Incontro con la stampa estera del Ministro Massimo D'Alema presso la sede dell'Associazione della Stampa Estera in Italia 3 marzo 2008 Domande su ...
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Ministero degli Affari Esteri Servizio Stampa e Informazione Incontro con la stampa estera del Ministro Massimo D’Alema presso la sede dell’Associazione della Stampa Estera in Italia 3 marzo 2008 Domande su temi di politica estera
Introduzione (Christopher Warde-Jones) Bene, allora, cominciamo. Vorrei innanzitutto ringraziare personalmente il Ministro per la sua disponibilità a tornare ad incontrare la Stampa Estera in un momento di fermento sia in Italia che all’estero. Direi di passare subito alle domande, se il Ministro non so se vuole dire due parole, o se preferisce passare subito alle domande. (Min. Massimo D’Alema) Passerei alle domande, salvo rivolgere un saluto, nel senso che questo nostro incontro cade alla vigilia delle elezioni politiche che si svolgeranno in Italia il 13 e 14 di aprile, un incontro che certamente rappresenta anche un po’ l’occasione di un bilancio, che tuttavia non farò, se non conversando e rispondendo alle vostre domande, di un lavoro assai intenso e appassionato di due anni, abbastanza importanti e difficili per le relazioni internazionali. Innanzitutto, io volevo ringraziarvi per l’attenzione che la stampa estera e la stampa nazionale ha dedicato alla politica estera italiana e iniziative della politica estera italiana. L’Italia ha svolto un ruolo importante, un ruolo da protagonista in questi anni. L’Italia fa parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha rilanciato la propria iniziativa in sede europea, ha un ruolo rilevante nelle missioni internazionali della pace: siamo uno dei maggiori contributori con una responsabilità primaria. La più importante missione internazionale di pace delle Nazioni Unite in Libano vede l’Italia al comando; nei Balcani l’Italia ha un ruolo molto importante in una fase molto delicata e difficile; in Afghanistan siamo il quarto contingente con responsabilità di particolare rilievo. Il Paese, nonostante tutte le sue difficoltà e i suoi problemi, nonostante una situazione di fragilità o di instabilità interna, non ha cessato di esercitare e anzi indubbiamente ha accresciuto nel corso di questi due anni la sua presenza sulla scena internazionale. Ho ricordato il Consiglio di Sicurezza, i diritti umani, o il ruolo che l’Italia svolge all’interno della NATO con la presidenza del comitato militare, o all’interno del Fondo Monetario con la presidenza del comitato ministeriale, e sicuramente un ruolo assai significativo. Spero che questi temi, come accrescere e rafforzare questo ruolo, possano trovare un posto nel confronto elettorale. Noi abbiamo dato vita, e probabilmente presenteremo i frutti di questo lavoro, a un Gruppo di Riflessione Strategica con l’obiettivo di arrivare ad un documento che definisca le linee generali condivise dell’azione internazionale dell’Italia al di là del succedersi dei governi, e che definisca anche il senso dell’interesse nazionale. Si tratta di un documento strategico proiettato in particolare al 2020. L’intento è quello di definire da qui ad allora nello sviluppo degli scenari internazionali il ruolo dell’Italia. E’ stato il frutto di un lavoro che ha coinvolto università, centri di ricerca, e rappresentanze delle grandi forze sociali, imprenditoriali, e che aveva l’ambizione poi di sfociare 2
nell’adozione di una piattaforma parlamentare condivisa. Questo lavoro è stato ora interrotto. Tuttavia questo documento è stato formulato, almeno nelle grandi linee, e io penso che lo presenteremo all’opinione pubblica, nella speranza così di passare un testimone alla prossima legislatura e con l’obiettivo di dotare il nostro Paese di un documento di riflessione e di strategia che possa rappresentare l’asse della politica estera italiana al di là dell’alternarsi dei governi e delle maggioranze. Grazie, questi erano alcuni temi che volevo suggerire, poi adesso dialoghiamo. Domande D. Comincio io, sarei particolarmente interessato a sapere come stia andando la questione dell’indipendenza del Kosovo. So che Lei se ne occupa moltissimo, c’è stato molto rumore, adesso c’è un po’ di silenzio. Non sarà, spero, la quiete prima della tempesta? (Christopher Warde-Jones, The Times) R. Speriamo che sia la quiete prima della ripresa, che non sarà facile, di un dialogo che è indispensabile, tra Belgrado e Priština, e che indubbiamente potrà svilupparsi in particolare per l’impegno dell’Unione Europea. Si parla abbastanza impropriamente, a mio giudizio, di “indipendenza” del Kosovo, visto che il Kosovo è una regione che si trova sotto amministrazione internazionale, e sotto controllo internazionale di sicurezza. Non è la condizione esatta di uno Stato indipendente, diciamo. L’indipendenza del Kosovo, questa forma di indipendenza sotto supervisione internazionale, era l’unico esito possibile di una lunga e drammatica vicenda, e pur comprendendo l’amarezza dei serbi, anche perché ovviamente l’attuale leadership serba non ha la responsabilità di questo esito, tuttavia è difficile cambiare la storia passata. A volta non è facile neanche influenzare quella futura, ma cambiare quella passata è impossibile. Era difficile che ci fosse un altro esito. Nessuna forza avrebbe potuto ricondurre i kosovari sotto l’autorità di Belgrado. Adesso naturalmente si tratta di riprendere le fila di un dialogo, di gestire con molto senso della misura, con molto equilibrio una delicata fase di transizione, e intendiamo svolgere fino in fondo il nostro ruolo. L’Italia è presente nel Kosovo con circa 2600 militari, una parte dei quali sono impegnati proprio nel Nord del Paese al confine con la Serbia. Saremo presenti con numerosi funzionari civili nella missione europea, e siamo un Paese che tradizionalmente ha rapporti di amicizia con la Serbia e con il Kosovo, quindi ci troviamo nella posizione di essere amici degli uni e degli altri e di potere e volere svolgere questo ruolo di mediazione e di dialogo che è essenziale. In questo momento ovviamente ciò che è fondamentale è che da una parte e dall’altra ci sia senso della misura e che l’impegno che è stato assunto di evitare atti che possano incrementare la tensione, questo impegno sia scrupolosamente rispettato, sia a Priština che a Belgrado. 3
D. Dunque, sta succedendo una situazione abbastanza tesa in America Latina, come Lei sa. La Colombia per catturare i guerriglieri della Farc, ha compiuto bombardamenti in un altro Stato, l’Ecuador. Il Venezuela ha messo delle truppe nella frontiera, e richiamato l’Ambasciatore da Bogotà, e lo stesso sta per fare l’Uruguay. Cosa ne pensa Lei di questo, qual è la posizione dell’Italia? (Gina de Azevedo Marques, O’Globo, Brasile) R. Guardi, io sono stato due giorni fa a Caracas. Ho avuto modo di incontrare a Caracas la Signora Yolanda Pulecio de Betancourt, la madre di Ingrid Betancourt, che avevo già ricevuto a Roma qualche giorno fa, e naturalmente ho incontrato le Autorità di Governo del Venezuela e il Presidente Chavez. L’Italia è favorevole a che si sviluppi un dialogo per porre fine alla guerriglia che insanguina la Colombia da tanti anni. Nel passato avevamo anche direttamente collaborato a questo progetto con il Presidente Pastrana e abbiamo seguito con interesse l’impegno di un gruppo di Paesi, in particolare tra i Paesi europei la Francia, la Svizzera, la Spagna e i Paesi latinoamericani per favorire questo dialogo. Abbiamo anche apprezzato la mediazione compiuta dal Presidente Chavez che ha portato alla liberazione di alcuni ostaggi che erano nelle mani della Farc, e abbiamo seguito l’impegno per liberare Ingrid Betancourt, tanto più dopo le notizie preoccupanti sulle sue condizioni di salute. Certo, che nel momento che si sviluppava questo dialogo, questo tentativo di spingere verso un accordo di pace, diciamo, questa operazione militare compiuta all’estero da parte del Governo della Colombia ci ha colpiti molto, ci ha lasciato perplessi e preoccupati, non perché non sia legittimo combattere le organizzazioni di guerriglia, ma nel momento che il Governo stesso della Colombia aveva espresso apprezzamento attraverso le parole di Uribe per l’impegno di mediazione di Chavez, questa operazione militare che coinvolge in più un altro Paese, appare in contraddizione. L’opera di mediazione, lo sforzo di aprire il canale di una soluzione politica di un conflitto, il fatto che contemporaneamente si organizza un’operazione militare di questo tipo appare una contraddizione, lascia perplessi, certamente si capisce che questo possa avere creato una grave tensione in America Latina. D. Si tratta della stessa domanda, soltanto vorrei sapere se durante i suoi incontri in Venezuela se l’Italia ha offerto qualche contributo, qualche mediazione per la liberazione degli ostaggi, qualcosa di concreto. (Mario Javier Osorio Beristain, Notimex – Agenzia Messicana) R. Non siamo nelle condizioni di offrire delle mediazioni, perché non abbiamo dei rapporti, ovviamente, con queste organizzazioni. D’altro canto, perché offrire noi delle mediazioni al mediatore? Il Venezuela ha giocato questo ruolo, ovviamente ha giocato questo ruolo di mediazione, di interlocuzione, e di dialogo. Noi abbiamo sottolineato che siamo pronti a fare parte di un gruppo di Paesi amici, di contatto, di un gruppo di Paesi europei che può dare un contributo all’opera di riconciliazione, non con particolari ruoli di mediazione, che non saremmo in grado di esercitare. In realtà, questa funzione di mediazione la stava esercitando il Venezuela, incoraggiato in questo senso non solo da 4
noi, ma anche dalla Francia, e da numerosi Paesi. Certo adesso bisogna capire con quali sviluppi. Il Venezuela ha in particolare in corso un rapporto con il Governo francese che è fortemente impegnato considerata la cittadinanza francese di Ingrid Betancourt. Pochi giorni prima c’era stata la visita a Caracas di Bernard Kouchner. Insomma, è un impegno europeo nel quale noi ci sentiamo di poter affiancare altri Paesi europei. D. Ricordo che Lei è stato tra i primi a suggerire di mandare una forza internazionale di interposizione tra Israeliani e Palestinesi. Allora non c’era niente di sicuro, ma adesso la situazione, visto lo sviluppo, mi sembra che ci vorrebbe una forza per riuscire a risolvere questo problema visto che le due parti non riescono a risolverlo da soli. Cosa ne pensa? (Yossi Bar, Radio Israeliana) R. Noi abbiamo prospettato all’indomani dell’intervento della comunità internazionale in Libano la possibilità che una forza internazionale potesse essere dispiegata allo scopo di garantire la sicurezza in Israele e di proteggere le popolazioni palestinesi. Però, naturalmente, questa è un’ipotesi che può essere presa in considerazione soltanto nel quadro di un accordo tra le parti, di cui non si vedono allo stato i presupposti, e sulla base di una decisione e di un mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Così è avvenuto nel Libano. Sono cessate le ostilità, le forze israeliane si sono ritirate dal Libano, c’è stato un accordo tra i due Governi, c’è stata una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza e a quel punto si è potuto dispiegare Unifil II, altrimenti non vi sarebbero state le condizioni. Quindi, nel caso di Gaza, secondo me questa esigenza rimane, allo stato delle cose non se ne vedono i presupposti, onestamente. Non credo che una forza internazionale possa intervenire per sostituire gli israeliani come forza di occupazione. Quindi, ciò potrebbe avvenire soltanto dopo un accordo tra le parti, di cui non si vede l’orizzonte, anzi, i negoziati sono stati interrotti a seguito degli scontri. Purtroppo la situazione è molto, molto, molto più indietro rispetto a questa eventualità e mi sembra che adesso, in questo momento, l’obiettivo principale è che cessino le violenze e che si possa creare un minimo di situazione che consenta la ripresa di un dialogo tra le parti. Mi sembra che siamo molto lontani dallo scenario che noi avevamo auspicato, nel quale rendere possibile un’operazione internazionale di questo tipo. D. Questa spirale di violenza come si potrebbe risolvere, secondo Lei, questa violenza fra le due parti? (Yossi Bar, Radio Israeliana) R. Bisogna smettere di sparare. La soluzione è abbastanza semplice, tutto sommato. D. Buongiorno, torniamo all’America Latina. Ci sono parecchi italiani che sono stati rapiti dalla delinquenza venezuelana, e questo affare del rapimento di italo-venezuelani è diventato una vera e propria industria in un Paese dove il 10% della popolazione, cioè 2 milioni su 22, è italo-venezuelano, e 200,000 hanno il passaporto. Avete parlato di questo problema, Lei e il Presidente Chavez? (Antonio Josè Mendoza Wolske, Encuadre - Venezuela) 5
R. Certamente, abbiamo parlato di questo problema con il Presidente Chavez, con il Canciller Maduro, e con i rappresentanti della comunità italiana, che naturalmente ho incontrato nel corso della mia breve visita. Naturalmente, il dramma dei sequestri di persona a scopo di estorsione non colpisce soltanto la comunità italo-venezuelana ma anche altre comunità, ma certamente siccome la comunità italiana è anche una comunità di ceto medio, di imprenditori, ovviamente è bersaglio della criminalità che avendo un fine economico, è chiaro che rapiscono le persone che hanno maggiori possibilità. Noi abbiamo già avviato una collaborazione di polizia con le Autorità venezuelane, nel senso che l’Italia provvede alla formazione di funzionari di polizia venezuelani, proprio allo scopo di prepararli in materia di lotta e prevenzione dei sequestri di persone. Questo accordo è in vigore dal 2006, è stato firmato a Caracas dal Vice Ministro Danieli, e devo dire che abbiamo registrato un apprezzamento da parte delle Autorità venezuelane sul funzionamento di questa cooperazione, di questo accordo. Abbiamo chiesto al Venezuela un impegno particolare. Devo dire che il collega del Venezuela riconosce l’emergenza criminalità e in particolare il fenomeno dei sequestri, e ci hanno assicurato una volontà di colpire, di prevenire, di reprimere queste forme di criminalità, testimoniate anche dall’impegno del Ministro degli Interni che viene riconosciuto come particolarmente impegnato nella lotta contro il crimine. Quindi, ne abbiamo discusso, abbiamo offerto un ulteriore rafforzamento del nostro impegno che è già in atto di collaborazione di polizia, abbiamo ottenuto una risposta positiva, poi si tratterà anche di vedere i fatti, ovviamente. D. Signor Ministro, circa dieci giorni fa l’ultima relazione di El Baradei sul programma nucleare iraniano sancisce ancora maggiori collaborazioni da parte dell’Iran con l’AIEA. Secondo Lei, è forse arrivato il tempo che il caso iraniano torni dal Consiglio di Sicurezza di nuovo all’AIEA che è giusto che risolva questo tipo di problemi? Grazie. (Hamid Masoumi Nejad, Televisione Iraniana) R. Ma, noi abbiamo sicuramente apprezzato il rapporto dell’AIEA perché questo rapporto dimostra la disponibilità del Governo iraniano a chiarire le questioni pregresse che erano relative a delle violazioni dell’accordo di non proliferazione che si riteneva che l’Iran avesse compiuto, che in parte l’Iran aveva compiuto, che successivamente non è stato possibile affrontare e chiarire. Tuttavia, il contenzioso all’esame del Consiglio di Sicurezza non riguarda soltanto gli aspetti pregressi ma riguarda anche i programmi in corso e le intenzioni future da parte dell’Iran, e soprattutto riguarda l’inadempienza da parte dell’Iran alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiede all’Iran di sospendere il processo di arricchimento dell’uranio. Noi speriamo che le Autorità iraniane vogliano adempiere alle richieste del Consiglio di Sicurezza, il che, fra l’altro, aprirebbe la strada al negoziato diretto con i Paesi interessati, negoziato che non esclude affatto il riconoscimento internazionale del diritto dell’Iran a fare ricorso all’energia nucleare per usi civili. Quello che Lei dice è certamente auspicabile, ma molto dipenderà dai comportamenti del Governo iraniano. In questi giorni è all’esame del Consiglio di 6
Sicurezza una bozza di nuova Risoluzione che è nata per iniziativa del Gruppo dei Paesi 5 + 1. Noi la stiamo esaminando. Ripeto, noi abbiamo compiuto ogni sforzo per incoraggiare le Autorità iraniane ad adempiere alle richieste del Consiglio di Sicurezza, e restiamo convinti che questa è la via maestra, perché questa questione possa essere ricondotta nell’alveo della soluzione politica e negoziale. D. Il mio collega Yossi Bar ha fatto la domanda che volevo fare inizialmente. Però vorrei continuare su questo, perchè Lei alla fine ha alzato le mani dicendo “che possiamo fare, prima devono smettere di sparare”. Però io penso che in questo momento la situazione è talmente grave che non si potrà tornare indietro alla pace negoziata in nessuno modo, adesso come stanno le cose. E’ tardi, perché ci sono migliaia di missili Qassam lanciati sul territorio israeliano. Gli israeliani hanno risposto e naturalmente ci sono state più vittime tra i palestinesi anche perché i centri di lancio di questi Qassam sono sempre in centri abitati. E questa è una strategia da parte di Hamas anche per la reazione del mondo. Siamo davanti a una vera catastrofe e penso che sarebbe auspicabile che la comunità internazionale, che è stata coinvolta come corresponsabile in questa situazione, potesse prendere un’iniziativa oggi per costringere le parti a negoziare, a creare un cessate il fuoco. Se veramente si vuole evitare che questo fuoco poi va avanti, e non si potrà più controllare. Allora, io domando, Lei ha fatto questa proposta della forza multinazionale a Gaza, ci ha detto delle difficoltà che ci sono, ma non si potrebbe rilanciare, insieme con un’iniziativa internazionale urgente di negoziato? (Lisa Palmieri Billig, The Jerusalem Post) R. Sì, dunque, il negoziato è stato avviato per impulso degli Stati Uniti d’America e si è tenuta una conferenza internazionale ad Annapolis. Noi abbiamo offerto il massimo contributo possibile, nel senso di enorme investimento di risorse finanziarie perché la situazione si regge sulla responsabilità europea, altrimenti la catastrofe umanitaria sarebbe stata totale, e si è avviato un negoziato. Secondo l’opinione di chi partecipa a questo negoziato, innanzitutto l’Autorità Nazionale Palestinese, non si è compiuto nessun passo in avanti nel corso oramai di diversi mesi. Nel senso che non c’è stato nessun miglioramento sul terreno, non è stato rimosso un solo posto di blocco, e non è stato compiuto alcun passo in avanti sulle questioni che sono oggetto di questo negoziato. Nel frattempo, vi è stata un’escalation di violenza a Gaza che ha portato a che il numero dei morti palestinesi dalla Conferenza di Pace di Annapolis ad ora sia di oltre 250 persone, tra cui in massima parte civili. Ora, in questo contesto, che cosa possa fare la comunità internazionale non lo so. La comunità internazionale ha fatto moltissimo, e c’è un impegno del Presidente degli Stati Uniti. La comunità internazionale ha preso posizione, io posso citare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Segretario Generale Ban Ki Moon, la Presidenza dell’Unione Europea, il Papa, tutte queste dichiarazioni. La Presidenza dell’Unione Europea, che parla per tutti noi, ha condannato l’uso sproporzionato della forza da parte dell’esercito israeliano chiamando le parti ad un cessate il fuoco. La mia personale opinione non è dissimile a quella della grande 7
maggioranza dei cittadini israeliani. Cioè, è difficile che vada avanti un processo di pace con l’Autorità Nazionale Palestinese se in qualche modo non si apre un dialogo anche con la parte palestinese che governa a Gaza. Mi sembra francamente difficile che si possa discutere la pace con metà palestinesi e fare la guerra con l’altra metà dei palestinesi contemporaneamente, nello stesso momento. E’ chiaro che questa strategia non funziona e produce effetti progressivamente disastrosi. Abbiamo compiuto ogni sforzo, poi naturalmente il problema è di capire se gli attori che stanno lì questa pace la vogliono fare o meno. Da Roma è difficile imporla. C’è un problema che riguarda le forze che sono in campo. E’ chiaro che se non c’è una qualche distensione con Gaza non si può fare la pace con Ramallah, perché a un certo punto che si possa fare la guerra e la pace in un arco di pochi chilometri contemporaneamente è chiaro che non funziona. Lo avevamo anche detto, attirandoci le ire, perché questa è una materia nella quale anche per dire verità elementari ci si attira immediatamente le accuse più infamanti, quindi bisogna muoversi con molta cautela, nel dire cose ovvie. Perché quello che sto dicendo è ovvio, tanto è vero che lo pensa anche la maggioranza dei cittadini di Israele. Noi abbiamo mantenuto un impegno costante, prima per il Libano, e io credo che si dovrebbe riflettere sui rischi, se ora non ci fossero schierati tra Israele e Libano 16.000 militari delle Nazioni Unite io credo che ci sarebbe un secondo fronte in questo momento. Ci siamo presi le nostre responsabilità, abbiamo incoraggiato, abbiamo chiesto; se poi concretamente i passi in avanti non si fanno, non so che cosa possiamo fare, e soprattutto io credo in questo momento che è ovvio che gli Stati Uniti hanno preso una responsabilità primaria. Normalmente, quando noi diciamo qualcosa al Governo israeliano, questo non ha una grande influenza. Può darsi che se glielo dicono gli americani, questo abbia maggiore influenza. D. Se non erro, dopodomani Lei avrà un incontro con la Bonino e parlerete di diritti umani. Affronterete anche la questione di “renditions”? (Costanza Barone, CBS) R.. Non lo so, perché io sono invitato a partecipare a un convegno di cui non ho stabilito l’agenda. D. Allora, gliela faccio io la domanda, quando è che in Italia si parlerà di queste “rendition” e francamente non ho capito perché il Suo Governo, o se me lo vuole spiegare come se avessi sei anni, ha posto il segreto di Stato sul futuro processo che si dovrebbe aprire, sempre che il giudice dica di sì, il 12 marzo? (Costanza Barone) R. Noi non abbiamo posto il segreto di Stato sul processo. Noi abbiamo sollevato un conflitto di attribuzione con i magistrati di Milano perché essi nel corso dell’inchiesta hanno violato le regole sul segreto di Stato esistenti, nel senso che hanno diffuso delle notizie che erano coperte dal segreto di Stato. Il segreto di Stato se esiste, esiste, e va rispettato da parte di tutti i cittadini e siccome il Governo ha il dovere di tutelare questo principio, abbiamo sollevato la questione di fronte alla Corte Costituzionale che dirà, si pronuncerà, e ci dirà, la Corte Costituzionale, se effettivamente il segreto di Stato è stato violato, se c’è una responsabilità di una parte dei magistrati oppure no. Quindi, noi 8
abbiamo compiuto un atto dovuto, diciamo, il che tra l’altro non costituisce minimamente intralcio dello sviluppo della vicenda, in sede giudiziaria, che deve accertare le responsabilità di quello che avvenne peraltro in un tempo in cui, come Lei sa, in Italia c’era un altro Governo, un’altra linea di condotta per quanto riguarda questi episodi, il nostro parere è un parere che ovviamente queste operazioni illegali, in quanto siano dimostrate come tali, siano inaccettabili. Credo che nessun Governo europeo le possa accettare. Il Parlamento Europeo ha svolto una propria indagine, il Consiglio d’Europa anche se ne è occupato; noi abbiamo sostenuto tutte queste indagini per accertare la verità su quello che è accaduto. Onestamente, non solo non abbiamo alcuna responsabilità, ma non abbiamo neppure coperto nulla. Siamo interessati a che si faccia chiarezza su questi episodi, e soprattutto abbiamo sempre sostenuto che nella lotta terrorismo gli Stati democratici devono rispettare le regole dello stato di diritto e il diritto internazionale. Questa è sempre stata la nostra posizione con molta chiarezza. D. Ritorno parzialmente sulla questione di Gaza. Il Governo israeliano ha rifiutato la dichiarazione del Consiglio di Sicurezza, e quindi noi abbiamo davanti un rifiuto che diminuisce anche l’autorità del Consiglio di Sicurezza. Lei non pensa che questo potrebbe riflettersi negativamente anche sulla missione Unifil, e che riflessi potrebbe avere il cambiamento di un governo in Italia sulla presenza italiana di truppe italiane nel Libano visto che le posizioni dei partiti di destra non sono del tutto, diciamo, neutrali? (Mahdi El-Nemr, Kuwait News Agency KUNA) R. La missione in Libano è stata approvata da tutte le forze parlamentari. E’ una missione che è stata sostenuta e approvata da tutte le forze parlamentari e che quindi può contare sul sostegno di tutte le forze parlamentari, non solo di una parte. Io ritengo che noi ci troviamo, che il conflitto mediorientale è la questione più drammatica che noi abbiamo di fronte e di più complessa soluzione. Ed è anche una questione che suscita grandi passioni, per ragioni comprensibili, per i legami profondi, di natura umana, politica, religiosa, che esistono tra il nostro Paese e quella parte del mondo, con Israele, per il fatto che questo conflitto avviene intorno ai luoghi santi della religione cristiana, mille ragioni che non è qui il caso di evocare. Noi abbiamo cercato, e cerchiamo, di spingere verso un processo di pace. E’ chiaro che questo è difficile, porta a delle scelte coraggiose, ed è evidente che siamo in una fase particolarmente delicata. Qui non è che dobbiamo fare la storia, poiché sarebbe un’operazione lunga e controversa. Adesso dobbiamo vedere che cosa si può fare concretamente, in una situazione in cui, secondo me, si rischia di perdere una grande opportunità, perché sullo sfondo dei negoziati del dopo Annapolis c’è stata anche l’iniziativa di pace araba, con una offerta di riconoscimento di Israele, a cui tuttavia non è venuta una risposta sin qui convincente, a meno che gli arabi la abbiano considerata tale, il che sta sfilacciando il campo arabo e, più in generale, la volontà di trovare una soluzione e di trovare un accordo. La mia impressione è che si rischia di perdere un’occasione storica. Quello che si dovrebbe dire è questo: che si fermi questo conflitto, che si ritirino le forze israeliane da Gaza, che si 9
eserciti una pressione perché cessino i lanci dei razzi Qassam contro Israele. A mio giudizio non bisognerebbe escludere la possibilità di cercare una tregua politica. Hamas ha più volte detto di essere disposto a negoziare una tregua con Israele, e forse negoziare una tregua è il modo di far cessare questi attacchi. L’alternativa a negoziare una tregua che cos’è? Occupare Gaza, e continuare in azioni militari che seminano decine e decine di centinaia di morti tra i civili. Non lo so se delle due alternative non sia meglio negoziare una tregua. Se questa è una via possibile, io non la escluderei, la tenterei, ma non lo possiamo fare noi. E’ un problema che riguarda le Autorità israeliane, le quali sino ad ora hanno rifiutato di seguire questa strada. Ma la prima cosa da fare è di trovare la via perché tacciano le armi e quindi possa riprendere il negoziato tra israeliani e palestinesi. Questo è quello che noi possiamo chiedere, invocare: non lo possiamo fare perché evidentemente non dipende direttamente da noi, non dipende dalla nostra diretta responsabilità. E’ chiaro che in questo momento prevale una grande preoccupazione, e la speranza che si cerchi una strada per porre fine a una spirale di violenza. L’alternativa a questo è un’escalation del conflitto di cui parla apertamente il Governo israeliano, ho visto le dichiarazioni del Ministro della Difesa Barak, che è un buon amico, peraltro, il quale parla apertamente di operazioni militari su vasta scala. Io spero che non venga intrapresa quest’ulteriore strada perché credo che ci porterebbe nella direzione opposta rispetto alla possibilità di riprendere il cammino del negoziato di pace, estremamente difficile, ma questa è la strada. Il destino di Annapolis è un destino appeso a un filo, nel senso che in questo momento i negoziati sono interrotti e c’è il rischio di un’ulteriore escalation militare. D. Io ritorno di nuovo sul problema di escalation del Kosovo. Vorrei sapere, siccome Lei è un esperto dei Balcani, cosa pensa sulla possibile successione dell’altra entità. Sono state già avvisate dal Parlamento della Repubblica Srpska, l’etnia dei serbo- bosniaci, che loro vogliono, che hanno proclamato un diritto di sottoporsi al referendum sull’indipendenza e divisione della Bosnia Erzegovina. (Sanja Michalinec, Deutsche Welle edizione Balcani) R. Io credo che la Bosnia Erzegovina rappresenti, nel panorama molto complicato e frammentato della ex Jugoslavia, l’esperimento, il tentativo estremamente positivo di costruire una realtà statale multi-etnica e multi-religiosa. Spero che questa esperienza non si spezzi. Credo che sarebbe contrario agli interessi dei Balcani, contrario agli interessi europei, contrario agli interessi della stessa Bosnia Erzegovina. Non posso che esprimere l’auspicio che non si avvii un processo di ulteriore frammentazione. Già la frammentazione è stata vasta. In definitiva, la mia opinione è che la risposta a questi processi di frammentazione dovrebbe essere un’accelerazione del processo di integrazione europeo dei Balcani occidentali. Ed è in questa prospettiva, ritengo, che si possa ricostruire una convivenza tra le diverse comunità etniche e religiose che convivono nei Balcani. 10
D. Anch’io volevo fare una domanda sul Kosovo. Lei prima ha dato una risposta: si tratta di una indipendenza relativa, in questa prima fase, certo. Sta di fatto che l’Italia ha riconosciuto una dichiarazione di indipendenza unilaterale da parte del Kosovo. La mia domanda riguarda la Risoluzione 1244 dell’ONU, che parla chiaramente dell’autonomia del Kosovo, ma non di indipendenza del Kosovo, e parla di rispetto della integrità del territorio. Secondo Lei, non è una violazione della Risoluzione 1244 riconoscere l’indipendenza unilaterale del Kosovo, e che pensa di fare con questa Risoluzione, non è una violazione, oppure dobbiamo fare finta che non esiste questa Risoluzione? (Maarten van Aalderen, De Telegraaf – Paesi Bassi) R. Innanzitutto la Risoluzione 1244 considera ciò che Lei afferma nelle sue premesse; veramente non è che stabilisce che in futuro il Kosovo non potrà essere indipendente. Dice che il Kosovo fa parte della Serbia e questo fa parte delle premesse della Risoluzione. Ovviamente, non autorizza la Risoluzione di indipendenza del Kosovo, ma non contiene neppure nessuna decisione del Consiglio di Sicurezza in senso contrario. Ma, detto questo, noi abbiamo riconosciuto la dichiarazione fatta dal Parlamento kosovaro, la quale dichiarazione è una dichiarazione con la quale il Parlamento kosovaro assume le limitazioni di sovranità e annuncia che queste limitazioni di sovranità faranno parte persino della costituzione del Kosovo. In questo senso, io parlo di un’indipendenza sotto supervisione internazionale, non soltanto perché questo è il nostro giudizio, ma perché questa è la dichiarazione che Priština ha fatto. Se uno legge il testo della dichiarazione, il testo della dichiarazione accede alle limitazioni di sovranità proposte dal piano Ahtisaari. Quindi, noi abbiamo riconosciuto quella dichiarazione che loro hanno fatto, che è una dichiarazione con la quale i kosovari si dichiarano indipendenti dalla Serbia ma accettano la supervisione internazionale e l’autorità internazionale e addirittura annunciano che questa accettazione farà parte della costituzione del Kosovo. Che poi a un certo punto la comunità internazionale valuti che il Kosovo possa essere pienamente indipendente, eccetera, questo può darsi che avvenga alla fine di una transizione. Quindi, non è vero che questo passaggio ulteriore rispetto all’indipendenza che Lei ha detto “relativa” o sotto supervisione internazionale debba avvenire ora. E’ ciò che noi abbiamo riconosciuto. E’ ciò che loro hanno dichiarato. Poi, quello che accadrà alla fine della transizione lo vedremo. Quello di cui oggi discutiamo è una forma di indipendenza sotto supervisione internazionale e con limitazione di sovranità, perché questo hanno dichiarato a Priština. Questo sta scritto. Naturalmente, il delicato problema giuridico, che cosa ne è della 1244, il tema è all’esame del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che è l’organo deputato a valutare e a decidere in questa materia. Bisogna anche ricordare però che si è arrivati alla dichiarazione sulla base di una procedura, cioè è stato il Consiglio di Sicurezza a valutare tra il 2004 e il 2005 che lo status attuale del Kosovo non era più sostenibile. L’ex Presidente finlandese Ahtisaari è stato incaricato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, e non dai kosovari, di preparare un proprio piano. Questo piano prevedeva l’indipendenza sotto supervisione internazionale. Se questo piano non ha potuto essere adottato dal Consiglio di Sicurezza è stato per il veto 11
russo, perché altrimenti tutta la procedura è una procedura che è nata alle Nazioni Unite e avrebbe potuto concludersi alle Nazioni Unite. Noi abbiamo presieduto la riunione alla quale si è discusso di questo, e non c’è dubbio che questa soluzione corrispondesse alla volontà maggioritaria dei membri del Consiglio di Sicurezza. Quindi, è vero che siamo arrivati alla fine ad una soluzione che pone delicati problemi e che infatti a mio giudizio rende necessario che si arrivi poi a un accordo con la Serbia. E’ chiaro che è molto difficile per il Kosovo entrare a far parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite senza un accordo con Belgrado. E’ quindi evidente che quello che si apre è un processo di transizione, delicato, di cui porterà responsabilità in primo luogo l’Europa. Ma io vorrei ricordare che se la procedura normale è stata impossibile, questo è avvenuto per il veto della Russia, perché il piano Ahtisaari, ripeto, non è stato commissionato dai kosovari, ma dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. D. A giugno gli irlandesi sono chiamati a votare in un referendum sul Trattato di Lisbona. Se dovesse votare contro, se votano no, cosa prevede? (Patrick Agnew, Irish Times) R. Cosa prevedo io sul referendum irlandese? D. No, se dovessero votare di no. (Patrick Agnew) R. Prevedo che gli irlandesi voteranno sì. Essendo l’Irlanda un Paese che ha una forte tradizione pro-Europea non ho dubbi che gli irlandesi voteranno sì sul Trattato di Lisbona. Di tutto c’è bisogno meno che rientrare nel tunnel di una crisi di questo tipo. D. Io vorrei che Lei facesse un bilancio della Sua visita in Venezuela nel senso di cosa raggiungono questi accordi con PDVSA e la Sua impressione sulla situazione venezuelana. Glielo chiedo perché la comunità italo-venezuelana è preoccupata che questi accordi, questo rapporto petrolifero possa addolcire la sua impressione sulla rivoluzione. (Eliana Loza Schiano, El Universal - Venezuela) R. Sulla rivoluzione? D. Sì, sul processo venezuelano. R. Ma, guardi, noi non abbiamo espresso, le nostre posizioni sono note, tra l’altro io ho avuto modo di esprimerle scrivendo sulla stampa della comunità italo-venezuelana. Noi manteniamo tutte le nostre ragioni di preoccupazione per gli elementi di una situazione interna che spesso è stata dominata da un conflitto politico acceso o da manifestazioni di populismo. Personalmente, ritengo che il risultato del referendum abbia manifestato anche, io ritengo, intanto il fatto che il partito al Governo, il Presidente, abbia perduto il referendum è un segno della vitalità democratica del Venezuela e del fatto che al di là delle preoccupazioni il confronto avviene su piano democratico. Io ho detto ai nostri amici venezuelani, al Canciller, che il fatto che loro abbiano perso il referendum ha rafforzato la credibilità del Venezuela come Paese democratico. Lì per lì è rimasto un po’ colpito da questa mia dichiarazione, ma in effetti è così, perché questo dimostra che è un Paese nel quale… normalmente nei Paesi che non sono democratici chi sta al 12
Governo non perde mai i referendum. Quindi, è un buon segno che chi sta al Governo perda il referendum. Naturalmente, noi continueremo ad esercitare così nel quadro di un rapporto amichevole questo tipo di pressione, di consiglio. Il consolidamento della democrazia è senza dubbio uno dei grandi temi che anche l’Unione Europea metterà al centro del prossimo Vertice di Lima euro-latinoamericano. Naturalmente, nello stesso tempo, riteniamo che lo sforzo per ridurre la povertà, per combattere le disuguaglianze sociali, l’integrazione regionale del latino america, un processo politico nuovo, eccetera, siano altrettanti obiettivi essenziali. Rispetto al Venezuela, io ho apprezzato da sempre l’atteggiamento politico che innanzitutto il Presidente Lula ha tenuto, cioè un atteggiamento politico che mira a integrare il Venezuela nel processo politico, nel processo democratico del subcontinente, considerando che una politica di isolamento avrebbe effetti controproducenti, e continuando a sollecitare, a incoraggiare il processo di consolidamento democratico. Credo che noi continueremo ad avere questa posizione. Nello stesso tempo non possiamo che salutare positivamente il fatto che abbiamo raggiunto un accordo che a mio giudizio è importante anche per il Venezuela per il rilevante apporto tecnologico che l’ENI potrà dare allo sfruttamento del bacino dell’Orinoco che come è noto presenta particolari problemi anche data la natura di questo petrolio che richiede specifiche procedure di raffinazione. Certamente è un accordo che premia anche notevolmente l’interesse nazionale del nostro Paese, essendo un Paese dipendente, il fatto di poter diversificare la nostra dipendenza da un punto di vista strategico è un’acquisizione enorme. In Italia tutto sommato se ne è parlato poco. Però la stampa internazionale, a cominciare dall’autorevole Financial Times, se ne è occupato parecchio. Perché, effettivamente, si tratta di un’operazione di grandissimo rilievo. Se Lei pensa che una compagnia petrolifera viene valutata soprattutto per le riserve di cui dispone, dato che il petrolio è una riserva abbastanza scarsa, e che l’ENI in questo accordo con un colpo solo ha accresciuto del 15% le sue riserve strategiche, Lei si rende conto che abbiamo fatto qualcosa che va enormemente nell’interesse dell’Italia. Non ci diranno grazie, stia tranquilla. Normalmente non accade. Però abbiamo almeno la coscienza tranquilla. D. Possiamo tornare in Italia un attimo. Prima di tutto, se vincerete le elezioni, se Lei continuerà a fare il Ministro degli Esteri, questa è la domanda. Seconda domanda: nonostante la ottima politica estera che Lei ha condotto fino a qui, l’immagine dell’Italia attualmente è quella che tutti conosciamo, un’immagine dell’Italia, non il Sud, ma dell’Italia spazzatura. Allora, volevo chiedere: Lei, che cosa si propone di fare, perché questa è una situazione anche grave, c’è una ricaduta anche economica, di immagine, eccetera. Non chiedo un giudizio su Bassolino che non si è dimesso se non lo vuole dare, ma che cosa Lei, che è così pragmatico, potrà fare per riconquistare all’Italia un posto un po’ più decente di quello che ha adesso? (Carlotta Tagliarini, ZDF - TV tedesca) 13
R. Innanzitutto, è vero, purtroppo, che l’immagine del nostro Paese è legata più a questi aspetti negativi che non alle cose pure importanti che l’Italia fa nel mondo. Io penso che questa immagine sia distorta, esagerata, perché non è vero che l’Italia sia spazzatura, io conosco molti stranieri che vivono in Italia e si lamentano di tanti aspetti, poi però dicono, “Da voi si vive molto meglio che da noi.” Forse voi stessi potreste contribuire a diffondere un’immagine, non dico acritica, critica, ma più appropriata della realtà del nostro Paese, che non mi pare riassumibile nelle fotografie dei mucchi di spazzatura di Napoli o della Campania. Per quanto riguarda l’emergenza di Napoli e della Campania, il nostro Governo è stato il primo Governo che ha cercato di occuparsene seriamente. Lo dico anche perché considero anche eticamente inaccettabile questo scarico di responsabilità su una persona, perché la gestione dei rifiuti in Campania è una gestione del Governo nazionale, oramai da molti anni. E’ una gestione commissariale che fa capo alla responsabilità del Governo nazionale. Quindi, tutti, noi per primi, io dico quello che accade in Campania è il segno di una sconfitta di un’intera classe dirigente. Naturalmente, anche il Governo Berlusconi che per cinque anni ha avuto la responsabilità, mi dovrete spiegare che cosa hanno fatto. Tutti dovrebbero essere tenuti. Noi siamo un Paese nel quale spesso, e questo è il vero difetto, molto più della spazzatura, nella classe dirigente, anziché rendere conto delle proprie responsabilità, si tende a dare la colpa agli altri, il che non va bene. Quindi, l’emergenza rifiuti è il risultato di scelte che hanno coinvolto molti responsabili, e, ripeto, la responsabilità è stata del Governo nazionale da molti anni, compresi i cinque anni di Governo Berlusconi. Noi che cosa abbiamo fatto? Noi abbiamo preso le misure drastiche che abbiamo preso, nominando un Commissario con poteri straordinari, e adesso quello che si deve fare è innanzitutto aiutare il Prefetto De Gennaro a portare a compimento il suo compito che è quello di levare la spazzatura e ripristinare la normalità. Abbiamo messo a disposizione di De Gennaro l’esercito, il genio militare, i poteri necessari ad agire, e lo affiancheremo, lo sosterremo nel corso del suo mandato. Mi domando se qualcun altro prima forse lo poteva anche fare. E trovo che questo scaricarsi ciascuno delle proprie responsabilità per dare colpa a qualcun altro è un cattivo costume di una parte della classe dirigente italiana. D. E riguardo la mia prima domanda? (Carlotta Tagliarini). R. Ah sì, avevo appuntato qui la risposta: ho scritto “Veltroni”, nel senso che è una domanda che deve essere rivolta all’Onorevole Veltroni. Come Lei sa, in Italia i Governi sono formati per nomina del Capo dello Stato su proposta del Presidente incaricato. Siccome se noi vinciamo le elezioni il Presidente incaricato sarà l’Onorevole Veltroni, la questione dovrà vederla lui con il Presidente Napolitano. Io sono totalmente estraneo e anche scarsamente interessato allo sviluppo di questa vicenda. D. L’Italia è il Paese d’Europa con i minori investimenti esteri sul totale degli investimenti. Quando l’Italia vinse l’Oscar della lira, parlo degli anni 1959-1961, era il primo in questa posizione. Quindi, è un fatto sintomatico. Ma in Italia la pressione 14
fiscale nel 2007 ha raggiunto il 43,3% del PIL ed è stato un vero record. Allora, intanto il rallentamento della crescita, e questa carenza di investitori esteri (all’estero, non so se Lei lo sa, ma in contrapposizione ai paradisi fiscali si parla dell’Italia come “inferno fiscale”). In questo inferno fiscale è giunta da Vaduz, Liechtenstein, cioè nata a Vaduz, una lista di depositanti esteri presso una banca che qualcuno in Germania ha pagato, pare, oltre 4 milioni di Euro e questa lista è stata trasmessa, salvo errore, da un procuratore della Germania all’Agenzia delle Entrate. Non mi risulta sia passata dal Ministero degli Esteri. Attendo da Lei conferma. Siccome è frutto di un illecito su una legge del Liechtenstein che precisa il segreto bancario in quel Paese, questa divulgazione eventuale potrebbe internazionalmente considerarsi un fatto illegale per l’Italia. Gradirei sapere se dal punto di vista del Ministero degli Esteri questa lista è pubblicabile o no, e se è pubblicabile, la deve diffondere l’Agenzia delle Entrate che la ha ricevuta, o il Ministero degli Esteri. Grazie. (Livio Magnani, L’AGEFI - Svizzera) R. Il Ministero degli Esteri è totalmente estraneo a tutto questo, perché… D. E’ scavalcato. (Livio Magnani) R. Non è scavalcato, non ha competenza. La collaborazione diretta tra le Autorità esiste. Noi siamo nell’Unione Europea. Tra la Germania e l’Italia esiste una collaborazione giudiziaria nello spazio giudiziario comune che è quello europeo. Esiste una collaborazione tra i Ministeri delle Finanze in materia di lotta all’evasione fiscale, è una collaborazione diretta, è materia di collaborazione europea, che non passa attraverso i Ministeri degli Esteri, ovviamente, perché si tratta di qualcosa che avviene nell’ambito dell’Unione Europea. Noi non c’entriamo nulla. Io credo che in generale quando si tratta di indagini, eccetera, sono per la tutela della privacy, e credo che siano in corso degli accertamenti perché avere un conto nel Liechtenstein non significa necessariamente avere compiuto un illecito, se chi ce l’ha ne abbia fatto menzione nella sua dichiarazione dei redditi. Quindi si tratta di capire se gli intestatari di questi conti abbiano compiuto dei reati per quanto riguarda il nostro Paese. Se questi conti siano l’indizio di un reato di evasione fiscale o di altri reati oppure no. Quindi, sono in corso degli accertamenti. D. La lista intera non è pubblicabile. (Livio Magnani) R. Io ritengo che ciò che è coperto dal segreto giudiziario non dovrebbe essere pubblicato, ma siccome questa non è l’opinione dei giornalisti e dei giornali italiani, la domanda non la deve rivolgere a me. Io ritengo che le notizie coperte dal segreto non dovrebbero essere pubblicate. Siccome normalmente vengono pubblicate in Italia, e si sostiene anzi che sia un dovere del giornale che riceve le notizie pubblicarle, Lei non si deve rivolgere a me ma all’Ordine dei Giornalisti o ai direttori dei giornali in materia di pubblicazione. Quello che io Le posso dire è la mia opinione, cioè che questa questione deve essere affrontata tutelando il diritto alla privacy. E’ chiaro che se a un certo punto dovessero essere riscontrati degli illeciti e quindi verso determinate persone, che probabilmente non sono tutte 400 quelle di questa lista, si dovesse procedere, a quel momento, al momento che si depositano gli atti, gli atti diventano pubblici. In quel momento, a mio giudizio, è giusto che l’opinione pubblica venga informata. E’ 15
probabile che queste informazioni trapelino prima. Ma io che cosa Le posso dire, se non il fatto che lo ritengo riprovevole. (Christopher Warde-Jones) Bene, siamo giunti alla fine. Il Ministro deve scappare. Io La ringrazio moltissimo, Ministro, per le Sue precisazioni. (Min. D’Alema) Grazie a Lei. 16
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