Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare: un'introduzione critica
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Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009, pagg. 395-429 GruppoMontepaschi Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare: un’introduzione critica* SERGIO CESARATTO** This paper introduces the main topics discussed by the various contributions to this special issue of the journal on the impact of the ageing process on the labour market, pensions, health, long term care, and genders. After a quick look at the ageing process at the global level, the paper considers the impact of ageing on the labour market, in theory and in practice, with a particular concern for Italy. It then critically illustrates the two main pension reforms endeavoured in Italy in view of the ageing process. First the paper illustrates the various obstacles to the creation of a fully funded scheme and critically weigh up the attempt to set it up done in Italy in 2007 by employing the TFR (severance pay). The transformation of the Italian pay-as-you-go scheme in 1992-1995 from a defined benefit in a notional defined contribution scheme is appraised next. The paper concludes by viewing the ageing problem as a political issue regarding income distribution among social groups and not one of inter-generational conflict. (J.E.L.: B51, H55, J11, J21) Premessa Nei prossimi decenni il pianeta si troverà progressivamente a fronteggia- re il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione. Ciò non deve far dimenticare che la popolazione mondiale è destinata nel prossimo secolo ancora a crescere in maniera drammatica: dai 6,5 miliardi di individui attua- li verso un ordine di 9/10 miliardi a fine secolo, secondo la previsione cen- trale delle Nazioni Unite (NU). Quelli demografici si aggiungono agli altri grandi problemi dell’umanità, le disuguaglianze, i cambiamenti climatici, i conflitti. L’invecchiamento della popolazione ha in prima istanza più a che vedere con il calo della natalità, e solo in seconda con l’aumento delle spe- ranze di vita. Entrambi sono eventi positivi: il calo della natalità in quanto fa presagire un limite, sebbene ancora lontano, all’accrescimento della popola- * Articolo approvato nel mese di agosto 2009. ** Dipartimento di Economia politica, Università degli studi di Siena. E-mail: Cesaratto@unisi.it. Questa introduzione si basa su una lunga serie di lavori dell’autore, debitamente citati nel testo, sui temi qui in discussione.
396 Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009 zione; l’aumento delle speranze di vita può difficilmente essere giudicato negativamente. Come tutti i grandi problemi dell’umanità, l’invecchiamento sarebbe in via di principio affrontabile in via razionale, ma come ben sappia- mo ciò accade solo raramente in quanto la soluzione di questo, come degli altri problemi sopra menzionati, implica una redistribuzione delle risorse su cui non v’è consenso all’interno dei Paesi e fra Paesi. L’Italia è fra i Paesi dove il processo di invecchiamento è più avanzato, ma questo fatto sembrerebbe affrontato nel dibattito politico-economico più in negativo – come problema di frenare la spesa – che in positivo, come sfida a costruire una società che, tenuto conto della sua nuova struttura demografi- ca, coniughi efficienza con giustizia sociale nel mercato del lavoro, sistema pensionistico, sanità e welfare, fra i generi. I contributi a questo numero di Studi e Note di Economia intendono concorrere, in una vitale pluralità di vedute, a un dibattito costruttivo in questa seconda direzione. Questa intro- duzione ha il compito di delineare la problematica complessiva entro cui essi si collocano. 1. I mutamenti demografici globali Semplificando, appare assodato che nel corso della propria storia – in un momento che possiamo in prima approssimazione associare all’inizio dello sviluppo economico moderno – tutti i Paesi cominciano ad attraversare una fase di calo della mortalità infantile seguita da un calo progressivo della nata- lità. Le speranze di vita in età infantile si accrescono, mentre solo più recen- temente nei Paesi più sviluppati esse si estendono alle età più avanzate, in seguito ai progressi della medicina. Questo fenomeno è denominato dai demografi “transizione demografica” (TD), o “prima transizione demografi- ca” per distinguerla dalla più recente e controversa “seconda transizione demografica”1. Le diverse aree del globo si distinguono per lo stadio a cui la TD è giunta (v. Cesaratto 2005, cap.8; 2006b; 2006c; 2006g): La TD è cominciata per prima nei Paesi più sviluppati sin dal secolo XIX2. Ovunque il tasso di fertilità totale – il numero medio di figli per donna – si è 1 La seconda TD riguarderebbe la crisi della famiglia tradizionale, con possibili effetti negativi sulla ferti- lità. I critici della seconda transizione demografica segnalano tuttavia come nel nord Europa la crisi della famiglia tradizionale si associ a una più elevata fertilità, all’opposto dei Paesi mediterranei, suggerendo che siano altri fattori a incidere negativamente sulla natalità (v. Vienna Yearbook of Population Research, 2004). 2 Il fenomeno del baby-boom è un episodio di ripresa della fertilità nell’ambito del trend decrescente della TD. Rimane tuttavia a testimoniare le sorprese che gli andamenti demografici possono presentare. Secondo la “ipotesi di Easterlin” (Easterlin 1968, Macunovich 1998, 2002), il baby-boom fu il risultato dell’ingresso nel mercato del lavoro nel primo dopoguerra di una coorte di giovani lavoratori maschi rela- tivamente ristretta, e con limitate aspirazioni economiche – avendo vissuto le proprie esperienze famigliari nella depressione degli anni Trenta (Easterlin, 1987, p. 83). Secondo questo autore la crescita della doman- da aggregata nel dopoguerra avrebbe positivamente influito sul reddito di quella generazione (Easterlin, 1968, p. 11). L’ottimismo delle aspettative avrebbe positivamente influenzato le scelte riproduttive. Il baby-boom avrebbe generato a sua volta forti investimenti nello sviluppo di opere di urbanizzazione, sti-
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare... 397 collocato o è sceso sotto 2,1, il cosiddetto tasso di sostituzione (replacement rate) al quale la popolazione rimane costante. In aggiunta, il miglioramento delle condizioni sanitarie, degli stili di vita e, più recentemente, il progresso in campo medico – per esempio in campo cardiologico – hanno determinato un progressivo allungamento delle speranze di vita. Vi sono, tuttavia, impor- tanti differenze fra Paesi: (i) in taluni di questi la TD ha raggiunto uno stadio assai avanzato con un tasso di fertilità sceso a livelli assai bassi: è questo il caso di Italia, Spagna, Giappone, Germania e dei Paesi dell’est europeo; (ii) in altri Paesi europei, come Francia, Regno Unito, Paesi scandinavi, il tasso di fertilità si colloca non troppo al di sotto del tasso di sostituzione; (iii) negli Stati Uniti, Canada, Oceania, il tasso di fertilità si colloca appros- simativamente al livello del tasso di sostituzione. Queste differenze implicano che il processo di invecchiamento della popolazione, pur comune, non si presenta con la medesima intensità. Le migrazioni non sono ritenute tali da arrestare o persino ridimensionare sostanzialmente i fenomeni di invecchiamento, sebbene naturalmente contri- buiscano marginalmente ad attenuarli, a meno che assumano proporzioni enormi (UN 2001; Cesaratto 2006g, sez. 3; Bloom et al., 2009, p. 18). Le ripercussioni politiche favorevoli ai partiti più conservatori sono invece significative. Con riguardo ai Paesi meno sviluppati si può notare come: (iv) numerose economie emergenti sono in uno stadio avanzato della transi- zione demografica, in particolare la Cina; (v) le economie in ritardo sono quelle dove la transizione demografica è più lenta, sebbene sia in genere avviata. Le implicazioni del processo di invecchiamento sono molteplici, dagli effetti sul mercato del lavoro a quelli sulla sostenibilità dei sistemi pensioni- stici. Evidentemente tali problemi non si pongono nella medesima maniera nelle diverse aree. Nei Paesi meno sviluppati il calo della mortalità infantile con tassi di fertilità ancora relativamente elevati comporta un’abbondanza di forze di lavoro giovani, il cosiddetto “bonus demografico”, o “finestra demo- grafica”. In Paesi emergenti dove, come in Cina, la TD è a uno stadio avan- zato, forze di lavoro giovani sono rese comunque disponibili per il settore moderno da un ampio settore arretrato dell’economia. Per i Paesi più avan- zati, in cui gli effetti della “finestra demografica” e del baby-boom si vanno esaurendo, si paventa invece la prospettiva di una “scarsità di lavoro” (labour shortage) che, secondo l’opinione prevalente, oltre a incidere direttamente sui tassi di crescita metterebbe anche in difficoltà i sistemi pensionistici pub- blici a ripartizione. Cosa suggerisce la teoria economica al riguardo? 2. Popolazione e sviluppo economico In un celebre passo dell’Introduzione a Per la critica dell’economia poli-
398 Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009 tica Marx (1859, p. 1161) suggerisce che per quanto possa sembrare natura- le per l’analisi economica cominciare dalla popolazione, questo ci portereb- be solo ad una “rappresentazione caotica dell’insieme”. Si tratta invece di risalire dapprima a rappresentazioni economiche astratte più semplici per poi “intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e rela- zioni”. Cosa ci suggeriscono dunque le relazioni “astratte” della teoria economi- ca a proposito della relazione fra popolazione e sviluppo economico? Siamo di fronte a due impostazioni (Cesaratto 2005, cap. 8; 2006g). La prima è basata sulla tradizionale teoria marginalista, mentre la seconda risale agli economisti classici (con la significativa eccezione di Malthus), a Marx e a Kalecki. Semplificando molto, mentre in quest’ultima è la domanda di lavo- ro a generare la propria offerta, nella teoria tradizionale è la domanda di lavo- ro ad adeguarsi all’offerta, data una sufficiente flessibilità del salario reale. 2.1. L’impostazione neoclassica Per fissare le idee consideriamo la seguente equazione derivata dall’equa- zione fondamentale del modello di crescita di Solow (Cutler et al., 1990, p.17): c p = α[ f ( k ) − nk ] [1] dove c p = C / P rappresenta il consumo pro-capite medio dell’intera popo- lazione, α = N P è il rapporto fra occupati e popolazione, n è il saggio di mine f (k ) − nk rappresenta, com’è noto, ciò che rimane del prodotto per crescita delle forze di lavoro, e k è il rapporto medio capitale-lavoro. Il ter- occupato una volta sottratto ciò che necessita per assegnare ai nuovi lavora- tori la dotazione media di capitale3. Si osservi che il termine α aumenta (o diminuisce) quando il tasso di crescita della forza lavoro n è superiore (infe- riore) al tasso di crescita della popolazione p, dunque a seconda del segno di n – p. Sulla base dell’equazione [1] un valore di n relativamente elevato, quale si è verificato negli anni successivi al baby boom nei Paesi industrializzati molando a sua volta la domanda aggregata (Easterlin 1968, p. 12). La combinazione di tali circostanze non si riprodusse nel corso degli anni Sessanta e successivamente. Anche Barba (2008, pp. 86-90) mette in luce l’influenza negativa sulla natalità in Italia in seguito ai mutamenti recenti nella distribuzione del reddito a sfavore delle classi lavoratrici. 3 La derivazione dal modello di Solow è la seguente: l’equazione sf(k) = nk+∆k / dt esprime, com’è noto, l’idea che l’offerta di risparmio per occupato, trascurando il rimpiazzo del capitale logorato, può esser destinata a dotare i nuovi lavoratori del rapporto medio capitale-lavoro (capital-widening), e ad accresce- re la dotazione media di capitale (capital-deepening). Nell’equilibrio di ‘steady state’ ∆k / dt=0, e dunque sf(k)=nk. Sottraendo f(k) da entrambi i lati si ottiene: c = f(k) – nk, dove c = C/N è il consumo pro-capi- te dei lavoratori. Moltiplicando entrambi i lati per N/P si ottiene C/P = N/P [f(k)- nk] cioè la [1].
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare... 399 oppure si può verificare in seguito alla “finestra demografica” nei Paesi in via di sviluppo, ha due effetti contrastanti sui consumi pro-capite attraverso sia un aumento di α che di nk. In altri termini, mentre da un lato si accresce la quota di lavoratori sul totale della popolazione aumentando il reddito pro- capite, dall’altro aumenta la quota di risparmio da destinarsi ad attrezzare i nuovi lavoratori della dotazione media di capitale per addetto (Manson 2003, p. 23). Tuttavia, la quota crescente di popolazione in età lavorativa potrebbe comportare una più elevata propensione marginale al risparmio che fa in modo che, nel complesso, la dotazione media di capitale possa aumentare (Bloom e Canning 2004, p. 11). La predizione è così che una “finestra demo- grafica”, il mutamento nella composizione della popolazione a favore della popolazione in età lavorativa, risulti di stimolo alla crescita tanto del capita- le che dei consumi pro-capite4. Ciò verrebbe confermato dall’esperienza dei Paesi dell’Asia dell’est in cui la flessibilità nel mercato del lavoro e l’incen- tivo al risparmio dovuto all’assenza di sistemi pensionistici pubblici avreb- bero favorito il dispiegarsi del bonus demografico, a differenza dell’America Latina (Bloom e Canning 2004, pp. 24-25; Manson, 2005, pp. 2-3). L’equazione [1] suggerisce anche che un tasso di crescita della popolazione n relativamente basso, da un lato riduce l’assorbimento di risparmio necessa- rio per dotare i nuovi lavoratori del capitale medio per addetto consentendo così un accrescimento del reddito pro-capite, ma, d’altro canto, ladiminuzio- ne di α implica una contrazione della quota attiva della popolazione. Nelle rispettive previsioni, la Commissione Europea e, in Italia, la Ragioneria Generale del Tesoro (RGS 2008) e Cnel-Cer (2009) utilizzano questa impostazione teorica, in cui è l’offerta dei “fattori produttivi” a deter- minare la crescita. Ad esempio, la RGS stima l’evoluzione del prodotto pro- capite sulla base dell’andamento della “produttività totale dei fattori” e del rapporto atteso capitale-lavoro, il quale diminuirebbe in seguito alla crescen- te “scarsità relativa” del “fattore lavoro” (RGS, 2008, p. 2 e pp. 7-8). Si trat- ta, tuttavia, di concetti che parte della professione respinge, sebbene sulla base di una varietà di considerazioni analitiche5. Maggiore “neutralità scien- tifica” soprattutto da parte delle istituzioni pubbliche sarebbe opportuna. 4 L’interazione fra fertilità, mortalità (e immigrazione) con la struttura per età della popolazione è approfondita da Bloom et al. (2009). Il quesito che questi autori si pongono è quale sia il tasso di fertilità che massimizza la quota di popolazione in età lavorativa (data la mortalità), nell’ipotesi neoclassica che ciò comporti anche massimizzare la quota di popolazione occupata. Le conclusioni sono che nel breve periodo la diminuzione della fertilità ha effetti positivi in quanto fa cadere la quota di popolazione in età infantile. Nel lungo periodo, oltre una certa soglia, un ulteriore declino della fertilità ha effetti negativi. Gli autori osservano che il tasso di fertilità che massimizza la quota di popolazione in età lavorativa non coincide con il tasso di natività ottimo, in quanto un tasso di crescita della popolazione “troppo alto” inci- de negativamente sulla crescita “annacquando” il capitale. Guardando l’equazione [1], un aumento di n ha infatti un effetto positivo su α, ma negativo sul termine in parentesi. Sul dibattito sul tasso ottimo di cre- scita della popolazione v. Sunna (2004). 5 Le preferenze di chi scrive vanno alle argomentazioni di Garegnani (1983) in cui centrali sono le criti- che in tema di teoria del capitale.
400 Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009 2.2. L’impostazione classico-kaleckiana Il concetto di abbondanza (o scarsità) della popolazione è in Marx “rela- tivo” alle circostanze storico-economiche. Un Paese arretrato, ad esempio, potrebbe non essere sovrappopolato relativamente alla produzione agricola di sussistenza lì prevalente. Una sovrappopolazione può invece emergere qua- lora cominci a formarsi un settore moderno, relativamente a quest’ultimo, al cui sviluppo essa diventa funzionale. In tal modo la “sovrappopolazione” diventa un concetto economico e non pertinente ad autonome leggi demo- grafiche che acquisiscono invece significato solo alla luce delle circostanze storico-economiche. Secondo tale impostazione è ad esempio l’offerta di lavoro ad adeguarsi, in generale, alle necessità dell’accumulazione capitali- stica, sebbene non necessariamente attraverso variazioni della fertilità, trop- po di lungo periodo, ma attraverso la mobilitazione delle forze di lavoro dai settori arretrati, le migrazioni, ecc. Rinviando ad altri testi per una analisi della teoria della popolazione degli economisti classici (Stirati 1994, cap. 4), è rilevante richiamare qui il con- cetto di Esercito Industriale di Riserva (EIR) di Marx (1867, cap. 23). Secondo Marx solo l’esistenza di un cospicuo EIR costituito dai lavoratori disoccupati e dalle fasce marginali del mercato del lavoro (donne, invalidi, anziani ecc.) assicura un ordinato sviluppo capitalistico, cioè uno sviluppo non disturbato da una eccessiva forza contrattuale della classe lavoratrice. Marx ritiene che i movimenti demografici possano essere insufficienti a garantire l’esistenza dell’EIR. Fattori economici quali il rallentamento del ritmo dell’accumulazione o innovazioni risparmiatrici di lavoro contribui- scono a garantirne la persistenza. Questa impostazione è ripresa da Michal Kalecki (1943) in un noto saggio che rileva il ruolo della politica economica nell’assicurare la permanenza dell’EIR. Le politiche di pieno impiego sareb- bero, secondo questa impostazione, l’eccezione piuttosto che la regola in quanto adottate solo in circostanze storiche particolari, quali quelle della guerra fredda (Pivetti 2004). Con riguardo al citato “bonus demografico” nei Paesi meno sviluppati relativo alla seconda fase della transizione demografica, l’approccio classico- kaleckiana non obietterebbe che l’abbondanza di forza lavoro possa essere un presupposto per l’accumulazione, secondo la lezione di Lewis (1954), senza esserne tuttavia causa ultima. Da un punto di vista classico la “scarsità di lavoro” che si potrebbe veri- ficare nei Paesi più industrializzati è dunque un concetto relativo: relativo cioè alla domanda di lavoro. Quest’ultima potrebbe diminuire a sua volta: a) per la necessità di mantenere un EIR; b) per il dislocamento delle produzio- ni nei Paesi a più basso costo del lavoro (anche se la bassa domanda interna nei Paesi più avanzati potrebbe incidere negativamente anche sulla domanda di merci da quei Paesi in una processo di deflazione globale). È naturalmen- te difficile avanzare previsioni.
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare... 401 3. Mutamenti demografici e mercato del lavoro in Italia 3.1. Invecchiamento e mercato del lavoro in Italia È importante cominciare con l’osservare che il nostro Paese non sembra soffrire né correntemente né nell’immediato futuro di scarsità di lavoro, dati i ben noti bassi tassi di attività e di occupazione che lo caratterizzano, in par- ticolare femminili, giovanili e nel Mezzogiorno. Questo non è naturalmente in contrasto con i forti flussi migratori recenti volti a ricoprire mansioni rite- nute non più appetibili, per ragioni diverse, dai disoccupati e inoccupati nostrali (De Sarno, Prignano e Natale 2003). Non va d’altro canto escluso che proprio la disponibilità dei flussi migratori abbia condotto a un deteriora- mento, o mancato miglioramento, delle condizioni materiali e salariali di lavoro, sì da allontanare gli italiani da molte occupazioni. Attualmente dun- que, pur in presenza di un significativo restringimento delle coorti più giova- ni, le generazioni del baby boom, che sono ancora nel mercato del lavoro e proprio nelle fasce di età a maggiore partecipazione, soddisfano ampiamente le necessità del mercato del lavoro (Gesano, 2005, 11-12). Nei decenni futu- ri, tuttavia, la situazione sembrerebbe poter mutare significativamente in quanto la “presenza numerosa nelle età centrali [...] è destinata ad esaurirsi prima di 15-20 anni da oggi, quando quelle stesse generazioni più ampie arri- veranno in prossimità delle età di uscita dal mercato del lavoro. Nel frattem- po, le generazioni scarne del baby bust entreranno nelle fasce di età più atti- ve, ma il loro contributo all’offerta complessiva di forza lavoro verrà limita- to dalla loro stessa dimensione, per quanto elevati o eventualmente crescenti (specie per le donne), potranno essere i relativi tassi di partecipazione” (ibid.). In questo volume Maurizio Zenezini si occupa proprio dell’impatto dei processi di invecchiamento nel mercato del lavoro, inclusi gli effetti contro- versi dell’invecchiamento sulla produttività, mentre le problematiche di genere del mercato del lavoro in relazione alla previdenza e al welfare sono illustrate da Alessandra Casarico e Paola Profeta. Richiamiamo qui l’atten- zione sulle proiezioni relative al mercato del lavoro tratte dalla Relazione della RGS (2008) sulle tendenze del sistema pensionistico. La base demo- grafica è data dallo scenario centrale previsionale dell’ISTAT pubblicato nel 2008 nel quale si prevede una immigrazione netta fra il 2005 e 2060 dell’or- dine di 200 mila unità all’anno, un tasso di fecondità che cresce progressiva- mente da 1,3 a 1,6 a fine periodo, e una speranza di vita che aumenta pro- gressivamente da 78,1 a 85,5 per i maschi e da 83,7 a 90,3 per le femmine. Con queste ipotesi demografiche, la prima riga della tab. 1 mostra come la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) scemi fra il 2007 e fine periodo di circa il 15%. Al tasso di attività riscontrato per il 2007, la seconda riga mostra come ciò si rifletterebbe in una diminuzione significative delle forze di lavo- ro già a partire dal 2030. Naturalmente è plausibile ritenere che i tassi di atti-
402 Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009 vità siano destinati ad accrescersi, soprattutto per una maggiore partecipazio- ne femminile al mercato del lavoro e per l’accrescimento dei tassi di attività dei lavoratori anziani6. La RGS stima che il tasso di attività si accresca pro- gressivamente di quasi 8 punti percentuali fra il 2007 e il 2050 (da 62,5% a 70,1%) dovuti ad un progressivo aumento del tasso di attività maschile di circa 4 punti, in seguito alle riforme pensionistiche (v. sottoparagr. 4.2) e, soprattutto, femminile per circa 11 punti, in seguito all’aumento dei livelli medi di istruzione che indicono maggiori tassi di partecipazione. Il numero di assunzioni in questi esercizi previsionali è assai ampio come dimostra un confronto fra le previsioni centrali del Rapporto RGS 2007 con quello 2008, riportato sempre nella Tab. 1, in cui una ipotesi più generosa sui flussi migratori (da un ordine di 150 mila unità a 200 mila) mitiga significa- tivamente gli effetti dei mutamenti demografici sul mercato del lavoro7. Le proiezioni offrono dunque solo ordini di grandezza su cui ragionare. Sulla base dello scenario RGS una “scarsità di lavoro” non compare che nel lun- ghissimo periodo, e forze di lavoro sarebbero dunque approssimativamente sufficienti, nonostante il calo della popolazione in età lavorativa di 6 milioni di individui, a mantenere i livelli di occupazione nei prossimi decenni ai livelli correnti (fra 22 e 23 milioni di occupati) con un tasso di disoccupazio- ne che scenderebbe progressivamente verso il 4,5% e un tasso di occupazio- ne che crescerebbe dal 58,7% del 2007 verso valori vicini al 65% nei prossi- mi decenni. Come nota Barba (2008, p. 75) le ipotesi della RGS non sono particolarmente ottimistiche con riguardo ai tassi di occupazione: solo fra trenta o quarant’anni il Paese si avvicinerebbe alla media europea dei tassi di occupazione. Questo verrebbe giustificato con l’incompatibilità fra l’obietti- vo della ripresa della natalità e quello della maggiore partecipazione femmi- nile al mercato del lavoro, incompatibilità che però non appare presente nel- l’esperienza di molti Paesi d’oltralpe (per dei riferimenti alla letteratura su questo punto controverso v. Bloom et al. 2009, p. 18). Non abbiamo, soprattutto, alcuna sicurezza che la domanda aggregata sarà nel lungo periodo tale da assicurare livelli di occupazione analoghi o addirit- tura superiori agli attuali, oltre che un sufficiente incontro fra composizione 6 Barba (2008, pp. 78-79) suggerisce che una fonte aggiuntiva di forza lavoro è costituita in Italia dagli occupati nei settori a bassa produttività laddove questi accrescessero la propria efficienza. Non solo l’a- gricoltura, ma anche il settore dei servizi ha tradizionalmente svolto in Italia il compito di spugna occu- pazionale a bassa produttività. Questo è vero anche per settori di servizi “qualificati”, basti citare il caso degli avvocati, 4 volte più numerosi in Italia che in Francia (Marchesi 2008). L’impiego degli studenti per lavori estivi part-time è un’altra fonte di forza lavoro già ampiamente utilizzata all’estero. 7 Naturalmente la RGS (2008, cap. 5) svolge analisi di sensibilità sotto diverse ipotesi. Forse una mag- giore rilevanza andrebbe attribuita dalle fonti istituzionali alla fragilità intrinseca dei dati presentati spre- cando meno energie nel predisporre variazioni centesimali, fra una proiezione e l’altra, di tassi di fecon- dità nei decenni a venire su cui non sappiamo assolutamente nulla. Per una considerazione critica degli scenari Istat v. Barba (2008, pp. 68-70).
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare... 403 Tab. 1- Proiezioni della RGS relative a popolazione, forze di lavoro e occupati (valori assoluti espressi in milioni; variazioni percentuali calcolate rispetto al 2007) 2007 2010 2020 2030 2040 2050 2060 (dato effettivo) Popolazione in età attiva (15-64 anni) 39,0 39,6 39,1 37,7 34,8 33,4 33,0 Proiezioni 2008 1,5 0,3 -3,3 -10,8 -14,4 -15,4 (per memoria proiez. 2007) -1,0 -3,6 -9,0 -18,2 -23,1 nd Forze di lavoro a tassi di attività costanti 24,7 25,0 24,2 22,5 21,2 20,6 20,3 Proiezioni 2008 1,2 -2,0 -8,9 -14,2 -16,6 -17,8 (per memoria proiez. 2007) -1,2 -6,1 -14,2 -21,1 -25,1 nd Forze di lavoro 24,7 25,3 26,6 26,2 25,0 24,3 23,9 Proiezioni 2008 2,4 7,7 6,1 1,2 -1,6 -3,2 (per memoria proiez. 2007) 1,2 3,2 0,0 -7,3 -11,7 nd Occupati 23,2 23,2 24,9 24,9 23,8 23,2 22,9 Proiezioni 2008 0,0 7,3 7,3 2,6 0,0 -1,3 (per memoria proiez. 2007) 1,7 3,9 0,9 -6,0 -10,3 nd Ipotesi: Tasso di natalità 1,3 1,4 1,5 1,6 1,6 1,6 1,6 [2005] Flussi migratori netti (migliaia) 261 265 195 196 196 197 198 [2005] Tasso di partecipazione (15-64) 62,5 62,9 66,3 67,3 68,8 70,1 69,9 Tasso di disoccupazione 6,1 8,4 6,3 4,9 4,5 4,5 4,5 Tasso di occupazione 58,7 57,5 62,1 63,9 65,7 66,8 66,7 Fonte: Ragioneria Generale dello Stato (2007), (2008). qualitativa e geografica di domanda e offerta di lavoro. Qui la nostra inter- pretazione delle determinanti dell’occupazione nel lungo periodo differisce assai da quella della RGS, come da quella del Cnel-Cer (2009)8. Sulla base di questi scenari, ogni allarme apparirebbe relativamente pre- maturo, sia rispetto al mercato del lavoro che alla sostenibilità dei sistemi di welfare: più plausibilmente il nostro Paese continuerà nei prossimi decenni a soffrire di scarsità di posti di lavoro – o di posti di lavoro dignitosamente remunerati – e non di braccia. E sono proprio i bassi tassi di occupazione che nel Paese rendono più gravoso il peso dello stato sociale. L’enfasi dei model- li previsionali sull’offerta di lavoro come determinante dell’occupazione appare in questa luce pericolosa e fuorviante relativamente al problema inso- luto dell’economia italiana e cioè la scarsità di occupazione, sia esso dovuto 8 In particolare questi modelli previsionali assumono che l’occupazione sia determinata dall’offerta di lavoro (v. anche Barba 2008, p. 79), fatte determinate ipotesi circa il Nairu. Per un’analisi critica di que- sto modo di calcolare prodotto e occupazione potenziali v. Palumbo 2008.
404 Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009 a questioni strutturali o agli orientamenti deflativi della politica macroecono- mica europea (Cesaratto 2008, 2009). Nel lunghissimo periodo, a fronte della diminuzione delle forze di lavoro e, a parità di domanda di lavoro, di elevati tassi di occupazione, i Paesi più sviluppati si potranno trovare a fronteggiare una situazione in cui l’EIR si contrae all’interno, pur restando ampio nei Paesi emergenti9. È possibile che in economie tecnologicamente e istituzionalmente deboli come quella italia- na ciò comporti tassi di crescita molto bassi e crescenti diseguaglianze con una convergenza all’indietro nella direzione dei Paesi emergenti (Cesaratto 2006g; Barba 2008, p. 81). Più forte appare dunque la necessità per il Paese di crescere di più ora, anche attraverso una più forte coesione politico-socia- le, quando ancor ampie sono le disponibilità di forze di lavoro tenute disoc- cupate o inoccupate, preparando così meglio il Paese alle sfide future. Un forte patto sociale, sostenuto da marcate politiche di giustizia distributiva, che anche assicurino il sostegno della domanda interna alla crescita, e un forte impegno alla modernizzazione del Paese, nell’industria, nella ricerca, nella tecnologia, nelle istituzioni inclusa la pubblica amministrazione, potrebbero consentire al Paese di affrontare più serenamente questo futuro. 3.2. Gli indici di dipendenza Esiti inquietanti per il nostro Paese derivano dall’esame dei tassi di dipen- denza degli anziani, sia demografici (popolazione anziana su popolazione in età lavorativa) che economici (popolazione anziana su occupati). La tab. 2 mostra come fra il 2003 e il 2050 uno studio dell’UE stimi per l’Italia un aumento del 44% del tasso di dipendenza economico della popolazione anziana, sicché nel 2050 vi sarebbe quasi un anziano sopra i 65 anni da man- tenere per ogni lavoratore nella fascia 15-64. Risultati parzialmente più con- solanti provengono, tuttavia, dal medesimo studio dalla considerazione del tasso di dipendenza economico totale, cioè dal rapporto fra il complesso della popolazione inattiva e la popolazione attiva od occupata. Sebbene infatti nel lungo periodo la quota di popolazione anziana cresca in Italia e negli altri Paesi in maniera cospicua a discapito della quota di popolazione adulta, due altre componenti vanno a diminuire: la quota relativa ai più giovani e quella relativa agli adulti inoccupati. La tab. 2 mostra come assumendo un accre- scimento significativo dei tassi di partecipazione di lavoratori maturi e fem- 9 McDonald e Kippen (2001, p. 2) ritengono questa situazione inedita: “There is no prior experience of falling labour supply over a long period of time in an advanced country”. Essi ritengono che sino ad anni recenti è stato compito della politica economica di fronteggiare “’tight’ labour markets”, riducendo oppor- tunamente i tassi di crescita economica. Ma, si domandano i due autori, “if a tight labour market derives not from excess demand arising from ‘too’ rapid economic growth but from stagnation of or a sustained fall in the supply of labour set to continue over decades, what policy approach is to be used?” (ibid., pp. 3-4). Un’inquietante risposta è: attraverso una ulteriore diminuzione dei tassi di crescita.
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare... 405 Tab. 2 - Proiezioni UE sui tassi di dipendenza economici degli anziani e totale. Tasso di dipendenza economico Tasso di dipendenza economico totale (2) della popolazione anziana (1) variazione variazione % % Paesi 2003 2025 2050 2003-50 2003 2025 2050 2003-50 Germania 39 50 69 30 127 117 135 9 Francia 39 53 66 27 144 146 156 12 Italia 49 60 93 44 162 149 179 17 Olanda 27 41 51 24 101 107 114 13 Spagna 40 45 88 48 144 118 162 18 Regno Unito 32 42 57 25 113 114 128 14 UE 15 38 49 70 32 132 126 145 13 UE 10 34 45 73 39 159 124 158 -1 Note: (1) Popolazione non attiva sopra i 65 anni su popolazione occupata (15-64). (2) Popolazione non occupata su popolazione occupata (15-64). Fonte: Carone et al. 2005. minili, il tasso di dipendenza economico totale si accresca per l’Italia del 17%, assai meno di quello degli anziani e in misura appena superiore a quel- lo dell’UE a 15. Nel 2025 tale indice verrebbe addirittura a diminuire. A risul- tati analoghi perviene uno studio dell’Ocse (Burnieaux et al. 2003). Due problemi vanno evidenziati a questo proposito: (i) il concetto di tassi di dipendenza totali andrebbe esteso alla considera- zione dei costi relativi del mantenimento di un ragazzo, di un adulto inoccu- pato, di un anziano e soprattutto di un ultra-anziano, che non sono probabil- mente equivalenti. In genere si ritiene che siano i giovanissimi a costare meno, ma le stime non sono semplici (Denton e Spencer 1999); (ii) in secondo luogo i canali di sostegno delle diverse categorie di sog- getti dipendenti non sono le medesime. Come sostiene Concialdi (2003, p. 4): “The main question is not the level of transfers from workers to ‘non workers’ since these transfers will not increase dramatically; it concerns the organisa- tion of these transfers and, in particular, the respective shares of public and private transfers needed to support the whole economically dependent popu- lation.” (cfr. anche Concialdi 2006). In altri termini, mentre i pensionati sono sostenuti attraverso trasferimen- ti pubblici finanziati con l’imposizione fiscale/contributiva, il sostegno dei giovanissimi e quello degli adulti inoccupati passa sia per canali privati (la famiglia) che pubblici (per esempio l’istruzione pubblica e i sussidi di disoc- cupazione). Ciò che accadrà, dunque, è che si accrescerà il prelievo previ- denziale sugli occupati che al contempo, tuttavia, vedranno scemare il trasfe-
406 Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009 rimento privato di reddito sia alla progenie che alla componente femminile a carico. L’aumento del carico contributivo potrebbe, tuttavia, risultare indige- sto seppur compensato dal calo dei trasferimenti privati e di altri prelievi fiscali. 4. Le riforme pensionistiche fra presente e futuro Gli anni novanta del secolo scorso sono stati la stagione dell’idea della sostituzione dei sistemi pensionistici a ripartizione con quelli a capitalizza- zione. Successivamente si è affermata l’idea di riformare i sistemi a riparti- zione lungo le linee dei “sistemi a contribuzione definita virtuale” (notional defined contribution schemes, NDC), come accaduto in Italia (1995), Svezia (1998) e in altri Paesi. 4.1. Le riforme a capitalizzazione 4.1.1. Dalla ripartizione alla capitalizzazione Perché le riforme volte a sostituire i sistemi a ripartizione con la capita- lizzazione hanno perso popolarità? Dal punto di vista empirico il successo o meno di tali riforme, sia nell’assicurare pensioni decenti che nel favorire la crescita economica, è assai controverso, come testimoniato dal caso della più famosa, quella cilena del 1981 (de Mesa e Mesa-Lago 2006)10. Dal punto di vista analitico è cresciuta la consapevolezza delle difficoltà della transizione dalla ripartizione alla capitalizzazione. Le ragioni analitiche a favore di queste riforme sono da ricercarsi soprat- tutto nella teoria neoclassica dominante (v. Cesaratto 2005, cap. 3)11. Secondo tale impostazione un aumento dei risparmi destinati al motivo pre- videnziale arrecherebbe un duplice beneficio: (i) dal punto di vista indivi- duale ciascun lavoratore accumulerebbe più risorse da consumare in vec- chiaia senza pesare sulla comunità; (ii) dal punto di vista collettivo i maggiori risparmi si tradurrebbero, dato lo stock di lavoro, in un aumento della dota- zione di capitale per lavoratore e dunque in un maggior prodotto pro-capite. Per essere creato, un sistema a capitalizzazione richiede che una prima gene- razione effettui un risparmio netto e che questo si traduca, attraverso il siste- 10 È controverso infatti se la riforma cilena abbia assicurato pensioni dignitose e se abbia favorito la buona crescita di quel Paese (v. Barr e Diamond, 2008, capp. 12 e 13). Quest’ultima potrebbe più plausibilmen- te aver avuto altre cause, in particolare un buon andamento delle esportazioni, il tutto favorito da una sta- bilità macroeconomica aiutata dal controllo degli afflussi di capitale a breve termine – smentendo così che siano state misure liberiste, o la riforma pensionistica, a sostenere lo sviluppo (Cesaratto 2005, pp. 161- 162). 11 Per una visione “classica” simpatetica al passaggio alla capitalizzazione v. Michl e Foley (2005), e lo scambio fra Cesaratto (2006) e Michl (2006) che ne è seguito.
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare... 407 ma finanziario, in investimenti netti12. La prima generazione diventa così proprietaria, attraverso i fondi pensione che acquistano titoli emessi dalle imprese, di parte del capitale sociale. Quando questa generazione diventa anziana venderà la propria dote ai “giovani”. In tal modo la generazione anziana, che non ha reddito in quanto non produce nulla, ha modo di procu- rarsi le risorse per finanziare i propri consumi; mentre la generazione attiva, che produce e ha reddito, ne cede parte alla generazione anziana in cambio dei titoli. Ogni sistema pensionistico, sia esso a capitalizzazione o a ripartizione, deve infatti da ultimo rappresentare una modalità con cui gli anziani inattivi vengono a possedere un titolo per poter accedere a parte della produzione cor- rente13. Nella capitalizzazione questo diritto si materializza nei titoli finanzia- ri accumulati presso i fondi pensione. Nella ripartizione il diritto è politico- morale, cioè basato sui diritti acquisiti in base alla passata contribuzione. Nel suo vivace intervento in questo volume Mauro Maré espone le tesi a sostegno del pilastro privato a capitalizzazione in un quadro demografico atteso che egli dipinge con tinte inquietanti soprattutto per il conflitto fra generazioni che ne può scaturire. Vi sono, tuttavia, diversi problemi che si frappongono alla creazione di un sistema a capitalizzazione che è opportuno qui richiamare: (a) In primo luogo non è semplice obbligare i lavoratori a risparmiare di più. La situazione più favorevole per farlo è quella di avere di fronte una generazione di lavoratori sufficientemente benestanti che, tuttavia, sono imprevidenti e dunque non risparmiano abbastanza. È però più probabile che i lavoratori più agiati già risparmino volontariamente, sicché l’introduzione di un risparmio obbligatorio potrebbe semplicemente spiazzare quello volon- tario con risultati nulli in termini di risparmio netto – una situazione che si può tipicamente verificare nei Paesi più avanzati. All’opposto, potrebbe esse- re politicamente difficile costringere lavoratori il cui salario è vicino alla sus- sistenza a risparmiarne parte: una situazione più vicina a quella dei Paesi in via di sviluppo. Questa difficoltà è stata recentemente rimarcata da Cesaratto (2005, pp. 117-122 e 2006d, pp. 37-39) e da Barr (2006, p. 13), Barr e Diamond (2006, p. 30; 2008, cap. 6), lavori a cui si rimanda per i riferimen- ti alla letteratura. (b) Le cose si complicano se, com’è vero nella gran parte dei Paesi più sviluppati, già esiste un sistema pubblico a ripartizione per cui i lavoratori già 12 Nei Paesi anglosassoni la capitalizzazione è infatti nota come schema “fully funded” nel senso che vi è dietro una accumulazione di risorse reali. La ripartizione è invece definita “unfunded” proprio per sotto- lineare l’assenza di accumulazione. In taluni sistemi a ripartizione come quelli americano e svedese parte della contribuzione viene accumulata in un fondo di riserva (“trust fund”), ma è controverso se a ciò cor- risponda una accumulazione di capitale reale (v. Cesaratto, 2005, cap. 5). 13 Non si deve però frettolosamente concludere che i due sistemi soffrirebbero degli stessi problemi a fron- te di eventuali “shock” trascurando che gli economisti neoclassici hanno argomenti assai sofisticati per difendere la robustezza della capitalizzazione, argomenti illustrati criticamente da Cesaratto (2007a).
408 Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009 versano parte del salario come contribuzione obbligatoria. Da un lato non sarebbe politicamente fattibile imporre loro una seconda contribuzione a favo- re della capitalizzazione. Dall’altro, com’è noto, non è possibile deviare il flus- so contributivo dalla ripartizione a favore della capitalizzazione in quanto ciò azzererebbe il finanziamento delle pensioni in essere. Diversi presunti piani di transizione dalla ripartizione alla capitalizzazione sono stati proposti su questa base (ad esempio Castellino e Fornero 1997; Holzmann 1998) non risultando, evidentemente, molto credibili (Orszag e Stiglitz 2001; Geanakoplos, Mitchell e Zeldes 1998). In breve, ai risparmi accumulati dai fondi pensione corrispon- derebbe la creazione di un equivalente debito pubblico per finanziare le pen- sioni in essere sicché non vi sarebbe formazione di risparmio netto. Anche questa difficoltà viene rimarcata da Barr (2006, p.8) e Barr, Diamond (2006, p. 35; 2008, cap. 6) e da Cesaratto (2005, cap. 4 e 2006d)14. Come nota sala- cemente Kotlikoff (1999, pp. 16-17) a proposito di analoghe proposte di rifor- ma avanzate in un famoso rapporto (World Bank 1994): “In this putative shell game, workers, in the new regime, make contributions to their pension funds, rather than to the government, and the pension fund turns around and gives the contributions right back to the government as loans”15. 14 Barr e Diamond (2006, p. 31) notano come una riforma pensionistica potrebbe consistere per il gover- no nel continuare a utilizzare i contributi dei lavoratori per finanziare le pensioni correnti, intestando ai lavoratori dei titoli di Stato appositamente emessi. Non vi sarebbe in tal caso nessun effetto sul risparmio nazionale (la somma di risparmio pubblico e privato) e il sistema continuerebbe a funzionare sui principi della ripartizione. Nella terminologia di Orszag e Stiglitz (2001, p. 22) il sistema sarebbe “narrow pre- funded”, cioè senza accumulazione netta di risparmio. Per un approfondimento v. Cesaratto (2005, cap. 4 e in particolare le pp.151-153) dove il sistema è definito “falsa capitalizzazione” e viene citato un passo di de Finetti (1956, p. 279) in cui si anticipa il medesimo concetto. Eppure solo recentemente è maturata piena consapevolezza al riguardo degli inganni in cui si può incorrere nel parlare di passaggio alla capita- lizzazione. 15 Kotlikoff così continua: “So the cash flow from the workers to the government remains the same. In the old system, workers receive implicit I.O.U.s to future government pension benefits in exchange for their contributions, whereas under the new system they receive, via their pension funds, explicit I.O.U.s (government bonds) that promise to pay interest and principal. If the implicit and explicit I.O.U.s have the same present value, then the ‘reform’ has not reduced the present value of the government’s future expen- diture – it has simply relabelled them.” Avendo criticato la World Bank, Kotlikoff non resiste dal propor- re il proprio (e di Jeffrey Sachs) “shell game”. Sostiene, ad esempio, che i proventi dalle privatizzazioni potrebbero essere impiegati per finanziare la spesa per le pensioni correnti, sì da poter investire i contri- buti previdenziali nei mercati finanziari “globali” (1999, p. 22; una proposta simile era già stata avanzata peraltro dalla stessa World Bank, 1994, pp. 268-9). In prima approssimazione, tuttavia, si può ritenere che, parafrasando lo stesso Kotlikoff: “[i]n this putative shell game, workers, in the new regime, make contri- butions to their pension funds, rather than to the government, and the pension fund turns around and gives the contributions right back to the government [in order to purchase the privatised companies]”. Gli effet- ti sui risparmi nazionali e sulla posizione patrimoniale netta dello Stato sarebbero nulli (per una discus- sione v. Cesaratto, 2005, nota 18, p.173). Neppure il governatore Draghi ha voluto esimersi dal partecipa- re al “shell game” proponendo, nelle Considerazioni del 2008, di utilizzare il minor disavanzo pubblico atteso (l’allora definito “tesoretto”), tecnicamente un miglioramento nei risparmi pubblici, per finanziare il maggior disavanzo previdenziale, tecnicamente un peggioramento nei risparmi pubblici, dovuto al pas- saggio ai fondi pensione di 3 punti percentuali della contribuzione al sistema pubblico.
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare... 409 (c) Una critica dirimente è infine quella che si riferisce alla controversa relazione fra risparmi e investimenti: pur ammettendo che una riforma pen- sionistica accresca la propensione al risparmio dei lavoratori – come nei modelli di Feldstein e Samwick (1998) e di Ceprini e Modigliani (1998) – non vi sarebbero tuttavia ragioni né analitiche né empiriche per sostenere che il livello degli investimenti aumenterebbe di conseguenza, né a livello nazio- nale, né in altri Paesi a cui i risparmi verrebbero, secondo la vulgata corren- te, “prestati” (Cesaratto 2005, capp. 4 e 6; 2006d, 2006f). Già Keynes (1936) aveva argomentato come, nei limiti del pieno utilizzo della capacità produt- tiva esistente, sono gli investimenti a determinare i risparmi, e non viceversa come asserito dalla teoria tradizionale. Per giunta, il “paradosso del rispar- mio” mostra come un aumento della propensione al risparmio, dato il livello degli investimenti, determina una diminuzione del reddito nazionale. Le cri- tiche in tema di teoria del capitale sollevate nell’ambito della nota controver- sia portano a rafforzare tale conclusione (Garegnani, 1970). Interessante notare come economisti “mainstream” come Barr e Diamond (2006, p. 33) accettino, sebbene senza approfondimenti, che la relazione fra risparmi e investimenti possa essere più complessa di quanto la teoria neoclassica vor- rebbe. Così si esprime Barr (2006, p.13): “[...] it may not be right to argue that additional savings are always translated into productive investment via adjustments in the interest rate – the Keynesian argument that higher saving together with sluggish investment may lead to stagnation rather than growth may not be wholly dead.” Il punto è però toccato solo di sfuggita in Barr e Diamond (2008, p. 105) dove il ruolo dell’analisi keynesiana è circoscritto al breve periodo16. Svariati autori hanno sollevato altre critiche alla capitalizzazione che, tut- tavia, danno per scontato che essa possa essere creata a piacimento, con un tratto di penna politico. Abbiamo ora invece argomentato che ciò è lontano dall’esser vero. Per legge, per così dire, non si può né indurre i lavoratori a risparmiare di più, né trasformare l’eventuale risparmio in accumulazione di capitale. Ignorando ciò, il criterio più diffuso per giudicare fra i due sistemi, ripartizione e capitalizzazione, è invece quello del confronto fra i rispettivi tassi di remunerazione sui contributi. Come ripetutamente rimarcato da Barr e Diamond (2006, p. 22): 16 Economisti educati a ragionare nei termini della macroeconomia convenzionale hanno spesso difficoltà a comprendere la rilevanza della lezione keynesiana per problemi di lungo periodo quale quello delle pen- sioni. Ormai ampia è tuttavia la letteratura che ha cominciato a estendere al lungo periodo quella che Kaldor denominò come la “premessa keynesiana” circa l’indipendenza degli investimenti dai risparmi di pieno impiego (v. Palumbo e Trezzini 2003).
410 Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009 “It is mistaken to focus on a pension system in steady state, while ignoring or underplaying the necessary transition steps to get from one steady state to another […] An error […] is to argue that funding is necessarily superior because stock-market returns are higher than the rate of growth of the wage base, which determines the return to PAYG schemes” (v. anche pp. 31, 34-35, 36, 38 e Barr e Diamond 2008, 106-109). Il medesimo punto era stato ben anticipato in Cesaratto (2005, 91) secon- do il quale molti economisti [...] “just compare the rate of return on contributions in the two systems – the ‘biological rate’ of PAYG, and the rate of return on investment of [a fully funded] scheme – without discussing the transition difficulties and macroeco- nomic implications of adopting one of the two competing programmes” (v. anche Cesaratto 2006d, 34). In economia aperta è stato frequentemente segnalato da Pizzuti (es. 1998, p. 58) il pericolo che i fondi pensione “portino risparmio italiano all’estero”. Da un punto di vista keynesiano, tuttavia, in economia aperta, non meno che in una chiusa, sono le decisioni di investimento a determinare quelle di risparmio (Dalziel e Harcourt 1997; Cesaratto 2005, cap. 6; 2006f). Quindi l’idea che se i fondi pensione investono all’estero lì gli investimenti aumen- teranno, mentre in Italia diminuiranno, riflette una visione assai tradizionale della relazione fra investimenti e risparmi. 4.1.2. La riforma del TFR: un altro “shall game”? Date le difficoltà a transitare dalla ripartizione alla capitalizzazione, allo scopo di sviluppare i fondi pensione nel nostro Paese si è pensato di utilizza- re un fondo di risparmi già esistente: il Trattamento di Fine Rapporto (TFR). Nel settore privato, infatti, il TFR risulta in un prestito che i lavoratori fanno all’impresa, la quale lo utilizza in luogo del credito bancario per finanziare le proprie attività. Possiamo supporre che lo stock di TFR sia incorporato nello stock di capitali fissi e circolanti dell’impresa. Lo stock di TFR si forma nella fase di avvio dell’impresa, quando vi è un flusso in ingresso, ma non in uscita. Quando il sistema è “maturo” il flusso in ingresso corrisponde al flusso in usci- ta, cioè alle “liquidazioni” correnti erogate (un po’ come a regime gli ammor- tamenti sono impiegati per sostituire il macchinario che va fuori uso). A livel- lo aggregato le cifre coinvolte sono significative: lo stock e il flusso di TFR sono nell’ordine, rispettivamente, di 100/150 miliardi e di 15 miliardi di Euro. La destinazione di parte o tutto il flusso di TFR ai fondi pensione implica che le imprese, se intendono preservare lo stock di capitale creato via TFR, sostituiscano il flusso di TFR in entrata con un finanziamento esterno. Ciò induce a ritenere che, prima facie, siano i medesimi fondi pensione a girare
S. Cesaratto - Invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro e welfare... 411 il flusso di TFR loro pervenuto alle imprese, una via più costosa di finanzia- mento per le imprese e una maniera gattopardesca di creare i fondi pensione (v. Cesaratto 2001a, 2001b). Così man mano che lo stock di TFR viene liqui- dato, il corrispondente stock di capitale viene coperto da un finanziamento esterno, la cui fonte sono i fondi a cui è stato devoluto il TFR. Uno “shell game” come lo definirebbe Kotlikoff17. Naturalmente è improbabile che le cose si presentino in maniera così semplice. Ad esempio i fondi pensione potrebbero investire una quota delle risorse in titoli di Stato, ma vi saranno allora altri soggetti che sposteranno le loro risorse dai titoli di Stato al finan- ziamento alle imprese: dunque un mero rimescolamento. In conclusione dal punto di vista macroeconomico è difficile ritenere che la destinazione del TFR ai fondi pensione abbia effetti di rilievo. 4.1.3. La riforma del TFR Il 2008 è stato il primo anno a regime della riforma del TFR introdotta nel 2007. La riforma prevedeva, com’è noto, il trasferimento su base volontaria – ma col principio del silenzio assenso – del TFR maturando ai fondi pen- sione, negoziali o “aperti”, limitatamente al solo settore privato. Come s’è detto, il TFR era già una forma di risparmio gestito. Con la riforma se ne è solo trasformata l’amministrazione, affidandola ai fondi pensione, allo scopo di trasformare una forma di risparmio gestito che non aveva precipue finalità previdenziali in previdenza complementare, nella speranza che ciò possa, anche attraverso una migliore remunerazione, compensare il calo delle pen- sioni che si avrà con la progressiva andata a regime della riforma Dini (v. avanti). Nel modo in cui viene usualmente presentato questo passaggio (per esempio da RGS, 2008, p.156), si trascura tuttavia il fatto che prima della riforma Dini un lavoratore poteva contare su una più alta pensione retributi- va più il TFR, mentre dopo può solo sperare che la trasformazione del TFR in previdenza complementare assicuri una pensione complessiva (pubblica più complementare) non troppo inferiore a quella pubblica “retributiva”, al prezzo della perdita secca del TFR. La questione dei presunti maggiori rendimenti del TFR solleva parecchie questioni. Ammesso che questi vi siano, almeno nella media di lungo perio- do, vi è da considerare che le imprese che “perdono” il TFR sono risarcite più che abbondantemente dallo Stato con cospicui sgravi fiscali, che costeranno 17 Qualcosa di simile è stato proposto per gli Stati Uniti (v. Cesaratto, 2005, cap. 5). Lì la Social Security gestisce un fondo di riserva denominato Trust Fund che è generato da una contribuzione previdenziale che supera le pensioni erogate. Il fondo di riserva investe in titoli del Tesoro americano. Si propone dunque di trasferire il fondo ai lavoratori e di investirlo in titoli privati. In questo caso ciò che accade è che da un lato il governo sarebbe costretto a un maggior ricorso all’indebitamento verso il settore privato. Dall’altro, in prima approssimazione, i fondi pensione destinerebbero i fondi ricevuti per finanziare il settore pubbli- co, con effetti macroeconomici nulli (a parte, forse, un maggior costo dell’indebitamente per il settore pub- blico).
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