di capitale per addetto (Manson 2003,
p. 23). Tuttavia, la quota crescente di popolazione in età lavorativa potrebbe
comportare una più elevata propensione marginale al risparmio che fa in
modo che, nel complesso, la dotazione media di capitale possa aumentare
(Bloom e Canning 2004, p. 11). La predizione è così che una “finestra demo-
grafica”, il mutamento nella composizione della popolazione a favore della
popolazione in età lavorativa, risulti di stimolo alla crescita tanto del capita-
le che dei consumi pro-capite4. Ciò verrebbe confermato dall’esperienza dei
Paesi dell’Asia dell’est in cui la flessibilità nel mercato del lavoro e l’incen-
tivo al risparmio dovuto all’assenza di sistemi pensionistici pubblici avreb-
bero favorito il dispiegarsi del bonus demografico, a differenza dell’America
Latina (Bloom e Canning 2004, pp. 24-25; Manson, 2005, pp. 2-3).
L’equazione [1] suggerisce anche che un tasso di crescita della popolazione
n relativamente basso, da un lato riduce l’assorbimento di risparmio necessa-
rio per dotare i nuovi lavoratori del capitale medio per addetto consentendo
così un accrescimento del reddito pro-capite, ma, d’altro canto, ladiminuzio-
ne di α implica una contrazione della quota attiva della popolazione.
    Nelle rispettive previsioni, la Commissione Europea e, in Italia, la
Ragioneria Generale del Tesoro (RGS 2008) e Cnel-Cer (2009) utilizzano
questa impostazione teorica, in cui è l’offerta dei “fattori produttivi” a deter-
minare la crescita. Ad esempio, la RGS stima l’evoluzione del prodotto pro-
capite sulla base dell’andamento della “produttività totale dei fattori” e del
rapporto atteso capitale-lavoro, il quale diminuirebbe in seguito alla crescen-
te “scarsità relativa” del “fattore lavoro” (RGS, 2008, p. 2 e pp. 7-8). Si trat-
ta, tuttavia, di concetti che parte della professione respinge, sebbene sulla
base di una varietà di considerazioni analitiche5. Maggiore “neutralità scien-
tifica” soprattutto da parte delle istituzioni pubbliche sarebbe opportuna.

4 L’interazione fra fertilità, mortalità (e immigrazione) con la struttura per età della popolazione è
approfondita da Bloom et al. (2009). Il quesito che questi autori si pongono è quale sia il tasso di fertilità
che massimizza la quota di popolazione in età lavorativa (data la mortalità), nell’ipotesi neoclassica che
ciò comporti anche massimizzare la quota di popolazione occupata. Le conclusioni sono che nel breve
periodo la diminuzione della fertilità ha effetti positivi in quanto fa cadere la quota di popolazione in età
infantile. Nel lungo periodo, oltre una certa soglia, un ulteriore declino della fertilità ha effetti negativi.
Gli autori osservano che il tasso di fertilità che massimizza la quota di popolazione in età lavorativa non
coincide con il tasso di natività ottimo, in quanto un tasso di crescita della popolazione “troppo alto” inci-
de negativamente sulla crescita “annacquando” il capitale. Guardando l’equazione [1], un aumento di n ha
infatti un effetto positivo su α, ma negativo sul termine in parentesi. Sul dibattito sul tasso ottimo di cre-
scita della popolazione v. Sunna (2004).
5 Le preferenze di chi scrive vanno alle argomentazioni di Garegnani (1983) in cui centrali sono le criti-
che in tema di teoria del capitale.
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    2.2. L’impostazione classico-kaleckiana
    Il concetto di abbondanza (o scarsità) della popolazione è in Marx “rela-
tivo” alle circostanze storico-economiche. Un Paese arretrato, ad esempio,
potrebbe non essere sovrappopolato relativamente alla produzione agricola di
sussistenza lì prevalente. Una sovrappopolazione può invece emergere qua-
lora cominci a formarsi un settore moderno, relativamente a quest’ultimo, al
cui sviluppo essa diventa funzionale. In tal modo la “sovrappopolazione”
diventa un concetto economico e non pertinente ad autonome leggi demo-
grafiche che acquisiscono invece significato solo alla luce delle circostanze
storico-economiche. Secondo tale impostazione è ad esempio l’offerta di
lavoro ad adeguarsi, in generale, alle necessità dell’accumulazione capitali-
stica, sebbene non necessariamente attraverso variazioni della fertilità, trop-
po di lungo periodo, ma attraverso la mobilitazione delle forze di lavoro dai
settori arretrati, le migrazioni, ecc.
    Rinviando ad altri testi per una analisi della teoria della popolazione degli
economisti classici (Stirati 1994, cap. 4), è rilevante richiamare qui il con-
cetto di Esercito Industriale di Riserva (EIR) di Marx (1867, cap. 23).
Secondo Marx solo l’esistenza di un cospicuo EIR costituito dai lavoratori
disoccupati e dalle fasce marginali del mercato del lavoro (donne, invalidi,
anziani ecc.) assicura un ordinato sviluppo capitalistico, cioè uno sviluppo
non disturbato da una eccessiva forza contrattuale della classe lavoratrice.
Marx ritiene che i movimenti demografici possano essere insufficienti a
garantire l’esistenza dell’EIR. Fattori economici quali il rallentamento del
ritmo dell’accumulazione o innovazioni risparmiatrici di lavoro contribui-
scono a garantirne la persistenza. Questa impostazione è ripresa da Michal
Kalecki (1943) in un noto saggio che rileva il ruolo della politica economica
nell’assicurare la permanenza dell’EIR. Le politiche di pieno impiego sareb-
bero, secondo questa impostazione, l’eccezione piuttosto che la regola in
quanto adottate solo in circostanze storiche particolari, quali quelle della
guerra fredda (Pivetti 2004).
    Con riguardo al citato “bonus demografico” nei Paesi meno sviluppati
relativo alla seconda fase della transizione demografica, l’approccio classico-
kaleckiana non obietterebbe che l’abbondanza di forza lavoro possa essere un
presupposto per l’accumulazione, secondo la lezione di Lewis (1954), senza
esserne tuttavia causa ultima.
    Da un punto di vista classico la “scarsità di lavoro” che si potrebbe veri-
ficare nei Paesi più industrializzati è dunque un concetto relativo: relativo
cioè alla domanda di lavoro. Quest’ultima potrebbe diminuire a sua volta: a)
per la necessità di mantenere un EIR; b) per il dislocamento delle produzio-
ni nei Paesi a più basso costo del lavoro (anche se la bassa domanda interna
nei Paesi più avanzati potrebbe incidere negativamente anche sulla domanda
di merci da quei Paesi in una processo di deflazione globale). È naturalmen-
te difficile avanzare previsioni.
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare...   401

3. Mutamenti demografici e mercato del lavoro in Italia
    3.1. Invecchiamento e mercato del lavoro in Italia
    È importante cominciare con l’osservare che il nostro Paese non sembra
soffrire né correntemente né nell’immediato futuro di scarsità di lavoro, dati
i ben noti bassi tassi di attività e di occupazione che lo caratterizzano, in par-
ticolare femminili, giovanili e nel Mezzogiorno. Questo non è naturalmente
in contrasto con i forti flussi migratori recenti volti a ricoprire mansioni rite-
nute non più appetibili, per ragioni diverse, dai disoccupati e inoccupati
nostrali (De Sarno, Prignano e Natale 2003). Non va d’altro canto escluso che
proprio la disponibilità dei flussi migratori abbia condotto a un deteriora-
mento, o mancato miglioramento, delle condizioni materiali e salariali di
lavoro, sì da allontanare gli italiani da molte occupazioni. Attualmente dun-
que, pur in presenza di un significativo restringimento delle coorti più giova-
ni, le generazioni del baby boom, che sono ancora nel mercato del lavoro e
proprio nelle fasce di età a maggiore partecipazione, soddisfano ampiamente
le necessità del mercato del lavoro (Gesano, 2005, 11-12). Nei decenni futu-
ri, tuttavia, la situazione sembrerebbe poter mutare significativamente in
quanto la “presenza numerosa nelle età centrali [...] è destinata ad esaurirsi
prima di 15-20 anni da oggi, quando quelle stesse generazioni più ampie arri-
veranno in prossimità delle età di uscita dal mercato del lavoro. Nel frattem-
po, le generazioni scarne del baby bust entreranno nelle fasce di età più atti-
ve, ma il loro contributo all’offerta complessiva di forza lavoro verrà limita-
to dalla loro stessa dimensione, per quanto elevati o eventualmente crescenti
(specie per le donne), potranno essere i relativi tassi di partecipazione”
(ibid.).
    In questo volume Maurizio Zenezini si occupa proprio dell’impatto dei
processi di invecchiamento nel mercato del lavoro, inclusi gli effetti contro-
versi dell’invecchiamento sulla produttività, mentre le problematiche di
genere del mercato del lavoro in relazione alla previdenza e al welfare sono
illustrate da Alessandra Casarico e Paola Profeta. Richiamiamo qui l’atten-
zione sulle proiezioni relative al mercato del lavoro tratte dalla Relazione
della RGS (2008) sulle tendenze del sistema pensionistico. La base demo-
grafica è data dallo scenario centrale previsionale dell’ISTAT pubblicato nel
2008 nel quale si prevede una immigrazione netta fra il 2005 e 2060 dell’or-
dine di 200 mila unità all’anno, un tasso di fecondità che cresce progressiva-
mente da 1,3 a 1,6 a fine periodo, e una speranza di vita che aumenta pro-
gressivamente da 78,1 a 85,5 per i maschi e da 83,7 a 90,3 per le femmine.
Con queste ipotesi demografiche, la prima riga della tab. 1 mostra come la
popolazione in età lavorativa (15-64 anni) scemi fra il 2007 e fine periodo di
circa il 15%. Al tasso di attività riscontrato per il 2007, la seconda riga mostra
come ciò si rifletterebbe in una diminuzione significative delle forze di lavo-
ro già a partire dal 2030. Naturalmente è plausibile ritenere che i tassi di atti-
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vità siano destinati ad accrescersi, soprattutto per una maggiore partecipazio-
ne femminile al mercato del lavoro e per l’accrescimento dei tassi di attività
dei lavoratori anziani6. La RGS stima che il tasso di attività si accresca pro-
gressivamente di quasi 8 punti percentuali fra il 2007 e il 2050 (da 62,5% a
70,1%) dovuti ad un progressivo aumento del tasso di attività maschile di
circa 4 punti, in seguito alle riforme pensionistiche (v. sottoparagr. 4.2) e,
soprattutto, femminile per circa 11 punti, in seguito all’aumento dei livelli
medi di istruzione che indicono maggiori tassi di partecipazione.
    Il numero di assunzioni in questi esercizi previsionali è assai ampio come
dimostra un confronto fra le previsioni centrali del Rapporto RGS 2007 con
quello 2008, riportato sempre nella Tab. 1, in cui una ipotesi più generosa sui
flussi migratori (da un ordine di 150 mila unità a 200 mila) mitiga significa-
tivamente gli effetti dei mutamenti demografici sul mercato del lavoro7. Le
proiezioni offrono dunque solo ordini di grandezza su cui ragionare. Sulla
base dello scenario RGS una “scarsità di lavoro” non compare che nel lun-
ghissimo periodo, e forze di lavoro sarebbero dunque approssimativamente
sufficienti, nonostante il calo della popolazione in età lavorativa di 6 milioni
di individui, a mantenere i livelli di occupazione nei prossimi decenni ai
livelli correnti (fra 22 e 23 milioni di occupati) con un tasso di disoccupazio-
ne che scenderebbe progressivamente verso il 4,5% e un tasso di occupazio-
ne che crescerebbe dal 58,7% del 2007 verso valori vicini al 65% nei prossi-
mi decenni. Come nota Barba (2008, p. 75) le ipotesi della RGS non sono
particolarmente ottimistiche con riguardo ai tassi di occupazione: solo fra
trenta o quarant’anni il Paese si avvicinerebbe alla media europea dei tassi di
occupazione. Questo verrebbe giustificato con l’incompatibilità fra l’obietti-
vo della ripresa della natalità e quello della maggiore partecipazione femmi-
nile al mercato del lavoro, incompatibilità che però non appare presente nel-
l’esperienza di molti Paesi d’oltralpe (per dei riferimenti alla letteratura su
questo punto controverso v. Bloom et al. 2009, p. 18).
    Non abbiamo, soprattutto, alcuna sicurezza che la domanda aggregata sarà
nel lungo periodo tale da assicurare livelli di occupazione analoghi o addirit-
tura superiori agli attuali, oltre che un sufficiente incontro fra composizione

6 Barba (2008, pp. 78-79) suggerisce che una fonte aggiuntiva di forza lavoro è costituita in Italia dagli
occupati nei settori a bassa produttività laddove questi accrescessero la propria efficienza. Non solo l’a-
gricoltura, ma anche il settore dei servizi ha tradizionalmente svolto in Italia il compito di spugna occu-
pazionale a bassa produttività. Questo è vero anche per settori di servizi “qualificati”, basti citare il caso
degli avvocati, 4 volte più numerosi in Italia che in Francia (Marchesi 2008). L’impiego degli studenti per
lavori estivi part-time è un’altra fonte di forza lavoro già ampiamente utilizzata all’estero.
7 Naturalmente la RGS (2008, cap. 5) svolge analisi di sensibilità sotto diverse ipotesi. Forse una mag-
giore rilevanza andrebbe attribuita dalle fonti istituzionali alla fragilità intrinseca dei dati presentati spre-
cando meno energie nel predisporre variazioni centesimali, fra una proiezione e l’altra, di tassi di fecon-
dità nei decenni a venire su cui non sappiamo assolutamente nulla. Per una considerazione critica degli
scenari Istat v. Barba (2008, pp. 68-70).
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              Tab. 1- Proiezioni della RGS relative a popolazione, forze di lavoro e occupati
            (valori assoluti espressi in milioni; variazioni percentuali calcolate rispetto al 2007)

                                                   2007            2010   2020      2030       2040       2050 2060
                                                (dato effettivo)

Popolazione in età attiva (15-64 anni)              39,0           39,6   39,1       37,7       34,8       33,4 33,0
Proiezioni 2008                                                     1,5    0,3       -3,3      -10,8      -14,4 -15,4
(per memoria proiez. 2007)                                         -1,0   -3,6       -9,0      -18,2      -23,1 nd
Forze di lavoro a tassi di attività costanti        24,7           25,0   24,2       22,5       21,2       20,6 20,3
Proiezioni 2008                                                     1,2   -2,0       -8,9      -14,2      -16,6 -17,8
(per memoria proiez. 2007)                                         -1,2   -6,1      -14,2      -21,1      -25,1 nd
Forze di lavoro                                     24,7           25,3   26,6       26,2       25,0       24,3 23,9
Proiezioni 2008                                                     2,4    7,7        6,1        1,2       -1,6 -3,2
(per memoria proiez. 2007)                                          1,2    3,2        0,0       -7,3      -11,7 nd
Occupati                                            23,2           23,2   24,9       24,9       23,8       23,2 22,9
Proiezioni 2008                                                     0,0    7,3        7,3        2,6        0,0 -1,3
(per memoria proiez. 2007)                                          1,7    3,9        0,9       -6,0      -10,3 nd
Ipotesi:
Tasso di natalità                                    1,3            1,4    1,5        1,6        1,6        1,6 1,6
                                                   [2005]
Flussi migratori netti (migliaia)                    261            265    195        196        196        197 198
                                                   [2005]
Tasso di partecipazione (15-64)                     62,5           62,9   66,3       67,3       68,8       70,1 69,9
Tasso di disoccupazione                              6,1            8,4    6,3        4,9        4,5        4,5 4,5
Tasso di occupazione                                58,7           57,5   62,1       63,9       65,7       66,8 66,7

Fonte: Ragioneria Generale dello Stato (2007), (2008).

       qualitativa e geografica di domanda e offerta di lavoro. Qui la nostra inter-
       pretazione delle determinanti dell’occupazione nel lungo periodo differisce
       assai da quella della RGS, come da quella del Cnel-Cer (2009)8.
          Sulla base di questi scenari, ogni allarme apparirebbe relativamente pre-
       maturo, sia rispetto al mercato del lavoro che alla sostenibilità dei sistemi di
       welfare: più plausibilmente il nostro Paese continuerà nei prossimi decenni a
       soffrire di scarsità di posti di lavoro – o di posti di lavoro dignitosamente
       remunerati – e non di braccia. E sono proprio i bassi tassi di occupazione che
       nel Paese rendono più gravoso il peso dello stato sociale. L’enfasi dei model-
       li previsionali sull’offerta di lavoro come determinante dell’occupazione
       appare in questa luce pericolosa e fuorviante relativamente al problema inso-
       luto dell’economia italiana e cioè la scarsità di occupazione, sia esso dovuto

       8 In particolare questi modelli previsionali assumono che l’occupazione sia determinata dall’offerta di
       lavoro (v. anche Barba 2008, p. 79), fatte determinate ipotesi circa il Nairu. Per un’analisi critica di que-
       sto modo di calcolare prodotto e occupazione potenziali v. Palumbo 2008.
404                          Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009

a questioni strutturali o agli orientamenti deflativi della politica macroecono-
mica europea (Cesaratto 2008, 2009).
    Nel lunghissimo periodo, a fronte della diminuzione delle forze di lavoro
e, a parità di domanda di lavoro, di elevati tassi di occupazione, i Paesi più
sviluppati si potranno trovare a fronteggiare una situazione in cui l’EIR si
contrae all’interno, pur restando ampio nei Paesi emergenti9. È possibile che
in economie tecnologicamente e istituzionalmente deboli come quella italia-
na ciò comporti tassi di crescita molto bassi e crescenti diseguaglianze con
una convergenza all’indietro nella direzione dei Paesi emergenti (Cesaratto
2006g; Barba 2008, p. 81). Più forte appare dunque la necessità per il Paese
di crescere di più ora, anche attraverso una più forte coesione politico-socia-
le, quando ancor ampie sono le disponibilità di forze di lavoro tenute disoc-
cupate o inoccupate, preparando così meglio il Paese alle sfide future. Un
forte patto sociale, sostenuto da marcate politiche di giustizia distributiva,
che anche assicurino il sostegno della domanda interna alla crescita, e un
forte impegno alla modernizzazione del Paese, nell’industria, nella ricerca,
nella tecnologia, nelle istituzioni inclusa la pubblica amministrazione,
potrebbero consentire al Paese di affrontare più serenamente questo futuro.
    3.2. Gli indici di dipendenza
    Esiti inquietanti per il nostro Paese derivano dall’esame dei tassi di dipen-
denza degli anziani, sia demografici (popolazione anziana su popolazione in
età lavorativa) che economici (popolazione anziana su occupati). La tab. 2
mostra come fra il 2003 e il 2050 uno studio dell’UE stimi per l’Italia un
aumento del 44% del tasso di dipendenza economico della popolazione
anziana, sicché nel 2050 vi sarebbe quasi un anziano sopra i 65 anni da man-
tenere per ogni lavoratore nella fascia 15-64. Risultati parzialmente più con-
solanti provengono, tuttavia, dal medesimo studio dalla considerazione del
tasso di dipendenza economico totale, cioè dal rapporto fra il complesso della
popolazione inattiva e la popolazione attiva od occupata. Sebbene infatti nel
lungo periodo la quota di popolazione anziana cresca in Italia e negli altri
Paesi in maniera cospicua a discapito della quota di popolazione adulta, due
altre componenti vanno a diminuire: la quota relativa ai più giovani e quella
relativa agli adulti inoccupati. La tab. 2 mostra come assumendo un accre-
scimento significativo dei tassi di partecipazione di lavoratori maturi e fem-

9 McDonald e Kippen (2001, p. 2) ritengono questa situazione inedita: “There is no prior experience of
falling labour supply over a long period of time in an advanced country”. Essi ritengono che sino ad anni
recenti è stato compito della politica economica di fronteggiare “’tight’ labour markets”, riducendo oppor-
tunamente i tassi di crescita economica. Ma, si domandano i due autori, “if a tight labour market derives
not from excess demand arising from ‘too’ rapid economic growth but from stagnation of or a sustained
fall in the supply of labour set to continue over decades, what policy approach is to be used?” (ibid., pp.
3-4). Un’inquietante risposta è: attraverso una ulteriore diminuzione dei tassi di crescita.
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare...         405

          Tab. 2 - Proiezioni UE sui tassi di dipendenza economici degli anziani e totale.

                    Tasso di dipendenza economico                Tasso di dipendenza economico totale (2)
                    della popolazione anziana (1)
                                                  variazione                                      variazione
                                                      %                                                %

Paesi             2003        2025        2050     2003-50       2003       2025        2050       2003-50
Germania            39         50          69          30        127         117         135          9
Francia             39         53          66          27        144         146         156         12
Italia              49         60          93          44        162         149         179         17
Olanda              27         41          51          24        101         107         114         13
Spagna              40         45          88          48        144         118         162         18
Regno Unito         32         42          57          25        113         114         128         14
UE 15               38         49          70          32        132         126         145         13
UE 10               34         45          73          39        159         124         158         -1
Note: (1) Popolazione non attiva sopra i 65 anni su popolazione occupata (15-64). (2) Popolazione
non occupata su popolazione occupata (15-64). Fonte: Carone et al. 2005.

   minili, il tasso di dipendenza economico totale si accresca per l’Italia del
   17%, assai meno di quello degli anziani e in misura appena superiore a quel-
   lo dell’UE a 15. Nel 2025 tale indice verrebbe addirittura a diminuire. A risul-
   tati analoghi perviene uno studio dell’Ocse (Burnieaux et al. 2003).
       Due problemi vanno evidenziati a questo proposito:
       (i) il concetto di tassi di dipendenza totali andrebbe esteso alla considera-
   zione dei costi relativi del mantenimento di un ragazzo, di un adulto inoccu-
   pato, di un anziano e soprattutto di un ultra-anziano, che non sono probabil-
   mente equivalenti. In genere si ritiene che siano i giovanissimi a costare
   meno, ma le stime non sono semplici (Denton e Spencer 1999);
       (ii) in secondo luogo i canali di sostegno delle diverse categorie di sog-
   getti dipendenti non sono le medesime. Come sostiene Concialdi (2003, p. 4):

        “The main question is not the level of transfers from workers to ‘non workers’
        since these transfers will not increase dramatically; it concerns the organisa-
        tion of these transfers and, in particular, the respective shares of public and
        private transfers needed to support the whole economically dependent popu-
        lation.” (cfr. anche Concialdi 2006).

       In altri termini, mentre i pensionati sono sostenuti attraverso trasferimen-
   ti pubblici finanziati con l’imposizione fiscale/contributiva, il sostegno dei
   giovanissimi e quello degli adulti inoccupati passa sia per canali privati (la
   famiglia) che pubblici (per esempio l’istruzione pubblica e i sussidi di disoc-
   cupazione). Ciò che accadrà, dunque, è che si accrescerà il prelievo previ-
   denziale sugli occupati che al contempo, tuttavia, vedranno scemare il trasfe-
406                           Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009

rimento privato di reddito sia alla progenie che alla componente femminile a
carico. L’aumento del carico contributivo potrebbe, tuttavia, risultare indige-
sto seppur compensato dal calo dei trasferimenti privati e di altri prelievi
fiscali.

4. Le riforme pensionistiche fra presente e futuro
   Gli anni novanta del secolo scorso sono stati la stagione dell’idea della
sostituzione dei sistemi pensionistici a ripartizione con quelli a capitalizza-
zione. Successivamente si è affermata l’idea di riformare i sistemi a riparti-
zione lungo le linee dei “sistemi a contribuzione definita virtuale” (notional
defined contribution schemes, NDC), come accaduto in Italia (1995), Svezia
(1998) e in altri Paesi.

      4.1. Le riforme a capitalizzazione

4.1.1. Dalla ripartizione alla capitalizzazione
    Perché le riforme volte a sostituire i sistemi a ripartizione con la capita-
lizzazione hanno perso popolarità? Dal punto di vista empirico il successo o
meno di tali riforme, sia nell’assicurare pensioni decenti che nel favorire la
crescita economica, è assai controverso, come testimoniato dal caso della più
famosa, quella cilena del 1981 (de Mesa e Mesa-Lago 2006)10. Dal punto di
vista analitico è cresciuta la consapevolezza delle difficoltà della transizione
dalla ripartizione alla capitalizzazione.
    Le ragioni analitiche a favore di queste riforme sono da ricercarsi soprat-
tutto nella teoria neoclassica dominante (v. Cesaratto 2005, cap. 3)11.
Secondo tale impostazione un aumento dei risparmi destinati al motivo pre-
videnziale arrecherebbe un duplice beneficio: (i) dal punto di vista indivi-
duale ciascun lavoratore accumulerebbe più risorse da consumare in vec-
chiaia senza pesare sulla comunità; (ii) dal punto di vista collettivo i maggiori
risparmi si tradurrebbero, dato lo stock di lavoro, in un aumento della dota-
zione di capitale per lavoratore e dunque in un maggior prodotto pro-capite.
Per essere creato, un sistema a capitalizzazione richiede che una prima gene-
razione effettui un risparmio netto e che questo si traduca, attraverso il siste-

10 È controverso infatti se la riforma cilena abbia assicurato pensioni dignitose e se abbia favorito la buona
crescita di quel Paese (v. Barr e Diamond, 2008, capp. 12 e 13). Quest’ultima potrebbe più plausibilmen-
te aver avuto altre cause, in particolare un buon andamento delle esportazioni, il tutto favorito da una sta-
bilità macroeconomica aiutata dal controllo degli afflussi di capitale a breve termine – smentendo così che
siano state misure liberiste, o la riforma pensionistica, a sostenere lo sviluppo (Cesaratto 2005, pp. 161-
162).
11 Per una visione “classica” simpatetica al passaggio alla capitalizzazione v. Michl e Foley (2005), e lo
scambio fra Cesaratto (2006) e Michl (2006) che ne è seguito.
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare...          407

ma finanziario, in investimenti netti12. La prima generazione diventa così
proprietaria, attraverso i fondi pensione che acquistano titoli emessi dalle
imprese, di parte del capitale sociale. Quando questa generazione diventa
anziana venderà la propria dote ai “giovani”. In tal modo la generazione
anziana, che non ha reddito in quanto non produce nulla, ha modo di procu-
rarsi le risorse per finanziare i propri consumi; mentre la generazione attiva,
che produce e ha reddito, ne cede parte alla generazione anziana in cambio dei
titoli. Ogni sistema pensionistico, sia esso a capitalizzazione o a ripartizione,
deve infatti da ultimo rappresentare una modalità con cui gli anziani inattivi
vengono a possedere un titolo per poter accedere a parte della produzione cor-
rente13. Nella capitalizzazione questo diritto si materializza nei titoli finanzia-
ri accumulati presso i fondi pensione. Nella ripartizione il diritto è politico-
morale, cioè basato sui diritti acquisiti in base alla passata contribuzione.
    Nel suo vivace intervento in questo volume Mauro Maré espone le tesi a
sostegno del pilastro privato a capitalizzazione in un quadro demografico
atteso che egli dipinge con tinte inquietanti soprattutto per il conflitto fra
generazioni che ne può scaturire. Vi sono, tuttavia, diversi problemi che si
frappongono alla creazione di un sistema a capitalizzazione che è opportuno
qui richiamare:
    (a) In primo luogo non è semplice obbligare i lavoratori a risparmiare di
più. La situazione più favorevole per farlo è quella di avere di fronte una
generazione di lavoratori sufficientemente benestanti che, tuttavia, sono
imprevidenti e dunque non risparmiano abbastanza. È però più probabile che
i lavoratori più agiati già risparmino volontariamente, sicché l’introduzione
di un risparmio obbligatorio potrebbe semplicemente spiazzare quello volon-
tario con risultati nulli in termini di risparmio netto – una situazione che si
può tipicamente verificare nei Paesi più avanzati. All’opposto, potrebbe esse-
re politicamente difficile costringere lavoratori il cui salario è vicino alla sus-
sistenza a risparmiarne parte: una situazione più vicina a quella dei Paesi in
via di sviluppo. Questa difficoltà è stata recentemente rimarcata da Cesaratto
(2005, pp. 117-122 e 2006d, pp. 37-39) e da Barr (2006, p. 13), Barr e
Diamond (2006, p. 30; 2008, cap. 6), lavori a cui si rimanda per i riferimen-
ti alla letteratura.
    (b) Le cose si complicano se, com’è vero nella gran parte dei Paesi più
sviluppati, già esiste un sistema pubblico a ripartizione per cui i lavoratori già

12 Nei Paesi anglosassoni la capitalizzazione è infatti nota come schema “fully funded” nel senso che vi è
dietro una accumulazione di risorse reali. La ripartizione è invece definita “unfunded” proprio per sotto-
lineare l’assenza di accumulazione. In taluni sistemi a ripartizione come quelli americano e svedese parte
della contribuzione viene accumulata in un fondo di riserva (“trust fund”), ma è controverso se a ciò cor-
risponda una accumulazione di capitale reale (v. Cesaratto, 2005, cap. 5).
13 Non si deve però frettolosamente concludere che i due sistemi soffrirebbero degli stessi problemi a fron-
te di eventuali “shock” trascurando che gli economisti neoclassici hanno argomenti assai sofisticati per
difendere la robustezza della capitalizzazione, argomenti illustrati criticamente da Cesaratto (2007a).
408                          Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009

versano parte del salario come contribuzione obbligatoria. Da un lato non
sarebbe politicamente fattibile imporre loro una seconda contribuzione a favo-
re della capitalizzazione. Dall’altro, com’è noto, non è possibile deviare il flus-
so contributivo dalla ripartizione a favore della capitalizzazione in quanto ciò
azzererebbe il finanziamento delle pensioni in essere. Diversi presunti piani di
transizione dalla ripartizione alla capitalizzazione sono stati proposti su questa
base (ad esempio Castellino e Fornero 1997; Holzmann 1998) non risultando,
evidentemente, molto credibili (Orszag e Stiglitz 2001; Geanakoplos, Mitchell
e Zeldes 1998). In breve, ai risparmi accumulati dai fondi pensione corrispon-
derebbe la creazione di un equivalente debito pubblico per finanziare le pen-
sioni in essere sicché non vi sarebbe formazione di risparmio netto. Anche
questa difficoltà viene rimarcata da Barr (2006, p.8) e Barr, Diamond (2006,
p. 35; 2008, cap. 6) e da Cesaratto (2005, cap. 4 e 2006d)14. Come nota sala-
cemente Kotlikoff (1999, pp. 16-17) a proposito di analoghe proposte di rifor-
ma avanzate in un famoso rapporto (World Bank 1994):

      “In this putative shell game, workers, in the new regime, make contributions
      to their pension funds, rather than to the government, and the pension fund
      turns around and gives the contributions right back to the government as
      loans”15.

14 Barr e Diamond (2006, p. 31) notano come una riforma pensionistica potrebbe consistere per il gover-
no nel continuare a utilizzare i contributi dei lavoratori per finanziare le pensioni correnti, intestando ai
lavoratori dei titoli di Stato appositamente emessi. Non vi sarebbe in tal caso nessun effetto sul risparmio
nazionale (la somma di risparmio pubblico e privato) e il sistema continuerebbe a funzionare sui principi
della ripartizione. Nella terminologia di Orszag e Stiglitz (2001, p. 22) il sistema sarebbe “narrow pre-
funded”, cioè senza accumulazione netta di risparmio. Per un approfondimento v. Cesaratto (2005, cap. 4
e in particolare le pp.151-153) dove il sistema è definito “falsa capitalizzazione” e viene citato un passo
di de Finetti (1956, p. 279) in cui si anticipa il medesimo concetto. Eppure solo recentemente è maturata
piena consapevolezza al riguardo degli inganni in cui si può incorrere nel parlare di passaggio alla capita-
lizzazione.
15 Kotlikoff così continua: “So the cash flow from the workers to the government remains the same. In the
old system, workers receive implicit I.O.U.s to future government pension benefits in exchange for their
contributions, whereas under the new system they receive, via their pension funds, explicit I.O.U.s
(government bonds) that promise to pay interest and principal. If the implicit and explicit I.O.U.s have the
same present value, then the ‘reform’ has not reduced the present value of the government’s future expen-
diture – it has simply relabelled them.” Avendo criticato la World Bank, Kotlikoff non resiste dal propor-
re il proprio (e di Jeffrey Sachs) “shell game”. Sostiene, ad esempio, che i proventi dalle privatizzazioni
potrebbero essere impiegati per finanziare la spesa per le pensioni correnti, sì da poter investire i contri-
buti previdenziali nei mercati finanziari “globali” (1999, p. 22; una proposta simile era già stata avanzata
peraltro dalla stessa World Bank, 1994, pp. 268-9). In prima approssimazione, tuttavia, si può ritenere che,
parafrasando lo stesso Kotlikoff: “[i]n this putative shell game, workers, in the new regime, make contri-
butions to their pension funds, rather than to the government, and the pension fund turns around and gives
the contributions right back to the government [in order to purchase the privatised companies]”. Gli effet-
ti sui risparmi nazionali e sulla posizione patrimoniale netta dello Stato sarebbero nulli (per una discus-
sione v. Cesaratto, 2005, nota 18, p.173). Neppure il governatore Draghi ha voluto esimersi dal partecipa-
re al “shell game” proponendo, nelle Considerazioni del 2008, di utilizzare il minor disavanzo pubblico
atteso (l’allora definito “tesoretto”), tecnicamente un miglioramento nei risparmi pubblici, per finanziare
il maggior disavanzo previdenziale, tecnicamente un peggioramento nei risparmi pubblici, dovuto al pas-
saggio ai fondi pensione di 3 punti percentuali della contribuzione al sistema pubblico.
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare...        409

     (c) Una critica dirimente è infine quella che si riferisce alla controversa
relazione fra risparmi e investimenti: pur ammettendo che una riforma pen-
sionistica accresca la propensione al risparmio dei lavoratori – come nei
modelli di Feldstein e Samwick (1998) e di Ceprini e Modigliani (1998) –
non vi sarebbero tuttavia ragioni né analitiche né empiriche per sostenere che
il livello degli investimenti aumenterebbe di conseguenza, né a livello nazio-
nale, né in altri Paesi a cui i risparmi verrebbero, secondo la vulgata corren-
te, “prestati” (Cesaratto 2005, capp. 4 e 6; 2006d, 2006f). Già Keynes (1936)
aveva argomentato come, nei limiti del pieno utilizzo della capacità produt-
tiva esistente, sono gli investimenti a determinare i risparmi, e non viceversa
come asserito dalla teoria tradizionale. Per giunta, il “paradosso del rispar-
mio” mostra come un aumento della propensione al risparmio, dato il livello
degli investimenti, determina una diminuzione del reddito nazionale. Le cri-
tiche in tema di teoria del capitale sollevate nell’ambito della nota controver-
sia portano a rafforzare tale conclusione (Garegnani, 1970). Interessante
notare come economisti “mainstream” come Barr e Diamond (2006, p. 33)
accettino, sebbene senza approfondimenti, che la relazione fra risparmi e
investimenti possa essere più complessa di quanto la teoria neoclassica vor-
rebbe. Così si esprime Barr (2006, p.13):

     “[...] it may not be right to argue that additional savings are always translated
     into productive investment via adjustments in the interest rate – the Keynesian
     argument that higher saving together with sluggish investment may lead to
     stagnation rather than growth may not be wholly dead.”

    Il punto è però toccato solo di sfuggita in Barr e Diamond (2008, p. 105)
dove il ruolo dell’analisi keynesiana è circoscritto al breve periodo16.
    Svariati autori hanno sollevato altre critiche alla capitalizzazione che, tut-
tavia, danno per scontato che essa possa essere creata a piacimento, con un
tratto di penna politico. Abbiamo ora invece argomentato che ciò è lontano
dall’esser vero. Per legge, per così dire, non si può né indurre i lavoratori a
risparmiare di più, né trasformare l’eventuale risparmio in accumulazione di
capitale. Ignorando ciò, il criterio più diffuso per giudicare fra i due sistemi,
ripartizione e capitalizzazione, è invece quello del confronto fra i rispettivi
tassi di remunerazione sui contributi. Come ripetutamente rimarcato da Barr
e Diamond (2006, p. 22):

16 Economisti educati a ragionare nei termini della macroeconomia convenzionale hanno spesso difficoltà
a comprendere la rilevanza della lezione keynesiana per problemi di lungo periodo quale quello delle pen-
sioni. Ormai ampia è tuttavia la letteratura che ha cominciato a estendere al lungo periodo quella che
Kaldor denominò come la “premessa keynesiana” circa l’indipendenza degli investimenti dai risparmi di
pieno impiego (v. Palumbo e Trezzini 2003).
410                       Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009

      “It is mistaken to focus on a pension system in steady state, while ignoring or
      underplaying the necessary transition steps to get from one steady state to
      another […] An error […] is to argue that funding is necessarily superior
      because stock-market returns are higher than the rate of growth of the wage
      base, which determines the return to PAYG schemes” (v. anche pp. 31, 34-35,
      36, 38 e Barr e Diamond 2008, 106-109).

   Il medesimo punto era stato ben anticipato in Cesaratto (2005, 91) secon-
do il quale molti economisti

      [...] “just compare the rate of return on contributions in the two systems – the
      ‘biological rate’ of PAYG, and the rate of return on investment of [a fully
      funded] scheme – without discussing the transition difficulties and macroeco-
      nomic implications of adopting one of the two competing programmes” (v.
      anche Cesaratto 2006d, 34).

    In economia aperta è stato frequentemente segnalato da Pizzuti (es. 1998,
p. 58) il pericolo che i fondi pensione “portino risparmio italiano all’estero”.
Da un punto di vista keynesiano, tuttavia, in economia aperta, non meno che
in una chiusa, sono le decisioni di investimento a determinare quelle di
risparmio (Dalziel e Harcourt 1997; Cesaratto 2005, cap. 6; 2006f). Quindi
l’idea che se i fondi pensione investono all’estero lì gli investimenti aumen-
teranno, mentre in Italia diminuiranno, riflette una visione assai tradizionale
della relazione fra investimenti e risparmi.

4.1.2. La riforma del TFR: un altro “shall game”?
    Date le difficoltà a transitare dalla ripartizione alla capitalizzazione, allo
scopo di sviluppare i fondi pensione nel nostro Paese si è pensato di utilizza-
re un fondo di risparmi già esistente: il Trattamento di Fine Rapporto (TFR).
Nel settore privato, infatti, il TFR risulta in un prestito che i lavoratori fanno
all’impresa, la quale lo utilizza in luogo del credito bancario per finanziare le
proprie attività. Possiamo supporre che lo stock di TFR sia incorporato nello
stock di capitali fissi e circolanti dell’impresa. Lo stock di TFR si forma nella
fase di avvio dell’impresa, quando vi è un flusso in ingresso, ma non in uscita.
Quando il sistema è “maturo” il flusso in ingresso corrisponde al flusso in usci-
ta, cioè alle “liquidazioni” correnti erogate (un po’ come a regime gli ammor-
tamenti sono impiegati per sostituire il macchinario che va fuori uso). A livel-
lo aggregato le cifre coinvolte sono significative: lo stock e il flusso di TFR
sono nell’ordine, rispettivamente, di 100/150 miliardi e di 15 miliardi di Euro.
    La destinazione di parte o tutto il flusso di TFR ai fondi pensione implica
che le imprese, se intendono preservare lo stock di capitale creato via TFR,
sostituiscano il flusso di TFR in entrata con un finanziamento esterno. Ciò
induce a ritenere che, prima facie, siano i medesimi fondi pensione a girare
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare...            411

il flusso di TFR loro pervenuto alle imprese, una via più costosa di finanzia-
mento per le imprese e una maniera gattopardesca di creare i fondi pensione
(v. Cesaratto 2001a, 2001b). Così man mano che lo stock di TFR viene liqui-
dato, il corrispondente stock di capitale viene coperto da un finanziamento
esterno, la cui fonte sono i fondi a cui è stato devoluto il TFR. Uno “shell
game” come lo definirebbe Kotlikoff17. Naturalmente è improbabile che le
cose si presentino in maniera così semplice. Ad esempio i fondi pensione
potrebbero investire una quota delle risorse in titoli di Stato, ma vi saranno
allora altri soggetti che sposteranno le loro risorse dai titoli di Stato al finan-
ziamento alle imprese: dunque un mero rimescolamento.
    In conclusione dal punto di vista macroeconomico è difficile ritenere che
la destinazione del TFR ai fondi pensione abbia effetti di rilievo.

4.1.3. La riforma del TFR
    Il 2008 è stato il primo anno a regime della riforma del TFR introdotta nel
2007. La riforma prevedeva, com’è noto, il trasferimento su base volontaria
– ma col principio del silenzio assenso – del TFR maturando ai fondi pen-
sione, negoziali o “aperti”, limitatamente al solo settore privato. Come s’è
detto, il TFR era già una forma di risparmio gestito. Con la riforma se ne è
solo trasformata l’amministrazione, affidandola ai fondi pensione, allo scopo
di trasformare una forma di risparmio gestito che non aveva precipue finalità
previdenziali in previdenza complementare, nella speranza che ciò possa,
anche attraverso una migliore remunerazione, compensare il calo delle pen-
sioni che si avrà con la progressiva andata a regime della riforma Dini (v.
avanti). Nel modo in cui viene usualmente presentato questo passaggio (per
esempio da RGS, 2008, p.156), si trascura tuttavia il fatto che prima della
riforma Dini un lavoratore poteva contare su una più alta pensione retributi-
va più il TFR, mentre dopo può solo sperare che la trasformazione del TFR
in previdenza complementare assicuri una pensione complessiva (pubblica
più complementare) non troppo inferiore a quella pubblica “retributiva”, al
prezzo della perdita secca del TFR.
    La questione dei presunti maggiori rendimenti del TFR solleva parecchie
questioni. Ammesso che questi vi siano, almeno nella media di lungo perio-
do, vi è da considerare che le imprese che “perdono” il TFR sono risarcite più
che abbondantemente dallo Stato con cospicui sgravi fiscali, che costeranno

17 Qualcosa di simile è stato proposto per gli Stati Uniti (v. Cesaratto, 2005, cap. 5). Lì la Social Security
gestisce un fondo di riserva denominato Trust Fund che è generato da una contribuzione previdenziale che
supera le pensioni erogate. Il fondo di riserva investe in titoli del Tesoro americano. Si propone dunque di
trasferire il fondo ai lavoratori e di investirlo in titoli privati. In questo caso ciò che accade è che da un
lato il governo sarebbe costretto a un maggior ricorso all’indebitamento verso il settore privato. Dall’altro,
in prima approssimazione, i fondi pensione destinerebbero i fondi ricevuti per finanziare il settore pubbli-
co, con effetti macroeconomici nulli (a parte, forse, un maggior costo dell’indebitamente per il settore pub-
blico).
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